Mese: aprile 2016

Editoria araba, letturearabe, facebook e il ragionamento logico

Il 28 aprile Editoria araba ha pubblicato un post dal titolo “Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016”, che potete leggere qui. E le è capitata più o meno la stessa cosa che è capitata al mio … Continua a leggere

Editoria araba, letturearabe, facebook e il ragionamento logico
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

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letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

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Dietro le quinte del terrorismo islamico. Incontro con lo scrittore marocchino Mahi Binebine

salto 110Roma, 17 maggio 2016 – ore 18.30 / Cowall – via Libetta 15/c

La notte del 16 maggio 2003 Casablanca, la città più moderna e vivace del Marocco, è lacerata da 14 attentati suicidi di matrice islamica che fanno 45 morti e un centinaio di feriti. Un’esplosione di violenza a sorpresa, che lascia il paese annichilito e mostra un volto nuovo e insospettato della società marocchina.

A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

Più di 30 scrittori arabi di lingua araba si trovano a Beirut in questi giorni, per partecipare alla conferenza organizzata da Ashkal Alwan sulle trasformazioni e i mutamenti del romanzo arabo contemporaneo. Tra i partecipanti troviamo Elias Khoury e Jabbour Douaihy, padroni di casa, Ali Badr, Ahmad Saadawi, Hassan Daoud, Ahmad Beydoun, Samuel Shimon, Fatima … Continua a leggere A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

Più di 30 scrittori arabi di lingua araba si trovano a Beirut in questi giorni, per partecipare alla conferenza organizzata da Ashkal Alwan sulle trasformazioni e i mutamenti del romanzo arabo contemporaneo. Tra i partecipanti troviamo Elias Khoury e Jabbour Douaihy, padroni di casa, Ali Badr, Ahmad Saadawi, Hassan Daoud, Ahmad Beydoun, Samuel Shimon, Fatima … Continua a leggere A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

Più di 30 scrittori arabi di lingua araba si trovano a Beirut in questi giorni, per partecipare alla conferenza organizzata da Ashkal Alwan sulle trasformazioni e i mutamenti del romanzo arabo contemporaneo. Tra i partecipanti troviamo Elias Khoury e Jabbour Douaihy, padroni di casa, Ali Badr, Ahmad Saadawi, Hassan Daoud, Ahmad Beydoun, Samuel Shimon, Fatima … Continua a leggere A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

Più di 30 scrittori arabi di lingua araba si trovano a Beirut in questi giorni, per partecipare alla conferenza organizzata da Ashkal Alwan sulle trasformazioni e i mutamenti del romanzo arabo contemporaneo. Tra i partecipanti troviamo Elias Khoury e Jabbour Douaihy, padroni di casa, Ali Badr, Ahmad Saadawi, Hassan Daoud, Ahmad Beydoun, Samuel Shimon, Fatima … Continua a leggere A Beirut la prima conferenza sulle trasformazioni del romanzo arabo contemporaneo

Hoda Barakat a Chiassoletteraria

La scrittrice libanese Hoda Barakat interverrà oggi pomeriggio al Festival internazionale di letteratura Chiassoletteraria. Dialogherà con Luisa Orelli, arabista e giornalista; l’incontro sarà in francese, con la traduzione in italiano di Romana Manzoni Agliati. Appuntamento alle 18 allo Spazio Officina. Alle 20 invece, insieme ad altri tre autori, sarà ospite dell’incontro “Seconda classe – cena … Continua a leggere Hoda Barakat a Chiassoletteraria

Hoda Barakat a Chiassoletteraria

La scrittrice libanese Hoda Barakat interverrà oggi pomeriggio al Festival internazionale di letteratura Chiassoletteraria. Dialogherà con Luisa Orelli, arabista e giornalista; l’incontro sarà in francese, con la traduzione in italiano di Romana Manzoni Agliati. Appuntamento alle 18 allo Spazio Officina. Alle 20 invece, insieme ad altri tre autori, sarà ospite dell’incontro “Seconda classe – cena … Continua a leggere Hoda Barakat a Chiassoletteraria

Hoda Barakat a Chiassoletteraria

La scrittrice libanese Hoda Barakat interverrà oggi pomeriggio al Festival internazionale di letteratura Chiassoletteraria. Dialogherà con Luisa Orelli, arabista e giornalista; l’incontro sarà in francese, con la traduzione in italiano di Romana Manzoni Agliati. Appuntamento alle 18 allo Spazio Officina. Alle 20 invece, insieme ad altri tre autori, sarà ospite dell’incontro “Seconda classe – cena … Continua a leggere Hoda Barakat a Chiassoletteraria

Guerre al di là del Mediterraneo: ecco perché la religione non c’entra (by Estella Carpi and Enrico Bartolomei, April 2016)

Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra “Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra” Dalla Siria all’Iraq, dall’Afghanistan alla Palestina, passando per il Libano e i tumulti sull’altra sponda del Mediterraneo: il discorso confessionale ha oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta fornendo ai […]

Guerre al di là del Mediterraneo: ecco perché la religione non c’entra (by Estella Carpi and Enrico Bartolomei, April 2016)

Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra “Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra” Dalla Siria all’Iraq, dall’Afghanistan alla Palestina, passando per il Libano e i tumulti sull’altra sponda del Mediterraneo: il discorso confessionale ha oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta fornendo ai […]

Guerre al di là del Mediterraneo: ecco perché la religione non c’entra (by Estella Carpi and Enrico Bartolomei, April 2016)

Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra “Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra” Dalla Siria all’Iraq, dall’Afghanistan alla Palestina, passando per il Libano e i tumulti sull’altra sponda del Mediterraneo: il discorso confessionale ha oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta fornendo ai […]

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Guerre al di là del Mediterraneo: ecco perché la religione non c’entra (by Estella Carpi and Enrico Bartolomei, April 2016)

Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra “Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra” Dalla Siria all’Iraq, dall’Afghanistan alla Palestina, passando per il Libano e i tumulti sull’altra sponda del Mediterraneo: il discorso confessionale ha oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta fornendo ai […]

Malia Bouattia: la prima musulmana a capo degli studenti in UK

Di Nabil al-Haidari. Elaph (27/04/2016). Traduzione e sintesi di Letizia Vaglia. Per la prima volta nella storia della Gran Bretagna una persona musulmana diventa presidente dell’Unione Studentesca Nazionale (NUS): Malia Bouattia, di origini algerine, è riuscita a succedere a Megan Dunn dopo solo un anno dall’inizio della sua presidenza, vincendo le elezioni che hanno scatenato un […]

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Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

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In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Una nuova droga dell’ego : Il tasto ” Mi piace ”

Più tempo trascorro su facebook e più chiedo a me stesso se è possibile trovare una via di mezzo salutare tra la vita virtuale di facebook e quella reale. Tra il mondo on line e offline. Possiamo dire che il social network Facebook è un ottimo strumento quando si viaggia e si vuole mandare notizie alla propria famiglia a casa. Ma personalmente comincio a percepire un pericolo che non tutti hanno ancora percepito. Questo pericolo lo vedo nel tasto ” Mi piace ” che affianca qualsiasi nostro aggiornamento o commento. Vedo questa opzione come una sorta di droga dell’ego che crea dipendenza quanto l’eroina o qualsiasi altra droga pesante. Mi spiego meglio ; più il tuo selfie,il tuo post,la tua riflessione,o semplicemente la tua battuta di spirito riceve apprezzamenti tramite il tasto ” Mi piace ” e più la dipendenza cresce. Cresce sino a distogliere completamente la tua attenzione dalle normali pratiche quotidiane nel mondo offline. Al punto da mercificare qualsiasi momento della tua vita quotidianità in cambio di un ” Mi piace ”. Creando automaticamente delle vere e proprie finestre virtuali sulla tua vita privata. Questa ricerca maniacale del ” Mi piace ” non è altro che un effetto collaterale della carenza di autostima causata dalla carenza di relazioni sociali nella vita reale,a sua volta effetto collaterale dell’atomizzazione della società contemporanea causata dall’invasione della tecnologia nella sfera privata degli individui. Siamo animali sociali,e come tali ricerchiamo il nettare per nutrire la nostra autostima nelle relazioni sociali con altri individui. Ma in molti non hanno ancora capito che il ” Mi piace ” facebookiano (e adesso le faccine,l’ultimo trovata di Zuckenberg per umanizzare facebook) non sarà mai migliore di una chiacchierata,di una pacca sulla spalla,di una stretta di mano,di un sorriso o di una qualsiasi reazione umana del mondo offline. 
In pochi lo hanno capito,e lo dimostrano le impennate di facebook in borsa,e tutte quelle persone che mi chiedono ” l’amicizia”  senza neanche aver tentato di conoscermi nella vita reale,e vantandosi di essermi ” amico ”. Oppure il vicino di casa che nel mondo online di facebook clicca ” Mi piace ” ai miei aggiornamenti e nella vita offline mi porge un timido saluto. Certo,facebook è un ottimo strumento per far circolare notizie e informazioni,ma se prima avevamo una carenza d’informazioni,dovuta anche alla graduale scomparsa della figura del giornalista ,adesso abbiamo una sovrabbondanza di informazioni causata dalla nascita della figura del cittadino-giornalista. E si sa che il nostro cervello,secondo il parere di molti neurologi,non è in grado di immagazzinare un eccessiva mole d’informazioni in pochi minuti. Il cervello si stanca,e spesso capita di non riuscire a leggere un post sino alla fine,provocando cosi un altro effetto collaterale : La perdita della capacità della concentrazione.  Vi capita mai che dopo aver spulciato la home di facebook,o l’aver ” spiato ” le vita di qualcuno pubblicata nel profilo,o della lettura di tanti post in pochi minuti, trovate difficoltoso concentrarvi nella attività della vita reale ? Oppure di distrarvi facilmente quando qualcuno vi parla. Oppure di non riuscire ad arrivare alla fine di una pagina di un libro? 

Purtroppo anche io,che parlo di questi effetti collaterali da social network,non ne sono immune,dato che quasi tutta la società si è letteralmente trasformata in ” una comunità di profili connessi ” che interagiscono tra di loro tramite messaggi privati,commenti o aggiornamenti. Oggi una cancellazione da facebook equivale a un totale isolamento dal mondo reale,ormai completamente fuso al mondo virtuale.  Sono finiti quindi i tempi delle lettere d’amore scritte ? Delle discussioni politiche fatte in una piazza pubblica,o di una sana chiacchierata davanti a un caffè ? Non chiedo di abolire facebook,ma di cominciare a pensare a una sorta di ” libretto d’istruzioni ” che spieghi a tutti gli utenti gli effetti indesiderati di un abuso di facebook. Un po come si fanno con i medicinali. 

Rabai al-Madhoun vince l’International Prize for Arabic Fiction 2016

Questa settimana è stato annunciato il vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction, uno dei più importanti riconoscimenti nell’ambito della letteratura araba contemporanea che ogni anno designa il miglior romanzo scritto in arabo. Quest’anno ha vinto lo scrittore Rabai al-Madhoun. Si tratta del primo palestinese a vincere questo premio istituito nel 2008. L’autore, settantenne, è nato […]

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La “Vision 2030” dell’Arabia Saudita: l’economia fa da traino alla politica?

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (27/04/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. Con la proposta di “Saudi Vision 2030”, il vice principe ereditario Mohammed bin Salman, ha presentato un piano strategico per l’Arabia Saudita le cui entrate dipendono, esclusivamente, da un’economia basata sul petrolio. Quest’ultima rappresenta il primo motore di ricchezza e il maggior fattore di […]

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Shady Hamadi contro il silenzio e l’indifferenza

Siria sinonimo di caos. Sì, il caos è probabilmente la prima immagine che appare nella mente di molti quando si parla di Siria. Questo perché è così che la Siria ci viene descritta: una nazione morente in cui regna il caos. Potrebbe sembrare un facile stratagemma per liquidare la questione o un modo intelligente per […]

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Come il caso Regeni ha inciso sull’Egitto

Di Wael Haddara. Middle East Eye (26/04/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Un racconto popolare egiziano parla di due uomini che erano così affezionati al loro laborioso e fedele asino da dargli un nome: Abul-Sadr (il Paziente). Un giorno l’animale morì e il dolore mostrato dai due fratelli che piangevano sulla tomba dell’animale e […]

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Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

C’è una bellissima riflessione che Mahmud Darwish ha fatto sulla sua identità araba: per il poeta dei palestinesi e degli arabi, la sua patria era la sua lingua, l’arabo.  “Sono arabo, perché parlo arabo. […] Sono arabo, e la mia lingua ha conosciuto la sua fioritura più rigogliosa quando era aperta sugli altri, sull’umanità intera. … Continua a leggere Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

C’è una bellissima riflessione che Mahmud Darwish ha fatto sulla sua identità araba: per il poeta dei palestinesi e degli arabi, la sua patria era la sua lingua, l’arabo.  “Sono arabo, perché parlo arabo. […] Sono arabo, e la mia lingua ha conosciuto la sua fioritura più rigogliosa quando era aperta sugli altri, sull’umanità intera. … Continua a leggere Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

C’è una bellissima riflessione che Mahmud Darwish ha fatto sulla sua identità araba: per il poeta dei palestinesi e degli arabi, la sua patria era la sua lingua, l’arabo.  “Sono arabo, perché parlo arabo. […] Sono arabo, e la mia lingua ha conosciuto la sua fioritura più rigogliosa quando era aperta sugli altri, sull’umanità intera. … Continua a leggere Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

“Il tè nel deserto” di Paul Bowles

Assurto agli onori della cronaca ed al successo planetario grazie alla trasposizione cinematografica del grande Bernardo Bertolucci, “Il tè nel deserto” viene a ragione considerato il capolavoro di Paul Bowles, affermato scrittore statunitense, trasferitosi in Nord Africa, a Tangeri per la precisione, dove morì nel 1999. La storia narra le vicende di una coppia di […]

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Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Elbabookfestival, il Festival dell’editoria indipendente che si svolge a Rio nell’Elba a fine luglio, lancia la prima edizione del Premio Lorenzo Claris Appiani per la traduzione letteraria. Che quest’anno è dedicato alle traduzioni letterarie dall’arabo in italiano! Il premio, di 600 euro al primo classificato, e di 400 euro al secondo classificato, è dedicato ai … Continua a leggere Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Elbabookfestival, il Festival dell’editoria indipendente che si svolge a Rio nell’Elba a fine luglio, lancia la prima edizione del Premio Lorenzo Claris Appiani per la traduzione letteraria. Che quest’anno è dedicato alle traduzioni letterarie dall’arabo in italiano! Il premio, di 600 euro al primo classificato, e di 400 euro al secondo classificato, è dedicato ai … Continua a leggere Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Elbabookfestival, il Festival dell’editoria indipendente che si svolge a Rio nell’Elba a fine luglio, lancia la prima edizione del Premio Lorenzo Claris Appiani per la traduzione letteraria. Che quest’anno è dedicato alle traduzioni letterarie dall’arabo in italiano! Il premio, di 600 euro al primo classificato, e di 400 euro al secondo classificato, è dedicato ai … Continua a leggere Premio per la traduzione letteraria dall’arabo di Elbabookfestival

Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

L’Arabic Booker 2016, il premio letterario più importante e conosciuto del mondo arabo, è stato vinto dallo scrittore anglo-palestinese Rabi’a al-Madhoun con il suo romanzo Masa’ir: concerto al-Holokaust wa al-Nakba (Destini: concerto per l’Olocausto e la Nakba), pubblicato da Maktabat Kulshi (Haifa). Nato in Palestina, al-Madhoun ora vive a Londra dove lavora come redattore per … Continua a leggere Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

L’Arabic Booker 2016, il premio letterario più importante e conosciuto del mondo arabo, è stato vinto dallo scrittore anglo-palestinese Rabi’a al-Madhoun con il suo romanzo Masa’ir: concerto al-Holokaust wa al-Nakba (Destini: concerto per l’Olocausto e la Nakba), pubblicato da Maktabat Kulshi (Haifa). Nato in Palestina, al-Madhoun ora vive a Londra dove lavora come redattore per … Continua a leggere Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

L’Arabic Booker 2016, il premio letterario più importante e conosciuto del mondo arabo, è stato vinto dallo scrittore anglo-palestinese Rabi’a al-Madhoun con il suo romanzo Masa’ir: concerto al-Holokaust wa al-Nakba (Destini: concerto per l’Olocausto e la Nakba), pubblicato da Maktabat Kulshi (Haifa). Nato in Palestina, al-Madhoun ora vive a Londra dove lavora come redattore per … Continua a leggere Rabi’a al-Madhoun vince l’Arabic Booker 2016

Tunisia: “Leggi e lascia leggere”

Al Huffington Post Maghreb (26/04/2016). Biblioteche sulle banchine? Libri nelle stazioni della metropolitana? L’iniziativa è stata ingegnosamente ideata da AIESEC Medina, l’organizzazione internazionale studentesca presente in Tunisia, con il nome “Leggi e lascia leggere”. Il responsabile del progetto, Iheb Jouini, contattato da HuffPost Tunisia, ha spiegato che l’iniziativa si propone di rispondere a due principali problemi quotidiani nel Paese, vale a dire il ritardo […]

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Un altro sguardo su Ben Guerdane e il sud-est della Tunisia

Habib Ayeb Espropriazioni, destrutturazioni e insicurezza alimentare nel Sud-Est tunisino Il Sud-est tunisino si trova sempre più spesso sotto i riflettori degli osservatori, di chi decide  e dei media. Marginalizzata e dimenticata per decenni, questa vasta regione “frontaliera” è divenuta così lo spazio sorvegliato, l’oggetto di un controllo ravvicinato che utilizza ogni strumento umano, tecnico e tecnologico di cui dispongono le […]

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Habib Ayeb Espropriazioni, destrutturazioni e insicurezza alimentare nel Sud-Est tunisino Il Sud-est tunisino si trova sempre più spesso sotto i riflettori degli osservatori, di chi decide  e dei media. Marginalizzata e dimenticata per decenni, questa vasta regione “frontaliera” è divenuta così lo spazio sorvegliato, l’oggetto di un controllo ravvicinato che utilizza ogni strumento umano, tecnico e tecnologico di cui dispongono le […]

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Habib Ayeb Espropriazioni, destrutturazioni e insicurezza alimentare nel Sud-Est tunisino Il Sud-est tunisino si trova sempre più spesso sotto i riflettori degli osservatori, di chi decide  e dei media. Marginalizzata e dimenticata per decenni, questa vasta regione “frontaliera” è divenuta così lo spazio sorvegliato, l’oggetto di un controllo ravvicinato che utilizza ogni strumento umano, tecnico e tecnologico di cui dispongono le […]

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Habib Ayeb Espropriazioni, destrutturazioni e insicurezza alimentare nel Sud-Est tunisino Il Sud-est tunisino si trova sempre più spesso sotto i riflettori degli osservatori, di chi decide  e dei media. Marginalizzata e dimenticata per decenni, questa vasta regione “frontaliera” è divenuta così lo spazio sorvegliato, l’oggetto di un controllo ravvicinato che utilizza ogni strumento umano, tecnico e tecnologico di cui dispongono le […]

L’Occidente tra la Libia e la Siria

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (24/04/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Più volte, specie negli ultimi tempi, l’Occidente ha spinto per l’invasione della Libia. L’ultima dichiarazione arriva dal ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, il quale di recente ha confermato la possibilità di inviare truppe nel paese nordafricano, dichiarazioni condivise precedentemente anche dall’Italia e dalla Francia. […]

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Blogger nel mirino

A pochi giorni dalla morte di Rezaul Karim Siddique, un docente di inglese della Rajshahi University nel Nordest del Bangladesh, ucciso da affiliati di Daesh che lo accusavano di “ateismo”, ieri è stata la volta di Xulhaz Mannan e di un suo compagno, massacrati in un appartamento di Dacca nella zona metropolitana di Kalabagan. Mannan era noto per aver fondato il primo magazine Lgbt del Paese e per essersi forse anche macchiato del delitto di lavorare per Usaid, l’agenzia di cooperazione statunitense. Del suo compagno non si sa per ora molto altro se non il solo nome: Tonmoy. Xulhaz e Tonmoy sarebbero stati aggrediti – secondo le prime ricostruzioni – da almeno cinque persone, spacciatesi per uomini dello staff di Usaid che, con questa scusa, forse la consegna di materiale, si sono introdotti verso le cinque e un quarto del pomeriggio nel suo appartamento armati di machete, riservando ai due uomini la stessa morte riservata ad altri attivisti, blogger o, come nel caso di Siddique (anche lui ucciso a colpi di machete), a gente che lavora nell’ambito culturale o dello spettacolo.

Sempre secondo le prime ricostruzioni della polizia, il massacro sarebbe avvenuto in tempi rapidissimi e il team di assassini si sarebbe poi allontanato indisturbato facendo perdere le tracce.
La lista di queste uccisioni mirate – a volte firmate da Daesh a volte da altri gruppi radicali a volta ancora senza nessuna rivendicazione – è lunga. L’estate scorsa era toccato a Niloy Neel, il quarto blogger dell’anno preso di mira – anche lui a colpi di machete – dopo Avijit Roy, Washiqur Rahman e Ananta Bijoy Das. La loro colpa: quella di essere considerati “atei” (per la cronaca la figlia di Siddique ha smentito che il padre lo fosse) e di utilizzare internet per polemizzare sull’esistenza di Dio ma anche semplicemente per discutere di politica o sfidare le regole dell’islam, religione ufficiale del Bangladesh. Come ha fatto notare la Bbc, con Niloy c’era stato un salto di qualità, ora ripetutosi col direttore di Roopbaan, il primo magazine Lgbt del Bangladesh: prima si uccideva in pubblico, adesso si entra nelle case. Ma la differenza è relativa anche se fa pensare a piani studiati con maggior dettaglio.

La verità evidente è che nel mirino entrano sempre più persone anche se non è mai stato esattamente chiarito il legame tra i vari delitti né se vi sia un filo rosso che li lega alle uccisioni o agli attentati contro stranieri di cui sono stati vittima anche due italiani: prima Cesare Tavella, ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre faceva jogging, poi, nel novembre scorso, padre Piero Parolari, fortunatamente solo ferito a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca, dove il sacerdote svolgeva, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital.

Gli stranieri sono comunque stati target occasionali mentre quella dei blogger sembra adesso sempre di più una pista credibile che si serve di una lista da “spuntare” poco per volta. Questa comunità ora si sente, e forse si sentiva già da tempo, in pericolo soprattutto da quando una lista con 84 nomi di “blogger atei” è saltata fuori dopo che la polizia ha compiuto arresti in qualche madrasa e tra i gruppi giovanili islamisti del Paese. In realtà la lista è nota dal 2013 ed era stata addirittura presentata alle autorità per chieder l’arresto dei blogger e processi per blasfemia. Poi si è passati dalla lista ai fatti anche se diversi gruppi islamisti – che l’avevano sostenuta – hanno smentito che vi sia un nesso con il killeraggio organizzato. Ma resta evidente che tra una lista stilata per mettere all’indice i blogger e che li uccide ci sta in mezzo un contesto che spinge a condannare, isolare socialmente e infine punire chi devia dalla retta via. Molti infatti condannano le uccisioni ma nel contempo non assolvono i blogger, accusati di minare le basi della fede religiosa. Un’altra ipotesi la fa il ministro dell’Informazione del Bangladesh, Hasanul Haq, secondo il quale questi attacchi ai blogger sarebbero solo un modo per distrarre l’attenzione degli inquirenti dai gruppi islamisti con un’agenda eversiva anti statale che in questo modo cercherebbe di far focalizzare gli sguardi su blasfemi e anti islamici e non su di loro. Sta di fatto che i blogger non si sentono affatto protetti da un governo per il quale le priorità sembrano altre.

In mezzo a tutto ciò spunta Daesh o chi utilizza il brand, più o meno d’accordo con gli uomini di Al Bagdadi, da qualche tempo in difficoltà nella loro opera di proselitismo dopo le sconfitte nei territori conquistati dal neonato califfato. Ma Daesh o non Daesh, il Bangladesh sta facendo i conti con una vera e propria campagna assassina contro atei e “blasfemi”. E adesso anche contro chi difende i diritti di gay, lesbiche e trasgender.

Blogger nel mirino

A pochi giorni dalla morte di Rezaul Karim Siddique, un docente di inglese della Rajshahi University nel Nordest del Bangladesh, ucciso da affiliati di Daesh che lo accusavano di “ateismo”, ieri è stata la volta di Xulhaz Mannan e di un suo compagno, massacrati in un appartamento di Dacca nella zona metropolitana di Kalabagan. Mannan era noto per aver fondato il primo magazine Lgbt del Paese e per essersi forse anche macchiato del delitto di lavorare per Usaid, l’agenzia di cooperazione statunitense. Del suo compagno non si sa per ora molto altro se non il solo nome: Tonmoy. Xulhaz e Tonmoy sarebbero stati aggrediti – secondo le prime ricostruzioni – da almeno cinque persone, spacciatesi per uomini dello staff di Usaid che, con questa scusa, forse la consegna di materiale, si sono introdotti verso le cinque e un quarto del pomeriggio nel suo appartamento armati di machete, riservando ai due uomini la stessa morte riservata ad altri attivisti, blogger o, come nel caso di Siddique (anche lui ucciso a colpi di machete), a gente che lavora nell’ambito culturale o dello spettacolo.

Sempre secondo le prime ricostruzioni della polizia, il massacro sarebbe avvenuto in tempi rapidissimi e il team di assassini si sarebbe poi allontanato indisturbato facendo perdere le tracce.
La lista di queste uccisioni mirate – a volte firmate da Daesh a volte da altri gruppi radicali a volta ancora senza nessuna rivendicazione – è lunga. L’estate scorsa era toccato a Niloy Neel, il quarto blogger dell’anno preso di mira – anche lui a colpi di machete – dopo Avijit Roy, Washiqur Rahman e Ananta Bijoy Das. La loro colpa: quella di essere considerati “atei” (per la cronaca la figlia di Siddique ha smentito che il padre lo fosse) e di utilizzare internet per polemizzare sull’esistenza di Dio ma anche semplicemente per discutere di politica o sfidare le regole dell’islam, religione ufficiale del Bangladesh. Come ha fatto notare la Bbc, con Niloy c’era stato un salto di qualità, ora ripetutosi col direttore di Roopbaan, il primo magazine Lgbt del Bangladesh: prima si uccideva in pubblico, adesso si entra nelle case. Ma la differenza è relativa anche se fa pensare a piani studiati con maggior dettaglio.

La verità evidente è che nel mirino entrano sempre più persone anche se non è mai stato esattamente chiarito il legame tra i vari delitti né se vi sia un filo rosso che li lega alle uccisioni o agli attentati contro stranieri di cui sono stati vittima anche due italiani: prima Cesare Tavella, ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre faceva jogging, poi, nel novembre scorso, padre Piero Parolari, fortunatamente solo ferito a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca, dove il sacerdote svolgeva, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital.

Gli stranieri sono comunque stati target occasionali mentre quella dei blogger sembra adesso sempre di più una pista credibile che si serve di una lista da “spuntare” poco per volta. Questa comunità ora si sente, e forse si sentiva già da tempo, in pericolo soprattutto da quando una lista con 84 nomi di “blogger atei” è saltata fuori dopo che la polizia ha compiuto arresti in qualche madrasa e tra i gruppi giovanili islamisti del Paese. In realtà la lista è nota dal 2013 ed era stata addirittura presentata alle autorità per chieder l’arresto dei blogger e processi per blasfemia. Poi si è passati dalla lista ai fatti anche se diversi gruppi islamisti – che l’avevano sostenuta – hanno smentito che vi sia un nesso con il killeraggio organizzato. Ma resta evidente che tra una lista stilata per mettere all’indice i blogger e che li uccide ci sta in mezzo un contesto che spinge a condannare, isolare socialmente e infine punire chi devia dalla retta via. Molti infatti condannano le uccisioni ma nel contempo non assolvono i blogger, accusati di minare le basi della fede religiosa. Un’altra ipotesi la fa il ministro dell’Informazione del Bangladesh, Hasanul Haq, secondo il quale questi attacchi ai blogger sarebbero solo un modo per distrarre l’attenzione degli inquirenti dai gruppi islamisti con un’agenda eversiva anti statale che in questo modo cercherebbe di far focalizzare gli sguardi su blasfemi e anti islamici e non su di loro. Sta di fatto che i blogger non si sentono affatto protetti da un governo per il quale le priorità sembrano altre.

In mezzo a tutto ciò spunta Daesh o chi utilizza il brand, più o meno d’accordo con gli uomini di Al Bagdadi, da qualche tempo in difficoltà nella loro opera di proselitismo dopo le sconfitte nei territori conquistati dal neonato califfato. Ma Daesh o non Daesh, il Bangladesh sta facendo i conti con una vera e propria campagna assassina contro atei e “blasfemi”. E adesso anche contro chi difende i diritti di gay, lesbiche e trasgender.

Blogger nel mirino

A pochi giorni dalla morte di Rezaul Karim Siddique, un docente di inglese della Rajshahi University nel Nordest del Bangladesh, ucciso da affiliati di Daesh che lo accusavano di “ateismo”, ieri è stata la volta di Xulhaz Mannan e di un suo compagno, massacrati in un appartamento di Dacca nella zona metropolitana di Kalabagan. Mannan era noto per aver fondato il primo magazine Lgbt del Paese e per essersi forse anche macchiato del delitto di lavorare per Usaid, l’agenzia di cooperazione statunitense. Del suo compagno non si sa per ora molto altro se non il solo nome: Tonmoy. Xulhaz e Tonmoy sarebbero stati aggrediti – secondo le prime ricostruzioni – da almeno cinque persone, spacciatesi per uomini dello staff di Usaid che, con questa scusa, forse la consegna di materiale, si sono introdotti verso le cinque e un quarto del pomeriggio nel suo appartamento armati di machete, riservando ai due uomini la stessa morte riservata ad altri attivisti, blogger o, come nel caso di Siddique (anche lui ucciso a colpi di machete), a gente che lavora nell’ambito culturale o dello spettacolo.

Sempre secondo le prime ricostruzioni della polizia, il massacro sarebbe avvenuto in tempi rapidissimi e il team di assassini si sarebbe poi allontanato indisturbato facendo perdere le tracce.
La lista di queste uccisioni mirate – a volte firmate da Daesh a volte da altri gruppi radicali a volta ancora senza nessuna rivendicazione – è lunga. L’estate scorsa era toccato a Niloy Neel, il quarto blogger dell’anno preso di mira – anche lui a colpi di machete – dopo Avijit Roy, Washiqur Rahman e Ananta Bijoy Das. La loro colpa: quella di essere considerati “atei” (per la cronaca la figlia di Siddique ha smentito che il padre lo fosse) e di utilizzare internet per polemizzare sull’esistenza di Dio ma anche semplicemente per discutere di politica o sfidare le regole dell’islam, religione ufficiale del Bangladesh. Come ha fatto notare la Bbc, con Niloy c’era stato un salto di qualità, ora ripetutosi col direttore di Roopbaan, il primo magazine Lgbt del Bangladesh: prima si uccideva in pubblico, adesso si entra nelle case. Ma la differenza è relativa anche se fa pensare a piani studiati con maggior dettaglio.

La verità evidente è che nel mirino entrano sempre più persone anche se non è mai stato esattamente chiarito il legame tra i vari delitti né se vi sia un filo rosso che li lega alle uccisioni o agli attentati contro stranieri di cui sono stati vittima anche due italiani: prima Cesare Tavella, ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre faceva jogging, poi, nel novembre scorso, padre Piero Parolari, fortunatamente solo ferito a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca, dove il sacerdote svolgeva, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital.

Gli stranieri sono comunque stati target occasionali mentre quella dei blogger sembra adesso sempre di più una pista credibile che si serve di una lista da “spuntare” poco per volta. Questa comunità ora si sente, e forse si sentiva già da tempo, in pericolo soprattutto da quando una lista con 84 nomi di “blogger atei” è saltata fuori dopo che la polizia ha compiuto arresti in qualche madrasa e tra i gruppi giovanili islamisti del Paese. In realtà la lista è nota dal 2013 ed era stata addirittura presentata alle autorità per chieder l’arresto dei blogger e processi per blasfemia. Poi si è passati dalla lista ai fatti anche se diversi gruppi islamisti – che l’avevano sostenuta – hanno smentito che vi sia un nesso con il killeraggio organizzato. Ma resta evidente che tra una lista stilata per mettere all’indice i blogger e che li uccide ci sta in mezzo un contesto che spinge a condannare, isolare socialmente e infine punire chi devia dalla retta via. Molti infatti condannano le uccisioni ma nel contempo non assolvono i blogger, accusati di minare le basi della fede religiosa. Un’altra ipotesi la fa il ministro dell’Informazione del Bangladesh, Hasanul Haq, secondo il quale questi attacchi ai blogger sarebbero solo un modo per distrarre l’attenzione degli inquirenti dai gruppi islamisti con un’agenda eversiva anti statale che in questo modo cercherebbe di far focalizzare gli sguardi su blasfemi e anti islamici e non su di loro. Sta di fatto che i blogger non si sentono affatto protetti da un governo per il quale le priorità sembrano altre.

In mezzo a tutto ciò spunta Daesh o chi utilizza il brand, più o meno d’accordo con gli uomini di Al Bagdadi, da qualche tempo in difficoltà nella loro opera di proselitismo dopo le sconfitte nei territori conquistati dal neonato califfato. Ma Daesh o non Daesh, il Bangladesh sta facendo i conti con una vera e propria campagna assassina contro atei e “blasfemi”. E adesso anche contro chi difende i diritti di gay, lesbiche e trasgender.

Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

Ogni anno, durante la Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi (che comincia domani), vengono assegnati i premi Sheykh Zayed per il libro ( جائزة الشيخ زايد للكتاب).  Quello che è a tutti gli effetti un premio culturale emiratino, è nato per celebrare la figura e il ruolo del compianto Sheykh Zayed bin Sultan Al … Continua a leggere Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

Ogni anno, durante la Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi (che comincia domani), vengono assegnati i premi Sheykh Zayed per il libro ( جائزة الشيخ زايد للكتاب).  Quello che è a tutti gli effetti un premio culturale emiratino, è nato per celebrare la figura e il ruolo del compianto Sheykh Zayed bin Sultan Al … Continua a leggere Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

Ogni anno, durante la Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi (che comincia domani), vengono assegnati i premi Sheykh Zayed per il libro ( جائزة الشيخ زايد للكتاب).  Quello che è a tutti gli effetti un premio culturale emiratino, è nato per celebrare la figura e il ruolo del compianto Sheykh Zayed bin Sultan Al … Continua a leggere Amin Maalouf vince il Premio Sheykh Zayed per la Personalità culturale dell’anno

25 aprile, al Cairo

Erano un centinaio. Non di più. Un centinaio di manifestanti (pacifici) in una delle piazze più conosciute del centro residenziale del Cairo. Piazza al Messaha. Per chi ha vissuto al Cairo, la piazza dove ci sono una delle migliori pasticcerie della città, il McDonald e il Goethe Institut. Una piazza della media borghesia egiziana, inRead more

25 aprile, al Cairo

Erano un centinaio. Non di più. Un centinaio di manifestanti (pacifici) in una delle piazze più conosciute del centro residenziale del Cairo. Piazza al Messaha. Per chi ha vissuto al Cairo, la piazza dove ci sono una delle migliori pasticcerie della città, il McDonald e il Goethe Institut. Una piazza della media borghesia egiziana, inRead more

25 aprile, al Cairo

Erano un centinaio. Non di più. Un centinaio di manifestanti (pacifici) in una delle piazze più conosciute del centro residenziale del Cairo. Piazza al Messaha. Per chi ha vissuto al Cairo, la piazza dove ci sono una delle migliori pasticcerie della città, il McDonald e il Goethe Institut. Una piazza della media borghesia egiziana, inRead more

25 aprile, al Cairo

Erano un centinaio. Non di più. Un centinaio di manifestanti (pacifici) in una delle piazze più conosciute del centro residenziale del Cairo. Piazza al Messaha. Per chi ha vissuto al Cairo, la piazza dove ci sono una delle migliori pasticcerie della città, il McDonald e il Goethe Institut. Una piazza della media borghesia egiziana, inRead more

Crisi siriana: un nuovo ordine mondiale all’orizzonte?

Di Elias Sahhab. As-Safir (23/04/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo. La crisi siriana, anche se è più opportuno parlare di guerra civile, dura da oltre cinque anni. La pesante ingerenza delle potenze internazionali e regionali, i milioni di profughi e le decine di migliaia di morti e feriti l’hanno trasformata in una piccola guerra […]

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La sfida delle 100 parole arabe intelligenti di Fahd Al-Fraikh

Barakabits (8/04/2016). Avete mai pensato a come potrebbero apparire le parole se rappresentassero il loro significato graficamente? Questo esperimento, già provato con l’Inglese, è stato fatto anche con la lingua Araba da Fahd Al-Fraikh con La sfida delle 100 parole intelligenti. Fahd è laureato in Ingegneria Informatica (nello specifico in Computer Networks) ma ha sempre avuto […]

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I messaggi di Israele dal Golan alla Palestina

Di Matanis Shehadeh. Al-Araby al-Jadeed (23/04/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Lo scorso 17 aprile, Israele ha annunciato ufficialmente che la sua occupazione del Golan siriano sarebbe stata definitiva, ma, in effetti, non aveva alcun bisogno di dichiarazioni ufficiali per chiarire di non aver intenzione di restituirlo o per cominciare il suo processo […]

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C’è una lacrima nel mio tè / 2

Quando nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione, Sri Lanka era ancora famosa per la produzione del caffè che, trapiantato nell’isola dagli olandesi, era diventato una coltura davvero importante coi britannici e doveva raggiungere il suo picco produttivo nel 1870 con oltre 100mila ettari coltivati. Ma la Hemileia vastatrix, un fungo che “arrugginisce” le foglie del caffè, era in agguato e nel giro di pochi anni “Devasting Emily”, come era soprannominata la malattia del caffè, fece piazza pulita del chicco di Arabica che, agli inizi del 1900, resisteva solo su un decimo degli ettari un tempo coltivati. Il tè diventò la chiave di volta dell’economia di piantagione della Lacrima dell’Oceano indiano. La pianta era arrivata dalla Cina nel 1824 ed era stata interrata, a scopo ornamentale, nel Royal Botanical Garden di Kandy (nella foto in alto), forse il posto ancor oggi più affascinante della città. James Taylor, uno scozzese arrivato a Sri Lanka nel 1854, ebbe l’intuizione vincente e provò a fare del tè una coltura intensiva. Taylor, che aveva studiato in India i sistemi di coltivazione del tè, cominciò con meno di un ettaro nel 1867 mentre la “Emily” devastava le piantagioni di caffè. Nel 1872 impiantò la prima fabbrica che essiccava e impacchettava il tè e nel 1875 fece partire la sua prima nave per il Regno Unito. L’epopea del tè srilankese era cominciata ma l’accelerazione vera arriverà qualche anno dopo, quando nel 1890 il milionario Sir Thomas Johnstone Lipton – un nome che è ancora oggi associato all’intramontabile bevanda – sbarcò a Ceylon e conobbe Taylor. I due studiarono come fare del nero liquido derivato dal decotto della Camellia sinensis un oro nero che trasformasse le tenere foglioline della pianta asiatica in sonanti monete d’argento con l’effigie della regina Vittoria. E ci riuscirono. Un anno dopo la morte di Taylor, un milione di pacchetti del suo tè raggiungevano gli Stati Uniti.

La storia del tè a Sri Lanka è dunque britannica e tale rimarrà sino agli anni Settanta del secolo scorso quando, nel 1972 e nel 1975, due leggi dello Stato ormai indipendente dal 1948 nazionalizzeranno le piantagioni sottraendole alle Corporation e decretando la fine dello sfruttamento coloniale.

C’è una lacrima nel mio tè / 2

Quando nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione, Sri Lanka era ancora famosa per la produzione del caffè che, trapiantato nell’isola dagli olandesi, era diventato una coltura davvero importante coi britannici e doveva raggiungere il suo picco produttivo nel 1870 con oltre 100mila ettari coltivati. Ma la Hemileia vastatrix, un fungo che “arrugginisce” le foglie del caffè, era in agguato e nel giro di pochi anni “Devasting Emily”, come era soprannominata la malattia del caffè, fece piazza pulita del chicco di Arabica che, agli inizi del 1900, resisteva solo su un decimo degli ettari un tempo coltivati. Il tè diventò la chiave di volta dell’economia di piantagione della Lacrima dell’Oceano indiano. La pianta era arrivata dalla Cina nel 1824 ed era stata interrata, a scopo ornamentale, nel Royal Botanical Garden di Kandy (nella foto in alto), forse il posto ancor oggi più affascinante della città. James Taylor, uno scozzese arrivato a Sri Lanka nel 1854, ebbe l’intuizione vincente e provò a fare del tè una coltura intensiva. Taylor, che aveva studiato in India i sistemi di coltivazione del tè, cominciò con meno di un ettaro nel 1867 mentre la “Emily” devastava le piantagioni di caffè. Nel 1872 impiantò la prima fabbrica che essiccava e impacchettava il tè e nel 1875 fece partire la sua prima nave per il Regno Unito. L’epopea del tè srilankese era cominciata ma l’accelerazione vera arriverà qualche anno dopo, quando nel 1890 il milionario Sir Thomas Johnstone Lipton – un nome che è ancora oggi associato all’intramontabile bevanda – sbarcò a Ceylon e conobbe Taylor. I due studiarono come fare del nero liquido derivato dal decotto della Camellia sinensis un oro nero che trasformasse le tenere foglioline della pianta asiatica in sonanti monete d’argento con l’effigie della regina Vittoria. E ci riuscirono. Un anno dopo la morte di Taylor, un milione di pacchetti del suo tè raggiungevano gli Stati Uniti.

La storia del tè a Sri Lanka è dunque britannica e tale rimarrà sino agli anni Settanta del secolo scorso quando, nel 1972 e nel 1975, due leggi dello Stato ormai indipendente dal 1948 nazionalizzeranno le piantagioni sottraendole alle Corporation e decretando la fine dello sfruttamento coloniale.

C’è una lacrima nel mio tè / 2

Quando nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione, Sri Lanka era ancora famosa per la produzione del caffè che, trapiantato nell’isola dagli olandesi, era diventato una coltura davvero importante coi britannici e doveva raggiungere il suo picco produttivo nel 1870 con oltre 100mila ettari coltivati. Ma la Hemileia vastatrix, un fungo che “arrugginisce” le foglie del caffè, era in agguato e nel giro di pochi anni “Devasting Emily”, come era soprannominata la malattia del caffè, fece piazza pulita del chicco di Arabica che, agli inizi del 1900, resisteva solo su un decimo degli ettari un tempo coltivati. Il tè diventò la chiave di volta dell’economia di piantagione della Lacrima dell’Oceano indiano. La pianta era arrivata dalla Cina nel 1824 ed era stata interrata, a scopo ornamentale, nel Royal Botanical Garden di Kandy (nella foto in alto), forse il posto ancor oggi più affascinante della città. James Taylor, uno scozzese arrivato a Sri Lanka nel 1854, ebbe l’intuizione vincente e provò a fare del tè una coltura intensiva. Taylor, che aveva studiato in India i sistemi di coltivazione del tè, cominciò con meno di un ettaro nel 1867 mentre la “Emily” devastava le piantagioni di caffè. Nel 1872 impiantò la prima fabbrica che essiccava e impacchettava il tè e nel 1875 fece partire la sua prima nave per il Regno Unito. L’epopea del tè srilankese era cominciata ma l’accelerazione vera arriverà qualche anno dopo, quando nel 1890 il milionario Sir Thomas Johnstone Lipton – un nome che è ancora oggi associato all’intramontabile bevanda – sbarcò a Ceylon e conobbe Taylor. I due studiarono come fare del nero liquido derivato dal decotto della Camellia sinensis un oro nero che trasformasse le tenere foglioline della pianta asiatica in sonanti monete d’argento con l’effigie della regina Vittoria. E ci riuscirono. Un anno dopo la morte di Taylor, un milione di pacchetti del suo tè raggiungevano gli Stati Uniti.

La storia del tè a Sri Lanka è dunque britannica e tale rimarrà sino agli anni Settanta del secolo scorso quando, nel 1972 e nel 1975, due leggi dello Stato ormai indipendente dal 1948 nazionalizzeranno le piantagioni sottraendole alle Corporation e decretando la fine dello sfruttamento coloniale.

Le altre religioni del Medio Oriente

(Step Feed). Culla delle religioni abramitiche, non tutti forse sanno che il Medio Oriente ospita anche altri credi religiosi minori oltre all’islam, il cristianesimo e l’ebraismo. L’emergere del sedicente Stato Islamico ha portato all’attenzione del mondo alcune di queste minoranze, quale quella degli Yazidi del nord dell’Iraq, perseguitati dai combattenti di Daesh (ISIS). Lo yazidismo […]

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Iran: un’età d’oro mai esistita

Di Amir Taheri. Asharq al-Awsat (22/04/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. È di qualche settimana fa la “lettera aperta” scritta al presidente iraniano Hassan Rohani da Mehdi Karrubi, ex portavoce dell’Assemblea Consultiva Islamica (Majlis), agli arresti domiciliari dal 2009 per aver contestato i risultati delle elezioni presidenziali. La lettera ha suscitato scalpore e interesse […]

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La vera Libia di oggi la raccontano i medici di Emergency

mcc43 Il compito imposto al mainstream oggi è raccontare ciò che noti e ignoti burattinai vogliono sia raccontato. Da ogni luogo di conflitto frammenti di verità emergono solo da chi è la con la popolazione e per la popolazione, come i medici di Emergency.   Questa organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada nel 1994 ha […]

La vera Libia di oggi la raccontano i medici di Emergency

mcc43 Il compito imposto al mainstream oggi è raccontare ciò che noti e ignoti burattinai vogliono sia raccontato. Da ogni luogo di conflitto frammenti di verità emergono solo da chi è la con la popolazione e per la popolazione, come i medici di Emergency.   Questa organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada nel 1994 ha […]

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La vera Libia di oggi la raccontano i medici di Emergency

mcc43 Il compito imposto al mainstream oggi è raccontare ciò che noti e ignoti burattinai vogliono sia raccontato. Da ogni luogo di conflitto frammenti di verità emergono solo da chi è la con la popolazione e per la popolazione, come i medici di Emergency.   Questa organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada nel 1994 ha […]

C’è una lacrima nel mio tè/ 1

Lo Sri Lanka è uno dei grandi produttori mondiali di tè. Adesso in crisi perché l’oro nero in tazza segue l’andamento dei prezzi del petrolio e i suoi profitti sono in caduta libera. E chi lo comprava ne sta acquistando meno

Kandy (Sri Lanka)- Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il primo sorso del prodotto che, con la bellezza della sue coste, ha reso nota la Lacrima dell’Oceano indiano. Il tè che si beve a Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all’altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. E’ scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100mila abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è la tazza di oro nero. Sì, perché Kandy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere. Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città – è un hotel con vista albergo: uno davanti all’altro con una gara a quale sarà più alto.

Se la città ha perso un po’ della sua magia, come per altro accade ad altri luoghi del sogno cartolina del subcontinente – da Goa a Kovalam Beach per citare i più noti – i dintorni riscattano la fama di una città che da antica capitale del Paese è diventata la capitale del tè del pianeta. Benché si possa comprare nel caotico bazar della città, un piccolo edificio a due piani compresso da negozietti che vendono spezie e tè a prezzi esorbitanti, vale al pena di andare a cercarlo nelle colline dove nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione. E gli disse bene. Oggi si coltiva su quasi 200mila ettari: la qualità per l’estero è famosa e Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell’industria del tè, un capitolo torbido della sua Storia passata e recente.

Non è difficile accorgersene passeggiando in collina dove è facile incontrare chi il tè lo raccoglie, soprattutto donne e quasi tutte tamil che la gente come Taylor “importò” dall’India per creare una colonia di coltivatori estranea alla popolazione locale, singalese e riluttante. Gli abiti sono sfilacciati ma eleganti. E il sorriso di queste signore di raffinata bellezza è incoraggiante ma spesso manca una fila di denti. Oggi non sono più le schiave che furono ai tempi di Taylor e un trattato ha riportato in India molte famiglie. Ma altre non se ne son volute andare. Semmai restare – finalmente con un documento di identità riconosciuto da Colombo – come cittadini srilankesi che ormai avevano qui le proprie radici. Con salari minimi e nella scala più bassa della forza lavoro locale, le donne del tè (quasi l’80% del settore) vivono coi famigliari in baracche allineate con abitazioni di una o due stanze. Ma c’è chi è riuscito a comprare casa o un pezzo di terra. Sorridono ma non parlano volentieri. Fino a un anno fa Sri Lanka era uno Stato di polizia. I giornalisti non erano benvenuti per via della guerra con le Tigri tamil del Nord. Men che meno i sindacalisti. Le cose stanno lentamente cambiando e forse stanno migliorando, da quando il nuovo presidente Maithripala Sirisena ha scalzato Mahinda Rajapaksa, signore e padrone del Paese, vincitore della guerra civile, assertore di una vulgata nazional-buddistico-singalese e amico dei cinesi. Perse le elezioni del gennaio dell’anno scorso, aveva tentato un colpo di Stato ma Delhi e Washington si misero di mezzo sostenendo Sirisena che, appena seduto sullo scranno più alto, ha disdetto tutti i contratti con la Cina. Nemmeno il piccolo Sri Lanka sfugge alle regole della geopolitica. Quanto al tè, le vendite vanno maluccio. O meglio, il prezzo del tè sul mercato internazionale è in calo costante da un paio d’anni. Segue, paradossalmente, la parabola del petrolio. L’oro nero alle pompe di benzina si riflette nell’oro nero in tazza grande.

Il tè è in crisi un po’ ovunque. E’ la Cina a detenere la palma del primo produttore mondiale e il vanto di una storia millenaria. Racconta la sinologa Isabella Doniselli che «allo stato selvatico il tè è una pianta che può superare i 10 metri: ecco perché il mitico sovrano Shennong, addormentatosi sotto un albero, vide cadere nel bollitore le sue foglie», facendo nascere la seconda bevanda al mondo dopo l’acqua. Ma anche in Cina la preziosa fogliolina vale sempre meno perché il governo ha levato i sussidi mentre la crisi ha contratto la domanda di importazioni in un Paese dove il tè non è mai abbastanza. E per lo Sri Lanka, per un Paese che è il quarto produttore mondiale e dove il tè è il principale prodotto di esportazione (che val quasi 1,4 miliardi di dollari l’anno), minor richiesta e calo del prezzo del petrolio sono un serio problema. Tè e petrolio? Si, perché da che il prezzo dell’oro nero è calato fino a soglie inaspettate, anche il prezzo dell’altro oro nero (o verde) è precipitato. Per la Lacrima dell’Oceano indiano son lacrime amare.

La Regina Vittoria: quando regna
il tè diventa uno dei grandi prodotti
delle colonie d’oltremare

Se è vero che gli italiani risparmiano circa 500 euro l’anno quando vanno a fare il pieno, è vero anche che per un produttore di alimenti la caduta del prezzo del petrolio è una cattiva notizia. L’agroalimentare, di cui il tè è uno dei grandi protagonisti, è ormai petrolio-dipendente grazie alle “rivoluzioni verdi” con trattori e mietitrebbie. Ciò significa che ora si produce di più a meno ma l’eccesso di offerta globale fa cadere il prezzo. Se poi, per altri motivi, la domanda sul mercato si contrae, il prezzo si abbassa ulteriormente. Il tè costa meno ma lo beve anche meno gente e i margini di profitto si riducono. Specie tra i grandi compratori, come Russia, Arabia saudita o Paesi dell’Asia ex sovietica che sono anche produttori di petrolio. Guadagnano meno e, in proporzione, comprano meno tè anche se il prezzo è basso. Molti altri grandi consumatori affrontano invece crisi di altro tipo: la Siria ad esempio, o l’Irak. Durante la guerra americana nel Paese di Saddam, la contrazione della domanda mandò in crisi i produttori srilankesi che vendevano agli iracheni il 15% del loro export. Chiesero aiuto al governo che dovette intervenire. Come sta facendo adesso, ricomprando tè per stabilizzarne il prezzo. Di quanto è caduto? Sul mercato americano, largo consumatore in crescita (come l’Italia), è passato dai quasi 4 dollari al chilo del luglio 2015 ai 3,20 di gennaio. Alla borsa del tè di Londra (il secondo importatore mondiale) siamo a circa 3 dollari e mezzo. Variazioni così, moltiplicate per tonnellate acquistate o vendute, produce differenze esorbitanti. E lacrime amare anche sulle dolci colline di Kandy.

C’è una lacrima nel mio tè/ 1

Lo Sri Lanka è uno dei grandi produttori mondiali di tè. Adesso in crisi perché l’oro nero in tazza segue l’andamento dei prezzi del petrolio e i suoi profitti sono in caduta libera. E chi lo comprava ne sta acquistando meno

Kandy (Sri Lanka)- Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il primo sorso del prodotto che, con la bellezza della sue coste, ha reso nota la Lacrima dell’Oceano indiano. Il tè che si beve a Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all’altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. E’ scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100mila abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è la tazza di oro nero. Sì, perché Kandy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere. Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città – è un hotel con vista albergo: uno davanti all’altro con una gara a quale sarà più alto.

Se la città ha perso un po’ della sua magia, come per altro accade ad altri luoghi del sogno cartolina del subcontinente – da Goa a Kovalam Beach per citare i più noti – i dintorni riscattano la fama di una città che da antica capitale del Paese è diventata la capitale del tè del pianeta. Benché si possa comprare nel caotico bazar della città, un piccolo edificio a due piani compresso da negozietti che vendono spezie e tè a prezzi esorbitanti, vale al pena di andare a cercarlo nelle colline dove nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione. E gli disse bene. Oggi si coltiva su quasi 200mila ettari: la qualità per l’estero è famosa e Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell’industria del tè, un capitolo torbido della sua Storia passata e recente.

Non è difficile accorgersene passeggiando in collina dove è facile incontrare chi il tè lo raccoglie, soprattutto donne e quasi tutte tamil che la gente come Taylor “importò” dall’India per creare una colonia di coltivatori estranea alla popolazione locale, singalese e riluttante. Gli abiti sono sfilacciati ma eleganti. E il sorriso di queste signore di raffinata bellezza è incoraggiante ma spesso manca una fila di denti. Oggi non sono più le schiave che furono ai tempi di Taylor e un trattato ha riportato in India molte famiglie. Ma altre non se ne son volute andare. Semmai restare – finalmente con un documento di identità riconosciuto da Colombo – come cittadini srilankesi che ormai avevano qui le proprie radici. Con salari minimi e nella scala più bassa della forza lavoro locale, le donne del tè (quasi l’80% del settore) vivono coi famigliari in baracche allineate con abitazioni di una o due stanze. Ma c’è chi è riuscito a comprare casa o un pezzo di terra. Sorridono ma non parlano volentieri. Fino a un anno fa Sri Lanka era uno Stato di polizia. I giornalisti non erano benvenuti per via della guerra con le Tigri tamil del Nord. Men che meno i sindacalisti. Le cose stanno lentamente cambiando e forse stanno migliorando, da quando il nuovo presidente Maithripala Sirisena ha scalzato Mahinda Rajapaksa, signore e padrone del Paese, vincitore della guerra civile, assertore di una vulgata nazional-buddistico-singalese e amico dei cinesi. Perse le elezioni del gennaio dell’anno scorso, aveva tentato un colpo di Stato ma Delhi e Washington si misero di mezzo sostenendo Sirisena che, appena seduto sullo scranno più alto, ha disdetto tutti i contratti con la Cina. Nemmeno il piccolo Sri Lanka sfugge alle regole della geopolitica. Quanto al tè, le vendite vanno maluccio. O meglio, il prezzo del tè sul mercato internazionale è in calo costante da un paio d’anni. Segue, paradossalmente, la parabola del petrolio. L’oro nero alle pompe di benzina si riflette nell’oro nero in tazza grande.

Il tè è in crisi un po’ ovunque. E’ la Cina a detenere la palma del primo produttore mondiale e il vanto di una storia millenaria. Racconta la sinologa Isabella Doniselli che «allo stato selvatico il tè è una pianta che può superare i 10 metri: ecco perché il mitico sovrano Shennong, addormentatosi sotto un albero, vide cadere nel bollitore le sue foglie», facendo nascere la seconda bevanda al mondo dopo l’acqua. Ma anche in Cina la preziosa fogliolina vale sempre meno perché il governo ha levato i sussidi mentre la crisi ha contratto la domanda di importazioni in un Paese dove il tè non è mai abbastanza. E per lo Sri Lanka, per un Paese che è il quarto produttore mondiale e dove il tè è il principale prodotto di esportazione (che val quasi 1,4 miliardi di dollari l’anno), minor richiesta e calo del prezzo del petrolio sono un serio problema. Tè e petrolio? Si, perché da che il prezzo dell’oro nero è calato fino a soglie inaspettate, anche il prezzo dell’altro oro nero (o verde) è precipitato. Per la Lacrima dell’Oceano indiano son lacrime amare.

La Regina Vittoria: quando regna
il tè diventa uno dei grandi prodotti
delle colonie d’oltremare

Se è vero che gli italiani risparmiano circa 500 euro l’anno quando vanno a fare il pieno, è vero anche che per un produttore di alimenti la caduta del prezzo del petrolio è una cattiva notizia. L’agroalimentare, di cui il tè è uno dei grandi protagonisti, è ormai petrolio-dipendente grazie alle “rivoluzioni verdi” con trattori e mietitrebbie. Ciò significa che ora si produce di più a meno ma l’eccesso di offerta globale fa cadere il prezzo. Se poi, per altri motivi, la domanda sul mercato si contrae, il prezzo si abbassa ulteriormente. Il tè costa meno ma lo beve anche meno gente e i margini di profitto si riducono. Specie tra i grandi compratori, come Russia, Arabia saudita o Paesi dell’Asia ex sovietica che sono anche produttori di petrolio. Guadagnano meno e, in proporzione, comprano meno tè anche se il prezzo è basso. Molti altri grandi consumatori affrontano invece crisi di altro tipo: la Siria ad esempio, o l’Irak. Durante la guerra americana nel Paese di Saddam, la contrazione della domanda mandò in crisi i produttori srilankesi che vendevano agli iracheni il 15% del loro export. Chiesero aiuto al governo che dovette intervenire. Come sta facendo adesso, ricomprando tè per stabilizzarne il prezzo. Di quanto è caduto? Sul mercato americano, largo consumatore in crescita (come l’Italia), è passato dai quasi 4 dollari al chilo del luglio 2015 ai 3,20 di gennaio. Alla borsa del tè di Londra (il secondo importatore mondiale) siamo a circa 3 dollari e mezzo. Variazioni così, moltiplicate per tonnellate acquistate o vendute, produce differenze esorbitanti. E lacrime amare anche sulle dolci colline di Kandy.

C’è una lacrima nel mio tè/ 1

Lo Sri Lanka è uno dei grandi produttori mondiali di tè. Adesso in crisi perché l’oro nero in tazza segue l’andamento dei prezzi del petrolio e i suoi profitti sono in caduta libera. E chi lo comprava ne sta acquistando meno

Kandy (Sri Lanka)- Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il primo sorso del prodotto che, con la bellezza della sue coste, ha reso nota la Lacrima dell’Oceano indiano. Il tè che si beve a Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all’altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. E’ scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100mila abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è la tazza di oro nero. Sì, perché Kandy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere. Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città – è un hotel con vista albergo: uno davanti all’altro con una gara a quale sarà più alto.

Se la città ha perso un po’ della sua magia, come per altro accade ad altri luoghi del sogno cartolina del subcontinente – da Goa a Kovalam Beach per citare i più noti – i dintorni riscattano la fama di una città che da antica capitale del Paese è diventata la capitale del tè del pianeta. Benché si possa comprare nel caotico bazar della città, un piccolo edificio a due piani compresso da negozietti che vendono spezie e tè a prezzi esorbitanti, vale al pena di andare a cercarlo nelle colline dove nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione. E gli disse bene. Oggi si coltiva su quasi 200mila ettari: la qualità per l’estero è famosa e Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell’industria del tè, un capitolo torbido della sua Storia passata e recente.

Non è difficile accorgersene passeggiando in collina dove è facile incontrare chi il tè lo raccoglie, soprattutto donne e quasi tutte tamil che la gente come Taylor “importò” dall’India per creare una colonia di coltivatori estranea alla popolazione locale, singalese e riluttante. Gli abiti sono sfilacciati ma eleganti. E il sorriso di queste signore di raffinata bellezza è incoraggiante ma spesso manca una fila di denti. Oggi non sono più le schiave che furono ai tempi di Taylor e un trattato ha riportato in India molte famiglie. Ma altre non se ne son volute andare. Semmai restare – finalmente con un documento di identità riconosciuto da Colombo – come cittadini srilankesi che ormai avevano qui le proprie radici. Con salari minimi e nella scala più bassa della forza lavoro locale, le donne del tè (quasi l’80% del settore) vivono coi famigliari in baracche allineate con abitazioni di una o due stanze. Ma c’è chi è riuscito a comprare casa o un pezzo di terra. Sorridono ma non parlano volentieri. Fino a un anno fa Sri Lanka era uno Stato di polizia. I giornalisti non erano benvenuti per via della guerra con le Tigri tamil del Nord. Men che meno i sindacalisti. Le cose stanno lentamente cambiando e forse stanno migliorando, da quando il nuovo presidente Maithripala Sirisena ha scalzato Mahinda Rajapaksa, signore e padrone del Paese, vincitore della guerra civile, assertore di una vulgata nazional-buddistico-singalese e amico dei cinesi. Perse le elezioni del gennaio dell’anno scorso, aveva tentato un colpo di Stato ma Delhi e Washington si misero di mezzo sostenendo Sirisena che, appena seduto sullo scranno più alto, ha disdetto tutti i contratti con la Cina. Nemmeno il piccolo Sri Lanka sfugge alle regole della geopolitica. Quanto al tè, le vendite vanno maluccio. O meglio, il prezzo del tè sul mercato internazionale è in calo costante da un paio d’anni. Segue, paradossalmente, la parabola del petrolio. L’oro nero alle pompe di benzina si riflette nell’oro nero in tazza grande.

Il tè è in crisi un po’ ovunque. E’ la Cina a detenere la palma del primo produttore mondiale e il vanto di una storia millenaria. Racconta la sinologa Isabella Doniselli che «allo stato selvatico il tè è una pianta che può superare i 10 metri: ecco perché il mitico sovrano Shennong, addormentatosi sotto un albero, vide cadere nel bollitore le sue foglie», facendo nascere la seconda bevanda al mondo dopo l’acqua. Ma anche in Cina la preziosa fogliolina vale sempre meno perché il governo ha levato i sussidi mentre la crisi ha contratto la domanda di importazioni in un Paese dove il tè non è mai abbastanza. E per lo Sri Lanka, per un Paese che è il quarto produttore mondiale e dove il tè è il principale prodotto di esportazione (che val quasi 1,4 miliardi di dollari l’anno), minor richiesta e calo del prezzo del petrolio sono un serio problema. Tè e petrolio? Si, perché da che il prezzo dell’oro nero è calato fino a soglie inaspettate, anche il prezzo dell’altro oro nero (o verde) è precipitato. Per la Lacrima dell’Oceano indiano son lacrime amare.

La Regina Vittoria: quando regna
il tè diventa uno dei grandi prodotti
delle colonie d’oltremare

Se è vero che gli italiani risparmiano circa 500 euro l’anno quando vanno a fare il pieno, è vero anche che per un produttore di alimenti la caduta del prezzo del petrolio è una cattiva notizia. L’agroalimentare, di cui il tè è uno dei grandi protagonisti, è ormai petrolio-dipendente grazie alle “rivoluzioni verdi” con trattori e mietitrebbie. Ciò significa che ora si produce di più a meno ma l’eccesso di offerta globale fa cadere il prezzo. Se poi, per altri motivi, la domanda sul mercato si contrae, il prezzo si abbassa ulteriormente. Il tè costa meno ma lo beve anche meno gente e i margini di profitto si riducono. Specie tra i grandi compratori, come Russia, Arabia saudita o Paesi dell’Asia ex sovietica che sono anche produttori di petrolio. Guadagnano meno e, in proporzione, comprano meno tè anche se il prezzo è basso. Molti altri grandi consumatori affrontano invece crisi di altro tipo: la Siria ad esempio, o l’Irak. Durante la guerra americana nel Paese di Saddam, la contrazione della domanda mandò in crisi i produttori srilankesi che vendevano agli iracheni il 15% del loro export. Chiesero aiuto al governo che dovette intervenire. Come sta facendo adesso, ricomprando tè per stabilizzarne il prezzo. Di quanto è caduto? Sul mercato americano, largo consumatore in crescita (come l’Italia), è passato dai quasi 4 dollari al chilo del luglio 2015 ai 3,20 di gennaio. Alla borsa del tè di Londra (il secondo importatore mondiale) siamo a circa 3 dollari e mezzo. Variazioni così, moltiplicate per tonnellate acquistate o vendute, produce differenze esorbitanti. E lacrime amare anche sulle dolci colline di Kandy.

Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

Per ascoltare l’audio, il file originale: http://radioblackout.org/2016/04/un-punto-sulla-situazione-dei-rifugiati-siriani-in-libano/ Un punto sulla situazione dei rifugiati siriani in Libano, Intervista con Radio Blackout, Torino. aprile 22, 2016 in Hot News da info Nell’ultimo anno e mezzo di fronte al flusso continuo ed imponente di persone che si muove verso l’Europa, diversi Stati lungo le principali rotte migratorie hanno […]

Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

Per ascoltare l’audio, il file originale: http://radioblackout.org/2016/04/un-punto-sulla-situazione-dei-rifugiati-siriani-in-libano/ Un punto sulla situazione dei rifugiati siriani in Libano, Intervista con Radio Blackout, Torino. aprile 22, 2016 in Hot News da info Nell’ultimo anno e mezzo di fronte al flusso continuo ed imponente di persone che si muove verso l’Europa, diversi Stati lungo le principali rotte migratorie hanno […]

Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

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Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

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Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

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Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

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Una panoramica sui rifugiati siriani in Libano (by Estella Carpi, April 2016)

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Liana Badr, la palestinese

L’UNESCO ha decretato che oggi, 23 aprile, si festeggi la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore. Per questo, ho dovuto riflettere un po’ prima di decidere a chi dedicare l’articolo di oggi, spulciando tra i miei scaffali pieni di libri, alcuni già letti, altri ancora in attesa di essere sfogliati. Mentre facevo scorrere […]

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L’influenza del denaro sui media arabi

Di Samir al-Tanir. As-Safir (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Letizia Vaglia. A seguito della rivoluzione dei mezzi di comunicazione, il mondo arabo sta assistendo da alcuni anni a un’ondata di pluralismo politico, che ha sconvolto il concetto stesso di pluralismo a livello mediatico. In questo contesto sono comparse anche una serie di importanti problematiche professionali, il […]

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Assad fa saltare di nuovo i negoziati di Ginevra

Di Mohammad Mashmoushi. Al-Hayat (22/04/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. Il regime siriano non ha messo a disposizione un solo minuto del suo tempo durante i tre giorni dei negoziati di Ginevra III, tenutisi tra il 17 e il 19 aprile. La mancanza di qualsiasi collaborazione, politica o diplomatica, e la violazione del cessate il […]

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l’11 maggio, a Torino….

Per chi è a Torino, l’11 maggio. E il giorno dopo è al Salone del Libro, nella prima giornata dell’edizione 2016. Proviamo a parlarne, assieme ai giuristi, al direttore di Amnesty International Italia, ad arabisti italiani e stranieri. c’è una parte bella di questa storia che parla di diritti negati, di repressione, di vite violentate.Read more

ALECA : il colpo di grazia alle imprese tunisine

Hafawa Rebhi “ E’ un atelier per mostrarvi  il funzionamento delle negoziazioni su l’ALECA, e come potete contribuirvi come società civile!” Ha risposto Kamel Jendoubi (ministro incaricato dei rapporti con le istituzioni costituzionali e la società civile, n.d.t.) non senza imbarazzo a Abdellatif El Mokhtar, un agricoltore di Testour che ha qualificato l’ALECA “un progetto di distruzione di massa dell’economia nazionale” […]

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Hafawa Rebhi “ E’ un atelier per mostrarvi  il funzionamento delle negoziazioni su l’ALECA, e come potete contribuirvi come società civile!” Ha risposto Kamel Jendoubi (ministro incaricato dei rapporti con le istituzioni costituzionali e la società civile, n.d.t.) non senza imbarazzo a Abdellatif El Mokhtar, un agricoltore di Testour che ha qualificato l’ALECA “un progetto di distruzione di massa dell’economia nazionale” […]

Cosa vuole Obama nel Golfo?

Di Osman Mirghani. Asharq al-Awsat (21/04/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. In tutto ciò che è stato scritto e detto riguardo la visita di Barack Obama in Arabia Saudita e dei suoi colloqui con i capi di Stato del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), c’è accordo sul fatto che il presidente americano stia tentando […]

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L’accordo Aleca sull’energia: punti di contrasto con la Costituzione e le leggi tunisine

Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

L’accordo Aleca sull’energia: punti di contrasto con la Costituzione e le leggi tunisine

Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

L’accordo Aleca sull’energia: punti di contrasto con la Costituzione e le leggi tunisine

Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

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Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

L’accordo Aleca sull’energia: punti di contrasto con la Costituzione e le leggi tunisine

Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

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Hafawa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

L’accordo Aleca sull’energia: punti di contrasto con la Costituzione e le leggi tunisine

Hawafa Rebhi Il 13 aprile scorso il governo ha organizzato un atelier sull’inizio delle negoziazioni riguardo l’Aleca (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito). Finora i media e gli esperti avevano spesso discusso sulle ripercussioni nefaste dell’ALECA sull’agricoltura nazionale. Ma l’accordo che legherebbe saldamente la Tunisia all’Unione Europea è anche un accordo energetico che entra in conflitto con la nostra […]

Egitto: uccidere per Giulio Regeni

mcc43 Accade che dei cittadini italiani vengano uccisi da governi stranieri, ma la reazione dell’Italia non è sempre la stessa. Giovanni Lo Porto cadde vittima di un drone americano. “Accidentalmente” è l’avverbio che copre la mancata liberazione, la mancata informazione dell’attacco ai jihadisti che lo detenevano, la mancata precauzione di appurare che nel sito attaccato non […]

Egitto: uccidere per Giulio Regeni

mcc43 Accade che dei cittadini italiani vengano uccisi da governi stranieri, ma la reazione dell’Italia non è sempre la stessa. Giovanni Lo Porto cadde vittima di un drone americano. “Accidentalmente” è l’avverbio che copre la mancata liberazione, la mancata informazione dell’attacco ai jihadisti che lo detenevano, la mancata precauzione di appurare che nel sito attaccato non […]

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mcc43 Accade che dei cittadini italiani vengano uccisi da governi stranieri, ma la reazione dell’Italia non è sempre la stessa. Giovanni Lo Porto cadde vittima di un drone americano. “Accidentalmente” è l’avverbio che copre la mancata liberazione, la mancata informazione dell’attacco ai jihadisti che lo detenevano, la mancata precauzione di appurare che nel sito attaccato non […]

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mcc43 Accade che dei cittadini italiani vengano uccisi da governi stranieri, ma la reazione dell’Italia non è sempre la stessa. Giovanni Lo Porto cadde vittima di un drone americano. “Accidentalmente” è l’avverbio che copre la mancata liberazione, la mancata informazione dell’attacco ai jihadisti che lo detenevano, la mancata precauzione di appurare che nel sito attaccato non […]

Egitto: uccidere per Giulio Regeni

mcc43 Accade che dei cittadini italiani vengano uccisi da governi stranieri, ma la reazione dell’Italia non è sempre la stessa. Giovanni Lo Porto cadde vittima di un drone americano. “Accidentalmente” è l’avverbio che copre la mancata liberazione, la mancata informazione dell’attacco ai jihadisti che lo detenevano, la mancata precauzione di appurare che nel sito attaccato non […]

Wikileaks dell’acqua: il Medio Oriente nell’occhio del ciclone

Di ‘Ali Ibrahim. Asharq Al-Awsat (19/04/2016). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti La rivista Newsweek ha recentemente pubblicato un rapporto preoccupante, trasmesso dal Centro di giornalismo d’inchiesta, che parla di una delle sfide più gravi che affronta il mondo: l’esaurimento delle riserve di acqua potabile disponibili per la popolazione mondiale, che aumenterà di circa due […]

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Make-up halal: un’industria da miliardi di dollari

Your Middle East (17/04/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina Un imam barbuto poteva sembrare fuori luogo nella settimana di In-Cosmetics di Parigi, una vetrina annuale leader a livello mondiale nel campo della bellezza e della cura personale. Ma la presenza di Shaikh Ali Achcar corrisponde ad una crescente domanda di make-up che rispetti anche regole musulmane. “Quando un prodotto animale non è […]

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“Abu Dhabi International Book Fair”: come, quando e perché

Di Beatrice Tauro. Il 27 aprile apre i battenti la 26° edizione della “Abu Dhabi International Book Fair”, la più prestigiosa ed ambiziosa Fiera del libro del Medio Oriente e Nord Africa. La ADIBF venne istituita nel 1981 e da allora ha vissuto e continua a vivere una significativa crescita in termini di espositori e […]

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Quando è permesso combattere nell’islam?

Di Shahir Shahidsaless. Middle East Eye (17/04/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Molti osservatori occidentali sostengono che il concetto di jihad nella tradizione islamica giustifichi guerre e violenze perpetue dentro e fuori i confini del mondo musulmano. In arabo, jihad significa “lotta”. Nel Corano, il termine jihad è usato nel senso di “sforzo sulla […]

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Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Almeno sulle competenze di Lorenzo Trombetta siamo d’accordo, per tutto il resto vanno benissimo le differenze di opinione e i confronti. Mi permetta tuttavia di fare una considerazione, se lei pensa che io sia una mosca bianca all’interno di SiriaLibano, o ha letto poco sul sito oppure ha frainteso il mio pensiero. La mia posizione non è manichea come lei vuole fare sembrare, anzi tutt’altro, in un confronto a voce si stupirebbe di scoprire come io sia molto critico verso la galassia ribelle e come dopo 5 anni di conflitto la mia soluzione per la Siria non sia proporre il collasso del sistema statale siriano. Ma ogni articolo ha vita a sè, non si possono sempre ribadire concetti e a volte si va in controtendenza là dove il filone principale dell’informazione si appiattisce su verità parziali o false narrative. Mettere in luce contraddizioni, o evidenziare alcune dinamiche daì più non considerate non equivale a parteggiare per la parte opposta. Tuttavia se ha il piacere di leggere Trombetta e con me è così polemico, tralasciando le specifiche competenze (quelle di Lorenzo sono certo superiori alle mie) qualche cosa non torna … conosco molto bene Lorenzo Trombetta e su una cosa posso mettere la mano sul fuoco, la pensiamo alla stessa maniera sui crimini di Asad e sulle violazioni dei diritti umani del regime siriano. Le dirò di più, la sorprenderebbe scoprire che forse io sono meno radicale verso il regime siriano di quanto lo sia Lorenzo. La ringrazio comunque del confronto. A.Savioli

Come si salva il mondo islamico?

Di Ufuk Ulutaş. Akşam (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Marta Calcaterra. L’islam è una delle religioni che annovera più fedeli al mondo. La civiltà islamica non permette di condurre analisi geopolitiche senza tenerla in considerazione, avendo fondato stati nelle aree più critiche del mondo per moltissimi anni. Nonostante ciò, da molto tempo si ha la necessità di […]

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Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

Grazie per la (le) risposte e per la pazienza che ha dimostrato in questo botta e risposta. Di certo non abbiamo le stesse idee su determinate cose, ma in fondo questo spazio serve proprio a questo. Le ho scritto che si sbagliava perché volevo farle capire che non necessariamente chi la commenta e la pensa in maniera diversa “ha poca dimestichezza con la materia o non ha visto quella realtà da vicino”, come ha detto lei. Seguo questo sito essenzialmente per gli articoli di Lorenzo Trombetta, che ho avuto il piacere di leggere (con qualche riserva) e al quale riconosco di essere uno dei pochi a produrre letteratura sulla questione siriana. Mi sono poi fatto incuriosire dal titolo del suo articolo e dopo averlo letto non ho potuto fare a meno di commentare, da appassionato della materia (come altri avevano già fatto qui ed in altri articoli scritti da lei, ottenendo più o meno le stesse risposte che ha dato a me).

Per fortuna ha puntualizzato (ma me ne ero accorto leggendo alcuni altri articoli di diversi autori) che la sua posizione non è necessariamente quella di SiriaLibano, altrimenti mi sarei visto costretto a scartare un altro sito di informazione parziale.

Arrivederci e grazie comunque per il confronto

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Gent.Le Davide, dal momento che continuo a sbagliarmi, che chiudo il commento “facendo ridere” e che evidentemente capisco poco di Siria smetta di leggermi, risparmierà il suo tempo e farà risparmiare tempo anche a me che le rispondo. La sua domanda, se io abbia messo piede in Siria dall’inizio del conflitto non ha senso e dovrebbe porla anche a chi entra in Siria embedded e scrive realtà parziali o distorte, inoltre mi consenta di dirle che mettere i piedi in un paese non equivale sempre a capire e comprendere le dinamiche di quel paese.
Visto che è interessato al mio curriculum le posso dire che in Siria ho trascorso 14 anni e che da 5 frequento con assiduità l’Iraq. Pur non avendo messo piede in Siria dall’inizio del conflitto,sono in contatto con persone che entrano in Siria regolarmente, amici e non, e non tutti hanno simpatizzato per la rivoluzione del 2011, alcuni di loro sono alawiti e cristiani. Ho una rete di conoscenze e contatti nel paese che sento con regolarità, alcuni nei territori dello Stato islamico. Il riferimento ai sunniti, all’est del paese, alle tribù, e all’Anbar iracheno non è casuale, poichè in quelle zone ho lavorato 10 anni a stretto contatto con le tribù locali le cui dinamiche sono sconosciute alla maggioranza dei commentatori.
Onestamente non so se sia capitato su SiriaLibano (SL) casualmente o se abbia avuto modo di leggere altre cose, tuttavia se si volesse prendere la briga di visitare il sito con rif. ai pezzi del 2011 e 2012 vedrà che l’interesse principale è stato quello di dare spazio alla società civile siriana e denunciare le violazioni. Per questo motivo non mi devo smarcare da gruppi armati o da movimenti salafiti per i quali non parteggio (e nemmeno da paesi a cui non va la mia simpatia), non ho brindato alla caduta di Idlib per mano della Nusra e Ahrar ash-Sham, e non la considero una liberazione.
Le violazioni dei diritti umani per me non hanno colore, pertanto il link che lei mette non capisco cosa dovrebbe dirmi, SL è stato forse il primo sito italiano a denunciare le violazioni di brigate ribelli ad Aleppo e Raqqa, e non ha risparmiato nemmeno critiche al Jesh al-Islam, ne abbiamo parlato relativamente al sequestro di Razan Zeituneh. Dal momento che lei considera HRW una fonte di riferimento e la definisce neutrale (e mi compiaccio di questo), ne faccia uso anche quando la stessa organizzazione denuncia Asad per l’uso ripetuto di cloro, ordigni non convenzionali (cluster e barrel bombs), torture, detenzioni e violenze sulle donne, e per alcuni dei maggiori massacri avvenuti in Siria. Sono io a sorridere quando mi cita HRW per denunciare i ribelli siriani, ma ignora la stessa fonte quando denuncia ripetutamente il presidente siriano che lei considera “legittimo”.
Riguardo a tutto ciò che penso, è scritto nero su bianco nei miei pezzi, non c’è bisogno che puntualizzi ulteriormente il mio pensiero. Ad ognuno spetta poi la comprensione o l’interpretazione, anche se a volte sbagliata, ma non posso perdere i pomeriggi a mettere i puntini sulle “i”.
Cordialmente,
Savioli

Sergei Lavrov presenta la nuova Costituzione siriana

Di Rajeh Khoury. Al-Arab (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Secondo un rapporto diplomatico, il segretario di Stato americano, John Kerry, in occasione della sua ultima visita a Mosca è stato sorpreso dalla presentazione da parte del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, della bozza della nuova Costituzione siriana. Il ministro Lavrov sembra averlo […]

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Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

* Ascolta la puntata su Wikiradio

Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

* Ascolta la puntata su Wikiradio

Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

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Damasco di una volta nell’ultimo romanzo di Suad Amiry

Di Giusy Regina C’era una volta palazzo Baroudi, uno dei più bei palazzi di tutta Damasco, più splendido ancora di palazzo Azem, con i soffitti di legno dipinti più raffinati di tutta la città. E c’era una volta la famiglia Baroudi, che in quel palazzo ci viveva. Jiddo era il padrone di casa, insieme a […]

L’articolo Damasco di una volta nell’ultimo romanzo di Suad Amiry sembra essere il primo su Arabpress.

Commenti su Sono di Palmira e dico che Asad non è meglio dell’Isis di emanuela

Trovo contraddittoria questa testimonianza. Il giovane che ha studiato, ha partecipato a manifestazioni pacifiche (a suo dire), lo ha fatto sotto il governo di Assad Bashar. Nel 2015 gli occidentali hanno imposto nuove elezioni con ispettori ONU, i siriani hanno votato, il partito che vede Assai come presidente ha vinto. In questi giorni si sono svolte elezioni dei deputati del parlamento siriano e il partito di Assad ha eletto molti deputati. Ricordiamo che anche prima della invasione terroristica ( effettuata con la scusante di conflitti interni, e quale paese non li ha..) in Siria erano presenti partiti di opposizione, comunisti, donne in politica, cristiani in parlamento. Ci vuole uno strano coraggio a paragonare un governo, per quanto a stirpe familiare (l’unico al mondo?), a gruppi di milizie mercenarie che coordinano disperati pagati o minacciati o indottrinati …altro che Università ad Home avrebbe potuto fare il giovane testimone.

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

Gentile Alberto, purtroppo si sbaglia di nuovo.
Conosco bene le dinamiche che regolano i poteri nei paesi dell’area, nella quale ho avuto occasione di soggiornare anche per lunghi periodi. A lei, piuttosto, è capitato di mettere piede in Siria dall’inizio del conflitto?
Puntualizzo anche io alcuni punti e prometto che sarà l’ultima volta che lo faccio: quando dice “Vorrei solo ricordare che il sostegno russo alla repressione di Asad ha causato la rivolta armata sostenuta e finanziata dai paesi del Golfo e la conseguente nascita dell’Is” non sta forse dicendo che l’IS è nato a causa del supporto russo ad Assad? E il fatto che i ribelli fossero armati e finanziati da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia e paesi del golfo non la fa minimamente riflettere?

A me non piace mettere decine di link per giustificare o legittimare quello che dico, ma ne metterò solo uno, simbolico e neutrale (fonte Human Rights Watch), datato 2013, ossia quando ancora i ribelli venivano portati sul palmo di mano come combattenti per la libertà.
https://www.hrw.org/report/2013/10/10/you-can-still-see-their-blood/executions-indiscriminate-shootings-and-hostage
Se conosce la geografia della Siria, capirà che la zona di Latakia è uno snodo cruciale per l’accesso al Mediterraneo ed il controllo di quell’area tra Turchia e Libano è fondamentale, da qui il motivo dei bombardamenti russo-governativi.
Si immagina cosa potrebbe succedere se Daesh, al Nusra o qualche altra banda armata prendessero possesso della zona?
Lei si indigna tanto perché la Russia è intervenuta a fianco di un suo alleato bombardando territori in mano a ribelli misti a terroristi armati, come più volte detto, dalle potenze occidentali e del golfo. Oltre a fare questo, bombarda i territori controllati da DAESH e al Nusra, con maggior intensità a seguito degli attacchi di Parigi e Bruxelles, ottenendo migliori risultati di quanti ne abbiano ottenuti gli Alleati in 5 anni di conflitto.
Sul fatto che DAESH combatta indistintamente per la conquista del territorio che gli interessa, non mi sembra di aver mai detto il contrario.

L’equilibrio tra religioni, poi, è un aspetto che chi si occupa di Medio Oriente dovrebbe maneggiare con estrema cautela. Si sa quanto sia difficile garantire la sopravvivenza delle minoranze in determinate aree e con un governo sunnita (magari wahabita) sappiamo benissimo che fine farebbero gli sciiti (e a maggior ragione gli alawiti!), ma anche i cristiani ortodossi, i drusi e le altre minoranze, che non a caso si sono schierate in maggioranza con le forze governative. A meno di un sistema “alla libanese”, difficilmente replicabile e comunque ottenuto in seguito ad una sanguinosa guerra civile, il probabile epilogo sarebbe proprio una nuova guerra tra religioni. Perché per quanto si possa dire del dittatore Asad e di suo padre, almeno non si può accusarli di persecuzioni nei confronti delle minoranze religiose in quanto tali (i curdi in cerca dell’indipendenza sono un discorso a parte e si tratta di un problema politico, essendo oltretutto i curdi per il 95% sunniti) né tantomeno di essere una teocrazia.

Fa abbastanza ridere il fatto che lei chiuda l’intervento dicendo che non bisogna far crollare il regime ma non ci può essere un futuro governo che comprenda gli alawiti (o gli Asad?).
Insomma, ancora una volta sembra che l’unica soluzione percorribile sia quella di distruggere e (forse) ricostruire.

Attacco al cuore di Kabul, la versione dei talebani (aggiornato)

La bandiera dei talebani

La strage di martedi a Kabul (64 morti e 340 feriti) è stata rivendicata dai talebani con un comunicato sul sito della guerriglia che per la prima volta  dettaglia l’intera operazione, la prima grossa prova di forza dell’operativo “Omari”, ossia la cosiddetta campagna di primavera intitolata a mullah Omar (c’era anche Gentiloni a Kabul). I talebani dettagliano momento per momento l’attacco (pubblicato poco dopo la chiusura degli incidenti con un “final report” quasi in tempo reale) durato dal mattino alle 9 sino alle tre del pomeriggio con un autobus carico di esplosivo e alcuni  guerriglieri che hanno cercato di forzare l’ingresso di un’unità dei servizi segreti che si occupa della protezione dei Vip. L’obiettivo si trova accanto al ministero della Difesa (Pul-e-Mahmood Khan) e all’interno di un’area sempre affollata a quell’ora, sino alle  cinque del pomeriggio, perché a due passi dal bazar cittadino che è particolarmente frequentato la mattina. I talebani fanno mostra di aver preso in considerazione l’aspetto vittime civili in una zona, scrivono, dove civili non ce ne sono proprio perché situata vicino alla Difesa e al palazzo presidenziale. A detta loro nessun civile sarebbe stato ucciso ma solo lievemente ferito dalle schegge dell’esplosione perché chi non è autorizzato non può circolare nei pressi dei ministeri. In realtà, anche le zone più sorvegliate, come la Difesa o il ministero dell’Interno, sono molto frequentate da civili che a piedi, in bici o in macchina ci passano davanti. Non si può sostare ma ci si può tranquillamente passare accanto. Secondo la guerriglia in turbante 92 agenti sarebbero stati uccisi e tra loro alcune figure chiave dei servizi. Con l’arrivo di mullah Mansur la propaganda talebana e la capacità mediatica sono notevolmente aumentate anche nella qualità dell’esposizione dei fatti. La veridicità è un altro discorso.

Attacco al cuore di Kabul, la versione dei talebani (aggiornato)

La bandiera dei talebani

La strage di martedi a Kabul (64 morti e 340 feriti) è stata rivendicata dai talebani con un comunicato sul sito della guerriglia che per la prima volta  dettaglia l’intera operazione, la prima grossa prova di forza dell’operativo “Omari”, ossia la cosiddetta campagna di primavera intitolata a mullah Omar (c’era anche Gentiloni a Kabul). I talebani dettagliano momento per momento l’attacco (pubblicato poco dopo la chiusura degli incidenti con un “final report” quasi in tempo reale) durato dal mattino alle 9 sino alle tre del pomeriggio con un autobus carico di esplosivo e alcuni  guerriglieri che hanno cercato di forzare l’ingresso di un’unità dei servizi segreti che si occupa della protezione dei Vip. L’obiettivo si trova accanto al ministero della Difesa (Pul-e-Mahmood Khan) e all’interno di un’area sempre affollata a quell’ora, sino alle  cinque del pomeriggio, perché a due passi dal bazar cittadino che è particolarmente frequentato la mattina. I talebani fanno mostra di aver preso in considerazione l’aspetto vittime civili in una zona, scrivono, dove civili non ce ne sono proprio perché situata vicino alla Difesa e al palazzo presidenziale. A detta loro nessun civile sarebbe stato ucciso ma solo lievemente ferito dalle schegge dell’esplosione perché chi non è autorizzato non può circolare nei pressi dei ministeri. In realtà, anche le zone più sorvegliate, come la Difesa o il ministero dell’Interno, sono molto frequentate da civili che a piedi, in bici o in macchina ci passano davanti. Non si può sostare ma ci si può tranquillamente passare accanto. Secondo la guerriglia in turbante 92 agenti sarebbero stati uccisi e tra loro alcune figure chiave dei servizi. Con l’arrivo di mullah Mansur la propaganda talebana e la capacità mediatica sono notevolmente aumentate anche nella qualità dell’esposizione dei fatti. La veridicità è un altro discorso.

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Le sue risposte come vede non vengono censurate, chiedo scusa del ritardo nella loro pubblicazione ma a volte su sirialibano ci vuole un po’ di pazienza, a differenza di alcuni siti antimperialisti e di controinformazione non abbiamo persone pagate che lavorano sul sito 24 ore su 24. Lei solleva molte questioni e considerazioni che per la maggior parte non condivido, ci vorrebbe un ulteriore articolo per ribattere. Mi limito a puntualizzare e sottolineare una serie di cose. Che l’Is sia stato creato dai Russi non l’ho scritto da nessuna parte, come lei asserisce. Non sostengo alcun intervento americano e non simpatizzo per i paesi del Golfo, se i miei articoli sembrano andare in una direzione è per bilanciare la retorica di una certa stampa, nello specifico quest’articolo è stato pubblicato in risposta al vicedirettore di Famiglia Cristiana (avendo dibattuto con lui direttamente), che alla vigilia del Natale raccontava l’intervento russo come una Panacea. Lei plaude il veto russo-cinese che ha impedito l’ennesimo intervento americano, ma ci sono stati dei veti russo-cinesi anche sulle proposte di corridoi umanitari e no fly-zone che avrebbero risparmiato la vita a migliaia di persone. A che prò stigmatizzare il possibile intervento americano portatore di catastrofe, quando poi si sostiene un intervento russo in appoggio di Asad e non del popolo siriano, dal momento che la riconquista avviene con bombardamenti a tappeto dei centri abitati e uccisioni di civili che quindi non sono vittime collaterali. Giusto oggi questi santi bombardamenti russo-siriani tesi a ripristinare la sovranità nazionale siriana han provocato queste vittime: https://pbs.twimg.com/media/CgbNCd_WEAAklii.jpg https://pbs.twimg.com/media/CgbBZt7WwAA89Rf.jpg https://pbs.twimg.com/media/Cga6yx_W8AA4pGF.jpg https://pbs.twimg.com/media/CgZhmxSW4AAA3Wj.jpg Non per fare Barbara d’Urso, ma a giocare a Risiko son capaci tutti, se si sostengono delle tesi bisogna anche affrontare le conseguenze, che non possono essere liquidate con la banalità del “tutte le guerre fanno vittime civili”. Le chiedo quindi la sovranità è del popolo o di chi comanda il popolo? Sul concetto di legittimo presidente non replico nemmeno è evidente che ha poca dimestichezza non solo con la Siria ma con le dittature Medio Orientali che evidentemente non ha mai visto da vicino. A mio parere ha poca dimestichezza anche con i diritti umani, dal momento che il legittimo presidente si è macchiato di gravi crimini contro l’Umanità e solo Dio o Putin potranno salvarlo in futuro da un processo in un tribunale internazionale; per non parlare della repressione violenta messa in atto nel 2011 che ha scatenato un conflitto tra i più sanguinosi del dopoguerra. E tutto questo lo dico senza risparmiare critiche e condanne ai paesi del Golfo che han finanziato movimenti estremisti e terroristi quali la Nusra e l’Isis. Ma non si può invertire l’origine di un problema con i suoi risultati. Per concludere, giusto per sintetizzare la mia posizione personale che non è necessariamente quella di sirialibano, una pace per la Siria, e non parlo di un cessate il fuoco ma di una pace che abbia continuità nel futuro, può avvenire solo con un governo inclusivo che tenga conto di tutte le specificità siriane, compresi i sunniti che sono il 65/70 % e politicamente han contato meno di nulla. Per questo motivo a mio parere la riconquista con milizie sciite straniere, come sta avvenendo, può vincere militarmente anche l’Isis, ma non sarà mai una vittoria stabile nell’est del paese a maggioranza sunnita e con stretti legami con l’Anbar iracheno. Prenda proprio l’esempio della provincia irachena di Anbar, la forza di al-Qaida in Iraq è stata via via limitata tramite il potere assegnato ai clan tribali sunniti. Le ricordo a riguardo che i primi a subire la repressione dell’Isis sono stati i clan Sheitaat di Deir ez-Zor (700 morti nell’estate 2014), sunniti come loro. Una riconquista del paese con forze sciite e il persistere di un regime in mano agli Asad rimanderebbe ulteriormente il problema, tra 10 anni torneremo a parlare di Siria, come facciamo ora, e come è stato fatto negli anni ’80 con la rivolta dei Fratelli Musulumani e con il massacro di Hama. Badi bene non sto parlando di far crollare il regime e lo Stato siriano sostituendolo con un futuro incerto, ma non vedo come si possa arrivare ad un governo inclusivo senza mettere da parte il clan che ha scatenato questo disastro. Cordialmente, A. Savioli

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

Avevo risposto ma (non so per quale motivo) il commento non è stato pubblicato. Risponderò quindi più brevemente dicendo che la mia critica non è sulle fonti (che in questa situazione so essere scarse e spesso poco attendibili, come d’altronde l’esperto Trombetta ha più volte ribadito), ma su come siano state usate per dare un’interpretazione discutibile sulla situazione siriana.
Purtroppo l’empatia non risolve i conflitti, altrimenti – mi perdoni la battuta – dovremmo considerare la candidatura di Barbara d’Urso per risolvere le crisi internazionali (e non mi pare il caso). Le vittime civili sono le più numerose in tutti questi tipi di conflitto, e purtroppo ciò è straziante tanto quanto inevitabile in una condizione di guerra civile come questa.

Forse il Cremlino non è la soluzione ai problemi siriani, ma allora non lo devono essere nemmeno Washington, Parigi, Londra, Ankara o i nostri cari amici del golfo, che questa crisi l’hanno alimentata e foraggiata per fare i propri interessi, impedendo di fatto che si esaurisse nel giro di pochi mesi.
Dire che sia tutta colpa di Mosca è abbastanza scorretto e ribadire la responsabilità degli Stati Uniti non dovrebbe essere un’azione atta a far contento me, ma un modo per riempire il suo articolo di un po’ di verità.
Il DEASH è stato creato dagli Americani e NON dai Russi, come ha scritto lei.

Per concludere, le dico che forse sarebbe anche ora che le forze internazionali si mettessero d’accordo per porre fine alla guerra e restituire finalmente alla Siria una sovranità territoriale e, che piaccia o no, Assad deve essere parte di questo processo in quanto legittimo presidente.
Altrimenti possiamo continuare a scrivere articoli, pubblicare foto di famiglie distrutte e barconi rovesciati nel mediterraneo, oppure giocare Risiko, ognuno citando le proprie fonti.

TGLFF: Infiniti sensi, precise direzioni

tgl-110Alla 31a edizione del Torino Gay & Lesbian Film spazio alle religioni con la sezione “Liberaci dal male”, composta da cinque film, tra cui “Oriented” di Jake Witzenfeld, in anteprima italiana, che racconta la vita di tre giovani palestinesi a Tel Aviv. Un evento dedicato alla Tunisia, dal titolo “Quale primavera? con due cortometraggi: Boulitik di Walid Tayaa e Face à la mer di Sabry Bouzid.

“Gaza Writes Back”

GWB 110Scritto da quindici giovani palestinesi gazawi, il libro è una raccolta di 23 racconti, tanti quanti sono i giorni dell’offensiva militare israeliana lanciata su Gaza tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, la cosiddetta “Operazione Piombo Fuso” che ha causato più di 1400 morti, 5000 feriti e la distruzione o gravi danni a 11000 case e infrastrutture.

Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

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Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

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Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

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Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

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Per Giulio Regeni

Sono trascorsi quasi tre mesi dalla tragica scomparsa di Giulio Regeni e fortunatamente la pressione di chi chiede la verità sulla terribile morte del dottorando italiano non è venuta meno, anzi, è aumentata. La campagna volta a ottenere giustizia per la barbara morte di Regeni era partita male, causa anche le distorsioni operate da alcuni […]

Tunisia: basta con i gelsomini, il popolo vuole dignità

Di Mabrouka M’Barek. Middle East Eye (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Cinque anni dopo le rivolte arabe, la Tunisia è visto come l’ultimo paese della regione dove l’ondata rivoluzionaria del 2011 ha garantito la stabilità politica. Lo scorso anno il Quartetto premiato con il Nobel della Pace ha celebrato la “democrazia pluralista” del paese. Tuttavia, un […]

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Post coloniale: rubare è il nostro mestiere. Il caso Koh-i-Nur

Da oggi il titolo di questo post potrebbe essere causa di una citazione per danni. E si perché le diatribe post coloniali non finiscono mai e, sorprendentemente, anche chi ne ha subito gli effetti è pronto a riconoscere che in molti casi furto non fu. Non sempre ovviamente: chiedetelo un po’ ai Greci che ne pensano dei frontoni del Partenone che si trovano al British Museum o agli Etiopi se son contenti che la stele di Axum ad Axum sia tornata. Ma oggi,  davanti alla Suprema corte indiana il General Solicitor  Ranjit Kumar, che esprimeva l’opinione del governo, ha dato ragione ai britannici sul famoso diamante Koh-i-Nur (Montagna di luce), gemma che adorna la corona di sua Maestà britannica da più di un secolo: 108 carati di diamante che sono un pezzo di Storia, coloniale e non. La causa sul diritto alla proprietà, l’ha promossa una Ong indiana, la All India Human Rights & Social Justice Front che però, oltre alla corona britannica, adesso ha contro il governo di Narendra Modi.

Quel diamante ha una lunga storia, anzi un’epopea che provo a riassumere in due parole: le origini sono incerte, probabilmente indiane, nell’Andra Pradesh, dove la gemma regale fu trovata pare nel XIII secolo. Finì nelle mani della dinastia indù dei Kakatiya, regno che fu poi spodestato dal sultanato di Delhi. Ma c’è chi dice che quella pietra già adornasse i tesori dei re ben prima della nascita di Cristo. A Delhi comunque siede  Babur, un uomo di origini turco mongole (discendeva da Tamerlano e Gengis Khan) ma molto influenzato dalla cultura persiana che nel ‘500 fonda in India l’impero moghul. Babur, che volle essere seppellito a Kabul (conquistata nel 1504)- e  dove tuttora si trova la sua tomba nei giardini che portano il suo nome –  si accaparra la gemma che diventa il “diamante di Babur”, un re “afgano” a Delhi (anche se era originario della valle del Fergana, Babur si era, come dire, afganizzato e aveva fatto di quella città – dove alla fine volle essere seppellito per “vederne il cielo” – un giardino). Il gioiello entra dunque nella sfera afgano-persiana della storia e ancor di più quando diviene la pietra di Nader Shah, lo scià di Persia (1736–47) conquistatore, tra l’altro, dell’Afghanistan e in grado di invadere l’India battendo le truppe moghul. Ma gli afgani erano in agguato e quando il suo impero collassa, la gemma passa nelle mani di Ahmad Shāh Durrānī, il creatore di un regno afgano a tutti gli effetti, fondatore di quel che oggi consideriamo il Paese dell’Hindukush (muore nel 1772). Un suo discendente (su cui ci siamo a  lungo dilungati), Shah Shuja (1785-1842), diviene proprietario della pietra che però non gli porta fortuna. Uomo reinsediato al trono afgano dai britannici, sarà costretto alla fuga durante la quale porterà con sé la Montagna di luce.

Babur il grande: sopra Nader Shah

Shah Shuja chiede ospitaltà al re guerriero sikh  Ranjit Singh, che lo ospita a Lahore ma gli chiede in cambio la pietra, chissà se promettendogli un ritorno in Afghanistan. La pietra per Ranjit è il coronamento di un potere assoluto e ne fa dono a un tempio di Puri, in Orissa. Ma nel 1849 (Ranjit muore nel 1839), dopo la seconda guerra anglo-sikh, i britannici prendono possesso del Punjab e si accaparrano la pietra che viene ceduta alla Regina Vittoria mentre la Compagnia delle Indie si pappa tutto il resto dei beni del maharaja sconfitto.

Certo la pietra fu ceduta e non trafugata e vi è traccia di quei passaggi di mano sanciti da un trattato. Ma è una storia di vincitori e vinti e di una pietra, asiatica a tutti gli effetti, che la Regina d’Oltremanica voleva per sé in Europa (o meglio, nel Regno Unito). Potremmo chiosare che Vittoria forse non immaginava che, dall’India, avrebbe guadagnato un diamante ma, da lì a breve, nel 1947 avrebbe perso la perla dell’Impero: e cioè l’India intera, comprese le montagne dell’Andra Pradesh da cui proveniva la bella Koh-i-Nur

Post coloniale: rubare è il nostro mestiere. Il caso Koh-i-Nur

Da oggi il titolo di questo post potrebbe essere causa di una citazione per danni. E si perché le diatribe post coloniali non finiscono mai e, sorprendentemente, anche chi ne ha subito gli effetti è pronto a riconoscere che in molti casi furto non fu. Non sempre ovviamente: chiedetelo un po’ ai Greci che ne pensano dei frontoni del Partenone che si trovano al British Museum o agli Etiopi se son contenti che la stele di Axum ad Axum sia tornata. Ma oggi,  davanti alla Suprema corte indiana il General Solicitor  Ranjit Kumar, che esprimeva l’opinione del governo, ha dato ragione ai britannici sul famoso diamante Koh-i-Nur (Montagna di luce), gemma che adorna la corona di sua Maestà britannica da più di un secolo: 108 carati di diamante che sono un pezzo di Storia, coloniale e non. La causa sul diritto alla proprietà, l’ha promossa una Ong indiana, la All India Human Rights & Social Justice Front che però, oltre alla corona britannica, adesso ha contro il governo di Narendra Modi.

Quel diamante ha una lunga storia, anzi un’epopea che provo a riassumere in due parole: le origini sono incerte, probabilmente indiane, nell’Andra Pradesh, dove la gemma regale fu trovata pare nel XIII secolo. Finì nelle mani della dinastia indù dei Kakatiya, regno che fu poi spodestato dal sultanato di Delhi. Ma c’è chi dice che quella pietra già adornasse i tesori dei re ben prima della nascita di Cristo. A Delhi comunque siede  Babur, un uomo di origini turco mongole (discendeva da Tamerlano e Gengis Khan) ma molto influenzato dalla cultura persiana che nel ‘500 fonda in India l’impero moghul. Babur, che volle essere seppellito a Kabul (conquistata nel 1504)- e  dove tuttora si trova la sua tomba nei giardini che portano il suo nome –  si accaparra la gemma che diventa il “diamante di Babur”, un re “afgano” a Delhi (anche se era originario della valle del Fergana, Babur si era, come dire, afganizzato e aveva fatto di quella città – dove alla fine volle essere seppellito per “vederne il cielo” – un giardino). Il gioiello entra dunque nella sfera afgano-persiana della storia e ancor di più quando diviene la pietra di Nader Shah, lo scià di Persia (1736–47) conquistatore, tra l’altro, dell’Afghanistan e in grado di invadere l’India battendo le truppe moghul. Ma gli afgani erano in agguato e quando il suo impero collassa, la gemma passa nelle mani di Ahmad Shāh Durrānī, il creatore di un regno afgano a tutti gli effetti, fondatore di quel che oggi consideriamo il Paese dell’Hindukush (muore nel 1772). Un suo discendente (su cui ci siamo a  lungo dilungati), Shah Shuja (1785-1842), diviene proprietario della pietra che però non gli porta fortuna. Uomo reinsediato al trono afgano dai britannici, sarà costretto alla fuga durante la quale porterà con sé la Montagna di luce.

Babur il grande: sopra Nader Shah

Shah Shuja chiede ospitaltà al re guerriero sikh  Ranjit Singh, che lo ospita a Lahore ma gli chiede in cambio la pietra, chissà se promettendogli un ritorno in Afghanistan. La pietra per Ranjit è il coronamento di un potere assoluto e ne fa dono a un tempio di Puri, in Orissa. Ma nel 1849 (Ranjit muore nel 1839), dopo la seconda guerra anglo-sikh, i britannici prendono possesso del Punjab e si accaparrano la pietra che viene ceduta alla Regina Vittoria mentre la Compagnia delle Indie si pappa tutto il resto dei beni del maharaja sconfitto.

Certo la pietra fu ceduta e non trafugata e vi è traccia di quei passaggi di mano sanciti da un trattato. Ma è una storia di vincitori e vinti e di una pietra, asiatica a tutti gli effetti, che la Regina d’Oltremanica voleva per sé in Europa (o meglio, nel Regno Unito). Potremmo chiosare che Vittoria forse non immaginava che, dall’India, avrebbe guadagnato un diamante ma, da lì a breve, nel 1947 avrebbe perso la perla dell’Impero: e cioè l’India intera, comprese le montagne dell’Andra Pradesh da cui proveniva la bella Koh-i-Nur

L’affaire Regeni in Egitto: le ripercussioni dell’ipocrisia europea

Di Basheer M. Nafi (15/04/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo Recentemente il presidente egiziano el-Sisi, in un discorso alla nazione, ha sottolineato l’inutilità di ricorrere a bugie o inganni e ha esortato gli egiziani a fidarsi solamente delle sue parole. Eppure, l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni ha mostrato al mondo il vero volto […]

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Fiera Internazionale del Libro Abu Dhabi: l’Italia ospite d’onore

La 26° edizione della “Fiera Internazionale del Libro di Abu Dhabi” (Abu Dhabi International Book Fair) si svolgerà dal 27 aprile prossimo al 3 maggio. L’ospite d’onore quest’anno è l’Italia. Si legge nel sito ufficiale:”Famosa in tutto il mondo grazie al suo patrimonio culturale, l’Italia è conosciuta per la sua gente accogliente e per un’eredità letteraria profonda. L’industria editoriale […]

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Yemen: colloqui di pace in Kuwait rimandati

(Agenzie). I colloqui di pace in Kuwait previsti per oggi, volti a porre fine a più di un anno di guerra civile in Yemen, sono stati rimandati.  Nonostante il cessate il fuoco annunciato infatti, nel Paese i combattimenti non si fermano. Le delegazioni che rappresentano rispettivamente i ribelli Houthi e il partito dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh – principali antagonisti dell’Arabia […]

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Il mondo arabo sull’orlo dell’abisso

Di Bashir al-Baker. Al-Araby al-Jadeed (16/04/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Solo un breve passo separa Iraq, Siria, Yemen e Libia dal baratro: sembra di assistere, in questi quattro paesi, ai brevi attimi prima della caduta in una spirale di devastazione totale, da cui è impossibile tornare indietro se non prendendo posizione, e […]

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Quel giorno a Bandung quando nacquero i non allineati

Cerano una volta Tito, Sukarno, Nasser, Ciu e tanti altri che provarono a superare il bipolarismo Usa Urss, quello della Guerra fredda (e del terrore atomico). I non allineati ci provarono anche se è andata male. Fu un esperimento importante.  Oggi proviamo a raccontare la conferenza di Bandung,  a Wikiradio alle 14. Era il 18 aprile 1955

Le trasmissioni in podcast – dopo la messa in onda, si possono sentire  qui

Repertorio

frammento da African Conference in Bandung – Warner Pathé News

– Conferenza di Belgrado – Settimana Incom 02118 dell’8/9/1961 – Archivio Luce

– Discorso di apertura dell’indonesiano Sukarno

– intervista di Andrea Barbato al ministro degli esteri indiano Krishna Menon tratta dal programma televisivo Quel giorno- Morte di Gandhi – Archivi Rai

– Estratti delle conclusioni e del decalogo della Conferenza di Bandung tratti dal programma radiofonico: I Paesi non-allineati. Passato e Presente. Come si arrivò alla Conferenza di Bandung, 1,8 agosto 1971 – Terzo Programma – Archivi Rai

Quel giorno a Bandung quando nacquero i non allineati

Cerano una volta Tito, Sukarno, Nasser, Ciu e tanti altri che provarono a superare il bipolarismo Usa Urss, quello della Guerra fredda (e del terrore atomico). I non allineati ci provarono anche se è andata male. Fu un esperimento importante.  Oggi proviamo a raccontare la conferenza di Bandung,  a Wikiradio alle 14. Era il 18 aprile 1955

Le trasmissioni in podcast – dopo la messa in onda, si possono sentire  qui

Repertorio

frammento da African Conference in Bandung – Warner Pathé News

– Conferenza di Belgrado – Settimana Incom 02118 dell’8/9/1961 – Archivio Luce

– Discorso di apertura dell’indonesiano Sukarno

– intervista di Andrea Barbato al ministro degli esteri indiano Krishna Menon tratta dal programma televisivo Quel giorno- Morte di Gandhi – Archivi Rai

– Estratti delle conclusioni e del decalogo della Conferenza di Bandung tratti dal programma radiofonico: I Paesi non-allineati. Passato e Presente. Come si arrivò alla Conferenza di Bandung, 1,8 agosto 1971 – Terzo Programma – Archivi Rai

L’Italia alla Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi 2016

L’Italia è il paese ospite d’onore alla prossima Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi, che quest’anno si svolge dal 27 aprile al 3 maggio. Il programma culturale completo ancora non è stato diffuso, ma intanto sono online i nomi degli autori italiani – più o meno noti – che parteciperanno agli incontri e dibattiti … Continua a leggere L’Italia alla Fiera internazionale del Libro di Abu Dhabi 2016

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

Non ho detto che è stato scorretto, ma solamente che poteva benissimo evitare premesse poi disattese nel corso del suo articolo. Non mi pare di aver criticato le fonti e i dati da lei citati, né ne ho utilizzati io (essendo consapevole del fatto che quei dati vadano presi con le pinze per attendibilità e completezza).

Mi spiace ma qui non si tratta di Risiko, ma di un guerra e la guerra, come ben sa, provoca più vittime tra i civili che tra i militari. Non serve fare inutile retorica e ricordare le vittime innocenti dei conflitti che si sono susseguiti nel tempo nelle varie parti del mondo per averne conferma. Mettere foto commoventi e raccontare storie di chi ha perso uno o 4 figli sotto le bombe non serve a nulla e non è l’empatia “alla Studio Aperto” a cambiare lo stato delle cose.
Per quanto riguarda il veto di Russia e Cina, esso ha impedito l’ennesimo intervento militare americano-occidentale “legalizzato” in uno Stato terzo ed il ripetersi di una situazione analoga a quella di altri noti paesi mediorientali.

Il fatto di rimarcare le responsabilità americane non dovrebbe fare contento me, ma farle ricordare che la nascita dell’IS non è affatto colpa della Russia, come ha erroneamente scritto. Stesso errore che la coglie quando scrive che le armi russe hanno fatto proseguire il conflitto facendo intromettere gli altri attori internazionali. Volendo si potrebbe dire l’esatto contrario o giungere all’annosa diatriba sul fatto che sia nato prima l’uovo o la gallina.

La bandiera del Cremlino può non essere la soluzione, come non dovrebbe esserla quella di Washington né quella di Ankara né quella di Parigi né quella di qualsiasi altro stato che si è intromesso in una guerra civile, che probabilmente si sarebbe risolta da sola qualche anno fa risparmiando vittime, migranti e tutto il resto.

Essendo arrivati a questo punto, però, le cose sono due: o ci si mette d’accordo e si fa in modo che un potere centrale torni a governare legittimamente la Siria, aiutando a ripristinare ciò che è stato distrutto da Noi (occidentali) e dagli amici del golfo, oppure possiamo continuare a mettere foto commoventi di bambine uccise, famiglie distrutte e barconi carichi di persone che scappano dalla guerra, magari citando pure le fonti.

L’Oriente visto dagli europei in 40 quadri

Di Abeer Mishkhas. Asharq al-Awsat (09/04/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Cosa amano dell’Oriente gli artisti occidentali? La domanda trova risposta nell’asta che verrà aperta a Londra il 19 aprile. Quaranta opere d’arte orientaliste saranno esposte questo mese all’interno della casa d’aste Sotheby, nel corso dell’asta d’arte annuale a tema orientalista. Tra i lavori […]

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Assad sfida l’opposizione

Di Louay Hussein. Al-Hayat (15/04/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. Qualunque sia la nostra posizione su Bashar al-Assad e sul suo ruolo nella crisi siriana, è necessario leggere la sua intervista fatta con le agenzie russe Ria Novosti e Sputnik qualche giorno fa. Durante questo incontro, Assad ha presentato i notevoli progressi fatti dal […]

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Elegia per Gaza. Firmata Hany Abu Assad

È un gran bel film. Ed è un film da andare a vedere, sempre nella speranza che “The Idol” non faccia solo una timida comparsa nelle sale cinematografiche italiane. Una timida comparsa e un’altrettanto veloce uscita di scena, come succede a molti film che non hanno il crisma della cassetta.   “The Idol” è unRead more

Elegia per Gaza. Firmata Hany Abu Assad

È un gran bel film. Ed è un film da andare a vedere, sempre nella speranza che “The Idol” non faccia solo una timida comparsa nelle sale cinematografiche italiane. Una timida comparsa e un’altrettanto veloce uscita di scena, come succede a molti film che non hanno il crisma della cassetta.   “The Idol” è unRead more

Elegia per Gaza. Firmata Hany Abu Assad

È un gran bel film. Ed è un film da andare a vedere, sempre nella speranza che “The Idol” non faccia solo una timida comparsa nelle sale cinematografiche italiane. Una timida comparsa e un’altrettanto veloce uscita di scena, come succede a molti film che non hanno il crisma della cassetta.   “The Idol” è unRead more

Elegia per Gaza. Firmata Hany Abu Assad

È un gran bel film. Ed è un film da andare a vedere, sempre nella speranza che “The Idol” non faccia solo una timida comparsa nelle sale cinematografiche italiane. Una timida comparsa e un’altrettanto veloce uscita di scena, come succede a molti film che non hanno il crisma della cassetta.   “The Idol” è unRead more

Elegia per Gaza. Firmata Hany Abu Assad

È un gran bel film. Ed è un film da andare a vedere, sempre nella speranza che “The Idol” non faccia solo una timida comparsa nelle sale cinematografiche italiane. Una timida comparsa e un’altrettanto veloce uscita di scena, come succede a molti film che non hanno il crisma della cassetta.   “The Idol” è unRead more

Ve lo ricordate di andare a votare?

Ehi, ve lo ricordate che domani si va a votare? Non è una elezione, certo. Ma il referendum è una bella cosa. Ce ne sono stati di necessari, rilevanti, meno importanti. Sono stati comunque un gesto di democrazia. Di alta democrazia, o meglio, di democrazia attiva.  Questo referendum “sulle trivelle” è ancora più rilevante, ancheRead more

Ve lo ricordate di andare a votare?

Ehi, ve lo ricordate che domani si va a votare? Non è una elezione, certo. Ma il referendum è una bella cosa. Ce ne sono stati di necessari, rilevanti, meno importanti. Sono stati comunque un gesto di democrazia. Di alta democrazia, o meglio, di democrazia attiva.  Questo referendum “sulle trivelle” è ancora più rilevante, ancheRead more

Ve lo ricordate di andare a votare?

Ehi, ve lo ricordate che domani si va a votare? Non è una elezione, certo. Ma il referendum è una bella cosa. Ce ne sono stati di necessari, rilevanti, meno importanti. Sono stati comunque un gesto di democrazia. Di alta democrazia, o meglio, di democrazia attiva.  Questo referendum “sulle trivelle” è ancora più rilevante, ancheRead more

Ve lo ricordate di andare a votare?

Ehi, ve lo ricordate che domani si va a votare? Non è una elezione, certo. Ma il referendum è una bella cosa. Ce ne sono stati di necessari, rilevanti, meno importanti. Sono stati comunque un gesto di democrazia. Di alta democrazia, o meglio, di democrazia attiva.  Questo referendum “sulle trivelle” è ancora più rilevante, ancheRead more

Ve lo ricordate di andare a votare?

Ehi, ve lo ricordate che domani si va a votare? Non è una elezione, certo. Ma il referendum è una bella cosa. Ce ne sono stati di necessari, rilevanti, meno importanti. Sono stati comunque un gesto di democrazia. Di alta democrazia, o meglio, di democrazia attiva.  Questo referendum “sulle trivelle” è ancora più rilevante, ancheRead more

La Kabul di Juliano sahib

Riproduzione tratta da Iranicaonline

A Kabul, al mattino per prima cosa mi affaccio sulla terrazza di casa. Di fronte a me, in lontananza, ci sono le montagne dell’Hindu Kush, innevate anche in primavera, sulla rotta che punta al Nord, al passo Salang e poi alla città di Kunduz. A Ovest si va verso Mazar-e-Sharif, all’antica Balkh di Alessandro Magno, nella terra dei meloni zuccherini, fino al Turkmenistan. A Nord, a due passi c’è Dushanbe e il Tajikistan, oltre un confine trafficato. A Est ci sono le più antiche miniere di lapislazzuli al mondo e il Wakhan, la sottile lingua di terra che collega l’Afghanistan al Turkestan cinese degli uighuri oppressi da Pechino…”

Leggi tutto  il racconto sulla capitale afgana (Kabul mon amour) di Giuliano Battiston illustrato da Gio Pastori per The Towner

La Kabul di Juliano sahib

Riproduzione tratta da Iranicaonline

A Kabul, al mattino per prima cosa mi affaccio sulla terrazza di casa. Di fronte a me, in lontananza, ci sono le montagne dell’Hindu Kush, innevate anche in primavera, sulla rotta che punta al Nord, al passo Salang e poi alla città di Kunduz. A Ovest si va verso Mazar-e-Sharif, all’antica Balkh di Alessandro Magno, nella terra dei meloni zuccherini, fino al Turkmenistan. A Nord, a due passi c’è Dushanbe e il Tajikistan, oltre un confine trafficato. A Est ci sono le più antiche miniere di lapislazzuli al mondo e il Wakhan, la sottile lingua di terra che collega l’Afghanistan al Turkestan cinese degli uighuri oppressi da Pechino…”

Leggi tutto  il racconto sulla capitale afgana (Kabul mon amour) di Giuliano Battiston illustrato da Gio Pastori per The Towner

Palestina: un ottimismo bugiardo e falso

Di Majid al-Sheikh. Al-Hayat (14/04/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. In risposta alla richiesta palestinese di far uscire l’esercito dalle città, a partire da Ramallah e Gerico, il gabinetto di Netanyahu ha affermato che non è in atto alcun ritiro dell’esercito. Ciò dopo che il giornale israeliano Haaretz il 7 aprile ha riportato di un progresso […]

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Sondaggio: per i giovani arabi, Daesh come principale minaccia nella regione

(Agenzie). Un nuovo sondaggio, condotto dall’americana Penn Schoen Berland, ha rivelato che i giovani arabi vedono l’ascesa di Daesh (ISIS) come “l’ostacolo principale nella regione”, con un aumento del 37% rispetto allo scorso anno. Allo stesso tempo, però, la maggior parte dei giovani intervistati preoccupati dalla questione sono convinti che Daesh non avrà successo nel creare un vero […]

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A Damasco, un libro diventa il migliore amico della gente

Di Marcia Lynx Qualey. Your Middle East (11/04/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina La BBC ha recentemente pubblicato un’intervista fatta ad un attivista-bibliotecario – “Ahmed” – che lavora nei sobborghi di Damasco. Il reporter della BBC ha chiesto ad Ahmed perché, in mancanza di cibo, elettricità, sicurezza a causa di bombardamenti, la gente a Damasco dovrebbe aver bisogno di una biblioteca.  […]

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Novità editoriali: “Le mie poesie più belle” di Nizar Qabbani

“Le mie poesie più belle” di Nizar Qabbani arriva finalmente nelle librerie il 28 aprile prossimo. L’auto-antologia tradotta in italiano di uno dei più grandi poeti arabi raccoglie le poesie che lui stesso definì le sue “poesie-chiave”. I 30 componimenti presenti in questa antologia propongono, infatti, i temi che furono gli argomenti principali della sua poetica: […]

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Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

                          L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

                          L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

                          L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

                          L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

                          L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano

  L’ultima tappa del tour italiano di Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio, è stata il 10 aprile 2016  alla casa della Cultura di Milano. Khalifa, oltre a essere uno scrittore interessante, si è rivelato anche un uomo molto piacevole. … Continua a leggere

Khaled Khalifa alla Casa della Cultura di Milano
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Le donne arabe in cerca dei desaparecidos

Arab women in search of the disappeared | babelmed | mediterranean cultureNella regione araba si contano centinaia di vittime di sparizioni forzate, sia durante le guerre civili che a causa di regimi dittatoriali. Per chiedere di conoscere la verità sul loro destino sono scese in piazza le donne: le mogli, le madri. Si sono trasformate in attiviste, hanno mobilitato le loro comunità e fatto pressione sui rappresentanti delle istituzioni. Le storie di questi importanti movimenti sociali in Libano, Algeria ed Egitto. (Ebticar/Mada Masr)

Egitto, Arabia Saudita e le isole di Tiran e Sanafir

Di Tallha Abdulrazaq. Middle East Eye (12/04/2016). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia. L’accordo raggiunto tra il re saudita Salman e il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi dopo la visita del monarca al Cairo ha suscitato molto malcontento. Il re ha fatto valere anni di finanziamenti sauditi allo Stato e all’economia egiziana, oltre che di sussidi […]

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Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Gent.Le Davide, la prima parte dell’articolo non propone tesi ma racconta fatti. Il racconto è certamente soggettivo ed empatico, ma il pezzo non fa mistero di questo, è tutto alla luce del sole. Scorretto sarebbe stato proporre una tesi o un’idea mascherandola, magari con parole forbite ed elucubrazioni giornalistiche. Nella seconda parte si forniscono dati, che possono pure non piacerle, ma quelli sono… Inoltre ancora una volta non maschero ciò che riporto, indicando le fonti dei numeri, mettendo i link ai video. Mi proponga qualche articolo tra quelli che le piacciono maggiormente che è altrettanto corretto e preciso nell’indicarle l’origine delle informazioni per darle la possibilità di confutarle. L’azione russa a sostegno di Asad non è una novità e non mi pare di essermene sorpreso, mi sorprende invece se sui giornali leggo che l’intervento è teso a sconfiggere l’Isis quando i russi stessi mostrano che il target principale degli obiettivi avviene in aree cosiddette ribelli. Mi sorprende anche che non si faccia menzione delle vittime civili quando è evidente dai numeri, che non si tratta di vittime collaterali. Che l’instabilità del Medio Oriente abbia come origine la debaathificazione dell’Iraq e l’incauta guerra americana non è una novità, non lo nasconde nessuno e nemmeno io, anche perchè la mia simpatia non è mai andata agli americani e alla loro politica, in qualche articolo l’ho anche scritto, ma non posso ripetermi in ogni pezzo per farla contenta. Riguardo all’empatia verso le vittime le riporto un mio virgolettato “forse questa stessa empatia eviterebbe di sventolare la bandiera del Cremlino come unica salvezza per la Siria e il Medio Oriente”; considerare la guerra e raccontarla senza guardare alle ricadute sociali ed umane è come giocare a Risiko sventolando delle bandierine. A. Savioli

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, […]

“Haiku visivi” di Felicia Fuster

FUSTER-110Per la prima volta le opere “storiche” di una delle artiste e poetesse catalane più significative della seconda metà del Novecento vengono esposte in Italia, a Torino: poesia e pittura sono due cammini inseparabili della sua personalità. “Folgorata” dalla cultura nipponica.

Fallujah e Daraya: la fame come arma di guerra

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (11/04/2016). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti. Numerose città arabe sono sotto assedio e vivono una situazione drammatica che spinge gli abitanti sull’orlo della morte per fame, in violazione dei trattati internazionali che proibiscono di usare simili strumenti come armi contro i civili. Questo succede manifestamente in Iraq e Siria, […]

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Sinai: una penisola di punti interrogativi

mcc43 Lamentos del Sinai è un’antologia dello scrittore spagnolo Max Aub ed è un capolavoro della “poetica del falso”, dello scivolamento della realtà nell’irrealtà, con la sovrapposizione di maschere a personaggi veri o il cambio di coordinate di accadimenti concreti. Aub scriveva negli anni ’80. Ora potrebbe aggiungere un altro capitolo e ancora mettere in bocca […]

Sinai: una penisola di punti interrogativi

mcc43 Lamentos del Sinai è un’antologia dello scrittore spagnolo Max Aub ed è un capolavoro della “poetica del falso”, dello scivolamento della realtà nell’irrealtà, con la sovrapposizione di maschere a personaggi veri o il cambio di coordinate di accadimenti concreti. Aub scriveva negli anni ’80. Ora potrebbe aggiungere un altro capitolo e ancora mettere in bocca […]

Sinai: una penisola di punti interrogativi

mcc43 Lamentos del Sinai è un’antologia dello scrittore spagnolo Max Aub ed è un capolavoro della “poetica del falso”, dello scivolamento della realtà nell’irrealtà, con la sovrapposizione di maschere a personaggi veri o il cambio di coordinate di accadimenti concreti. Aub scriveva negli anni ’80. Ora potrebbe aggiungere un altro capitolo e ancora mettere in bocca […]

Sinai: una penisola di punti interrogativi

mcc43 Lamentos del Sinai è un’antologia dello scrittore spagnolo Max Aub ed è un capolavoro della “poetica del falso”, dello scivolamento della realtà nell’irrealtà, con la sovrapposizione di maschere a personaggi veri o il cambio di coordinate di accadimenti concreti. Aub scriveva negli anni ’80. Ora potrebbe aggiungere un altro capitolo e ancora mettere in bocca […]

Sinai: una penisola di punti interrogativi

mcc43 Lamentos del Sinai è un’antologia dello scrittore spagnolo Max Aub ed è un capolavoro della “poetica del falso”, dello scivolamento della realtà nell’irrealtà, con la sovrapposizione di maschere a personaggi veri o il cambio di coordinate di accadimenti concreti. Aub scriveva negli anni ’80. Ora potrebbe aggiungere un altro capitolo e ancora mettere in bocca […]

Siria: elezioni a rischio di boicottaggio

(Agenzie). Le elezioni parlamentari, indette per oggi in Siria dal presidente Bashar al-Assad, hanno incontrato il boicottaggio dei gruppi di opposizione, che vedono le votazioni come un tentativo del leader di Damasco di legittimare il suo potere sul paese. Argomento, quello del futuro di Assad, che è anche al centro della seconda sessione dei negoziati […]

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“Storia di un jihadista” di Franco Rizzi

Qual è la molla che scatta nel cuore e nella mente di migliaia di ragazzi arabi e non e che li conduce ad abbracciare la causa jihadista? È un interrogativo che negli ultimi tempi si è fatto sempre più frequente nell’opinione pubblica occidentale e che ha portato studiosi e osservatori del mondo islamico ad affrontare […]

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Formidable

Mantova 2014 (Festival della letteratura) alla cena del Comitato locale di Emergency. Foto di Maso Notarianni

Formidable

Mantova 2014 (Festival della letteratura) alla cena del Comitato locale di Emergency. Foto di Maso Notarianni

Addio a Sghaier Ouled Ahmed

La settimana scorsa si è spento a 61 anni il poeta tunisino Sghaier Ouled Ahmed, figura di spicco della cultura tunisina contemporanea. Poco conosciuto nel nostro paese, in cui era stato invitato diverse volte, in particolare dopo la rivoluzione tunisina, della sua ricca produzione in italiano è stata tradotta una sola raccolta, credo difficilmente reperibile … Continua a leggere Addio a Sghaier Ouled Ahmed

Ritratto di un islamofobo

Di Fawzia Zouari. Jeune Afrique (11/04/2016). Traduzione e sintesi di Laura Giacobbo. Come denunciare l’islamismo senza cadere nell’islamofobia? Questa è la domanda che agita oggi la Francia e perfino l’Europa nel suo complesso. Io dico, il modo più semplice è di tracciare il profilo dell’islamofobo e del suo opposto. Si potrebbe sostenere che: l’islamofobo è colui […]

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Balkans&Beyond, storie di un paese che non esiste più

balk110L’ebook, ideato da Cafèbabel Berlino, ha come filo conduttore la domanda “Che cosa è successo ai Balcani dopo la perdita della sua identità yugoslava?”. Vi hanno risposto giovani giornalisti, fotografi e reporter da Serbia, Croazia, Bosnia, Slovenia, Montenegro, Macedonia e Kosovo. Presentato al Centre Marc Bloch di Berlino e al Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia.

I sarti di Daesh

Di Miguel González e Patricia Ortega Dolz. El País (11/04/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Daesh (ISIS) non è solo un gruppo terrorista, è un protostato, come lo ha definito il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuer García-Margallo. Quindi, oltre a reclutarli, i suoi combattenti hanno bisogno di armi e indumenti che li facciano sembrare membri di […]

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La Siria e le sue linee rosse

Di Ola Abbas. Al-Araby al-Jadeed (11/04/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. La Siria degli ultimi cinque anni potrebbe essere raccontata in mille modi e da altrettanti punti di vista. Potremmo, ad esempio, narrare gli ultimi avvenimenti nel paese con riferimento all’interferenza politica estera o alla penetrazione militare esterna e, in tal caso, il racconto […]

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Israele-Palestina. Decostruire l’economia di occupazione

Il sistema economico sul quale si fonda l’occupazione della Palestina è radicato nel neo-liberalismo, nella frammentazione della solidarietà sociale e di classe e nella collusione tra gli interessi dei capitalisti e una classe politica che ne ha bisogno per restare al potere. Ma in cosa consiste l’economia dell’occupazione e a chi conviene? 

 

 

11 Aprile 2016
di: 
Violetta Ubertalli*

Israele-Palestina. Decostruire l’economia di occupazione

Il sistema economico sul quale si fonda l’occupazione della Palestina è radicato nel neo-liberalismo, nella frammentazione della solidarietà sociale e di classe e nella collusione tra gli interessi dei capitalisti e una classe politica che ne ha bisogno per restare al potere. Ma in cosa consiste l’economia dell’occupazione e a chi conviene? 

 

 

11 Aprile 2016
di: 
Violetta Ubertalli*

Israele-Palestina. Decostruire l’economia di occupazione

Il sistema economico sul quale si fonda l’occupazione della Palestina è radicato nel neo-liberalismo, nella frammentazione della solidarietà sociale e di classe e nella collusione tra gli interessi dei capitalisti e una classe politica che ne ha bisogno per restare al potere. Ma in cosa consiste l’economia dell’occupazione e a chi conviene? 

 

 

11 Aprile 2016
di: 
Violetta Ubertalli*

Israele-Palestina. Decostruire l’economia di occupazione

Il sistema economico sul quale si fonda l’occupazione della Palestina è radicato nel neo-liberalismo, nella frammentazione della solidarietà sociale e di classe e nella collusione tra gli interessi dei capitalisti e una classe politica che ne ha bisogno per restare al potere. Ma in cosa consiste l’economia dell’occupazione e a chi conviene? 

 

 

11 Aprile 2016
di: 
Violetta Ubertalli*

Oltre la morte di Giulio Regeni

regeni 110Ancora non si sa chi ha ucciso Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano trovato morto al Cairo all’inizio di febbraio con evidenti tracce di tortura. E mentre tra il governo italiano e quello egiziano si è innescato un braccio di ferro per conoscere la verità, questo delitto conferma e amplifica il grido di allarme lanciato da attivisti e associazioni che da tempo denunciano le violazioni dei diritti umani commesse dal regime di Al-Sisi.

Arabia Saudita ed Egitto: una scommessa difficile

L’opinione di al-Quds (08/04/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo L’incontro tra il re saudita, Salman Bin Abdul Aziz, e il presidente egiziano, Abdel Fattah El Sisi, ha portato a un cambio di rotta nelle relazioni tra i due Paesi. Malgrado l’attuale governo del Cairo sia formato da membri dell’esercito e degli apparati di sicurezza egiziani, […]

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Marocco: compagnia EAU installerà pannelli solari in zone rurali

Al Huffington Post Maghreb (10/04/2016). Masdar, la società di energia rinnovabile con sede ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, ha lanciato il suo progetto di elettrificazione delle zone rurali del Marocco, come aveva annunciato nel marzo 2015. Fino ad oggi, 9.000 dei 17.670 sistemi solari sono stati forniti a 940 villaggi e sono già stati […]

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Daraty: la piattaforma di e-learning per bambini arabi

Barakabits (10/04/2016). Il Medio Oriente si sta facendo strada nel mondo dell’e-learning, lentamente ma inesorabilmente. Dal momento che alcune aree del Medio Oriente si sono specializzate nel campo dell’istruzione, la tecnologia sta svolgendo un ruolo importante nell’inserire il tutto online. Ciononostante, in alcune di queste aree è ancora difficile la diffusione dell’e-learning a causa della limitata accessibilità alle risorse necessarie. In Siria, Daraty […]

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Ci sono lati positivi nel colonialismo?

Di Ahmad Al-Hinaki. Al-Hayat (09/04/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone Dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli americani, nel 2003, le opinioni di analisti politici, pensatori, religiosi, nazionalisti, giornalisti, giuristi e semplici cittadini si sono divise circa la legittimità di questo attacco, le sue giustificazioni e la sua effettiva utilità. Tali divisioni si sono […]

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Caso Regeni. Privacy e tortura

Privacy. Inviolabile. Fa una strana impressione leggere le indiscrezioni sul lungo (e infruttuoso) incontro tra i magistrati inquirenti italiani e i magistrati egiziani a Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Privacy inviolabile: i  magistrati egiziani avrebbero addotto questa giustificazione per evitare di consegnare i tabulati telefonici richiesti. Privacy inviolabile: per chi è stato per un po’Read more

Caso Regeni. Privacy e tortura

Privacy. Inviolabile. Fa una strana impressione leggere le indiscrezioni sul lungo (e infruttuoso) incontro tra i magistrati inquirenti italiani e i magistrati egiziani a Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Privacy inviolabile: i  magistrati egiziani avrebbero addotto questa giustificazione per evitare di consegnare i tabulati telefonici richiesti. Privacy inviolabile: per chi è stato per un po’Read more

Caso Regeni. Privacy e tortura

Privacy. Inviolabile. Fa una strana impressione leggere le indiscrezioni sul lungo (e infruttuoso) incontro tra i magistrati inquirenti italiani e i magistrati egiziani a Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Privacy inviolabile: i  magistrati egiziani avrebbero addotto questa giustificazione per evitare di consegnare i tabulati telefonici richiesti. Privacy inviolabile: per chi è stato per un po’Read more

Caso Regeni. Privacy e tortura

Privacy. Inviolabile. Fa una strana impressione leggere le indiscrezioni sul lungo (e infruttuoso) incontro tra i magistrati inquirenti italiani e i magistrati egiziani a Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Privacy inviolabile: i  magistrati egiziani avrebbero addotto questa giustificazione per evitare di consegnare i tabulati telefonici richiesti. Privacy inviolabile: per chi è stato per un po’Read more

Caso Regeni. Privacy e tortura

Privacy. Inviolabile. Fa una strana impressione leggere le indiscrezioni sul lungo (e infruttuoso) incontro tra i magistrati inquirenti italiani e i magistrati egiziani a Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Privacy inviolabile: i  magistrati egiziani avrebbero addotto questa giustificazione per evitare di consegnare i tabulati telefonici richiesti. Privacy inviolabile: per chi è stato per un po’Read more

Il Mar Rosso e le isole di un accordo precipitoso, fra Sisi e Salman

mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

Il Mar Rosso e le isole di un accordo precipitoso, fra Sisi e Salman

mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

Il Mar Rosso e le isole di un accordo precipitoso, fra Sisi e Salman

mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

Il Mar Rosso e le isole di un accordo precipitoso, fra Sisi e Salman

mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

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mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

Il Mar Rosso e le isole di un accordo precipitoso, fra Sisi e Salman

mcc43 Non è stata una visita secondo il consueto protocollo. Re Salman in Egitto si è fermato più dei due giorni canonici e, oltre al faccia a faccia con Sisi, ha avuto un abboccamento con Pope Tavadros; è la prima volta che un re saudita che va personalmente a omaggiare la massima autorità religiosa copta. Tra […]

Le donne dei Paesi del Golfo come negoziatrici di pace

Di Samar Fatany. Al-Arabiya (09/04/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. I conflitti e la crisi politica della regione araba stanno rendono ancora più difficile coinvolgere le donne nella vita sociale e politica dei vari Stati, perché esse si trovano ad essere in prima linea ad affrontare le minacce dei conflitti e delle attività terroristiche. […]

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Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

“Non proporrò tesi ed idee personali” insieme al fatto che bisogna evitare l’empatia verso le vittime… la prima parte dell’articolo parla dell’una e la seconda parte dell’altra cosa (forse non era il caso di fare quelle premesse, a questo punto). Detto ciò l’atteggiamento russo (così come quello americano) non sono una novità e le dinamiche del “chi arma chi” sono abbastanza chiare. Non vedo perché, dopo anni passati ad armare ribelli e terroristi da parte degli USA, ci si sorprende tanto delle azioni russe in favore di Asad. Ah e per la cronaca (visto che di fatti si parla, e non di opinioni personali) diciamo che l’Isis (o, meglio, il Daesh) lo hanno creato gli americani con la debaathificazinne dell’Iraq e non i russi, altrimenti si rischia di diventare faziosi.

Algeria: negato il visto a Le Monde per i “Panama Papers”

(Agenzie). Il giornale Le Monde non potrà seguire la visita di Manuel Valls in Algeria, sabato 9 e domenica 10 aprile in Algeria. Il governo locale ha rifiutato di concedere il visto ad un giornalista del quotidiano francese per coprire il viaggio. Thomas Wieder, capo redazione di Le Monde, ha commentato la decisione parlando di “rappresaglia per la […]

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L’eccezione tunisina alla prova di Daech

Héla Yousfi Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daech), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane. Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere […]

L’eccezione tunisina alla prova di Daech

Héla Yousfi Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daech), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane. Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere […]

L’eccezione tunisina alla prova di Daech

Héla Yousfi Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daech), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane. Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere […]

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Héla Yousfi Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daech), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane. Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere […]

L’eccezione tunisina alla prova di Daech

Héla Yousfi Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daech), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane. Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere […]

Ritorno volontario assistito

Aumenta sempre più il numero di iracheni che dopo aver intrapreso un lunghissimo viaggio verso l’Europa decidono di tornare a casa. La maggior parte di loro con l’aiuto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Molti sono delusi e hanno speso i loro risparmi per pagare i trafficanti, ma non tutti rimpiangono di aver tentato questa odissea. […]

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Libia: tre Governi, l’Isis e altro

mcc43 Dopo la creazione a tavolino del GNA, Governo di Accordo Nazionale, da parte dell’Onu nel mese di dicembre, mai votato dalle due assemblee in carica – il GNC di Tripoli e l’Hor di Tobruk –  e dopo che Ban ki Moon ha incontrato il premier designato  Fayez al-Serraj in Tunisia per indurlo a trasferire il governo […]

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mcc43 Dopo la creazione a tavolino del GNA, Governo di Accordo Nazionale, da parte dell’Onu nel mese di dicembre, mai votato dalle due assemblee in carica – il GNC di Tripoli e l’Hor di Tobruk –  e dopo che Ban ki Moon ha incontrato il premier designato  Fayez al-Serraj in Tunisia per indurlo a trasferire il governo […]

Libia: tre Governi, l’Isis e altro

mcc43 Dopo la creazione a tavolino del GNA, Governo di Accordo Nazionale, da parte dell’Onu nel mese di dicembre, mai votato dalle due assemblee in carica – il GNC di Tripoli e l’Hor di Tobruk –  e dopo che Ban ki Moon ha incontrato il premier designato  Fayez al-Serraj in Tunisia per indurlo a trasferire il governo […]

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mcc43 Dopo la creazione a tavolino del GNA, Governo di Accordo Nazionale, da parte dell’Onu nel mese di dicembre, mai votato dalle due assemblee in carica – il GNC di Tripoli e l’Hor di Tobruk –  e dopo che Ban ki Moon ha incontrato il premier designato  Fayez al-Serraj in Tunisia per indurlo a trasferire il governo […]

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Turchia: ottimismo sulla riconciliazione con Israele

Assafir (9/04/2016). “Notevoli progressi sulla normalizzazione delle relazioni con Israele”. Così è stato dichiarato dal ministero degli Esteri turco dopo l’ultimo incontro tra le delegazioni dei due paesi nella capitale britannica Londra. Il ministero turco ha sottolineato che l’accordo sarà completato nel corso della riunione che si terrà «molto presto». Dalla parte israeliana nessun commento […]

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Il circolo vizioso infinito in cui si trova la Libia

Di Theodore Karasik. Al-Arabiya (06/04/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri Mentre il governo di accordo nazionale libico tenta di stabilirsi a Tripoli, la Libia continua a vacillare tra una crisi e l’altra. Dopo il fallimentare duplice governo costituito dal Consiglio generale nazionale (GNC) a Tripoli (Tripolitania) e dalla Casa dei rappresentanti a Tobruk (Cirenaica), si […]

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Libri consigliati: Battiston su Daesh

Venerdì 1 aprile è uscito per l’Espresso un ebook di Giuliano Battiston: “Stato islamico. La vera storia”. 

La genesi, i protagonisti, l’ideologia, la strategia militare, la governance dei territori, la propaganda, le finanze, i foreign fighters. Un viaggio dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Egitto alla Siria, dal Pakistan alla valle del Pankisi, passando per il cuore dell’Europa. Il racconto dall’interno delle ragioni che hanno portato alla nascita e all’affermazione del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, dentro la storia più ampia del jihadismo contemporaneo.

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Libri consigliati: Battiston su Daesh

Venerdì 1 aprile è uscito per l’Espresso un ebook di Giuliano Battiston: “Stato islamico. La vera storia”. 

La genesi, i protagonisti, l’ideologia, la strategia militare, la governance dei territori, la propaganda, le finanze, i foreign fighters. Un viaggio dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Egitto alla Siria, dal Pakistan alla valle del Pankisi, passando per il cuore dell’Europa. Il racconto dall’interno delle ragioni che hanno portato alla nascita e all’affermazione del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, dentro la storia più ampia del jihadismo contemporaneo.

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COPEAM e Uninettuno promuovono giovani registi da Beirut, Marrakech e Tunisi

Roma, 7 aprile 2016 – La realizzazione di un programma tv per diffondere e promuovere i lavori dei giovani registi dell’area mediterranea: è questo l’obiettivo del progetto lanciato da COPEAM, la Conferenza Permanente dell’Audiovisivo Mediterraneo, dall’Università Telematica Internazionale Uninettuno di Roma e dalle scuole di cinema ALBA (con sede a Beirut), ESAV (Marrakech) e ESAC […]

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Intesa Mosca-Washington sulla Siria: la tregua non porta alla soluzione

Di Wasfi al-Amin. As-safir (06/04/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. La crisi siriana è entrata in una nuova fase: aumentano gli obiettivi, le divergenze e la confusione, in mezzo alle incertezze del post-Obama e la Russia che cerca di dirigersi verso una soluzione politica. Nonostante la tregua dichiarata, è noto a tutti che qualsiasi […]

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Iraq: le posizioni politiche sul nuovo governo di tecnocrati

Di Osama Mahdi. Elaph (06/04/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Stando a quanto dichiarato da una fonte irachena, in Iraq diversi blocchi politici – come l’Alleanza del Kurdistan, il blocco sunnita iracheno e l’Alleanza Nazionale sciita – hanno bocciato la maggior parte dei candidati al governo di tecnocrati presentati al parlamento dal primo ministro Haidar […]

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In Asia il primato della pena capitale

«Iran, Pakistan e Arabia Saudita hanno fatto un uso senza precedenti della pena di morte, spesso al termine di processi gravemente irregolari. Questo massacro deve cessare. Per fortuna, gli Stati che continuano a eseguire condanne a morte sono una piccola e sempre più isolata minoranza. La maggior parte ha voltato le spalle alla pena di morte e nel 2015 altri quattro Paesi hanno abolito del tutto questa barbara sanzione dai loro codici». Nelle parole di Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. c’è tutto il contenuto del rapporto dell’organizzazione internazionale sulla pena di morte nel mondo durante il 2015. Luci e ombre. La maggior parte delle quali sta in Asia.

Secondo AI, il 2015 ha registrato il più alto numero di esecuzioni da oltre 25 anni e tre Paesi (Iran, Pakistan e Arabia Saudita) sono stati responsabili di quasi il 90 per cento delle esecuzioni note. Note, perché il grande assassino di Stato è la Cina che però non fa filtrare dati dal momento che quelli sulle esecuzioni sono segreto di Stato. Queste le ombre. La luce dice invece che per la prima volta, con le quattro abrogazioni del 2015 (Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname), la maggior parte dei Paesi del pianeta risulta abolizionista per tutti i reati. E’ una buona notizia che solo in parte redime un bilancio che fa i conti con almeno 1634 prigionieri messi a morte: oltre il doppio rispetto all’anno precedente e il più alto numero registrato da Amnesty dal 1989. Un dato che – come accennavamo – non comprende la Cina, Paese dove è probabile – dice il rapporto – che le esecuzioni siano state «migliaia».

L’Iran ha mandato a morte almeno 977 prigionieri (erano 743 nel 2014), la maggior parte dei quali per reati legati agli stupefacenti. L’Iran resta anche uno degli ultimi Paesi al mondo a eseguire condanne a morte inflitte a minorenni al momento del reato (almeno quattro nel 2015).
L’Arabia Saudita si guadagna un bel primato: le esecuzioni sono aumentate del 76% rispetto al 2014, con almeno 158 prigionieri mandati al patibolo. La maggior parte delle condanne è stata eseguita mediante decapitazione ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione e a volte i cadaveri dei giustiziati sono stati esibiti in pubblico. Una pratica pedissequamente seguita da Daesh.
Il Pakistan invece si distingue per aver abolito nel dicembre del 2014 la moratoria in vigore e ha iniziato nuovamente a impiccare: nel 2015 sono stati uccisi con la corda al collo oltre 320 prigionieri, il maggior numero mai registrato da Amnesty International. Il Pakistan, aggiungiamo noi, deve questa scelta al suo modo di combattere il terrorismo: dopo le ultime stragi islamiste, il governo non solo ha sospeso la moratoria ma ha permesso alle corti militari di comminare la pena capitale, uno strumento che il Pakistan crede possa servire a combattere la piaga jihadista. In realtà il numero di omicidi mirati (con l’aviazione o la fanteria) non è noto e, a ben vedere, andrebbe conteggiato nelle morti di Stato (stesso discorso per le esecuzioni fatte con i droni da altri Paesi, come Israele e Stati Uniti): ricercatori e reporter non possono infatti verificare cosa sta accadendo nelle aree tribali dove da due anni l’esercito porta avanti una vera e propria guerra senza quartiere ai rifugi dei jihadisti. Quante vittime civili ci siano state è dunque impossibile da determinare: secondo l’esercito addirittura, di vittime civili non ce ne sarebbe stata nessuna!

Tornando al rapporto, Amnesty International ha registrato un considerevole aumento delle esecuzioni anche in altri Paesi, tra cui Egitto e Somalia e il numero di nazioni in cui sono state eseguite condanne a morte è salito a 25 rispetto ai 22 del 2014. Almeno sei Paesi che non avevano eseguito condanne a morte nell’anno precedente lo hanno fatto nel 2015: tra questi il Ciad, dove le esecuzioni sono riprese dopo oltre un decennio. I cinque principali Paesi per numero di esecuzioni del 2015 sono stati, nell’ordine, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America e, per il settimo anno consecutivo, gli Usa sono stati gli unici a eseguire condanne a morte nel loro continente anche se le esecuzioni sono state 28, il numero più basso dal 1991, mentre le nuove condanne sono state 52, il numero più basso dal 1977, anno del ripristino della pena di morte. Lo Stato della Pennsylvania ha imposto una moratoria sulle esecuzioni e in comunque 18 Stati degli Usa sono completamente abolizionisti.

Visioni consigliate: Prima che la vita

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Il  film di Felice Pesoli PRIMA CHE LA VITA CAMBI NOI verrà proiettato allo Spazio Oberdan (Milano) in queste prossime date ed orari:
 Martedì 26 aprile (h 21.15) / Giovedì 28 aprile (h 21.15) / Domenica 1 maggio (h 19) / Martedì 3 maggio (h 19.30).

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