Mese: ottobre 2013

MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

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Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

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Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

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Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

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Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

La migrazione clandestina nello specchio della letteratura, Laila Lalami e le sue “Speranze”

Più della morbosità dell’occhio fotografico, dell’invasività indagatrice delle telecamere,  della freddezza dei numeri e delle statistiche, della rigidità delle legislazioni e del buonismo occasionale dei salotti televisivi, più e prima di tutto ciò a raccontare il dramma dell’immigrazione clandestina c’è la letteratura. Ad avvertire l’emorragia dei migranti, il trasformarsi del Mediterraneo  in un cimitero di … Continua a leggere

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Più della morbosità dell’occhio fotografico, dell’invasività indagatrice delle telecamere,  della freddezza dei numeri e delle statistiche, della rigidità delle legislazioni e del buonismo occasionale dei salotti televisivi, più e prima di tutto ciò a raccontare il dramma dell’immigrazione clandestina c’è la letteratura. Ad avvertire l’emorragia dei migranti, il trasformarsi del Mediterraneo  in un cimitero di … Continua a leggere

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Più della morbosità dell’occhio fotografico, dell’invasività indagatrice delle telecamere,  della freddezza dei numeri e delle statistiche, della rigidità delle legislazioni e del buonismo occasionale dei salotti televisivi, più e prima di tutto ciò a raccontare il dramma dell’immigrazione clandestina c’è la letteratura. Ad avvertire l’emorragia dei migranti, il trasformarsi del Mediterraneo  in un cimitero di … Continua a leggere

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Con l’operazione Mare nostrum, sfugge la parte “umanitaria”

Per affrontare l’emergenza sbarchi, il governo da il via all’operazione “Mare nostrum”. In sintesi: Il 14 ottobre al termine di un vertice a palazzo Chigi il ministro dell’interno Angelino Alfano e il ministro della difesa Mario Mauro hanno annunciato che dal 15 ottobre sarà lanciata l’operazione militare Mare nostrum per il pattugliamento del Mediterraneo. Nell’operazione […]

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

Quale rivoluzione

[Inchieste – La Repubblica 30 sett. 2013] – La rivoluzione tunisina è finita? O è solo all’inizio? Forse una rivoluzione non c’è mai stata, ed era tutto un complotto? C’è molto di rivoluzionario in ciò che ha iniziato a svolgersi…

MARCO ALLONI – Caro Quirico, l’Islam moderato esiste

I.
Domenico Quirico, il giornalista della Stampa sequestrato e poi liberato dai jihadisti del Free Syrian Army, merita un tributo di rispetto per una ragione che sta molto al qua della sua audacia – in definitiva pleonastica – di giornalista. Dico pleonastica perché un reporter audace è appunto – malgrado le varie Lucie Goracci sguinzagliate a […]

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Gli amici americani del Presidente Bashar al-Asad

Ricevo “il dossier” e lo descrivo. Il 12 giugno 2012 appariva su youtube il video (sfocato). Le persone dietro la telecamera e la donna parlano in curdo. La descrizione del video, in arabo, recita: Aleppo, Sheykh Maqsud. Attivista curda prima…