Mese: novembre 2016

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. La cosa che mi ha più colpito dell’intervista a Titti Brunetta è stata questa frase: “Non ho giocato, ero io con il mio animo, le mie passioni politiche, il mio impegno civile e i miei rapporti di affettività.…

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. La cosa che mi ha più colpito dell’intervista a Titti Brunetta è stata questa frase: “Non ho giocato, ero io con il mio animo, le mie passioni politiche, il mio impegno civile e i miei rapporti di affettività.…

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani

di Lorenzo Declich e Anatole Pierra Fuksas

Lorenzo. La cosa che mi ha più colpito dell’intervista a Titti Brunetta è stata questa frase: “Non ho giocato, ero io con il mio animo, le mie passioni politiche, il mio impegno civile e i miei rapporti di affettività.…

Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

La guerra fredda tra Kabul e Islamabad

Il generale Qamar Javed Bajwa ha preso il posto del generale Raheel Sharif a capo delle forze armate pachistane in un momento di grandi tensioni con India e Afghanistan. Prende il comando dopo l’ultima querelle tra Kabul e Islamabad che riguarda il recente attacco del gruppo settario pachistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta il 25 ottobre scorso con un bilancio di oltre sessanta morti. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pachistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo Islamabad, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare a negoziare il governo d Ashraf Ghani coi talebani di mullah Akhundzada. Come abbiamo visto c’è un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan/ Ttp), che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader.

Il negoziato coi talebani (il governo ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyaar) avrebbero però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan. Insomma c’erano tutti tranne i pachistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale in Pakistan (mullah Salam Hanifi e mullah Jan Mohammed, già ministri dell’emirato di Omar, con maulvi Shahabuddin Dilawar, ex ambasciatore talebano) per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito non è chiaro né è chiaro cosa riserverà il futuro. Lo spiraglio è ancora debole e compromesso da troppe frizioni, interrogativi, tensioni. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha prima di dimettersi dall’incarico per contrasti con Mansur. Tayyeb Aga scrive al capo talebano che dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Aga chiede alla leadership, che rimprovera di stare per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. “All the mujahedin fighters should be ordered to cease killing our opponents inside mosques and stop killing prisoners… Stop killing people under suspicion traveling on roads. Stop bombing bridges, roads, and other similar places. Stop killing aid and construction workers who are helping our nation and building our homeland” (la traduzione inglese dal pashto è di Radio Free Europe). La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: “It is imperative to stop the flow of non-Afghan fighters and control their activities”. Ce n’è per lo Stato islamico ma anche per ceceni o uzbeki e anche per i talebani pachistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: Unama, la missione Onu a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002 (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel 2009 i morti erano stati 2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati 9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 quest’anno.

A questo quadro si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.

La guerra fredda tra Kabul e Islamabad

Il generale Qamar Javed Bajwa ha preso il posto del generale Raheel Sharif a capo delle forze armate pachistane in un momento di grandi tensioni con India e Afghanistan. Prende il comando dopo l’ultima querelle tra Kabul e Islamabad che riguarda il recente attacco del gruppo settario pachistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta il 25 ottobre scorso con un bilancio di oltre sessanta morti. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pachistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo Islamabad, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare a negoziare il governo d Ashraf Ghani coi talebani di mullah Akhundzada. Come abbiamo visto c’è un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan/ Ttp), che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader.

Il negoziato coi talebani (il governo ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyaar) avrebbero però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan. Insomma c’erano tutti tranne i pachistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale in Pakistan (mullah Salam Hanifi e mullah Jan Mohammed, già ministri dell’emirato di Omar, con maulvi Shahabuddin Dilawar, ex ambasciatore talebano) per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito non è chiaro né è chiaro cosa riserverà il futuro. Lo spiraglio è ancora debole e compromesso da troppe frizioni, interrogativi, tensioni. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha prima di dimettersi dall’incarico per contrasti con Mansur. Tayyeb Aga scrive al capo talebano che dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Aga chiede alla leadership, che rimprovera di stare per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. “All the mujahedin fighters should be ordered to cease killing our opponents inside mosques and stop killing prisoners… Stop killing people under suspicion traveling on roads. Stop bombing bridges, roads, and other similar places. Stop killing aid and construction workers who are helping our nation and building our homeland” (la traduzione inglese dal pashto è di Radio Free Europe). La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: “It is imperative to stop the flow of non-Afghan fighters and control their activities”. Ce n’è per lo Stato islamico ma anche per ceceni o uzbeki e anche per i talebani pachistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: Unama, la missione Onu a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002 (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel 2009 i morti erano stati 2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati 9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 quest’anno.

A questo quadro si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.

La guerra fredda tra Kabul e Islamabad

Il generale Qamar Javed Bajwa ha preso il posto del generale Raheel Sharif a capo delle forze armate pachistane in un momento di grandi tensioni con India e Afghanistan. Prende il comando dopo l’ultima querelle tra Kabul e Islamabad che riguarda il recente attacco del gruppo settario pachistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta il 25 ottobre scorso con un bilancio di oltre sessanta morti. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pachistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo Islamabad, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare a negoziare il governo d Ashraf Ghani coi talebani di mullah Akhundzada. Come abbiamo visto c’è un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan/ Ttp), che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader.

Il negoziato coi talebani (il governo ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyaar) avrebbero però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan. Insomma c’erano tutti tranne i pachistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale in Pakistan (mullah Salam Hanifi e mullah Jan Mohammed, già ministri dell’emirato di Omar, con maulvi Shahabuddin Dilawar, ex ambasciatore talebano) per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito non è chiaro né è chiaro cosa riserverà il futuro. Lo spiraglio è ancora debole e compromesso da troppe frizioni, interrogativi, tensioni. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha prima di dimettersi dall’incarico per contrasti con Mansur. Tayyeb Aga scrive al capo talebano che dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Aga chiede alla leadership, che rimprovera di stare per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. “All the mujahedin fighters should be ordered to cease killing our opponents inside mosques and stop killing prisoners… Stop killing people under suspicion traveling on roads. Stop bombing bridges, roads, and other similar places. Stop killing aid and construction workers who are helping our nation and building our homeland” (la traduzione inglese dal pashto è di Radio Free Europe). La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: “It is imperative to stop the flow of non-Afghan fighters and control their activities”. Ce n’è per lo Stato islamico ma anche per ceceni o uzbeki e anche per i talebani pachistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: Unama, la missione Onu a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002 (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel 2009 i morti erano stati 2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati 9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 quest’anno.

A questo quadro si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.

La guerra fredda tra Kabul e Islamabad

Il generale Qamar Javed Bajwa ha preso il posto del generale Raheel Sharif a capo delle forze armate pachistane in un momento di grandi tensioni con India e Afghanistan. Prende il comando dopo l’ultima querelle tra Kabul e Islamabad che riguarda il recente attacco del gruppo settario pachistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta il 25 ottobre scorso con un bilancio di oltre sessanta morti. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pachistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo Islamabad, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare a negoziare il governo d Ashraf Ghani coi talebani di mullah Akhundzada. Come abbiamo visto c’è un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan/ Ttp), che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader.

Il negoziato coi talebani (il governo ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyaar) avrebbero però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan. Insomma c’erano tutti tranne i pachistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale in Pakistan (mullah Salam Hanifi e mullah Jan Mohammed, già ministri dell’emirato di Omar, con maulvi Shahabuddin Dilawar, ex ambasciatore talebano) per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito non è chiaro né è chiaro cosa riserverà il futuro. Lo spiraglio è ancora debole e compromesso da troppe frizioni, interrogativi, tensioni. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha prima di dimettersi dall’incarico per contrasti con Mansur. Tayyeb Aga scrive al capo talebano che dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Aga chiede alla leadership, che rimprovera di stare per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. “All the mujahedin fighters should be ordered to cease killing our opponents inside mosques and stop killing prisoners… Stop killing people under suspicion traveling on roads. Stop bombing bridges, roads, and other similar places. Stop killing aid and construction workers who are helping our nation and building our homeland” (la traduzione inglese dal pashto è di Radio Free Europe). La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: “It is imperative to stop the flow of non-Afghan fighters and control their activities”. Ce n’è per lo Stato islamico ma anche per ceceni o uzbeki e anche per i talebani pachistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: Unama, la missione Onu a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002 (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel 2009 i morti erano stati 2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati 9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 quest’anno.

A questo quadro si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.

La guerra fredda tra Kabul e Islamabad

Il generale Qamar Javed Bajwa ha preso il posto del generale Raheel Sharif a capo delle forze armate pachistane in un momento di grandi tensioni con India e Afghanistan. Prende il comando dopo l’ultima querelle tra Kabul e Islamabad che riguarda il recente attacco del gruppo settario pachistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta il 25 ottobre scorso con un bilancio di oltre sessanta morti. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pachistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo Islamabad, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare a negoziare il governo d Ashraf Ghani coi talebani di mullah Akhundzada. Come abbiamo visto c’è un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan/ Ttp), che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader.

Il negoziato coi talebani (il governo ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyaar) avrebbero però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan. Insomma c’erano tutti tranne i pachistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale in Pakistan (mullah Salam Hanifi e mullah Jan Mohammed, già ministri dell’emirato di Omar, con maulvi Shahabuddin Dilawar, ex ambasciatore talebano) per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito non è chiaro né è chiaro cosa riserverà il futuro. Lo spiraglio è ancora debole e compromesso da troppe frizioni, interrogativi, tensioni. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha prima di dimettersi dall’incarico per contrasti con Mansur. Tayyeb Aga scrive al capo talebano che dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Aga chiede alla leadership, che rimprovera di stare per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. “All the mujahedin fighters should be ordered to cease killing our opponents inside mosques and stop killing prisoners… Stop killing people under suspicion traveling on roads. Stop bombing bridges, roads, and other similar places. Stop killing aid and construction workers who are helping our nation and building our homeland” (la traduzione inglese dal pashto è di Radio Free Europe). La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: “It is imperative to stop the flow of non-Afghan fighters and control their activities”. Ce n’è per lo Stato islamico ma anche per ceceni o uzbeki e anche per i talebani pachistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: Unama, la missione Onu a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002 (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel 2009 i morti erano stati 2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati 9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 quest’anno.

A questo quadro si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

In Israele non esiste status di rifugiato. Gli immigrati sono classificati “infiltrati”

mcc43 da International Business Time   di Andrea Spinelli Barrile Immigrazione: il modello israeliano di rimpatri e reinsediamenti produce solo disperazione “” È ad esempio la storia, raccontata da Al-Jazeera, di Musgun Gebar: quattro anni fa è partito dall’Eritrea ed ha attraversato, a piedi, il deserto del Sahara e l’altopiano del Sinai, prima di arrivare in Israele. […]

Ho un’ape (marocchina) per la testa

La città marocchina dalle montagne
sotto il video del progetto Coobeeration

Chefchaouen è una città del Marocco famosa per la sua medina – la città vecchia – motivo per il quale è diventata nel 2010 un patrimonio dell’umanità. La cosa è stata possibile attraverso un passaggio singolare ossia la presenza di questa città, che ha un sindaco abile quanto attivo e simpatico, nel percorso della Dieta mediterranea della quale questo villaggione marocchino
rappresenta uno dei fulcri meridionali. Ma da qualche giorno la città si è impegnata – nella persona del suo sindaco, Mohammed Sefiani – a essere la prima città marocchina “amica delle api”. Non solo: si è anche impegnata a coinvolgere due associazioni tra città marocchine di cui ha la presidenza, sia a livello provinciale sia a livello nazionale, perché ancor più municipalità del regno diventino “amiche delle api”. L’occasione è stato il Forum degli apicultori del Mediterraneo, organizzato in Marocco dall’Associazione ApiMed, a pochi giorni dalle conclusioni di COOP22. Al Forum hanno partecipato 200 delegati che rappresentano i diversi Paesi aderenti all’associazione transnazionale (Marocco, Italia, Francia, Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Algeria, Libano, Tunisia) con università e centri di ricerca, enti locali, organizzazioni internazionali (Undp) e attori di cooperazione oltre a moltissimi apicoltori soprattutto marocchini.
Dal Forum è uscito anche molto altro: una vera sorpresa per chi, come me, mangia volentieri il miele ma ne sa davvero poco.

Intanto un concorso internazionale tra tutti gli apicoltori del Mediterraneo che selezioni il miglior miele prodotto sulle rive del mare che abbracci Europa, Africa e Medio Oriente. E poi una giornata di sensibilizzazione su apicoltura, biodiversità e sicurezza alimentare in tutte le città aderenti all’iniziativa “Comuni amici delle api”. “L’idea – mi spiega Vincenzo Panettieri Presidente di ApiMed – parte dal rilancio della Carta dei mieli del Mediterraneo approvata l’anno scorso a Tunisi. Il concorso infatti vuole mettere alla prova la qualità e gli standerd degli apicoltori mediterranei, varcando i confini nazionali ed entrando in contatto con una realtà produttiva più ampia”. Tuti collaboreranno per determinare il vincitore. Dai laboratori tunisini alle università italiane, ai centri di ricerca di Grecia o Marocco. Lucia Maddoli, di FELCOS (il fondo dei comuni umbri per la cooperazione) e coordinatrice del progetto Mediterranean CooBEEration, aggiunge che però “è anche importante creare per la prossima primavera una giornata internazionale di informazione ai cittadini per spiegare il valore dell’apicoltura come bene comune e perché l’ape è un alleato fondamentale per la difesa della biodiversità”.

In effetti sul reale valore delle api come attori primari della biodiversità sappiamo poco. Eppure si stima che l’impollinazione delle specie vegetali – di cui l’ape garantisce la continuità nella riproduzione – equivalga, in termini alimentari, a un terzo di quanto arriva sulle nostre tavole. ApiMed rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e decine di migliaia di apicoltori che producono un miele che rispetta standard definiti in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiani. Ma non c’è solo un obiettivo “produttivo”. Qualcuno al Forum ha fatto notare che le api che hanno le loro arnie a Gerusalemme o nei Territori occupati di Palestina, si fanno un baffo del muro. Fanno il loro lavoro in nome del miele e, senza saperlo, di un mondo senza confini.

Ho un’ape (marocchina) per la testa

La città marocchina dalle montagne
sotto il video del progetto Coobeeration

Chefchaouen è una città del Marocco famosa per la sua medina – la città vecchia – motivo per il quale è diventata nel 2010 un patrimonio dell’umanità. La cosa è stata possibile attraverso un passaggio singolare ossia la presenza di questa città, che ha un sindaco abile quanto attivo e simpatico, nel percorso della Dieta mediterranea della quale questo villaggione marocchino
rappresenta uno dei fulcri meridionali. Ma da qualche giorno la città si è impegnata – nella persona del suo sindaco, Mohammed Sefiani – a essere la prima città marocchina “amica delle api”. Non solo: si è anche impegnata a coinvolgere due associazioni tra città marocchine di cui ha la presidenza, sia a livello provinciale sia a livello nazionale, perché ancor più municipalità del regno diventino “amiche delle api”. L’occasione è stato il Forum degli apicultori del Mediterraneo, organizzato in Marocco dall’Associazione ApiMed, a pochi giorni dalle conclusioni di COOP22. Al Forum hanno partecipato 200 delegati che rappresentano i diversi Paesi aderenti all’associazione transnazionale (Marocco, Italia, Francia, Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Algeria, Libano, Tunisia) con università e centri di ricerca, enti locali, organizzazioni internazionali (Undp) e attori di cooperazione oltre a moltissimi apicoltori soprattutto marocchini.
Dal Forum è uscito anche molto altro: una vera sorpresa per chi, come me, mangia volentieri il miele ma ne sa davvero poco.

Intanto un concorso internazionale tra tutti gli apicoltori del Mediterraneo che selezioni il miglior miele prodotto sulle rive del mare che abbracci Europa, Africa e Medio Oriente. E poi una giornata di sensibilizzazione su apicoltura, biodiversità e sicurezza alimentare in tutte le città aderenti all’iniziativa “Comuni amici delle api”. “L’idea – mi spiega Vincenzo Panettieri Presidente di ApiMed – parte dal rilancio della Carta dei mieli del Mediterraneo approvata l’anno scorso a Tunisi. Il concorso infatti vuole mettere alla prova la qualità e gli standerd degli apicoltori mediterranei, varcando i confini nazionali ed entrando in contatto con una realtà produttiva più ampia”. Tuti collaboreranno per determinare il vincitore. Dai laboratori tunisini alle università italiane, ai centri di ricerca di Grecia o Marocco. Lucia Maddoli, di FELCOS (il fondo dei comuni umbri per la cooperazione) e coordinatrice del progetto Mediterranean CooBEEration, aggiunge che però “è anche importante creare per la prossima primavera una giornata internazionale di informazione ai cittadini per spiegare il valore dell’apicoltura come bene comune e perché l’ape è un alleato fondamentale per la difesa della biodiversità”.

In effetti sul reale valore delle api come attori primari della biodiversità sappiamo poco. Eppure si stima che l’impollinazione delle specie vegetali – di cui l’ape garantisce la continuità nella riproduzione – equivalga, in termini alimentari, a un terzo di quanto arriva sulle nostre tavole. ApiMed rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e decine di migliaia di apicoltori che producono un miele che rispetta standard definiti in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiani. Ma non c’è solo un obiettivo “produttivo”. Qualcuno al Forum ha fatto notare che le api che hanno le loro arnie a Gerusalemme o nei Territori occupati di Palestina, si fanno un baffo del muro. Fanno il loro lavoro in nome del miele e, senza saperlo, di un mondo senza confini.

Ho un’ape (marocchina) per la testa

La città marocchina dalle montagne
sotto il video del progetto Coobeeration

Chefchaouen è una città del Marocco famosa per la sua medina – la città vecchia – motivo per il quale è diventata nel 2010 un patrimonio dell’umanità. La cosa è stata possibile attraverso un passaggio singolare ossia la presenza di questa città, che ha un sindaco abile quanto attivo e simpatico, nel percorso della Dieta mediterranea della quale questo villaggione marocchino
rappresenta uno dei fulcri meridionali. Ma da qualche giorno la città si è impegnata – nella persona del suo sindaco, Mohammed Sefiani – a essere la prima città marocchina “amica delle api”. Non solo: si è anche impegnata a coinvolgere due associazioni tra città marocchine di cui ha la presidenza, sia a livello provinciale sia a livello nazionale, perché ancor più municipalità del regno diventino “amiche delle api”. L’occasione è stato il Forum degli apicultori del Mediterraneo, organizzato in Marocco dall’Associazione ApiMed, a pochi giorni dalle conclusioni di COOP22. Al Forum hanno partecipato 200 delegati che rappresentano i diversi Paesi aderenti all’associazione transnazionale (Marocco, Italia, Francia, Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Algeria, Libano, Tunisia) con università e centri di ricerca, enti locali, organizzazioni internazionali (Undp) e attori di cooperazione oltre a moltissimi apicoltori soprattutto marocchini.
Dal Forum è uscito anche molto altro: una vera sorpresa per chi, come me, mangia volentieri il miele ma ne sa davvero poco.

Intanto un concorso internazionale tra tutti gli apicoltori del Mediterraneo che selezioni il miglior miele prodotto sulle rive del mare che abbracci Europa, Africa e Medio Oriente. E poi una giornata di sensibilizzazione su apicoltura, biodiversità e sicurezza alimentare in tutte le città aderenti all’iniziativa “Comuni amici delle api”. “L’idea – mi spiega Vincenzo Panettieri Presidente di ApiMed – parte dal rilancio della Carta dei mieli del Mediterraneo approvata l’anno scorso a Tunisi. Il concorso infatti vuole mettere alla prova la qualità e gli standerd degli apicoltori mediterranei, varcando i confini nazionali ed entrando in contatto con una realtà produttiva più ampia”. Tuti collaboreranno per determinare il vincitore. Dai laboratori tunisini alle università italiane, ai centri di ricerca di Grecia o Marocco. Lucia Maddoli, di FELCOS (il fondo dei comuni umbri per la cooperazione) e coordinatrice del progetto Mediterranean CooBEEration, aggiunge che però “è anche importante creare per la prossima primavera una giornata internazionale di informazione ai cittadini per spiegare il valore dell’apicoltura come bene comune e perché l’ape è un alleato fondamentale per la difesa della biodiversità”.

In effetti sul reale valore delle api come attori primari della biodiversità sappiamo poco. Eppure si stima che l’impollinazione delle specie vegetali – di cui l’ape garantisce la continuità nella riproduzione – equivalga, in termini alimentari, a un terzo di quanto arriva sulle nostre tavole. ApiMed rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e decine di migliaia di apicoltori che producono un miele che rispetta standard definiti in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiani. Ma non c’è solo un obiettivo “produttivo”. Qualcuno al Forum ha fatto notare che le api che hanno le loro arnie a Gerusalemme o nei Territori occupati di Palestina, si fanno un baffo del muro. Fanno il loro lavoro in nome del miele e, senza saperlo, di un mondo senza confini.

Ho un’ape (marocchina) per la testa

La città marocchina dalle montagne
sotto il video del progetto Coobeeration

Chefchaouen è una città del Marocco famosa per la sua medina – la città vecchia – motivo per il quale è diventata nel 2010 un patrimonio dell’umanità. La cosa è stata possibile attraverso un passaggio singolare ossia la presenza di questa città, che ha un sindaco abile quanto attivo e simpatico, nel percorso della Dieta mediterranea della quale questo villaggione marocchino
rappresenta uno dei fulcri meridionali. Ma da qualche giorno la città si è impegnata – nella persona del suo sindaco, Mohammed Sefiani – a essere la prima città marocchina “amica delle api”. Non solo: si è anche impegnata a coinvolgere due associazioni tra città marocchine di cui ha la presidenza, sia a livello provinciale sia a livello nazionale, perché ancor più municipalità del regno diventino “amiche delle api”. L’occasione è stato il Forum degli apicultori del Mediterraneo, organizzato in Marocco dall’Associazione ApiMed, a pochi giorni dalle conclusioni di COOP22. Al Forum hanno partecipato 200 delegati che rappresentano i diversi Paesi aderenti all’associazione transnazionale (Marocco, Italia, Francia, Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Algeria, Libano, Tunisia) con università e centri di ricerca, enti locali, organizzazioni internazionali (Undp) e attori di cooperazione oltre a moltissimi apicoltori soprattutto marocchini.
Dal Forum è uscito anche molto altro: una vera sorpresa per chi, come me, mangia volentieri il miele ma ne sa davvero poco.

Intanto un concorso internazionale tra tutti gli apicoltori del Mediterraneo che selezioni il miglior miele prodotto sulle rive del mare che abbracci Europa, Africa e Medio Oriente. E poi una giornata di sensibilizzazione su apicoltura, biodiversità e sicurezza alimentare in tutte le città aderenti all’iniziativa “Comuni amici delle api”. “L’idea – mi spiega Vincenzo Panettieri Presidente di ApiMed – parte dal rilancio della Carta dei mieli del Mediterraneo approvata l’anno scorso a Tunisi. Il concorso infatti vuole mettere alla prova la qualità e gli standerd degli apicoltori mediterranei, varcando i confini nazionali ed entrando in contatto con una realtà produttiva più ampia”. Tuti collaboreranno per determinare il vincitore. Dai laboratori tunisini alle università italiane, ai centri di ricerca di Grecia o Marocco. Lucia Maddoli, di FELCOS (il fondo dei comuni umbri per la cooperazione) e coordinatrice del progetto Mediterranean CooBEEration, aggiunge che però “è anche importante creare per la prossima primavera una giornata internazionale di informazione ai cittadini per spiegare il valore dell’apicoltura come bene comune e perché l’ape è un alleato fondamentale per la difesa della biodiversità”.

In effetti sul reale valore delle api come attori primari della biodiversità sappiamo poco. Eppure si stima che l’impollinazione delle specie vegetali – di cui l’ape garantisce la continuità nella riproduzione – equivalga, in termini alimentari, a un terzo di quanto arriva sulle nostre tavole. ApiMed rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e decine di migliaia di apicoltori che producono un miele che rispetta standard definiti in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiani. Ma non c’è solo un obiettivo “produttivo”. Qualcuno al Forum ha fatto notare che le api che hanno le loro arnie a Gerusalemme o nei Territori occupati di Palestina, si fanno un baffo del muro. Fanno il loro lavoro in nome del miele e, senza saperlo, di un mondo senza confini.

Ho un’ape (marocchina) per la testa

La città marocchina dalle montagne
sotto il video del progetto Coobeeration

Chefchaouen è una città del Marocco famosa per la sua medina – la città vecchia – motivo per il quale è diventata nel 2010 un patrimonio dell’umanità. La cosa è stata possibile attraverso un passaggio singolare ossia la presenza di questa città, che ha un sindaco abile quanto attivo e simpatico, nel percorso della Dieta mediterranea della quale questo villaggione marocchino
rappresenta uno dei fulcri meridionali. Ma da qualche giorno la città si è impegnata – nella persona del suo sindaco, Mohammed Sefiani – a essere la prima città marocchina “amica delle api”. Non solo: si è anche impegnata a coinvolgere due associazioni tra città marocchine di cui ha la presidenza, sia a livello provinciale sia a livello nazionale, perché ancor più municipalità del regno diventino “amiche delle api”. L’occasione è stato il Forum degli apicultori del Mediterraneo, organizzato in Marocco dall’Associazione ApiMed, a pochi giorni dalle conclusioni di COOP22. Al Forum hanno partecipato 200 delegati che rappresentano i diversi Paesi aderenti all’associazione transnazionale (Marocco, Italia, Francia, Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Algeria, Libano, Tunisia) con università e centri di ricerca, enti locali, organizzazioni internazionali (Undp) e attori di cooperazione oltre a moltissimi apicoltori soprattutto marocchini.
Dal Forum è uscito anche molto altro: una vera sorpresa per chi, come me, mangia volentieri il miele ma ne sa davvero poco.

Intanto un concorso internazionale tra tutti gli apicoltori del Mediterraneo che selezioni il miglior miele prodotto sulle rive del mare che abbracci Europa, Africa e Medio Oriente. E poi una giornata di sensibilizzazione su apicoltura, biodiversità e sicurezza alimentare in tutte le città aderenti all’iniziativa “Comuni amici delle api”. “L’idea – mi spiega Vincenzo Panettieri Presidente di ApiMed – parte dal rilancio della Carta dei mieli del Mediterraneo approvata l’anno scorso a Tunisi. Il concorso infatti vuole mettere alla prova la qualità e gli standerd degli apicoltori mediterranei, varcando i confini nazionali ed entrando in contatto con una realtà produttiva più ampia”. Tuti collaboreranno per determinare il vincitore. Dai laboratori tunisini alle università italiane, ai centri di ricerca di Grecia o Marocco. Lucia Maddoli, di FELCOS (il fondo dei comuni umbri per la cooperazione) e coordinatrice del progetto Mediterranean CooBEEration, aggiunge che però “è anche importante creare per la prossima primavera una giornata internazionale di informazione ai cittadini per spiegare il valore dell’apicoltura come bene comune e perché l’ape è un alleato fondamentale per la difesa della biodiversità”.

In effetti sul reale valore delle api come attori primari della biodiversità sappiamo poco. Eppure si stima che l’impollinazione delle specie vegetali – di cui l’ape garantisce la continuità nella riproduzione – equivalga, in termini alimentari, a un terzo di quanto arriva sulle nostre tavole. ApiMed rappresenta 24 organizzazioni apistiche in 12 Paesi del Mediterraneo e decine di migliaia di apicoltori che producono un miele che rispetta standard definiti in difesa del consumatore e dell’ecosistema di cui le api sono inestimabili guardiani. Ma non c’è solo un obiettivo “produttivo”. Qualcuno al Forum ha fatto notare che le api che hanno le loro arnie a Gerusalemme o nei Territori occupati di Palestina, si fanno un baffo del muro. Fanno il loro lavoro in nome del miele e, senza saperlo, di un mondo senza confini.

L’Islam attraverso il diritto

L’Islam attraverso il diritto. La storia del diritto islamico dalle origini ai giorni nostri, in quattro Lezioni a Uomini e Profeti, Radio 3, novembre 2016.

L’Islam attraverso il diritto

L’Islam attraverso il diritto. La storia del diritto islamico dalle origini ai giorni nostri, in quattro Lezioni a Uomini e Profeti, Radio 3, novembre 2016.

L’Islam attraverso il diritto

L’Islam attraverso il diritto. La storia del diritto islamico dalle origini ai giorni nostri, in quattro Lezioni a Uomini e Profeti, Radio 3, novembre 2016.

Da «sticazzi…» a «mecojoni!»: lo spoof del complottismo e il ghost in the machine

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. So che ci eravamo ripromessi di parlare del tema forse nodale attorno al quale ruotano i ragionamenti sul consenso nell’epoca della postverità veicolata dai social media, ma non so resistere al richiamo complottistico della storia di questo account twitter intestato a una certa Beatrice di Maio, denunciata per diffamazione da Luca Lotti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, scopertosi appartenere a Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, moglie dell’ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta.…

Da «sticazzi…» a «mecojoni!»: lo spoof del complottismo e il ghost in the machine è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Da «sticazzi…» a «mecojoni!»: lo spoof del complottismo e il ghost in the machine

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. So che ci eravamo ripromessi di parlare del tema forse nodale attorno al quale ruotano i ragionamenti sul consenso nell’epoca della postverità veicolata dai social media, ma non so resistere al richiamo complottistico della storia di questo account twitter intestato a una certa Beatrice di Maio, denunciata per diffamazione da Luca Lotti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, scopertosi appartenere a Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, moglie dell’ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta.…

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Da «sticazzi…» a «mecojoni!»: lo spoof del complottismo e il ghost in the machine

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. So che ci eravamo ripromessi di parlare del tema forse nodale attorno al quale ruotano i ragionamenti sul consenso nell’epoca della postverità veicolata dai social media, ma non so resistere al richiamo complottistico della storia di questo account twitter intestato a una certa Beatrice di Maio, denunciata per diffamazione da Luca Lotti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, scopertosi appartenere a Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, moglie dell’ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta.…

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Azar Nafisi-Leggere Lolita a Teheran

Azar Nafisi è una scrittrice di origine iraniana, ha insegnato in vari atenei della capitale iraniana e nel 1997 ha deciso di trasferirsi negli stati Uniti d’America. Oggi, insegna letteratura inglese alla John Hopkins University. Il romanzo “Leggere lolita a… Continue Reading →

Siria: J. K. Rowling invia libri “Harry Potter” a una bimba di Aleppo Est

(Step Feed). Bana Alabed, una bimba siriana di 7 anni, legge per “dimenticare la guerra” ad Aleppo Est. Tramite il suo account Twitter, lanciato qualche mese fa con l’aiuto della mamma e della sua maestra, Bana parla ogni torno della situazione del suo paese per sensibilizzare il mondo di fronte le atrocità che la popolazione […]

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Cucina emiratina: lgeimat, pasta fritta in sciroppo speziato

Reso unico da uno sciroppo al sapore di zafferano, cardamomo e cannella, questo dolce è uno dei preferiti dalle famiglie emiratine durante il Ramadan. Scopriamo come preparare il lgeimat! Ingredienti: Per la pasta: 250g di farina 1 cucchiaio di zucchero 1 cucchiaio di lievito 1 cucchiaino di bicarbonato 1 uovo 150g di yogurt greco intero 125ml […]

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DOSSIER: QUESTIONI DI GENERE

DOSSIER : QUESTIONS DE GENRE | babelmed | culture méditerranéenneÈ possibile indagare le relazioni di genere tra una riva e l’altra del Mediterraneo, cogliendone qui e là le diverse declinazioni, pur senza alcuna pretesa di esaustività? È quanto cerca di fare questo dossier, i cui contenuti sono stati realizzati da 9 media digitali indipendenti: Arablog, Babelmed, Enab Baladi, Frame, Inkyfada, MadaMasr, Mashallah News, Radio M, Tunisie Bondy Blog. Si parla di lavoro con due inchieste di autogestione in altrettante fabbriche in Turchia e in Tunisia,  di esperienze professionali con il ritratto di due donne che fanno ‘mestieri da uomini’: una macellaia in Algeria e una minatrice in Sardegna. Si parla di discriminazioni e violenza contro le donne con i reportage sul femminicidio in Italia, le molestie sessuali nei media in Egitto, il divorzio in Tunisia, le lotte delle donne di Raqqa in Siria. A chiudere questo mosaico, le testimonianze di uomini che vogliono uscire dalla gabbia degli stereotipi di genere. Il dossier è stato realizzato nell’ambito del progetto Ebticar e con la collaborazione della rivista italiana Leggendaria.

DOSSIER: QUESTIONI DI GENERE

DOSSIER : QUESTIONS DE GENRE | babelmed | culture méditerranéenneÈ possibile indagare le relazioni di genere tra una riva e l’altra del Mediterraneo, cogliendone qui e là le diverse declinazioni, pur senza alcuna pretesa di esaustività? È quanto cerca di fare questo dossier, i cui contenuti sono stati realizzati da 9 media digitali indipendenti: Arablog, Babelmed, Enab Baladi, Frame, Inkyfada, MadaMasr, Mashallah News, Radio M, Tunisie Bondy Blog. Si parla di lavoro con due inchieste di autogestione in altrettante fabbriche in Turchia e in Tunisia,  di esperienze professionali con il ritratto di due donne che fanno ‘mestieri da uomini’: una macellaia in Algeria e una minatrice in Sardegna. Si parla di discriminazioni e violenza contro le donne con i reportage sul femminicidio in Italia, le molestie sessuali nei media in Egitto, il divorzio in Tunisia, le lotte delle donne di Raqqa in Siria. A chiudere questo mosaico, le testimonianze di uomini che vogliono uscire dalla gabbia degli stereotipi di genere. Il dossier è stato realizzato nell’ambito del progetto Ebticar e con la collaborazione della rivista italiana Leggendaria.

DOSSIER GENERE

DOSSIER : QUESTIONS DE GENRE | babelmed | culture méditerranéenneÈ possibile indagare le relazioni di genere tra una riva e l’altra del Mediterraneo, cogliendone qui e là le diverse declinazioni, pur senza alcuna pretesa di esaustività? È quanto cerca di fare questo dossier, i cui contenuti sono stati realizzati da 9 media digitali indipendenti: Arablog, Babelmed, Enab Baladi, Frame, Inkyfada, MadaMasr, Mashallah News, Radio M, Tunisie Bondy Blog. Si parla di lavoro con due inchieste di autogestione in altrettante fabbriche in Turchia e in Tunisia,  di esperienze professionali con il ritratto di due donne che fanno ‘mestieri da uomini’: una macellaia in Algeria e una minatrice in Sardegna. Si parla di discriminazioni e violenza contro le donne con i reportage sul femminicidio in Italia, le molestie sessuali nei media in Egitto, il divorzio in Tunisia, le lotte delle donne di Raqqa in Siria. A chiudere questo mosaico, le testimonianze di uomini che vogliono uscire dalla gabbia degli stereotipi di genere. Il dossier è stato realizzato nell’ambito del progetto Ebticar e con la collaborazione della rivista italiana Leggendaria.

Prima parliamo dell’amore

Legendaria2-110«Non partiamo mai dalla violenza con le donne che vengono a chiedere aiuto. Hanno vissuto all’interno di una relazione violenta ma hanno costruito con quell’uomo una storia, un progetto di vita, lo hanno amato, sono state amate. Il percorso con loro parte da lì». Intervista di Silvia Neonato a due operatrici di Be Free. Articolo pubblicato nel n.120/2016 di leggendaria dedicato alla violenza sulle donne. Leggendaria n.120/2016

Prima parliamo dell’amore

Legendaria2-110«Non partiamo mai dalla violenza con le donne che vengono a chiedere aiuto. Hanno vissuto all’interno di una relazione violenta ma hanno costruito con quell’uomo una storia, un progetto di vita, lo hanno amato, sono state amate. Il percorso con loro parte da lì». Intervista di Silvia Neonato a due operatrici di Be Free. Articolo pubblicato nel n.120/2016 di leggendaria dedicato alla violenza sulle donne. Leggendaria n.120/2016

Prima parliamo dell’amore

Legendaria2-110«Non partiamo mai dalla violenza con le donne che vengono a chiedere aiuto. Hanno vissuto all’interno di una relazione violenta ma hanno costruito con quell’uomo una storia, un progetto di vita, lo hanno amato, sono state amate. Il percorso con loro parte da lì». Intervista di Silvia Neonato a due operatrici di Be Free. Articolo pubblicato nel n.120/2016 di leggendaria dedicato alla violenza sulle donne. Leggendaria n.120/2016

Ora Basta !

Legendaria0-110Una grande manifestazione nazionale contro la violenza il 26 novembre a Roma: perché i femminicidi non si fermano. Le donne denunciano e lavorano sul tema da oltre 30 anni in tutto il mondo, ma le istituzioni nazionali e internazionali sono in ritardo e spesso poco efficaci. I centri italiani e la voce delle operatrici, i limiti del piano governativo, la violenza taciuta dei maschi sui maschi … A leggere in Leggendaria n. 120/2016 dedicato al Femminicidio.

Ora Basta !

Legendaria0-110Una grande manifestazione nazionale contro la violenza il 26 novembre a Roma: perché i femminicidi non si fermano. Le donne denunciano e lavorano sul tema da oltre 30 anni in tutto il mondo, ma le istituzioni nazionali e internazionali sono in ritardo e spesso poco efficaci. I centri italiani e la voce delle operatrici, i limiti del piano governativo, la violenza taciuta dei maschi sui maschi … A leggere in Leggendaria n. 120/2016 dedicato al Femminicidio.

Ora Basta !

Legendaria0-110Una grande manifestazione nazionale contro la violenza il 26 novembre a Roma: perché i femminicidi non si fermano. Le donne denunciano e lavorano sul tema da oltre 30 anni in tutto il mondo, ma le istituzioni nazionali e internazionali sono in ritardo e spesso poco efficaci. I centri italiani e la voce delle operatrici, i limiti del piano governativo, la violenza taciuta dei maschi sui maschi … A leggere in Leggendaria n. 120/2016 dedicato al Femminicidio.

L’umorismo degli afgani ovvero quel che nemmeno la guerra riesce a uccidere

Per promuovere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) tra la gioventù afgana,
l’Undp di Kabul ha pensato di indire un festival di aquiloni.  La cosa divertente, visto che per errore la mail è stata mandata in copia visibile a tutti, è che qualcuno ha commentato con ironia. E non sembra che l’inizio. Ecco la suggestione della prima risposta all’invito, cui già  ne son seguite altre:

Hi UNDP with 50 years of experience in development,
Could you please explain the relations between Sustainable Development Goals and kite running and that how you made such an excellent  scientific developmental discovery to promote sustainable development goals among the young generation through kite running?! Kite running festival becomes so cliche in Afghanistan. I recommend you guys to  hold a festival of “ tushla” in Afghanistan. Tushla is more nostalgic for us and we love it more than kite running. I promise to come to your Tushla bazi festival.

Direi che la traduzione non serve ma bisogna dire cos’è un torneo di Tushla Bazi, cosa che faccio fare a un fotografo afgano, Nasim Fekrat. A voi lascio la risata dopo aver aperto il link  e ripescato nella vostra memoria anche un’italica usanza….


L’umorismo degli afgani ovvero quel che nemmeno la guerra riesce a uccidere

Per promuovere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) tra la gioventù afgana,
l’Undp di Kabul ha pensato di indire un festival di aquiloni.  La cosa divertente, visto che per errore la mail è stata mandata in copia visibile a tutti, è che qualcuno ha commentato con ironia. E non sembra che l’inizio. Ecco la suggestione della prima risposta all’invito, cui già  ne son seguite altre:

Hi UNDP with 50 years of experience in development,
Could you please explain the relations between Sustainable Development Goals and kite running and that how you made such an excellent  scientific developmental discovery to promote sustainable development goals among the young generation through kite running?! Kite running festival becomes so cliche in Afghanistan. I recommend you guys to  hold a festival of “ tushla” in Afghanistan. Tushla is more nostalgic for us and we love it more than kite running. I promise to come to your Tushla bazi festival.

Direi che la traduzione non serve ma bisogna dire cos’è un torneo di Tushla Bazi, cosa che faccio fare a un fotografo afgano, Nasim Fekrat. A voi lascio la risata dopo aver aperto il link  e ripescato nella vostra memoria anche un’italica usanza….


L’umorismo degli afgani ovvero quel che nemmeno la guerra riesce a uccidere

Per promuovere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) tra la gioventù afgana,
l’Undp di Kabul ha pensato di indire un festival di aquiloni.  La cosa divertente, visto che per errore la mail è stata mandata in copia visibile a tutti, è che qualcuno ha commentato con ironia. E non sembra che l’inizio. Ecco la suggestione della prima risposta all’invito, cui già  ne son seguite altre:

Hi UNDP with 50 years of experience in development,
Could you please explain the relations between Sustainable Development Goals and kite running and that how you made such an excellent  scientific developmental discovery to promote sustainable development goals among the young generation through kite running?! Kite running festival becomes so cliche in Afghanistan. I recommend you guys to  hold a festival of “ tushla” in Afghanistan. Tushla is more nostalgic for us and we love it more than kite running. I promise to come to your Tushla bazi festival.

Direi che la traduzione non serve ma bisogna dire cos’è un torneo di Tushla Bazi, cosa che faccio fare a un fotografo afgano, Nasim Fekrat. A voi lascio la risata dopo aver aperto il link  e ripescato nella vostra memoria anche un’italica usanza….


L’umorismo degli afgani ovvero quel che nemmeno la guerra riesce a uccidere

Per promuovere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) tra la gioventù afgana,
l’Undp di Kabul ha pensato di indire un festival di aquiloni.  La cosa divertente, visto che per errore la mail è stata mandata in copia visibile a tutti, è che qualcuno ha commentato con ironia. E non sembra che l’inizio. Ecco la suggestione della prima risposta all’invito, cui già  ne son seguite altre:

Hi UNDP with 50 years of experience in development,
Could you please explain the relations between Sustainable Development Goals and kite running and that how you made such an excellent  scientific developmental discovery to promote sustainable development goals among the young generation through kite running?! Kite running festival becomes so cliche in Afghanistan. I recommend you guys to  hold a festival of “ tushla” in Afghanistan. Tushla is more nostalgic for us and we love it more than kite running. I promise to come to your Tushla bazi festival.

Direi che la traduzione non serve ma bisogna dire cos’è un torneo di Tushla Bazi, cosa che faccio fare a un fotografo afgano, Nasim Fekrat. A voi lascio la risata dopo aver aperto il link  e ripescato nella vostra memoria anche un’italica usanza….


L’umorismo degli afgani ovvero quel che nemmeno la guerra riesce a uccidere

Per promuovere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) tra la gioventù afgana,
l’Undp di Kabul ha pensato di indire un festival di aquiloni.  La cosa divertente, visto che per errore la mail è stata mandata in copia visibile a tutti, è che qualcuno ha commentato con ironia. E non sembra che l’inizio. Ecco la suggestione della prima risposta all’invito, cui già  ne son seguite altre:

Hi UNDP with 50 years of experience in development,
Could you please explain the relations between Sustainable Development Goals and kite running and that how you made such an excellent  scientific developmental discovery to promote sustainable development goals among the young generation through kite running?! Kite running festival becomes so cliche in Afghanistan. I recommend you guys to  hold a festival of “ tushla” in Afghanistan. Tushla is more nostalgic for us and we love it more than kite running. I promise to come to your Tushla bazi festival.

Direi che la traduzione non serve ma bisogna dire cos’è un torneo di Tushla Bazi, cosa che faccio fare a un fotografo afgano, Nasim Fekrat. A voi lascio la risata dopo aver aperto il link  e ripescato nella vostra memoria anche un’italica usanza….


Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

  Santiago Alba Rico Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella […]

Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

  Santiago Alba Rico Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella […]

Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

  Santiago Alba Rico Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella […]

Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

  Santiago Alba Rico Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella […]

Tunisia: giustizia di transizione e dittatura

  Santiago Alba Rico Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi- dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella […]

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La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail»

Anatole. Forse si può riprendere la questione del complottone per elaborare qualche idea su come funzioni la verità del discorso corrente, cioè per ragionare su cosa significa oggi dire una cosa vera. Disponendo sull’asse delle ordinate un gradiente di menzogna/verità e su quello delle ascisse populismo e democrazia, il complottismo si situa al punto di intersezione.…

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail» è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail»

Anatole. Forse si può riprendere la questione del complottone per elaborare qualche idea su come funzioni la verità del discorso corrente, cioè per ragionare su cosa significa oggi dire una cosa vera. Disponendo sull’asse delle ordinate un gradiente di menzogna/verità e su quello delle ascisse populismo e democrazia, il complottismo si situa al punto di intersezione.…

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail» è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail»

Anatole. Forse si può riprendere la questione del complottone per elaborare qualche idea su come funzioni la verità del discorso corrente, cioè per ragionare su cosa significa oggi dire una cosa vera. Disponendo sull’asse delle ordinate un gradiente di menzogna/verità e su quello delle ascisse populismo e democrazia, il complottismo si situa al punto di intersezione.…

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail» è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

“A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

A inizio novembre a Barcellona si è svolta la premiazione del concorso letterario euro-mediterraneo A Sea of Words, promosso dall’Istituto Europeo per il Mediterrano (IEMed) e la Fondazione Anna Lindh (ALF), giunto alla sua nona edizione. Il concorso è aperto alla partecipazione di giovani autori tra 18 e 30 anni provenienti dai 44 paesi dell’area … Continua a leggere “A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

“A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

A inizio novembre a Barcellona si è svolta la premiazione del concorso letterario euro-mediterraneo A Sea of Words, promosso dall’Istituto Europeo per il Mediterrano (IEMed) e la Fondazione Anna Lindh (ALF), giunto alla sua nona edizione. Il concorso è aperto alla partecipazione di giovani autori tra 18 e 30 anni provenienti dai 44 paesi dell’area … Continua a leggere “A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

“A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

A inizio novembre a Barcellona si è svolta la premiazione del concorso letterario euro-mediterraneo A Sea of Words, promosso dall’Istituto Europeo per il Mediterrano (IEMed) e la Fondazione Anna Lindh (ALF), giunto alla sua nona edizione. Il concorso è aperto alla partecipazione di giovani autori tra 18 e 30 anni provenienti dai 44 paesi dell’area … Continua a leggere “A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

“A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

A inizio novembre a Barcellona si è svolta la premiazione del concorso letterario euro-mediterraneo A Sea of Words, promosso dall’Istituto Europeo per il Mediterrano (IEMed) e la Fondazione Anna Lindh (ALF), giunto alla sua nona edizione. Il concorso è aperto alla partecipazione di giovani autori tra 18 e 30 anni provenienti dai 44 paesi dell’area … Continua a leggere “A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

“A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

A inizio novembre a Barcellona si è svolta la premiazione del concorso letterario euro-mediterraneo A Sea of Words, promosso dall’Istituto Europeo per il Mediterrano (IEMed) e la Fondazione Anna Lindh (ALF), giunto alla sua nona edizione. Il concorso è aperto alla partecipazione di giovani autori tra 18 e 30 anni provenienti dai 44 paesi dell’area … Continua a leggere “A Sea of Words” premia la siriana Noor Hariri

Refugee Hospitality and Humanitarian Action in Northern Lebanon: between Social Order and Transborder History

English Version: http://urd.org/Refugee-Hospitality-and This short essay will discuss the social spaces which, in times of crisis, turn into host environments for refugees and displaced people, and where humanitarian programmes are implemented. It argues that the “hosting spaces” that populate the media and NGO reports which tackle refugee influxes are constructed with direct and indirect purposes. […]

Refugee Hospitality and Humanitarian Action in Northern Lebanon: between Social Order and Transborder History

English Version: http://urd.org/Refugee-Hospitality-and This short essay will discuss the social spaces which, in times of crisis, turn into host environments for refugees and displaced people, and where humanitarian programmes are implemented. It argues that the “hosting spaces” that populate the media and NGO reports which tackle refugee influxes are constructed with direct and indirect purposes. […]

Refugee Hospitality and Humanitarian Action in Northern Lebanon: between Social Order and Transborder History

English Version: http://urd.org/Refugee-Hospitality-and This short essay will discuss the social spaces which, in times of crisis, turn into host environments for refugees and displaced people, and where humanitarian programmes are implemented. It argues that the “hosting spaces” that populate the media and NGO reports which tackle refugee influxes are constructed with direct and indirect purposes. […]

Refugee Hospitality and Humanitarian Action in Northern Lebanon: between Social Order and Transborder History

English Version: http://urd.org/Refugee-Hospitality-and This short essay will discuss the social spaces which, in times of crisis, turn into host environments for refugees and displaced people, and where humanitarian programmes are implemented. It argues that the “hosting spaces” that populate the media and NGO reports which tackle refugee influxes are constructed with direct and indirect purposes. […]

Refugee Hospitality and Humanitarian Action in Northern Lebanon: between Social Order and Transborder History

English Version: http://urd.org/Refugee-Hospitality-and This short essay will discuss the social spaces which, in times of crisis, turn into host environments for refugees and displaced people, and where humanitarian programmes are implemented. It argues that the “hosting spaces” that populate the media and NGO reports which tackle refugee influxes are constructed with direct and indirect purposes. […]

Ala al-Aswani-Cairo Automobile Club

  “Cairo Automobile Club” è il titolo italiano del romanzo Nadi as-sayarāt di Ala al-Aswani, edito da Feltrinelli nel 2014 e tradotto da Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio. L’autore di quest’opera è considerato oggi uno dei maggiori scrittori egiziani viventi, nonché… Continue Reading →

Scrittori arabi in Germania: il fermento della letteratura

Di Marcia Lynx Qualey. Your Middle East (20/11/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina La letteratura arabo-tedesca ha origine prevalentemente negli anni ’70-’80 del secolo scorso. Nella Repubblica Federale Tedesca in particolare, tre autori hanno cominciato ad attirare l’attenzione nel 1980, con una letteratura che allora si chiamava “Gastarbeiterliteratur”; essi sono Jusuf Naoum, Suleman Taufiq e il più noto […]

L’articolo Scrittori arabi in Germania: il fermento della letteratura sembra essere il primo su Arabpress.

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (seconda parte)

Patrizia Mancini “Da Sidi Bou Zid a Sidi Bou Said” potremmo, anche troppo facilmente, sotto intitolare quanto sta avvenendo nel lussuoso locale Elyssa in cui il 18 novembre 2016 riprendono le testimonianze delle vittime. Uno dei simboli del potere mafioso e criminale del clan di Ben Alì e della moglie Leila Trabelsi, oramai occupato da militanti, giornalisti e invitati disposti […]

Il marocchino Rebel Moon invade il web con il video del suo primo singolo

(Al Huffington Post Maghreb). Con già più di 50.000 visualizzazioni su Facebook in soli tre giorni, questo remake della famosa canzone “Lmaricane” del cantante marocchino Houcine Slaoui, morto nel 1951, è già virale. Il remake è a opera di Rebel Moon, nome d’arte di Badr Jennaoui, cantante compositore e musicista marocchino che vive in Canada dal 2010 e che […]

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Donald Trump e il Maghreb, fra incognita e attese.   

Ora che l’incubo di alcuni e il desiderio di altri si è realizzato. Ora che Donald Trump, che è stato presentato da quasi la totalità dei mainstream come un uomo pericoloso e disturbato, è diventato il 45° presidente del Paese più potente al mondo. Ora che il dado è tratto, il mondo deve fare i […]

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Egitto, liberati 82 detenuti politici: la crisi morde e Al Sisi diventa magnanimo

Giovedì il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha concesso l’amnistia a 82 detenuti, la maggior parte di loro in carcere per reati politici e la cui liberazione sarebbe avvenuta in tempi brevi. Tra di loro ci sono il presentatore Islam al Beheiry, il fotogiornalista Mohammed Ali Salah e l’attivista dei Fratelli Musulmani Yousra Khatib, la […]

L’articolo Egitto, liberati 82 detenuti politici: la crisi morde e Al Sisi diventa magnanimo proviene da Il Fatto Quotidiano.

Egitto, liberati 82 detenuti politici: la crisi morde e Al Sisi diventa magnanimo

Giovedì il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha concesso l’amnistia a 82 detenuti, la maggior parte di loro in carcere per reati politici e la cui liberazione sarebbe avvenuta in tempi brevi. Tra di loro ci sono il presentatore Islam al Beheiry, il fotogiornalista Mohammed Ali Salah e l’attivista dei Fratelli Musulmani Yousra Khatib, la […]

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Egitto, liberati 82 detenuti politici: la crisi morde e Al Sisi diventa magnanimo

Giovedì il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha concesso l’amnistia a 82 detenuti, la maggior parte di loro in carcere per reati politici e la cui liberazione sarebbe avvenuta in tempi brevi. Tra di loro ci sono il presentatore Islam al Beheiry, il fotogiornalista Mohammed Ali Salah e l’attivista dei Fratelli Musulmani Yousra Khatib, la […]

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Giovedì il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha concesso l’amnistia a 82 detenuti, la maggior parte di loro in carcere per reati politici e la cui liberazione sarebbe avvenuta in tempi brevi. Tra di loro ci sono il presentatore Islam al Beheiry, il fotogiornalista Mohammed Ali Salah e l’attivista dei Fratelli Musulmani Yousra Khatib, la […]

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Giovedì il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha concesso l’amnistia a 82 detenuti, la maggior parte di loro in carcere per reati politici e la cui liberazione sarebbe avvenuta in tempi brevi. Tra di loro ci sono il presentatore Islam al Beheiry, il fotogiornalista Mohammed Ali Salah e l’attivista dei Fratelli Musulmani Yousra Khatib, la […]

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Sette anni dopo

L’aereo si trova sopra il nord del Canada. Mi sta portando in California per un po’ di ferie. Ed è lì, in mezzo alle mail che mi sono inviato con i link agli articoli da leggere, che inizio a pensare a Falafel Cafè. Ai suoi sette anni, il 12 novembre scorso. Agli esordi durante il […]

Sette anni dopo

L’aereo si trova sopra il nord del Canada. Mi sta portando in California per un po’ di ferie. Ed è lì, in mezzo alle mail che mi sono inviato con i link agli articoli da leggere, che inizio a pensare a Falafel Cafè. Ai suoi sette anni, il 12 novembre scorso. Agli esordi durante il […]

Sette anni dopo

L’aereo si trova sopra il nord del Canada. Mi sta portando in California per un po’ di ferie. Ed è lì, in mezzo alle mail che mi sono inviato con i link agli articoli da leggere, che inizio a pensare a Falafel Cafè. Ai suoi sette anni, il 12 novembre scorso. Agli esordi durante il […]

Sette anni dopo

L’aereo si trova sopra il nord del Canada. Mi sta portando in California per un po’ di ferie. Ed è lì, in mezzo alle mail che mi sono inviato con i link agli articoli da leggere, che inizio a pensare a Falafel Cafè. Ai suoi sette anni, il 12 novembre scorso. Agli esordi durante il […]

Arabia Saudita: caso di divorzio via Snapchat

(Al Youm 24). Un tribunale di Gedda, in Arabia Saudita, ha registrato il primo caso di divorzio attraverso l’applicazione di messaggeria istantanea Snapchat. Secondo le fonti, una donna saudita ha chiesto al giudice di validare l’ennesima richiesta di divorzio (la terza) dopo aver mandato al futuro ex marito un messaggio tramite chat: “Voglio il divorzio”. Considerando […]

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Francia: condannata discriminazione verso arabi e persone di colore da parte della polizia

(El País). Per la prima volta un tribunale francese ha definito i controlli operati da alcuni agenti della polizia come “discriminatori”, in quanto per lo più basati sull’aspetto fisico degli individui “senza alcuna previa giustificazione oggettiva”. Di fatti in Francia, il paese europeo che effettua più controlli di identità, è sei volte più probabile che la polizia […]

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Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Memoria e verità, il futuro della Tunisia (prima parte)

Patrizia Mancini Il 17 novembre 2016 resterà impresso nella storia della Tunisia come il giorno in cui è stata restituita la voce a chi non l’aveva. Al di sopra di quel brusio di fondo che, arrogante e sfacciato, si è insinuato ormai da tempo e che vorrebbe negare o minimizzare le sofferenze di tutto un popolo sotto le dittature di […]

Cucina turca: balik ekmek, sandwich con pesce grigliato

Il piatto di oggi, semplice e gustoso, è uno dei must dello street food di Istanbul, di cui vi proponiamo una versione leggermente elaborata: balik ekmek, sandwich con pesce grigliato! Ingredienti: 4 filetti di pesce a scelta (merluzzo, maccarello, asinello, etc.) 4 cucchiai di olio d’oliva 4 panini a lievitazione naturale foglie di cuori di lattuga ½ […]

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Perché le donne tunisine divorziano sempre più spesso?

TUN-divorzio-110Mentre aumenta costantemente in Tunisia il numero di divorzi chiesto dalle mogli, la storia di Meriem, giovane donna obesa spinta a sposarsi con un uomo conosciuto su Facebook da cui ha poi con fatica divorziato, illumina il difficile cammino delle donne tunisine, tra leggi apparentemente molto “avanzate” e una società ancora radicata nella cultura patriarcale. Tunisie Bondy Blog

Perché le donne tunisine divorziano sempre più spesso?

TUN-divorzio-110Mentre aumenta costantemente in Tunisia il numero di divorzi chiesto dalle mogli, la storia di Meriem, giovane donna obesa spinta a sposarsi con un uomo conosciuto su Facebook da cui ha poi con fatica divorziato, illumina il difficile cammino delle donne tunisine, tra leggi apparentemente molto “avanzate” e una società ancora radicata nella cultura patriarcale. Tunisie Bondy Blog

Perché le donne tunisine divorziano sempre più spesso?

TUN-divorzio-110Mentre aumenta costantemente in Tunisia il numero di divorzi chiesto dalle mogli, la storia di Meriem, giovane donna obesa spinta a sposarsi con un uomo conosciuto su Facebook da cui ha poi con fatica divorziato, illumina il difficile cammino delle donne tunisine, tra leggi apparentemente molto “avanzate” e una società ancora radicata nella cultura patriarcale. Tunisie Bondy Blog

invisiblearabs 2016-11-17 19:43:52

Ed ecco la nuova tavola che Maria Teresa De Palma ha composto dopo il piccolo sondaggio che, assieme, abbiamo sottoposto ai nostri amici di Facebook. Maria Teresa aveva proposto due tavole simili, in cui a fare la differenza erano soprattutto i colori….

Impresa tessile senza capi rivoluziona le norme di genere in Turchia

Özgür Kazova: l’usine textile sans patrons qui révolutionne les normes de genre en Turquie | babelmed | femme - migration - méditerranéeDalle ceneri di una impresa tessile fallita, dopo che il personale non era stato pagato per mesi, sta nascendo una nuova fabbrica gestita collettivamente, senza capi e dirigenti. Dopo anni di battaglie con i precedenti proprietari, e anche tra i lavoratori, la Özgür Kazova lotta per dar vita a un nuovo modello di impiego, in cui il lavoro di uomini e donne è valutato alla pari. Mashallah News

Impresa tessile senza capi rivoluziona le norme di genere in Turchia

Özgür Kazova: l’usine textile sans patrons qui révolutionne les normes de genre en Turquie | babelmed | femme - migration - méditerranéeDalle ceneri di una impresa tessile fallita, dopo che il personale non era stato pagato per mesi, sta nascendo una nuova fabbrica gestita collettivamente, senza capi e dirigenti. Dopo anni di battaglie con i precedenti proprietari, e anche tra i lavoratori, la Özgür Kazova lotta per dar vita a un nuovo modello di impiego, in cui il lavoro di uomini e donne è valutato alla pari. Mashallah News

Impresa tessile senza capi rivoluziona le norme di genere in Turchia

Özgür Kazova: l’usine textile sans patrons qui révolutionne les normes de genre en Turquie | babelmed | femme - migration - méditerranéeDalle ceneri di una impresa tessile fallita, dopo che il personale non era stato pagato per mesi, sta nascendo una nuova fabbrica gestita collettivamente, senza capi e dirigenti. Dopo anni di battaglie con i precedenti proprietari, e anche tra i lavoratori, la Özgür Kazova lotta per dar vita a un nuovo modello di impiego, in cui il lavoro di uomini e donne è valutato alla pari. Mashallah News

Molestie sessuali nelle redazioni egiziane: una storia ancora da raccontare

Harcèlement sexuel dans les rédactions égyptiennes: le voile se lève enfin | babelmed | femme - migration - méditerranéeIn Egitto cominciano a emergere i primi casi di molestie sessuali nelle redazioni, luoghi di lavoro in cui le donne sono sempre più numerose. Ma denunciare è ancora molto difficile, soprattutto per la condizione di disparità tra vittima e autore delle molestie. Le prime denunce non sono che la punta di un iceberg, un fenomeno assai diffuso nel settore privato, contro il quale lavorano però diverse organizzazioni. Mada Masr

Molestie sessuali nelle redazioni egiziane: una storia ancora da raccontare

Harcèlement sexuel dans les rédactions égyptiennes: le voile se lève enfin | babelmed | femme - migration - méditerranéeIn Egitto cominciano a emergere i primi casi di molestie sessuali nelle redazioni, luoghi di lavoro in cui le donne sono sempre più numerose. Ma denunciare è ancora molto difficile, soprattutto per la condizione di disparità tra vittima e autore delle molestie. Le prime denunce non sono che la punta di un iceberg, un fenomeno assai diffuso nel settore privato, contro il quale lavorano però diverse organizzazioni. Mada Masr

Molestie sessuali nelle redazioni egiziane: una storia ancora da raccontare

Harcèlement sexuel dans les rédactions égyptiennes: le voile se lève enfin | babelmed | femme - migration - méditerranéeIn Egitto cominciano a emergere i primi casi di molestie sessuali nelle redazioni, luoghi di lavoro in cui le donne sono sempre più numerose. Ma denunciare è ancora molto difficile, soprattutto per la condizione di disparità tra vittima e autore delle molestie. Le prime denunce non sono che la punta di un iceberg, un fenomeno assai diffuso nel settore privato, contro il quale lavorano però diverse organizzazioni. Mada Masr

La lotta delle operaie della Mamotex: dall’autogestione alla disperazione

La lutte des ouvrières de l’usine Mamotex : de l’autogestion à la désillusion | babelmed | femme - migration - méditerranéeNel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada

La lotta delle operaie della Mamotex: dall’autogestione alla disperazione

La lutte des ouvrières de l’usine Mamotex : de l’autogestion à la désillusion | babelmed | femme - migration - méditerranéeNel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada

La lotta delle operaie della Mamotex: dall’autogestione alla disperazione

La lutte des ouvrières de l’usine Mamotex : de l’autogestion à la désillusion | babelmed | femme - migration - méditerranéeNel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada

Io, macellaia di Algeri

Moi, femme boucher en Algérie | babelmed | femme - migration - méditerranéeBent Meziane (la figlia di Meziane), così si fa chiamare, è macellaia dal 1987. Nel suo negozietto curato della periferia di Algeri, ripercorre, tra due clienti, la sua storia e la sua visione di donna macellaia. Radio M

Io, macellaia di Algeri

Moi, femme boucher en Algérie | babelmed | femme - migration - méditerranéeBent Meziane (la figlia di Meziane), così si fa chiamare, è macellaia dal 1987. Nel suo negozietto curato della periferia di Algeri, ripercorre, tra due clienti, la sua storia e la sua visione di donna macellaia. Radio M

Io, macellaia di Algeri

Moi, femme boucher en Algérie | babelmed | femme - migration - méditerranéeBent Meziane (la figlia di Meziane), così si fa chiamare, è macellaia dal 1987. Nel suo negozietto curato della periferia di Algeri, ripercorre, tra due clienti, la sua storia e la sua visione di donna macellaia. Radio M

Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)

Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.

Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale

Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque  in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia  dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.

In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.

Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)

Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.

Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale

Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque  in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia  dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.

In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.

Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)

Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.

Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale

Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque  in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia  dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.

In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.

Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)

Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.

Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale

Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque  in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia  dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.

In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.

Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)

Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.

Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale

Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque  in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia  dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.

In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.

Nota sull’Algeria nella cultura italiana

La tradizione dell’immaginario orientalista vuole che le donne che arrivavano ad Algeri – sede della còrsa – fossero catturate e destinate a essere vendute come schiave e oggetti di piacere sessuale. [1] Eppure, diverse sono le storie che ci raccontano di donne … Continua a leggere

Nota sull’Algeria nella cultura italiana
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Nota sull’Algeria nella cultura italiana

La tradizione dell’immaginario orientalista vuole che le donne che arrivavano ad Algeri – sede della còrsa – fossero catturate e destinate a essere vendute come schiave e oggetti di piacere sessuale. [1] Eppure, diverse sono le storie che ci raccontano di donne … Continua a leggere

Nota sull’Algeria nella cultura italiana
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Turchia, censura di Stato

voci-110La libertà di stampa è al centro della riflessione proposta da “Voci scomode”, l’appuntamento annuale organizzato dal Caffè dei giornalisti in partnership con il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e la Maison des Journalistes di Parigi, giunto alla terza edizione. –  29 novembre 2016

Turchia, censura di Stato

voci-110La libertà di stampa è al centro della riflessione proposta da “Voci scomode”, l’appuntamento annuale organizzato dal Caffè dei giornalisti in partnership con il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e la Maison des Journalistes di Parigi, giunto alla terza edizione. –  29 novembre 2016

Turchia, censura di Stato

voci-110La libertà di stampa è al centro della riflessione proposta da “Voci scomode”, l’appuntamento annuale organizzato dal Caffè dei giornalisti in partnership con il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e la Maison des Journalistes di Parigi, giunto alla terza edizione. –  29 novembre 2016

Poveri in Egitto, fra Al Sisi e il Fondo Monetario

mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

Poveri in Egitto, fra Al Sisi e il Fondo Monetario

mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

Poveri in Egitto, fra Al Sisi e il Fondo Monetario

mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

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mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

Poveri in Egitto, fra Al Sisi e il Fondo Monetario

mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

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mcc43 Il giorno 11.11 piazza Tahrir era popolata solo di blindati e poliziotti. Ci chiedevamo alla vigilia della manifestazione del Movimento dei Poveri, Haraket Ghabala, “Si tratta di una velleità? Di una trappola?” Ora la domanda è: in che modo si è arrivati al fallimento della protesta? “In 6 ore le forze di sicurezza possono  essere inviate […]

Addio a Malek Chebel, l’antropologo dell’”islam illuminato”

(France Culture). L’antropologo delle religioni, psicoanalista e filosofo Malek Chebel è morto il 12 novembre a Parigi all’età di 63 anni. Esperto di islam, difensore della libertà politica e di pensiero, sosteneva l’idea di un “islam illuminato”. Nato in Algeria nel 1953, Chebel è stato autore di numerose opere dedicate alla questione dell’islam, di cui alcune […]

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Geschichte der arabischen Litteratur

              Carl Brockelmann, History of the Arabic Written Tradition, transl. by Joep Lameer, Brill, Leiden 2016. Ieri Brill ha annunciato la pubblicazione, nella traduzione inglese, dei primi due volumi della  Storia della letteratura araba di Brockelmann, che … Continua a leggere

Geschichte der arabischen Litteratur
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Geschichte der arabischen Litteratur

              Carl Brockelmann, History of the Arabic Written Tradition, transl. by Joep Lameer, Brill, Leiden 2016. Ieri Brill ha annunciato la pubblicazione, nella traduzione inglese, dei primi due volumi della  Storia della letteratura araba di Brockelmann, che … Continua a leggere

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letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Qui, dove batte il cuore di Gerusalemme

Tornare a Gerusalemme significa tornare alla Porta di Damasco. Tornare a Bab al ‘Amud, là dove batte il cuore della città. La Porta di Damasco parla, a chi conosce Gerusalemme: racconta cos’è successo in questi quattro anni in cui sono stata lontana dalle pietre consumate, sporche, unte. Racconta del sangue e del dolore nei piccoliRead more

Cucina algerina: chakhchoukha di Biskra

La città di Biskra si trova nell’Algeria orientale ed è conosciuta per il suo piatto tradizionale, davvero gustoso: la chakhchouka! Ingredienti: Per la pasta: 600gr di semola fine 1 cucchiaino di sale acqua per lavorare la pasta olio d’oliva per stendere la pasta Per la salsa: 1kg di carne d’agnello o un pollo in pezzi 2 […]

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Incontro con lo scrittore italo-siriano Shady Hamadi

hamadi-esilio-110Nel 2011 Shady Hamadipubblica il suo primo libro Voci di anime, una raccolta di racconti, ma con l’inizio delle proteste contro Bashar al Asad, si attiva per creare dall’Italia una coscienza sulla Siria: partecipa a forum, conferenze, lancia iniziative… Nel 2013 pubblica il saggio La felicità araba in cui racconta “la storia della sua famiglia e la genesi di un regime”.

Incontro con lo scrittore italo-siriano Shady Hamadi

hamadi-esilio-110Nel 2011 Shady Hamadipubblica il suo primo libro Voci di anime, una raccolta di racconti, ma con l’inizio delle proteste contro Bashar al Asad, si attiva per creare dall’Italia una coscienza sulla Siria: partecipa a forum, conferenze, lancia iniziative… Nel 2013 pubblica il saggio La felicità araba in cui racconta “la storia della sua famiglia e la genesi di un regime”.

Incontro con lo scrittore italo-siriano Shady Hamadi

hamadi-esilio-110Nel 2011 Shady Hamadipubblica il suo primo libro Voci di anime, una raccolta di racconti, ma con l’inizio delle proteste contro Bashar al Asad, si attiva per creare dall’Italia una coscienza sulla Siria: partecipa a forum, conferenze, lancia iniziative… Nel 2013 pubblica il saggio La felicità araba in cui racconta “la storia della sua famiglia e la genesi di un regime”.

Egitto: violenti scontri e arresti

Violenti scontri sono scoppiati in Egitto tra i manifestanti che chiedevano la fine dell’aumento del costo della vita nel Paese. La chiamata alla protesta dell’11 novembre aveva già inondato i social media da un paio di settimane. Poco si sa circa gli organizzatori della manifestazione che ha preso il nome di “rivoluzione degli oppressi”. Si tratta di un movimento chiamato “Ghalaba”, […]

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La Siria delle seconde generazioni al Pisa Book Festival

L’11 novembre si apriranno le porte del Pisa Book Festival, il salone del libro dedicato alle case editrici indipendenti italiane, un appuntamento che ormai da 13 anni invade la città toscana. Quest’anno si parlerà anche di mondo arabo, in particolare di Siria vista la presenza di Shady Hamadi, che presenta il suo libro “Esilio dalla […]

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Nizar Qabbanni, Le mie poesie più belle

            Nizar Qabbani, Le mie poesie più belle, Jouvence, Milano 2016. Trad. dall’arabo di Silvia Moresi e Nabil Salameh Nella prefazione in lingua araba al presente volume, Qabbani suggerisce che quelle qui presentate sono solamente una … Continua a leggere

Nizar Qabbanni, Le mie poesie più belle
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letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Nizar Qabbanni, Le mie poesie più belle

            Nizar Qabbani, Le mie poesie più belle, Jouvence, Milano 2016. Trad. dall’arabo di Silvia Moresi e Nabil Salameh Nella prefazione in lingua araba al presente volume, Qabbani suggerisce che quelle qui presentate sono solamente una … Continua a leggere

Nizar Qabbanni, Le mie poesie più belle
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Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Si è aperta il 2 novembre e si concluderà il 12 dello stesso mese la Fiera del libro di Sharjah, capitale dell’omonimo emirato, uno dei sette che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano 1.420 editori di 60 paesi che, negli 11 giorni di durata della manifestazione, esporranno oltre un milione e mezzo di libri. … Continua a leggere Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Si è aperta il 2 novembre e si concluderà il 12 dello stesso mese la Fiera del libro di Sharjah, capitale dell’omonimo emirato, uno dei sette che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano 1.420 editori di 60 paesi che, negli 11 giorni di durata della manifestazione, esporranno oltre un milione e mezzo di libri. … Continua a leggere Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

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Si è aperta il 2 novembre e si concluderà il 12 dello stesso mese la Fiera del libro di Sharjah, capitale dell’omonimo emirato, uno dei sette che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano 1.420 editori di 60 paesi che, negli 11 giorni di durata della manifestazione, esporranno oltre un milione e mezzo di libri. … Continua a leggere Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Si è aperta il 2 novembre e si concluderà il 12 dello stesso mese la Fiera del libro di Sharjah, capitale dell’omonimo emirato, uno dei sette che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano 1.420 editori di 60 paesi che, negli 11 giorni di durata della manifestazione, esporranno oltre un milione e mezzo di libri. … Continua a leggere Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Si è aperta il 2 novembre e si concluderà il 12 dello stesso mese la Fiera del libro di Sharjah, capitale dell’omonimo emirato, uno dei sette che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano 1.420 editori di 60 paesi che, negli 11 giorni di durata della manifestazione, esporranno oltre un milione e mezzo di libri. … Continua a leggere Al via la 35° edizione della Fiera internazionale del libro di Sharjah

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. dopo l’uscita dell’ultimo pezzo ho dovuto fare un po’ di controcomplottistica, cioè il corrispettivo digitale della prepugilistica. Mi sono dedicato a un esercizio complesso: combattimento cinguettante. Che la forma dialettica naturale di Twitter sia la bagarre è evidente: quel social non è fatto per dialogare e articolare un ragionamento complesso in una serie di pensierini da 140 caratteri è semplicemente impossibile.…

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. dopo l’uscita dell’ultimo pezzo ho dovuto fare un po’ di controcomplottistica, cioè il corrispettivo digitale della prepugilistica. Mi sono dedicato a un esercizio complesso: combattimento cinguettante. Che la forma dialettica naturale di Twitter sia la bagarre è evidente: quel social non è fatto per dialogare e articolare un ragionamento complesso in una serie di pensierini da 140 caratteri è semplicemente impossibile.…

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. dopo l’uscita dell’ultimo pezzo ho dovuto fare un po’ di controcomplottistica, cioè il corrispettivo digitale della prepugilistica. Mi sono dedicato a un esercizio complesso: combattimento cinguettante. Che la forma dialettica naturale di Twitter sia la bagarre è evidente: quel social non è fatto per dialogare e articolare un ragionamento complesso in una serie di pensierini da 140 caratteri è semplicemente impossibile.…

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Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. dopo l’uscita dell’ultimo pezzo ho dovuto fare un po’ di controcomplottistica, cioè il corrispettivo digitale della prepugilistica. Mi sono dedicato a un esercizio complesso: combattimento cinguettante. Che la forma dialettica naturale di Twitter sia la bagarre è evidente: quel social non è fatto per dialogare e articolare un ragionamento complesso in una serie di pensierini da 140 caratteri è semplicemente impossibile.…

Il Grande Complotto che dà senso al Telefonone è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

mcc43 Fatah, il partito che guida l’Autorità Palestinese, va verso il Congresso del 29 novembre, dal quale uscirà una nuova composizione del Comitato Centrale e la designazione del successore di Mahmoud Abbas. Più che in altri contesti, la scelta del leader palestinese attiene non tanto alle qualità personali quanto ai rapporti di forza fra correnti […]

Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

mcc43 Fatah, il partito che guida l’Autorità Palestinese, va verso il Congresso del 29 novembre, dal quale uscirà una nuova composizione del Comitato Centrale e la designazione del successore di Mahmoud Abbas. Più che in altri contesti, la scelta del leader palestinese attiene non tanto alle qualità personali quanto ai rapporti di forza fra correnti […]

Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

mcc43 Fatah, il partito che guida l’Autorità Palestinese, va verso il Congresso del 29 novembre, dal quale uscirà una nuova composizione del Comitato Centrale e la designazione del successore di Mahmoud Abbas. Più che in altri contesti, la scelta del leader palestinese attiene non tanto alle qualità personali quanto ai rapporti di forza fra correnti […]

Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

mcc43 Fatah, il partito che guida l’Autorità Palestinese, va verso il Congresso del 29 novembre, dal quale uscirà una nuova composizione del Comitato Centrale e la designazione del successore di Mahmoud Abbas. Più che in altri contesti, la scelta del leader palestinese attiene non tanto alle qualità personali quanto ai rapporti di forza fra correnti […]

Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

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Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

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Palestina prepara il settimo Congresso di FATAH

mcc43 Fatah, il partito che guida l’Autorità Palestinese, va verso il Congresso del 29 novembre, dal quale uscirà una nuova composizione del Comitato Centrale e la designazione del successore di Mahmoud Abbas. Più che in altri contesti, la scelta del leader palestinese attiene non tanto alle qualità personali quanto ai rapporti di forza fra correnti […]

Contro il peggio

Vendevano le fragole, a Ramallah, il 25 gennaio del 2006. Aria tersa, giornata bellissima, e i carretti erano come stazioni di sosta, con le fragole sistemate perfettamente, piramidi rosse bagnate dal sole. Di giornalisti ce n’erano parecchi, me compresa. Giravamo per le cittadine della Palestina per capire come sarebbero andate le elezioni legislative. Le primeRead more

Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il 5 novembre è stato inaugurato a Beirut il consueto Salone del libro francofono , che celebra la cultura francofona nell’ex dominio francese del Libano. Ma da un paio di anni ormai, anche il Salone di Beirut si è aperto al mercato editoriale arabo. di Ali Raffaele Matar* È stata inaugurata a Beirut la XXIIIa … Continua a leggere Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il 5 novembre è stato inaugurato a Beirut il consueto Salone del libro francofono , che celebra la cultura francofona nell’ex dominio francese del Libano. Ma da un paio di anni ormai, anche il Salone di Beirut si è aperto al mercato editoriale arabo. di Ali Raffaele Matar* È stata inaugurata a Beirut la XXIIIa … Continua a leggere Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il 5 novembre è stato inaugurato a Beirut il consueto Salone del libro francofono , che celebra la cultura francofona nell’ex dominio francese del Libano. Ma da un paio di anni ormai, anche il Salone di Beirut si è aperto al mercato editoriale arabo. di Ali Raffaele Matar* È stata inaugurata a Beirut la XXIIIa … Continua a leggere Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

Il 5 novembre è stato inaugurato a Beirut il consueto Salone del libro francofono , che celebra la cultura francofona nell’ex dominio francese del Libano. Ma da un paio di anni ormai, anche il Salone di Beirut si è aperto al mercato editoriale arabo. di Ali Raffaele Matar* È stata inaugurata a Beirut la XXIIIa … Continua a leggere Il Salone del Libro francofono di Beirut che parla anche arabo

THE RENOVATION OF THE TALIBAN MOVEMENT (OSS 2/2016)

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1

download the full volume "Osservatorio Strategico" 

The
death of Mullah Mansour e the appointment of the new Taliban leader

On
the insurrectional front, recent dynamics have changed the internal
Taliban organization.

The
22nd
of May a U.S. drone attack in the Pakistani area of Baluchistan
killed the Taliban leader mullah Aktar Mohamad

THE RENOVATION OF THE TALIBAN MOVEMENT (OSS 2/2016)

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1

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The
death of Mullah Mansour e the appointment of the new Taliban leader

On
the insurrectional front, recent dynamics have changed the internal
Taliban organization.

The
22nd
of May a U.S. drone attack in the Pakistani area of Baluchistan
killed the Taliban leader mullah Aktar Mohamad

THE RENOVATION OF THE TALIBAN MOVEMENT (OSS 2/2016)

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1

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The
death of Mullah Mansour e the appointment of the new Taliban leader

On
the insurrectional front, recent dynamics have changed the internal
Taliban organization.

The
22nd
of May a U.S. drone attack in the Pakistani area of Baluchistan
killed the Taliban leader mullah Aktar Mohamad

Lo showroom di IKEA che riproduce una casa siriana distrutta dalla guerra

(Step Feed). Il conflitto siriano ha danneggiato milioni di case, ucciso e sfollando milioni di persone. IKEA ha voluto mettere in evidenza questo aspetto della guerra siriana attraverso la realizzazione di uno showroom che ne ritrae la realtà. Nel punto vendita di Slependen, in Norvegia, è stato infatti realizzato uno spazio di 25 metri quadri che […]

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“The Secret Life Of Muslims”: una nuova serie per abbattere gli stereotipi (video)

Di Antonia Blumberg. Huffington Post Religion (4/11/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina L’attore Ahmed Ahmed, per metà egiziano e per metà americano, ha trascorso i primi anni della sua carriera interpretando ruoli di terroristi e “cattivi” in generale, incarnando tutti quegli stereotipi che hanno portato all’emarginazione dei musulmani e degli arabi negli ultimi decenni. Ma ad un certo punto […]

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Il brando divino terrore filippino

C’è il gruppo islamista Abu Sayyaf dietro il sequestro di un cittadino tedesco e l’uccisione della sua compagna che sono avvenuti nei giorni scorsi nel Sud delle Filippine. La zona del sequestro del settantenne tedesco e dell’omicidio della sua compagna cinquantenne, il cui corpo è stato ritrovato dai pescatori della zona, è l’area di Pegasus Reef, 40 miglia dall’isola di Taganak nelle Tawi Tawi, il cosiddetto “arcipelago delle tartarughe” composto da dieci isole (sette filippine e tre malaysiane) all’interno della più vasta area insulare delle Sulu, santuario e terreno di caccia di Abu Sayyaf. Un paradiso tropicale diventato un inferno.

Il sequestro è stato rivendicato da un portavoce del gruppo, Muammar Askali, che domenica ha chiamato il quotidiano Inquirer cui ha spiegato che la compagna di Juegen Kantner, così si chiama l’ostaggio, aveva tentato di sparare ai sequestratori e pertanto era stata uccisa. Kantner ha potuto anche lui parlare con l’Inquirer, spiegando, ma non è chiaro come, che la coppia aveva chiesto aiuto all’ambasciata tedesca a Manila. Alla vicenda mancano diverse conferme e i fatti sono ancora da determinare nei dettagli. La stessa domenica il corpo della donna ormai senza vita è stato trovato dai residenti sulla barca dei tedeschi.

Abu Sayaff è attivo ormai da oltre un decennio nelle acque dell’arcipelago di Sulu dove il gruppo, autore di sequestri estorsivi ammantati di retorica jihadista, è famoso per la sua ferocia: il 25 aprile scorso, solo per ricordare un caso, la testa di un ostaggio canadese, per cui non era stato pagato il riscatto, venne ritrovata in un sacchetto di plastica nelle strade di Jolo, la capitale delle Sulu.
Metà jihadisti, metà banditi, gli uomini di Abu Sayyaf (brando divino) terrorizzano la piccola enclave insulare da anni facendosi beffe dei tentativi dell’esercito di far piazza pulita come promesso anche dall’ultimo presidente appena eletto, il controverso Rodrigo Duterte. Qualche tempo fa Abu Sayyaf ha promesso fedeltà ad Al Bagdadi, andando a ingrossare le fila degli adepti del califfato a Est di Raqqa.

Il brando divino terrore filippino

C’è il gruppo islamista Abu Sayyaf dietro il sequestro di un cittadino tedesco e l’uccisione della sua compagna che sono avvenuti nei giorni scorsi nel Sud delle Filippine. La zona del sequestro del settantenne tedesco e dell’omicidio della sua compagna cinquantenne, il cui corpo è stato ritrovato dai pescatori della zona, è l’area di Pegasus Reef, 40 miglia dall’isola di Taganak nelle Tawi Tawi, il cosiddetto “arcipelago delle tartarughe” composto da dieci isole (sette filippine e tre malaysiane) all’interno della più vasta area insulare delle Sulu, santuario e terreno di caccia di Abu Sayyaf. Un paradiso tropicale diventato un inferno.

Il sequestro è stato rivendicato da un portavoce del gruppo, Muammar Askali, che domenica ha chiamato il quotidiano Inquirer cui ha spiegato che la compagna di Juegen Kantner, così si chiama l’ostaggio, aveva tentato di sparare ai sequestratori e pertanto era stata uccisa. Kantner ha potuto anche lui parlare con l’Inquirer, spiegando, ma non è chiaro come, che la coppia aveva chiesto aiuto all’ambasciata tedesca a Manila. Alla vicenda mancano diverse conferme e i fatti sono ancora da determinare nei dettagli. La stessa domenica il corpo della donna ormai senza vita è stato trovato dai residenti sulla barca dei tedeschi.

Abu Sayaff è attivo ormai da oltre un decennio nelle acque dell’arcipelago di Sulu dove il gruppo, autore di sequestri estorsivi ammantati di retorica jihadista, è famoso per la sua ferocia: il 25 aprile scorso, solo per ricordare un caso, la testa di un ostaggio canadese, per cui non era stato pagato il riscatto, venne ritrovata in un sacchetto di plastica nelle strade di Jolo, la capitale delle Sulu.
Metà jihadisti, metà banditi, gli uomini di Abu Sayyaf (brando divino) terrorizzano la piccola enclave insulare da anni facendosi beffe dei tentativi dell’esercito di far piazza pulita come promesso anche dall’ultimo presidente appena eletto, il controverso Rodrigo Duterte. Qualche tempo fa Abu Sayyaf ha promesso fedeltà ad Al Bagdadi, andando a ingrossare le fila degli adepti del califfato a Est di Raqqa.

Il brando divino terrore filippino

C’è il gruppo islamista Abu Sayyaf dietro il sequestro di un cittadino tedesco e l’uccisione della sua compagna che sono avvenuti nei giorni scorsi nel Sud delle Filippine. La zona del sequestro del settantenne tedesco e dell’omicidio della sua compagna cinquantenne, il cui corpo è stato ritrovato dai pescatori della zona, è l’area di Pegasus Reef, 40 miglia dall’isola di Taganak nelle Tawi Tawi, il cosiddetto “arcipelago delle tartarughe” composto da dieci isole (sette filippine e tre malaysiane) all’interno della più vasta area insulare delle Sulu, santuario e terreno di caccia di Abu Sayyaf. Un paradiso tropicale diventato un inferno.

Il sequestro è stato rivendicato da un portavoce del gruppo, Muammar Askali, che domenica ha chiamato il quotidiano Inquirer cui ha spiegato che la compagna di Juegen Kantner, così si chiama l’ostaggio, aveva tentato di sparare ai sequestratori e pertanto era stata uccisa. Kantner ha potuto anche lui parlare con l’Inquirer, spiegando, ma non è chiaro come, che la coppia aveva chiesto aiuto all’ambasciata tedesca a Manila. Alla vicenda mancano diverse conferme e i fatti sono ancora da determinare nei dettagli. La stessa domenica il corpo della donna ormai senza vita è stato trovato dai residenti sulla barca dei tedeschi.

Abu Sayaff è attivo ormai da oltre un decennio nelle acque dell’arcipelago di Sulu dove il gruppo, autore di sequestri estorsivi ammantati di retorica jihadista, è famoso per la sua ferocia: il 25 aprile scorso, solo per ricordare un caso, la testa di un ostaggio canadese, per cui non era stato pagato il riscatto, venne ritrovata in un sacchetto di plastica nelle strade di Jolo, la capitale delle Sulu.
Metà jihadisti, metà banditi, gli uomini di Abu Sayyaf (brando divino) terrorizzano la piccola enclave insulare da anni facendosi beffe dei tentativi dell’esercito di far piazza pulita come promesso anche dall’ultimo presidente appena eletto, il controverso Rodrigo Duterte. Qualche tempo fa Abu Sayyaf ha promesso fedeltà ad Al Bagdadi, andando a ingrossare le fila degli adepti del califfato a Est di Raqqa.

Il brando divino terrore filippino

C’è il gruppo islamista Abu Sayyaf dietro il sequestro di un cittadino tedesco e l’uccisione della sua compagna che sono avvenuti nei giorni scorsi nel Sud delle Filippine. La zona del sequestro del settantenne tedesco e dell’omicidio della sua compagna cinquantenne, il cui corpo è stato ritrovato dai pescatori della zona, è l’area di Pegasus Reef, 40 miglia dall’isola di Taganak nelle Tawi Tawi, il cosiddetto “arcipelago delle tartarughe” composto da dieci isole (sette filippine e tre malaysiane) all’interno della più vasta area insulare delle Sulu, santuario e terreno di caccia di Abu Sayyaf. Un paradiso tropicale diventato un inferno.

Il sequestro è stato rivendicato da un portavoce del gruppo, Muammar Askali, che domenica ha chiamato il quotidiano Inquirer cui ha spiegato che la compagna di Juegen Kantner, così si chiama l’ostaggio, aveva tentato di sparare ai sequestratori e pertanto era stata uccisa. Kantner ha potuto anche lui parlare con l’Inquirer, spiegando, ma non è chiaro come, che la coppia aveva chiesto aiuto all’ambasciata tedesca a Manila. Alla vicenda mancano diverse conferme e i fatti sono ancora da determinare nei dettagli. La stessa domenica il corpo della donna ormai senza vita è stato trovato dai residenti sulla barca dei tedeschi.

Abu Sayaff è attivo ormai da oltre un decennio nelle acque dell’arcipelago di Sulu dove il gruppo, autore di sequestri estorsivi ammantati di retorica jihadista, è famoso per la sua ferocia: il 25 aprile scorso, solo per ricordare un caso, la testa di un ostaggio canadese, per cui non era stato pagato il riscatto, venne ritrovata in un sacchetto di plastica nelle strade di Jolo, la capitale delle Sulu.
Metà jihadisti, metà banditi, gli uomini di Abu Sayyaf (brando divino) terrorizzano la piccola enclave insulare da anni facendosi beffe dei tentativi dell’esercito di far piazza pulita come promesso anche dall’ultimo presidente appena eletto, il controverso Rodrigo Duterte. Qualche tempo fa Abu Sayyaf ha promesso fedeltà ad Al Bagdadi, andando a ingrossare le fila degli adepti del califfato a Est di Raqqa.

Il brando divino terrore filippino

C’è il gruppo islamista Abu Sayyaf dietro il sequestro di un cittadino tedesco e l’uccisione della sua compagna che sono avvenuti nei giorni scorsi nel Sud delle Filippine. La zona del sequestro del settantenne tedesco e dell’omicidio della sua compagna cinquantenne, il cui corpo è stato ritrovato dai pescatori della zona, è l’area di Pegasus Reef, 40 miglia dall’isola di Taganak nelle Tawi Tawi, il cosiddetto “arcipelago delle tartarughe” composto da dieci isole (sette filippine e tre malaysiane) all’interno della più vasta area insulare delle Sulu, santuario e terreno di caccia di Abu Sayyaf. Un paradiso tropicale diventato un inferno.

Il sequestro è stato rivendicato da un portavoce del gruppo, Muammar Askali, che domenica ha chiamato il quotidiano Inquirer cui ha spiegato che la compagna di Juegen Kantner, così si chiama l’ostaggio, aveva tentato di sparare ai sequestratori e pertanto era stata uccisa. Kantner ha potuto anche lui parlare con l’Inquirer, spiegando, ma non è chiaro come, che la coppia aveva chiesto aiuto all’ambasciata tedesca a Manila. Alla vicenda mancano diverse conferme e i fatti sono ancora da determinare nei dettagli. La stessa domenica il corpo della donna ormai senza vita è stato trovato dai residenti sulla barca dei tedeschi.

Abu Sayaff è attivo ormai da oltre un decennio nelle acque dell’arcipelago di Sulu dove il gruppo, autore di sequestri estorsivi ammantati di retorica jihadista, è famoso per la sua ferocia: il 25 aprile scorso, solo per ricordare un caso, la testa di un ostaggio canadese, per cui non era stato pagato il riscatto, venne ritrovata in un sacchetto di plastica nelle strade di Jolo, la capitale delle Sulu.
Metà jihadisti, metà banditi, gli uomini di Abu Sayyaf (brando divino) terrorizzano la piccola enclave insulare da anni facendosi beffe dei tentativi dell’esercito di far piazza pulita come promesso anche dall’ultimo presidente appena eletto, il controverso Rodrigo Duterte. Qualche tempo fa Abu Sayyaf ha promesso fedeltà ad Al Bagdadi, andando a ingrossare le fila degli adepti del califfato a Est di Raqqa.

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Il premio letterario Multaqa del Kuwait dedicato al racconto breve arabo

Nato in Kuwait nel 2015 dalla collaborazione tra il circolo culturale gestito dallo scrittore kuwaitiano Taleb Alrefai e la American University of Kuwait, il premio Multaqa per il racconto breve arabo è l’ultimo nato tra i premi letterari made in Golfo, dopo l’Arabic Booker di Abu Dhabi e il premio Katara del Qatar, che però … Continua a leggere Il premio letterario Multaqa del Kuwait dedicato al racconto breve arabo

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Dossier. Siria: resistenza cittadina

 

Dossier. Syrie : résistance citoyenne | babelmed | culture méditerranéenneLa Siria stremata dai bombardamenti russi, stretta fra la dittatura di Bashar Assad e gli orrori di EI, uomini e donne della società civile: artisti, comici, attivisti, scrittori, usano il loro talento e la loro generosità per continuare a tutti i costi a vivere insieme. Articoli selezionati da Enab Baladi e Siria Untold nell’ambito del programma Ebticar.

Dossier. Siria: resistenza cittadina

 

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‘Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra’

Incontro con la giovanissima scrittrice britannica Sumia Sukkar al Pisa Book Festival – Il conflitto siriano raccontato da un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger. – Domenica 13 novembre ore 14,00 Sala Fermi – Presenta Luca Murphy.

Immagini, voci e qualche polemica dal Salone Internazionale del Libro di Algeri

Dal 26 ottobre al 5 novembre, la città di Algeri ha ospitato la 21° edizione del Salone Internazionale del Libro di Algeri. Ospite d’onore di questa edizione – come sapete, ogni Fiera del Libro in ogni angolo del mondo ha sempre un Paese ospite –  è stato l’Egitto, mentre il focus è stato sulla terza … Continua a leggere Immagini, voci e qualche polemica dal Salone Internazionale del Libro di Algeri

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Rethinking Lebanese Welfare in Ageing Emergencies

“Lebanon Facing the Arab Uprisings. Constraints and Adaptation” is the newly issued volume on Lebanon edited by Dr Rosita di Peri and Dr Daniel Meier (copyrights: 2017). Here below the abstract of my book chapter “Rethinking Lebanese Welfare in Ageing Emergencies”, pp. 115-133. You can find here all contributions: http://www.palgrave.com/gp/book/9781352000047#aboutBook A cycle of internal displacement and […]

Rethinking Lebanese Welfare in Ageing Emergencies

“Lebanon Facing the Arab Uprisings. Constraints and Adaptation” is the newly issued volume on Lebanon edited by Dr Rosita di Peri and Dr Daniel Meier (copyrights: 2017). Here below the abstract of my book chapter “Rethinking Lebanese Welfare in Ageing Emergencies”, pp. 115-133. You can find here all contributions: http://www.palgrave.com/gp/book/9781352000047#aboutBook A cycle of internal displacement and […]

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Rethinking Lebanese Welfare in Ageing Emergencies

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Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Marcia indietro per Sharbat Gula: non sarà espulsa (aggiornato)

Sharbat Gula resterà in Pakistan. La donna che doveva essere espulsa in Afghanistan settimana prossima, ha visto una marcia indietro delle autorità di Islamabad (vedi articolo precedente), dopo che il caso ha iniziato a girare. Resterà come rifugiata in Pakistan. La scelta, spiegano i media afgani, si deve anche alle pressioni interne e non solo al clamore internazionale.

Alla fine le è servito essere il viso simbolo della guerra afgana anche se la sua vita da rifugiata non sembra proprio essere un premio per quegli occhi che fecero il giro del mondo nelle immagini del fotografo McCurry.

Amici afgani mi dicono che il presidente Ghani le ha offerto casa in Afghanistan. La popolarità fotografica alla fine ha sortito un effetto…

Cucina yemenita: Bint al-Sahn, torta di sfoglia dolce-salata

Con la ricetta di oggi andiamo in Yemen alla scoperta di un piatto che, vista la sua lunga preparazione, è difficile trovare nei ristoranti, ma che abbonda nelle case, soprattutto in occasioni particolari: Bint al-Sahn, torta di sfoglia dolce-salata! Ingredienti: 500gr di farina di grano duro 4 uova 60ml + 60ml di acqua 170g + […]

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Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Espulsa dal Pakistan la "ragazza copertina" della guerra afgana (e con lei 400mila meno famosi)

A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. E’ la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry, che rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984 quando aveva 12 anni nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori.

Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati ma un milione è senza documenti come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dar via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano in casa si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan ma, al netto della quantità, con modalità che ci apparentano a un Paese sempre alla berlina: chi vuole tornare sarà infatti aiutato ma chi non vuole – e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro – verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Che per ora tace.

Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.

Call for Papers: Refugee Self-Support and Local Markets in ‘Host’ Cities

(Zaatari Refugee Camp, Northern Jordan) Call for Papers: “Beyond Crisis: Rethinking Refugee Studies” Refugee Studies Centre, Keble College Oxford, 16 and 17 March 2017 Panel abstract for the theme “Autonomy and Assistance”: Refugee Self-Support and Local Markets in ‘Host’ Cities As refugees increasingly become part of the city fabric in receiving countries, not only governments and […]

Call for Papers: Refugee Self-Support and Local Markets in ‘Host’ Cities

(Zaatari Refugee Camp, Northern Jordan) Call for Papers: “Beyond Crisis: Rethinking Refugee Studies” Refugee Studies Centre, Keble College Oxford, 16 and 17 March 2017 Panel abstract for the theme “Autonomy and Assistance”: Refugee Self-Support and Local Markets in ‘Host’ Cities As refugees increasingly become part of the city fabric in receiving countries, not only governments and […]

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Siria. Fiato sospeso ad Aleppo

Fiato sospeso nella città di Aleppo: alle 19 di oggi scade l’ultimatum russoper il “corridoio umanitario” promesso ai ribelli per la fuga. Gli attivisti, che abbiamo raggiunto telefonicamente, avvertono: “Sarà una carneficina”. 

 

 

04 Novembre 2016
di: 
Fouad Roueiha

Siria. Fiato sospeso ad Aleppo

Fiato sospeso nella città di Aleppo: alle 19 di oggi scade l’ultimatum russoper il “corridoio umanitario” promesso ai ribelli per la fuga. Gli attivisti, che abbiamo raggiunto telefonicamente, avvertono: “Sarà una carneficina”. 

 

 

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04 Novembre 2016
di: 
Fouad Roueiha

Leila Slimani vince il Prix Goncourt

La giuria del Prix Goncourt ha comunicato il suo verdetto assegnando il prestigioso premio letterario francese a Leila Slimani e al suo secondo romanzo “Chanson douce”, pubblicato da Gallimard. Classe 1981, la scrittrice, commediografa e giornalista per Jeune Afrique, è nata a Rabat, ma vive a Parigi dal 1999 ed è sposata con un francese. […]

L’articolo Leila Slimani vince il Prix Goncourt sembra essere il primo su Arabpress.

La Tunisia saprà ascoltare la voce delle sue vittime?

Olfa Belhassine Dopo averla più volte rimandata, l’Instance Verité et Dignité, resa operativa ufficialmente il 9 giugno 2014, terrà finalmente la sua prima audizione pubblica delle vittime il prossimo 18 novembre. Tuttavia questo momento cruciale del percorso della giustizia di transizione può incorrere in tre rischi principali. L’evento del prossimo 18 novembre verrà trasmesso da tutte le televisioni tunisine, in lieve […]

La Tunisia saprà ascoltare la voce delle sue vittime?

Olfa Belhassine Dopo averla più volte rimandata, l’Instance Verité et Dignité, resa operativa ufficialmente il 9 giugno 2014, terrà finalmente la sua prima audizione pubblica delle vittime il prossimo 18 novembre. Tuttavia questo momento cruciale del percorso della giustizia di transizione può incorrere in tre rischi principali. L’evento del prossimo 18 novembre verrà trasmesso da tutte le televisioni tunisine, in lieve […]

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