Mese: ottobre 2017

Che fine ha fatto la rivoluzione siriana?

Caduta Raqqa, la guerra continua. Ma la partita non è solo militare. Anche se la rivolta civile che scosse il regime sembra lontana. E c’è chi pensa non ci sia mai stata. Chiedetelo ai siriani che quella rivoluzione l’hanno fatta. E hanno ancora in testa un’idea di futuro per la Siria

Lorenzo Declich
Martedì, 31 Ottobre 2017

Manifestazioni durante la rivoluzione siriana. REUTERS/Majed Jaber Manifestazioni durante la rivoluzione siriana. REUTERS/Majed Jaber

La città di Raqqa,  la cosiddetta capitale siriana dell’organizzazione dello Stato Islamico, è caduta. A conquistarla sono le Syrian Democratic Forces, guida curda, contingenti arabi, aviazione – sempre più letale e sempre meno “intelligente” – degli americani. È uno dei tanti capitoli di una guerra della quale ancora non vediamo la fine, una delle molte guerre siriane, per l’esattezza: quella di Is contro tutti.


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Una guerra che perderà di intensità ma permarrà a lungo: i perdenti di oggi sono annichiliti ma ben lungi dall’essere sconfitti anzi, intuiamo che i terroristi in Siria vanno sempre più radicandosi, riproducendo ciò che in Iraq è già da tempo una realtà: una sotteranea rete di relazioni basata su interessi economico-criminali. (Su questo tema consigliamo la lettura di questa importante testimonianza apparsa sul New Yorker.)

La partita in Siria non è solo militare, anzi. Quello di Raqqa, e con Raqqa gran parte dell’area orientale del Paese, è solo un esempio: mentre ci si incammina verso un qualcosa che sarebbe bene definire “pacificazione” più che “pace”, si aprono i file a medio termine più importanti: sociale, politico, economico.

E’ in frangenti come questi che ci si chiede quale sarà davvero il futuro della Siria, se ci sarà spazio per qualcosa di più di un regime tirannico che maltratta i suoi sudditi e si fa imporre l’agenda dai propri alleati esterni (Russia, Iran, Cina). Ed è a questo punto del ragionamento che ci chiederemo “che fine ha fatto la rivoluzione siriana?”. Che fine hanno fatto quelle decine di migliaia di persone che scendevano in piazza per chiedere riforme sociali, politiche, economiche? Sono ancora in grado di fare qualcosa? Di cambiare le carte in tavola?

Per prima cosa, rispondendo a queste domande, non bisogna dare per scontato che tutti siano d’accordo sul suo “frame”. Molti, cioè, diranno che la rivoluzione siriana non c’è stata, che era tutto un complotto internazionale contro la “ridente Siria” di Bashar al-Asad, poi tradottosi in un attacco imperialista in grande stile.

Invece ciò che in Siria è avvenuto a partire dai primi mesi del 2011 è molto chiaro: un rivolta pacifica che, dopo una repressione violentissima e cieca, è divenuta una vera e propria rivoluzione le cui due anime nonviolenta e armata hanno convissuto fino all’irruzione, da ambo le parti, delle potenze straniere piccole e grandi che hanno trasformato il conflitto da “guerra in Siria” a “guerra per la Siria” e hanno letteralmente cancellato dallo scenario i siriani stessi.

L’antidoto migliore per capire se qualcosa di quella rivoluzione rimane, e per smascherare i cospirazionismi, si ottiene tracciando solchi nella storia, solchi che attraversano i luoghi comuni. Si pensi un uomo come Mazen Darwish, ad esempio, uno dei più importanti attivisti per i diritti umani della Siria. La sua attività politica inizia ben prima della rivolta, nel 2004 (quando fondò il Syrian Center for Media and Freedom of Expression). Lo ritroviamo oggi, dopo anni di carcere nelle prigioni di Asad (l’ultima volta è stato detenuto dal 2013 al 2015). E quando si tratta di parlare di vincitori e vinti in Siria dice: “Non si tratta di decidere chi ha vinto. Si tratta di capire come facciamo a liberare i detenuti, a far cessare la tortura, a ritrovare le persone scomparse”.

Darwish, cioè, dice le stesse cose che diceva prima, durante e dopo la rivolta, la rivoluzione e la guerra siriane. Dice di essere ancora in lotta per vincere la pace, non la guerra: questo da sempre fa. Quest’uomo non è parte di chissà quale complotto, è semplicemente una persona che vuole cambiare le cose nel suo Paese e nessuno lo ferma, mai, se non con le cattive.

Quindi, alla domanda “che fine ha fatto la rivoluzione siriana”, si potrebbe semplicemente rispondere: chiedi a Mazen Darwish, a Yara Badr, a Yassin al-Haj-Saleh, a Razan Ghazzawi e a quelli come loro, che sono ancora tanti. Chiedi a quei siriani che la rivoluzione l’hanno fatta e che non sono scomparsi nelle carceri di Asad, non sono finiti nelle mani dello Stato Islamico o di qualche altro gruppo jihadista, non sono morti sotto i bombardamenti e ancora vogliono libertà, dignità e cittadinanza, le tre parole chiave della rivoluzione.

Questi siriani, sebbene non li vediamo quasi mai comparire in televisione o sui giornali, hanno costruito in questi anni un’idea di futuro per il loro Paese, un’idea ben diversa da quella che possono avere un Putin, un Ruhani, un Trump, un Erdogan o un petromonarca a scelta fra i più vieti.

Certo le circostanze non sono favorevoli. Si pensi che una delle nuove iniziative per la costruzione di una Siria civile e democratica si intitola “Noi esistiamo“.

A causa della loro debolezza dovremmo rivolgerci ai “padroni del mondo?” Cioè a leader politici che hanno dimostrato tutto il loro cinismo e una peculiare mancanza di scrupoli? Da cittadini, da persone democratiche che conoscono il significato dell’espressione “diritti umani”, la nostra risposta dovrebbe essere un sonorissimo “no”.

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Esperto di mondo islamico contemporaneo, Lorenzo Declich è autore del recente “Siria, la rivoluzione rimossa” (edizioni Alegre)

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France and Egypt: Allies of convenience

France and Egypt: Allies of convenience

The exact dates of the presidential visit remained unconfirmed until the last minute, as usual. On October 23, though, Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi entered French airspace with great pomp, escorted by several Rafale French fighter jets bearing the tricolor cockade and the Egyptian flag.

Sisi was on his first official visit to Paris since the election of French President Emmanuel Macron. Although the two men had met briefly before — at the 72nd General Assembly of United Nations in New York in September — bilateral relations have mostly been negotiated through their respective ministers, who are by now familiar with one another. Both Jean-Yves Le Drian, the French minister of foreign affairs, and Florence Parly, French minister of the Armed Forces, have already met with the Egyptian strongman and various Egyptian ministers on visits to Egypt over the last few months.

On Sisi’s arrival in Paris, the red carpet was rolled out by none other than Eric Trappier, the CEO of Dassault, manufacturer of the same Rafale aircraft that gave Sisi the guard of honor on his way to Paris, and welcomed the Egyptian president after his arrival on French soil. The enthusiastic businessman also congratulated Egyptian pilots for “their high quality performance,” and for training in “record time” to fly Rafale aircraft.

Sisi met with Parly the day he arrived at the Armed Forces’ headquarters, making reference to the “fruitful cooperation” between the two nations and adding that he eagerly anticipates the development of such collaboration in the future. In the meetings that followed, he reiterated this desire several times — to Hervé Guillou, CEO of the Naval group, to the head of the national railway company Guillaume Pepy, and to the French president himself.

Macron echoed Sisi’s desires for greater collaboration in a joint press conference: “Your presence here in Paris, by my side, is a testimony to the friendship you have for our country, and your busy program […] demonstrates the importance of your visit for France, and the very close cooperation that binds us.”

The two men have amassed an impressive portfolio of joint initiatives: Investment in Egypt’s new Suez Canal passageway, potential contracts for energy diversification, consultancy regarding improving Egypt’s railways, as well as academic and cultural ties.

The postcard is picture perfect. No one could dream of a better diplomatic relationship, right? But what is scribbled on the reverse of the enthusiastic smiles?

The verso of this glowing picture shows at least 60,000 political prisoners, proven cases of torture and sexual violence by Egyptian authorities and security forces, forced disappearances and extrajudicial executions. At least 434 websites have been blocked in Egypt, and the state is waging an ongoing crackdown on LGBTQ individuals, NGO workers, artists, atheists, researchers and journalists. Basically a blacked out square of human rights violations implemented by Sisi’s regime, with no French address to send complaints to.

“Emmanuel Macron should end now this era of indulgence towards Cairo,” Human Rights Watch stressed in a statement on the day of the presidential meeting. “Continuing to support Egypt’s repressive government would betray the country’s brave activists, who face grave risks trying to make their country better,” added HRW France’s director Bénédicte Jeannerod.

The relationship between the two countries in recent years has centered on military and security cooperation and counterterrorism, while France has turned a blind eye to Egypt’s worrying human rights record. Macron defended this position during Sisi’s visit, saying it is not his place to “lecture” Egypt on civil liberties. “I believe in the sovereignty of states and therefore. Just as I don’t accept being lectured on how to govern my country, I don’t lecture others […] My deeply held conviction is that it’s in President Sisi’s interests to address defense and human rights in a way that only he can be the judge of,” the French president said.

France rolls out the red carpet every single time Egypt asks for it, as for this most recent autumnal visit. The dust is, meanwhile, conveniently and repeatedly swept underneath.

Allies in fighting terrorism, however badly

After dropping historical ally President Hosni Mubarak and publically supporting Egypt’s January 25 revolution against authoritarian rule, France has again backed Egypt’s military establishment, in the form of Sisi and his generals.

The current French administration has a belief that it must support Egypt in regaining its traditional place as a regional power, says Agnes Levallois, consultant and vice-president of the Iremmo institute. This has been usurped by Saudi Arabia recently, she adds, so the feeling in France is, “Okay, Saudi Arabia plays its role, but it does not have the same cards as Egypt. It does not have the same experience. It does not have the same history to be able to take up this responsibility on its own. Therefore, we must help Egypt.”

This isn’t altruism. Western nations like France need a partner they can rely on in an unstable region, preferably with a strong leader at its head. Egypt shares 1,200 km of its borders with Libya, and is therefore on the front line to block waves of refugees and migrants attempting to enter Europe. Macron’s government, which has made Libya and the influx of refugees from its shores to Europe a major priority, is keen to support and utilize Egypt in this effort.

The motivation is domestic politics, says a French diplomat who spoke on condition of anonymity, adding that Macron spares no expense on Libya because he doesn’t want to be blamed for immigration by his people. The French president forgets, however, that Egyptians are also increasingly trying to leave via their own shores, as illustrated last year when a boat trying to leave from the coast of Rashid sank with a large number of Egyptian passengers. Many refugees coming from the Horn of Africa have also opted to make their journeys to Europe via Alexandria and other Egyptian port cities.

Another hope that France is pinning on bilateral ties with Egypt is that militant cells and individuals will be contained and not spread to Europe. But here too, France is short sighted in imagining such individuals would have to travel through Egypt, or even that the Egyptian regime is managing to influence or reduce their activity. Until recently, this threat was largely confined to Egypt’s North Sinai Peninsula, but militant attacks and operations by security forces have since spread to other areas of Sinai and into the heart of the Nile Valley, the Delta, Upper Egypt and the Western Desert, in its proximity to the Libyan border.

That Egypt is not as strong or stable as authorities would like their French counterparts to believe isn’t particularly an issue in choosing regional allies, as Paris doesn’t see another option, says Agnès Levallois. Supporting Arab leaders willing to fight the immediate threat of militant groups is a shortsighted strategy that France has always had, without consideration for the underlying political issues, she adds.

Commonly described as discreet, cautious and a hard worker, French Foreign Affairs Minister Jean-Yves Le Drian (former minister of defense under François Hollande) is the architect of this play-it-by-ear strategy, and despite the change in French leadership, he has forged ahead his agenda of “assertive political realism,” as described by his collaborators.

“We are employing a short-term strategy,” admit several French diplomats, who spoke on condition of anonymity. Short-term and tinged with cynicism. What we refer to as “realpolitik” in the jargon.

The crafty foreign affairs minister

The French minister of foreign affairs visited Egypt for the eighth time in June, officially to offer his condolences following an attack on a bus carrying Copts in Upper Egypt. Having just taken on his new role, Le Drian addressed a crowd of Egyptian journalists and media representatives on the 26th floor of the infamous Foreign Ministry building in Cairo. “It’s not a coincidence that I’m here again,” he said, ignoring hands waving in front of him with questions. Later on he visited with Coptic Pope Tawadros II and hailed the visit a “friendly gesture” towards his Egyptian counterpart. But purely friendly gestures never happen in diplomacy.

The visit was, of course, about more than was officially claimed. For Le Drian, the motivation for his trip was undoubtedly the situation in Libya, with which the minister has been concerned for many years. Sisi had ordered several missions in eastern Libya led by Rafale aircraft after the bus attack. “We cannot let terrorists and traffickers of any kind prosper on Egypt’s borders, at the gates of Europe,” Le Drian said during a press briefing. Libya plays an important role in the progress of peaceful solutions to which Egypt and France are very attached, he added.

Juicy defense contracts

Many stones have been placed carefully onto the tower of collaboration during these eight visits. Since 2014, Egypt has signed a US$1 billion deal with France for four warships and a $6 billion deal for 24 Rafale jet fighters. France has also sold weapons and military services to Egypt, including a $700 million military satellite, two Mistral helicopter carriers at $1 billion, originally built for sale to Russia, and rockets, firearms and ammunition amounting to almost $1 billion.

French policies regarding the export of arms are supposedly informed by rights-related regulations, including the December 2008 European Council Common Position that defines eight criteria for arms exports. This includes a requirement that EU countries “deny export licenses if there is a clear risk that the military technology or equipment exported might be used for internal repression,” or for “serious violations of international humanitarian law.” At least 13 EU countries are violating this requirement, including France, despite the EU Foreign Affairs Council urging members to suspend export licenses to Egypt in 2013 and 2014.

All military equipment exported by France has to be authorized by the prime minister. Such talks are classified and confidential, explains Aymeric Elluin, advocacy officer for weapons and international justice at Amnesty International.

“France doesn’t have any obligation to provide a public report on why certain exports were made or not,” he says, adding that Amnesty has one request: That the French government reveals what its reasons are for continuing to export military equipment and services to Egypt.

“It is time for French diplomats to stop playing VRP weapons manufacturers at the risk of seriously violating the provisions of the Treaty on the Arms Trade, ratified by Paris in 2013, and of international law more generally,” says Dimitris Christopoulos, director of FIDH. “If France is to maintain a ‘privileged’ relationship with Egypt, it can only continue in a climate of transparency, and any trade agreements must be conditional on a strict respect for human rights.”

Meanwhile, more stones are being added to the pile and Egypt’s shopping list is growing. Sisi raised the matter of acquiring 12 new Rafale aircraft, telecoms satellites and new Falcon aircraft during his latest trip to Paris.

“Amnesty International’s research has shown that armored vehicles exported by the US and France were used to facilitate extra judicial executions and the unlawful killing of protestors,” says Aymeric Elluin. The Egyptian military has also carried out a number of operations against armed groups in North Sinai with armored vehicles, tanks, Apache helicopters and F-16 aircrafts. HRW has published evidence showing that civilians are often victimized during such operations.

“President Macron should refuse to continue France’s disgraceful policies of indulgence toward Sisi’s repressive government,” Benedicte Jeannerod from HRW says.

France needs answers too, or does it?

The French obsession for “security everywhere” has had the effect of making Paris ignore its grievances with Egypt and its need for answers. The investigation into the crash of aircraft MS804 was stalled after a year and a half. Cairo tried to blackmail Paris into claiming the crash was the result of a terrorist attack, with no evidence to support such a claim. France even sent a number of diplomats to attend a tribute ceremony to the victims in Egypt, despite their families’ refusal to participate.

Also stalled with no resolution is an investigation into the death of French teacher Eric Lang, who died in an Egyptian police station in 2013, reportedly killed by his cellmates with encouragement from their jailers. Neither was there any official explanation for the death of Cécile Vannier in 2009 in a terrorist attack in Cairo, or for the deporting of a French journalist in spring 2016.

French authorities explain this lack of follow up through the current administration’s policy of not openly criticizing other nations for their human rights records, and maintaining that private diplomacy is more effective in solving such cases.

But, according to a French senior diplomat, who spoke on condition of anonymity, many senior French officials, including Macron, don’t really understand the Middle East, and those who do are not often heard. There have been small improvements recently, as members of the French delegation at least remembered who they had met in Egyptian rights organizations on their return from Cairo to Paris last time.

The policy is to satisfy French commercial interests, even if they contradict regional interests, and even though Egypt is on a financial drip from Gulf countries and pays on credit.

The two countries also prefer to exchange medals of honor on the sly. Le Drian was publicly recognized last February in Cairo for his contribution to an “unprecedented boom” in military cooperation, according to a statement from the Egyptian presidency. Sisi decorated him with “the order of the Republic of the first category.” In exchange, Le Drian awarded the Egyptian minister in charge of military production, Mohamed al-Asar, “Commander of the Legion of Honor” — the highest French distinction for his role in strengthening relations between France and Egypt. Asar is among a few ministers who has remained in government since the days of Mubarak. He has been accused of having a hand in the Maspero massacre in October 2011. Asar’s award is not listed in the registers of the Legion d’Honneur. When asked about this, an employee merely remarked that some medals exchanged between officials don’t appear publicly in the listings.

In recent years, France’s relationship with Egypt has been developed for the sake of fighting terrorism, preventing unwanted migrants from arriving on European coasts and agreeing arms deals. But does this relationship have any benefits besides contributing to the legitimation of a repressive power? Absolutely not, and many Egyptians are well aware of this. During Sisi’s French visit, Egyptians commented on social networks: “Shame on you France,” and the “France of Macron is an international disgrace.”

Success Stories in Nonviolence from Iraqi Youth

A youth panel on non-violence, organized by the Iraqi Social Forum and the Iraqi Civil Society Solidarity Initiative

Baghdad – October 2017

On 21 October, in a unique event in Baghdad, the Baghdad La-Onf group, which works closely with the Iraqi Social Forum to promote nonviolent principles and action, organized their first youth panel. The panel gave individuals the opportunity to share their own success stories in nonviolence and peace-building through art, sport and social networking. The event was held in Karrada, the heart of Baghdad, in celebration of the International Day of Nonviolence and the birth of the leader, Gandhi.

The talk show presented many different experiences from young people who engaged in nonviolent actions as a way to rebuild peace in Iraq. The show included theatrical and musical performances as well, and highlighted the way these young activists are working actively to change social reality through personal effort and cooperative volunteer work.

At the start of the show, Mahmood al-Hiti, an activist from the Shakoufyan Initiative active in Hit, presented his experience of peace-building as he and a team of volunteers worked to rehabilitate a number of schools in the city for the returnees after the liberation of Hit from Daesh.

Bara, part of the Sports Against Violence team in Iraq, presented her experience helping to organize a range of sports activities, and explained the positive impact of those activities on both members of the team and on the broader community.

Salman Khairallah described his work with the team, Humat Dijlah, and their efforts to protect the Tigris River. He stressed the importance of preserving the environment and protecting bodies of water for these are elements that contribute directly to the stability of the community. A flourishing natural environment contributes to peace-building, and builds solidarity among the residents of those cities through which the Tigris and Euphrates rivers flow.

Rawan, the youngest participant in the talk show, shared her experiences of volunteer work with her father in the city of Babylon. Together they put a smiles on the faces of children, showing them how to change their lives for the better by giving them greater opportunities for their futures. More specifically, with a volunteer team, Rawan helps displaced children and fights for children’s rights, and led more than 200 children in a demonstration calling for the right of Iraqi children to live decent lives. The volunteers have also organized campaigns promoting music and reading. Rawan is also working on a humanitarian project to help 150 displaced children in her hometown who fled from Daesh. In the future, she hopes to establish a children’s parliament to ensure children’s voices are heard.

The Mashofna team from Nasiriyah put on a theatrical performance about the protection of migratory birds and aquatic life in the marshes of Iraq, in which they warned of the dangers of overfishing, and raised awareness about the need to preserve biological diversity within the marshes.

Fatima and Hassan shared their beautiful story about their volunteer team called ‘Baghdad City of Peace’. Every year, this team organizes a special festival to celebrate International Peace Day in Baghdad. They spoke of their efforts to spread word of their festival through social networking sites, in hopes of reaching other volunteers in governorates beyond Baghdad who might put on festivals as well. And in fact, many youth teams in the other Iraqi cities were able to organize festivals that promoted beauty and art, thus helping to change the image of Iraq as a country of war and destruction.

Ahmed Abdul Salam, member of HHU, a rap group from the city of Hit, shared his experience of positive rap, and how his band was launched from the Upper Euphrates. He spoke of the prospects for the development of this art within the youth community.

The talented musician Hussein Samah from Diyala city shared his experience of how he managed to transcend the image of blood and destruction with his dear friend, the Piano, and talked about his dreams and his message to re-present sophisticated music and singing to the younger generation.

The show ended with a performance of a rap song by Ahmed from HHU band, as well as the number of beautiful songs that dazzled the audience by Hussein Samah, ending with Ali Taqi, who presented “beat box” show with the rapper Ahmad.

The Baghdad Nonviolence Team presented this event within the space of the Iraqi Social Forum, in collaboration with Sawtona Organization, Information Center for Research and Development, the Italian Organization Un Ponte Per… and the Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, as part of a project funded by the Swiss FAI Foundation. The aim was to disseminate experiences and success stories of youth groups that contribute to the spread of nonviolence and promote peace, igniting youth energy that looks to the future with optimism and believes that ‘Another Iraq is Possible’.

L’Arabie saoudite accorde la citoyenneté à un robot

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Lors du forum économique Future Investment Initiative qui s’est déroulé à Riyad du 24 au 26 octobre, l’Arabie saoudite a accordé la citoyenneté à un robot. Une première dans le monde, qui n’est pas sans provoquer une certaine polémique.

Egypte: Sissi remanie la tête de l’appareil sécuritaire

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En Egypte, le chef d’état-major des armées ainsi que le chef de la direction de la sécurité nationale ont été remplacés samedi 28 octobre à l’issue d’une réunion du président Abdel Fattah al-Sissi avec les ministres de la Défense et de l’Intérieur ainsi que des chefs des services de renseignement. Des changements liés à l’embuscade tendue par des jihadistes et qui avait officiellement coûté la vie à 16 policiers dans les oasis vendredi 20 octobre.

Irak: vers un accord entre Bagdad et Erbil

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A l’issue de la trêve de 24h accordée par le Premier ministre irakien aux forces kurdes, des représentants des deux forces ont affirmé avoir fait un pas en avant vers un accord définitif entre le gouvernement national et le gouvernement de la région indépendantiste.

Ius soli birmano

asinirid.jpegQuesto articolo sui Rohingya è stato scritto per la rivista Gli Asini*

La maggior parte delle volte le storie di confine sono drammatiche. Dove un cartografo disegna una frontiera, approfittando di un fiume, di una catena montuosa o semplicemente tracciando una linea retta su un territorio che la mappa geografica rende asettico, vivono persone e animali e si dipana la storia infinita della biodiversità. La geopolitica tiene poco in conto le persone (gli animali e la biodiversità) ed è semmai attenta alla proprietà (se è in mano a uomini potenti) o ai prodotti della terra, siano essi agricoli o fossili. Le vicende che in questi giorni hanno a che vedere con la fuga dal Myanmar verso il Bangladesh di 500mila rohingya, una minoranza musulmana che vive (o meglio viveva) nello Stato birmano del Rakhine, hanno molto a che vedere con la storia di un confine – quello tra il mondo birmano e quello bengalese – che nei secoli si è spostato, cambiando di mano e di segno in seguito a guerre, dispute, cambi della guardia al vertice dei poteri che, di volta in volta, hanno comandato su questi territori.

Tutti conoscono la storia di violenze che i rohingya subiscono dal 2012, quando il primo pogrom recente (la persecuzione ha radici antiche) ha prodotto oltre centomila sfollati interni. Allora pareva soprattutto una vicenda di intolleranza religiosa alimentata da gruppi identitari buddisti che vedevano nei rohingya, considerati non birmani e immigrati bengalesi per di più musulmani, un pericolo per l’integrità di un Paese che è stato la culla del buddismo. Nel 2016 una nuova ondata di violenze si doveva nuovamente abbattere su quel milione di rohingya ancora in possesso di una casa e un campo da coltivare o una capra da mungere. L’attacco di un gruppo secessionista ad alcuni posti di frontiera scatena una reazione che produce allora un esodo di circa 80mila persone verso il Bangladesh. Passato qualche mese, nell’agosto di quest’anno, in seguito a un altro attacco dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), una nuova spropositata reazione dell’esercito (sono parole dell’Onu che non ha esitato a utilizzare anche la locuzione “pulizia etnica”) ha invece prodotto un nuovo massiccio esodo di circa mezzo milione di profughi. A far le somme, e considerato che ormai la diaspora di questa comunità conta nel mondo quasi due milioni di persone, non solo la maggioranza dei rohingya risiede ormai all’estero (oltre un milione nel solo Bangladesh) ma i numeri di questa popolazione nel Myanmar sono ormai così ridotti che la scomparsa dei rohingya dai territori birmani è ormai forse solo questione di qualche anno. Forse di mesi.
Cosa c’entrano in tutto ciò le frontiere e la loro eredità?

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Il Rakhine oggi, area birmana. Cosa è stato nei secoli?

Dobbiamo fare un passo indietro. Fino al 1700 l’Arakan, l’attuale Stato birmano del Rakhine, era un regno indipendente che alla fine di quel secolo doveva finire sotto i monarchi birmani. I birmani però volevano espandersi sempre più a Ovest ed entrarono in conflitto con le mire di Calcutta, la capitale della British India, che voleva invece allargarsi sempre più a Est. Sono però i birmani a perdere e nel 1824 – in seguito al trattato di Yandabo che conclude la prima guerra anglo-birmana – l’Arakan e altri territori sotto influenza birmana passano sotto l’India britannica. I rohingya, chissà da quanto tempo nell’Arakan, si ritrovano dunque, dall’essere stati sudditi di un regno indipendente prima e delle monarchie birmane poi, a diventare vassalli di Sua Maestà britannica, o meglio dell’amministrazione coloniale della Regina in India. Nei primi mesi del 1886 l’intera Birmania diventa una provincia dell’India britannica e nel 1887 diventa sede di un vice governatorato che solo nel 1937 passa direttamente a un’amministrazione separata, sotto la direzione del Burma Office di Londra (segretariato di Stato per l’India e la Birmania). Dunque i rohingya sono adesso sudditi britannici sotto un’altra formula e lo saranno sino al 1948 quando la Birmania, come la chiamavamo allora, diventerà indipendente. C’è anche da notare che, seppur brevemente, i rohingya, come i birmani, sono stati anche sudditi dell’Imperatore Hirohito – dal 1942 al 1945 – quando le forze nipponiche dell’Asse avevano invaso la Birmania per “liberarla” dal giogo coloniale britannico con la parola d’ordine “L’Asia agli asiatici”. In poche parole, più che essere i rohingya a spostarsi (cosa sicuramente avvenuta in passato nel corso di quel flusso migratorio universale che ha interessato e interessa tutti i popoli del mondo che si muovono per i più svariati motivi), sono stati i confini a tendersi o contrarsi come un elastico. La sola colpa dei rohingya, vine da dire, è quella di essere sempre stata una minoranza debole, non in grado di far sentire la propria voce.

Ora, le legge sulla cittadinanza del Myanmar, varata durante la dittatura militare nel 1982, riconosce tre categorie di cittadini: cittadini propriamente detti, associati o naturalizzati. Ma i rohingya non sono riconosciuti in nessuna delle categorie. La legge dice che, come recita la Costituzione del 1947, è cittadino birmano chi ha radici in una “razza indigena” o viveva nella “British Burma” prima del 1942, ossia prima dell’arrivo dei giapponesi. A quell’epoca chi abitava nell’Arakan era già da tempo sotto dominio britannico: un dominio strappato ai birmani e ancor prima a un regno indipendente aracanese. Autoctoni o meno dell’Arakan-Rakhine, nel 1942 la presenza dei rohingya nel Rakhine – che questi ultimi chiamano Rohang – datava probabilmente da secoli. E comunque, al di là delle polemiche sul termine “rohingya” che alcuni storici birmani dicono sia apparso solo negli anni Cinquanta del XX secolo, nel 1942 erano stati già stati sudditi britannici ben due volte: in un primo tempo sotto Calcutta (e dal 1911 Delhi) e in seguito direttamente sotto l’Ufficio Birmania a Londra. Benché sia certo che durante la dominazione britannica molte popolazioni, tra cui i bengalesi, si siano mosse all’interno dell’Impero, cosa è successo prima e durante gli inglesi? Non è difficile immaginare che nei secoli vi sia stata una sorta di osmosi tra le pianure e le colline del Bengala e le limitrofe aree birmane. E se è difficile determinare quando il primo rohingya sia nato e dove, si perde nella notte dei tempi la loro presenza (e quella più in generale musulmana) in un’area che un tempo confini non ne aveva affatto: tutt’al più fiumi, mari, colline o catene montuose. Barriere naturali geografiche che la Storia deve aver visto attraversare più volte, in questa o quella direzione: dal cacciatore nomade al pescatore, dal pastore transumante allo stesso agricoltore sedentario in cerca di luoghi dove eleggere domicilio.

Questa legge è dunque una cattiva legge – imperfetta, astorica, obsoleta e ingiusta – e andrebbe

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Terrore buddista. Un’analisi
sufficente?

riformata anche perché originariamente i rohingya avevano assai più diritti: potevano votare e candidarsi. Al netto delle colpe del governo civile birmano non si può dimenticare che proprio nei giorni del pogrom di fine agosto, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, incaricato da Aung San Suu Kyi, lo abbia detto a chiare lettere alla conclusione di un’inchiesta svolta proprio per affrontare la questione rohingya, un nome che in Bangladesh non si può nemmeno menzionare. Ma i militari, autori delle peggiori leggi del Paese, non solo non vogliono riconoscere il lavoro di Annan, che hanno definito “fazioso” e dunque falso, ma hanno spinto i partiti d’opposizione al governo di Suu Kyi, nato dalle elezioni del 2015 (con la vittoria della Lega nazionale per la democrazia), a una campagna contro il dossier Annan che ha tutta l’aria di una minaccia. La minaccia è che, se Suu Kyi, il suo partito e il suo governo dovessero tirare troppo la corda, i militari potrebbero ricorrere a un altro articolo della Costituzione, emendata dai generali nel 2008, che prevede (oltre a una quota a loro riservata in parlamento di un quarto dei seggi) che l’esercito possa ribaltare il governo in carica nel momento in cui esiste un pericolo reale per la stabilità del Paese. Il richiamo dell’opposizione a un dossier definito un’operazione che favorisce le forze straniere che minacciano il Myanmar non è, in altre parole, che la proiezione sulla situazione attuale dell’ombra di questo emendamento. Che garantisce un golpe costituzionale, dunque legittimo. Se finora non si è verificato è solo perché i militari controllano tre dicasteri chiave: Interno, Difesa, Frontiere.

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Aung San Suu Kyi: immagine tratta da BigThink

E’ questo il motivo per cui una paladina dei diritti umani e Nobel per la pace come Aung San Suu Kyi, e così i vertici del suo partito, sta tanto attenta a come parla (non li chiama rohingya ma semplicemente musulmani) e a cosa fa (oltre alla commissione Annan ne ha nominate altre ma con limitatissimo potere) a costo di attirarsi le ire del mondo intero. I militari vegliano sul Paese e, nel consesso internazionale, ci pensa Pechino – e in parte Mosca – a frenare eventuali prese di posizione del Consiglio di sicurezza (che finora ha adoperato un gergo assolutamente debole). Infine c’è l’India, non più britannica ma retta da un campione anti musulmano come Narendra Modi. Che, non solo ritiene al pari di Pechino il Myanmar un partner strategico ma che vorrebbe espellere tutti i rohingya immigrati in India (circa 40mila).

C’è un’ultima domanda ancora senza risposta. Perché? Basta una legge restrittiva? Una sorta di suprematismo buddista? Forme di xenofobia etnica e religiosa? C’è altro e ci sono altre leggi su cui merita soffermarsi. Le immagini satellitari diffuse recentemente da Human Rights Watch e da Amnesty International su vaste aree incendiate nella zona rohingya dello Stato del Rakhine riportano alla memoria fotogrammi più antichi come quelli con cui Hrw aveva stimato, nell’autunno scorso,  ad almeno 1500 gli edifici dei rohingya dati alle fiamme. Adesso, dicono all’organizzazione internazionale, non ci sono evidenze per poter dire chi ha appiccato gli incendi, se siano dolosi o provocati dal conflitto, ma è certo che la scia di fuoco si estende su una lunghezza di circa 100 chilometri, lungo tutte le aree delle tre township di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, unità amministrative dello Stato del Rakhine dove vive la maggioranza dei rohingya o quel che ne rimane.

Quei fotogrammi, ieri come oggi, rendono più chiaro non solo un processo di espulsione che ha a che vedere col razzismo e la fobia religiosa ma anche con l’ipotesi che, dietro alla cacciata di persone senza cittadinanza, ci sia anche un piano per accaparrarsi la loro terra. In un articolo pubblicato sul Guardian all’inizio del 2017, la sociologa Saskia Sassen ricordava che dagli anni Novanta il governo dei generali ha portato avanti nel Paese una politica di requisizione di terre considerate mal sfruttate per affidarle a grosse compagnie private al fine di metterle a profitto. E’ quello che – in altri termini – si scrive “sviluppo” ma si legge “land grabbing” a beneficio di società con grandi mezzi. Dal 2012 un nuovo pacchetto legislativo ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati che gestiscono fino a 20mila ettari e che ora possono anche aprirsi al capitale estero sempre affamato di terra. E’ un vero assalto sia alla foresta, che ogni anno perde 400mila ettari, e a piccoli appezzamenti di terreno o ad aree di utilizzo consuetudinario. Col vantaggio che questa legge ne ha anche abolita un’altra del 1963 che difendeva i piccoli agricoltori. Nella zona dei rohingya il passaggio di mano conterebbe ora oltre un milione e duecentomila ettari con un balzo rilevante rispetto ai primi 7mila che furono ceduti durante il pogrom del 2012. Se si mettono assieme le due cose, l’aspetto razzista e islamofobico passa in secondo piano e sembra semmai una concausa benché con radici antiche che risalgono al periodo coloniale e forse anche a prima.

E’ una lettura naturalmente ma non priva di suggestione anche se, in settembre, le tesi della Sassen,

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Saskia Sassen

riprese anche da un gruppo di ricercatori (Forino, von Meding, Johnson) sulla rivista britannica The Conversation, sono state duramente criticate sul sito NewMandala – e tacciate di “marxismo volgare” – da Lee Jones, un noto esperto di cose birmane (su land grabbing e legislazione birmana si può comunque vedere il sito https://library.ecc-platform.org). Ciò che per altro merita una riflessione è il fatto che chi se ne va perde ogni diritto, persino quello della consuetudine. E se non ha cittadinanza e passaporto non avrà mai più, ammesso che possa tornare nel Myanmar, un documento valido per reclamare la sua terra e la sua casa. Qualcuno, non casualmente, l’ha definita una politica della “terra bruciata”. Bruciata oggi perché domani cambi di padrone. Una storia di frontiere e confini. A danno di uomini, animali, biodiversità.

* Con cui sono onorato di collaborare

Essere un editore e libraio in Libia, oggi

Essere un editore e un libraio in Libia non è affatto semplice ora. Né, a dirla tutta, lo è stato negli ultimi 60 anni. A raccontarlo sul numero di autunno di Index on Censorship (l’articolo, a firma di Charlotte Bialey, è stato ripreso da Literary Hub) è Ghassan Fergiani, erede di una famiglia di librai […]

Diario americano – 1 – San Francisco

Sì, veramente incredibile, la Davies Hall. È la sala della San Francisco Symphony, poco meno di duemila posti, difficile da descrivere per l’ampiezza dello spazio e per la bellezza dell’acustica. Ieri l’orchestra della SFS suonava Sibelius e Sciostachovic, diretta con maestria da Osmo Vänskä, conduttore finlandese con una capacità rara di unire in un abbraccioContinua a leggere

Lo spettacolo del dolore

A volte mi dico che se non ci fosse Internazionale la nostra informazione fuori dall’ombelico sarebbe  davvero poca cosa. E, sia ben chiaro, non tanto per esterofilia ma per la scelta che la redazione fa degli argomenti. Direi che non sbaglia un colpo col merito di renderci intellegibile quel che si scrive in altri idiomi. Una delle sue scelte recenti è stata quella di occuparsi dei rohingya, un tema caro a questo blog, tanto che, oltre alle notizie, il settimanale ci ha dato conto anche delle analisi e delle polemiche che ne sono scaturite. La copertina del suo ultimo numero – in edicola questa settimana –  è dedicata a quest’esodo biblico e forzato ed è inutile dire quanto io abbia apprezzato la scelta. Ma vorrei soffermarmi su un particolare e cioè sulle fotografie che riguardano i rohingya (argomento che ho già trattato in passato) e in particolare un servizio di  Kevin Frayer (vincitore del World Press Photo Award per le notizie generali e del World Press Photo Award per la vita quotidiana) di cui anche Internazionale dà conto. Il suo servizio dalla frontiera bangladese  ha fatto il giro del mondo e anche in Italia è stato pubblicato da diversi media online e non (come Il Post o Vanity Fair).

Qui accanto vedete una delle immagini del servizio, forse la più gettonata (che mi fa piacere Internazionale non abbia scelto per la copertina). Vogliamo provare a commentarla? Immaginate di non sapere di cosa si parla: c’è l’acqua, una madre che indica l’infinito o la speranza, un padre col bimbo e una croce sullo sfondo. Un amico, cui l’ho mostrata decontestualizzata, mi ha detto “E’ un battesimo!” E’ rimasto male sapendo di chi si tratta: gente in fuga da omicidi, stupri, incendi…  La foto in sé può piacere o non piacere (la scelta della luce, il bianco e nero, i ritocchi, il taglio etc) ma una foto difficilmente è “in sé”. C’è sempre un contesto a maggior ragione se si tratta di un reportage. Ma come lo si comunica?

 Mario Dondero (il mio grande maestro che sulla fotografia mi ha insegnato tutto) è noto per aver (anche) detto che “fotografare la guerra a colori è immorale”. Kevin segue il suo consiglio perché, anche se non dichiarata, quella fatta ai rohingya è proprio una guerra. Ma tra lui e Mario c’è una differenza enorme. In questo reportage di Frayer c’è il dolore, il dramma, la speranza ma raffigurati come in una sorta di grande affresco in cui è più il fotografo a essere il protagonista che non i suoi soggetti. Di Mario Dondero si è detto che era un fotografo “senza uno stile”. E’ vero, perché il “suo stile” era quello di non apparire. Se guardate le sue foto sulla guerra, vi soffermate sempre sui soggetti non sulla bravura del fotografo. Nei suoi fotogrammi il fotografo proprio non c’è. Come se il fotoreporter fosse solo passato di li e avesse fatto…clic. Nella foto di Frayer c’è prima di tutto Frayer e poi, magari, anche i suoi soggetti. La sua presenza però, la presenza dell’autore, finisce col distrarvi: restate colpiti dalla sua bravura nel catturare le luci, dalla capacità di “scolpire” i volti, dalla forza delle espressioni come se lui avesse messo tutti in posa. Venite colpiti dallo spettacolo. Se poi è uno spettacolo del dolore (e non un battesimo), il dolore arriva dopo. Prima c’è lo spettacolo. Direi che questa è proprio una foto spettacolare. Tanto spettacolare che dolore, guerra, incendi e stupri restano sulla sfondo. Come quella croce che evidentemente non è una croce visto che siamo in territori del Budda o di Maometto.

Credo che il fotogiornalismo, che è solo una branca dell’arte della Fotografia, debba seguire l’esempio di Mario. A parte il discorso sul  bianco e nero in guerra – che si può opinare –  a me pare che la forza di Mario stesse  nella sua non presenza, che si  trattasse di un conflitto, degli ultimi giorni del muro di Berlino o di una scena di vita contadina. Persino quando Mario metteva in posa, il soggetto non era mai lui, nemmeno se le persone gli guardavano in macchina. Nella foto qui a sinistra – una foto che è piena di accortezze e capacità fotografiche, dalla scelta del personaggio, al taglio, alla luce – Mario riesce a stare dietro l’angolo: diamine, il soggetto è lui, il vecchio che legge (mentre tra l’altro infuria la guerra d’Algeria) e quel tal Dondero proprio non c’è. Diceva bene Mario che a lui interessavano più le persone che la pellicola e che in fondo il fotografo (e, aggiungo, il reporter) hanno questa gran fortuna:  il loro esser tali li mette in contatto con la gente, con ogni tipo di persone. Nessuno rifiuta uno scatto o la piccola fama di un’intervista (per non parlare della tv*). Ma è solo se il soggetto della foto, dell’intervista, del filmato ti fanno dimenticare chi ha scattato, scritto, filmato, che  hai raggiunto il tuo scopo che è quello assai semplice e modesto di “informare” o di documentare.

 Insomma dopo tutta questa tirata e questa professione di modestia (chissà se poi io predico bene ma razzolo altrettanto) vorrei proporvi la foto qui sotto tratta dal bangladese Daily Star. Nella sua semplicità mi dice  (guardate i piedi di questa ragazzina) più che abbastanza sul dramma di questa gente e mi commuove (dunque mi spinge a saperne di più). Non c’è compiacimento e nemmeno spettacolo. Anzi, apparentemente non c’è neppure dolore (anche se quei piedini nudi e segnati raccontano tutto). Il fotografo questa volta è talmente in disparte che, tanto per cambiare, non c’è neanche il credito della foto. Chi l’ha scattata è ingiustamente anonimo: è purtroppo il solito discorso per cui la maggior parte delle foto servono solo a occupare uno spazio in pagina. Il loro modesto autore scompare – come in questo caso – più di quanto avrebbe dovuto.

* Ecco a proposito a questo link fb uno dei rarissimi filmati sui Rohingya, realizzato a A. Ricucci e S. Bianchi per Tv7 (provate a scommettere a che ora è andato in onda…)

Ius soli birmano

Questo articolo sui Rohingya è stato scritto per la rivista Gli Asini*

La maggior parte delle volte le storie di confine sono drammatiche. Dove un cartografo disegna una frontiera, approfittando di un fiume, di una catena montuosa o semplicemente tracciando una linea retta su un territorio che la mappa geografica rende asettico, vivono persone e animali e si dipana la storia infinita della biodiversità. La geopolitica tiene poco in conto le persone (gli animali e la biodiversità) ed è semmai attenta alla proprietà (se è in mano a uomini potenti) o ai prodotti della terra, siano essi agricoli o fossili. Le vicende che in questi giorni hanno a che vedere con la fuga dal Myanmar verso il Bangladesh di 500mila rohingya, una minoranza musulmana che vive (o meglio viveva) nello Stato birmano del Rakhine, hanno molto a che vedere con la storia di un confine – quello tra il mondo birmano e quello bengalese – che nei secoli si è spostato, cambiando di mano e di segno in seguito a guerre, dispute, cambi della guardia al vertice dei poteri che, di volta in volta, hanno comandato su questi territori.

Tutti conoscono la storia di violenze che i rohingya subiscono dal 2012, quando il primo pogrom recente (la persecuzione ha radici antiche) ha prodotto oltre centomila sfollati interni. Allora pareva soprattutto una vicenda di intolleranza religiosa alimentata da gruppi identitari buddisti che vedevano nei rohingya, considerati non birmani e immigrati bengalesi per di più musulmani, un pericolo per l’integrità di un Paese che è stato la culla del buddismo. Nel 2016 una nuova ondata di violenze si doveva nuovamente abbattere su quel milione di rohingya ancora in possesso di una casa e un campo da coltivare o una capra da mungere. L’attacco di un gruppo secessionista ad alcuni posti di frontiera scatena una reazione che produce allora un esodo di circa 80mila persone verso il Bangladesh. Passato qualche mese, nell’agosto di quest’anno, in seguito a un altro attacco dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), una nuova spropositata reazione dell’esercito (sono parole dell’Onu che non ha esitato a utilizzare anche la locuzione “pulizia etnica”) ha invece prodotto un nuovo massiccio esodo di circa mezzo milione di profughi. A far le somme, e considerato che ormai la diaspora di questa comunità conta nel mondo quasi due milioni di persone, non solo la maggioranza dei rohingya risiede ormai all’estero (oltre un milione nel solo Bangladesh) ma i numeri di questa popolazione nel Myanmar sono ormai così ridotti che la scomparsa dei rohingya dai territori birmani è ormai forse solo questione di qualche anno. Forse di mesi.
Cosa c’entrano in tutto ciò le frontiere e la loro eredità?

Il Rakhine oggi, area birmana. Cosa è stato nei secoli?

Dobbiamo fare un passo indietro. Fino al 1700 l’Arakan, l’attuale Stato birmano del Rakhine, era un regno indipendente che alla fine di quel secolo doveva finire sotto i monarchi birmani. I birmani però volevano espandersi sempre più a Ovest ed entrarono in conflitto con le mire di Calcutta, la capitale della British India, che voleva invece allargarsi sempre più a Est. Sono però i birmani a perdere e nel 1824 – in seguito al trattato di Yandabo che conclude la prima guerra anglo-birmana – l’Arakan e altri territori sotto influenza birmana passano sotto l’India britannica. I rohingya, chissà da quanto tempo nell’Arakan, si ritrovano dunque, dall’essere stati sudditi di un regno indipendente prima e delle monarchie birmane poi, a diventare vassalli di Sua Maestà britannica, o meglio dell’amministrazione coloniale della Regina in India. Nei primi mesi del 1886 l’intera Birmania diventa una provincia dell’India britannica e nel 1887 diventa sede di un vice governatorato che solo nel 1937 passa direttamente a un’amministrazione separata, sotto la direzione del Burma Office di Londra (segretariato di Stato per l’India e la Birmania). Dunque i rohingya sono adesso sudditi britannici sotto un’altra formula e lo saranno sino al 1948 quando la Birmania, come la chiamavamo allora, diventerà indipendente. C’è anche da notare che, seppur brevemente, i rohingya, come i birmani, sono stati anche sudditi dell’Imperatore Hirohito – dal 1942 al 1945 – quando le forze nipponiche dell’Asse avevano invaso la Birmania per “liberarla” dal giogo coloniale britannico con la parola d’ordine “L’Asia agli asiatici”. In poche parole, più che essere i rohingya a spostarsi (cosa sicuramente avvenuta in passato nel corso di quel flusso migratorio universale che ha interessato e interessa tutti i popoli del mondo che si muovono per i più svariati motivi), sono stati i confini a tendersi o contrarsi come un elastico. La sola colpa dei rohingya, vine da dire, è quella di essere sempre stata una minoranza debole, non in grado di far sentire la propria voce.

Ora, le legge sulla cittadinanza del Myanmar, varata durante la dittatura militare nel 1982, riconosce tre categorie di cittadini: cittadini propriamente detti, associati o naturalizzati. Ma i rohingya non sono riconosciuti in nessuna delle categorie. La legge dice che, come recita la Costituzione del 1947, è cittadino birmano chi ha radici in una “razza indigena” o viveva nella “British Burma” prima del 1942, ossia prima dell’arrivo dei giapponesi. A quell’epoca chi abitava nell’Arakan era già da tempo sotto dominio britannico: un dominio strappato ai birmani e ancor prima a un regno indipendente aracanese. Autoctoni o meno dell’Arakan-Rakhine, nel 1942 la presenza dei rohingya nel Rakhine – che questi ultimi chiamano Rohang – datava probabilmente da secoli. E comunque, al di là delle polemiche sul termine “rohingya” che alcuni storici birmani dicono sia apparso solo negli anni Cinquanta del XX secolo, nel 1942 erano stati già stati sudditi britannici ben due volte: in un primo tempo sotto Calcutta (e dal 1911 Delhi) e in seguito direttamente sotto l’Ufficio Birmania a Londra. Benché sia certo che durante la dominazione britannica molte popolazioni, tra cui i bengalesi, si siano mosse all’interno dell’Impero, cosa è successo prima e durante gli inglesi? Non è difficile immaginare che nei secoli vi sia stata una sorta di osmosi tra le pianure e le colline del Bengala e le limitrofe aree birmane. E se è difficile determinare quando il primo rohingya sia nato e dove, si perde nella notte dei tempi la loro presenza (e quella più in generale musulmana) in un’area che un tempo confini non ne aveva affatto: tutt’al più fiumi, mari, colline o catene montuose. Barriere naturali geografiche che la Storia deve aver visto attraversare più volte, in questa o quella direzione: dal cacciatore nomade al pescatore, dal pastore transumante allo stesso agricoltore sedentario in cerca di luoghi dove eleggere domicilio.

Questa legge è dunque una cattiva legge – imperfetta, astorica, obsoleta e ingiusta – e andrebbe

Terrore buddista. Un’analisi
sufficente?

riformata anche perché originariamente i rohingya avevano assai più diritti: potevano votare e candidarsi. Al netto delle colpe del governo civile birmano non si può dimenticare che proprio nei giorni del pogrom di fine agosto, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, incaricato da Aung San Suu Kyi, lo abbia detto a chiare lettere alla conclusione di un’inchiesta svolta proprio per affrontare la questione rohingya, un nome che in Bangladesh non si può nemmeno menzionare. Ma i militari, autori delle peggiori leggi del Paese, non solo non vogliono riconoscere il lavoro di Annan, che hanno definito “fazioso” e dunque falso, ma hanno spinto i partiti d’opposizione al governo di Suu Kyi, nato dalle elezioni del 2015 (con la vittoria della Lega nazionale per la democrazia), a una campagna contro il dossier Annan che ha tutta l’aria di una minaccia. La minaccia è che, se Suu Kyi, il suo partito e il suo governo dovessero tirare troppo la corda, i militari potrebbero ricorrere a un altro articolo della Costituzione, emendata dai generali nel 2008, che prevede (oltre a una quota a loro riservata in parlamento di un quarto dei seggi) che l’esercito possa ribaltare il governo in carica nel momento in cui esiste un pericolo reale per la stabilità del Paese. Il richiamo dell’opposizione a un dossier definito un’operazione che favorisce le forze straniere che minacciano il Myanmar non è, in altre parole, che la proiezione sulla situazione attuale dell’ombra di questo emendamento. Che garantisce un golpe costituzionale, dunque legittimo. Se finora non si è verificato è solo perché i militari controllano tre dicasteri chiave: Interno, Difesa, Frontiere.

Aung San Suu Kyi: immagine tratta da BigThink

E’ questo il motivo per cui una paladina dei diritti umani e Nobel per la pace come Aung San Suu Kyi, e così i vertici del suo partito, sta tanto attenta a come parla (non li chiama rohingya ma semplicemente musulmani) e a cosa fa (oltre alla commissione Annan ne ha nominate altre ma con limitatissimo potere) a costo di attirarsi le ire del mondo intero. I militari vegliano sul Paese e, nel consesso internazionale, ci pensa Pechino – e in parte Mosca – a frenare eventuali prese di posizione del Consiglio di sicurezza (che finora ha adoperato un gergo assolutamente debole). Infine c’è l’India, non più britannica ma retta da un campione anti musulmano come Narendra Modi. Che, non solo ritiene al pari di Pechino il Myanmar un partner strategico ma che vorrebbe espellere tutti i rohingya immigrati in India (circa 40mila).

C’è un’ultima domanda ancora senza risposta. Perché? Basta una legge restrittiva? Una sorta di suprematismo buddista? Forme di xenofobia etnica e religiosa? C’è altro e ci sono altre leggi su cui merita soffermarsi. Le immagini satellitari diffuse recentemente da Human Rights Watch e da Amnesty International su vaste aree incendiate nella zona rohingya dello Stato del Rakhine riportano alla memoria fotogrammi più antichi come quelli con cui Hrw aveva stimato, nell’autunno scorso,  ad almeno 1500 gli edifici dei rohingya dati alle fiamme. Adesso, dicono all’organizzazione internazionale, non ci sono evidenze per poter dire chi ha appiccato gli incendi, se siano dolosi o provocati dal conflitto, ma è certo che la scia di fuoco si estende su una lunghezza di circa 100 chilometri, lungo tutte le aree delle tre township di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, unità amministrative dello Stato del Rakhine dove vive la maggioranza dei rohingya o quel che ne rimane.

Quei fotogrammi, ieri come oggi, rendono più chiaro non solo un processo di espulsione che ha a che vedere col razzismo e la fobia religiosa ma anche con l’ipotesi che, dietro alla cacciata di persone senza cittadinanza, ci sia anche un piano per accaparrarsi la loro terra. In un articolo pubblicato sul Guardian all’inizio del 2017, la sociologa Saskia Sassen ricordava che dagli anni Novanta il governo dei generali ha portato avanti nel Paese una politica di requisizione di terre considerate mal sfruttate per affidarle a grosse compagnie private al fine di metterle a profitto. E’ quello che – in altri termini – si scrive “sviluppo” ma si legge “land grabbing” a beneficio di società con grandi mezzi. Dal 2012 un nuovo pacchetto legislativo ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati che gestiscono fino a 20mila ettari e che ora possono anche aprirsi al capitale estero sempre affamato di terra. E’ un vero assalto sia alla foresta, che ogni anno perde 400mila ettari, e a piccoli appezzamenti di terreno o ad aree di utilizzo consuetudinario. Col vantaggio che questa legge ne ha anche abolita un’altra del 1963 che difendeva i piccoli agricoltori. Nella zona dei rohingya il passaggio di mano conterebbe ora oltre un milione e duecentomila ettari con un balzo rilevante rispetto ai primi 7mila che furono ceduti durante il pogrom del 2012. Se si mettono assieme le due cose, l’aspetto razzista e islamofobico passa in secondo piano e sembra semmai una concausa benché con radici antiche che risalgono al periodo coloniale e forse anche a prima.

E’ una lettura naturalmente ma non priva di suggestione anche se, in settembre, le tesi della Sassen,

Saskia Sassen

riprese anche da un gruppo di ricercatori (Forino, von Meding, Johnson) sulla rivista britannica The Conversation, sono state duramente criticate sul sito NewMandala – e tacciate di “marxismo volgare” – da Lee Jones, un noto esperto di cose birmane (su land grabbing e legislazione birmana si può comunque vedere il sito https://library.ecc-platform.org). Ciò che per altro merita una riflessione è il fatto che chi se ne va perde ogni diritto, persino quello della consuetudine. E se non ha cittadinanza e passaporto non avrà mai più, ammesso che possa tornare nel Myanmar, un documento valido per reclamare la sua terra e la sua casa. Qualcuno, non casualmente, l’ha definita una politica della “terra bruciata”. Bruciata oggi perché domani cambi di padrone. Una storia di frontiere e confini. A danno di uomini, animali, biodiversità.

* Con cui sono onorato di collaborare

Will Lebanon Follow in Jordan’s Footsteps and Deport Syrian Refugees?

Earlier this month, Human Rights Watch (HRW) published a report detailing the manner in which Syrian refugees were being summarily deported back to their war-torn country. According to the report: [Jordanian] authorities have been deporting refugees—including the collective expulsion of large families—without giving them a meaningful chance to challenge their removal and failing to consider […]

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Il turista nudo al Salone dell’editoria sociale

Sabato 28 ottobre 2017
16.15 – 18.45 Sala A
IL TURISTA NUDO






Dal viaggio all’Eden al selfie del mondo

Ne discutono con Giuliano Battiston
Marco D’Eramo autore di Il selfie del mondo (Feltrinelli 2017)
Emanuele Giordana autore di Viaggio all’Eden (Laterza 2017)

Viaggio all’Eden a Perugia venerdi 27 ottobre

VIAGGIO ALL’EDEN
Venerdì 27 ottobre 2017
alle ore 18:30
Biblioteca San Matteo degli Armeni
Via Monteripido, 2 – Perugia
Introduzione di
 Emmanuel di Tommaso
Ne discute con l’autore
Floriana Lenti

In questo nuovo libro, Emanuele Giordana, partendo dal racconto del Grande Viaggio intrapreso da un’intera generazione da Milano verso Kathmandu negli anni ’70, dipinge un’intensa riflessione sul senso del viaggio: dall’Italia al Nepal, passando per Grecia, Jugoslavia, Turchia, Afghanistan e India, fino a giungere alle “propaggini” dell’Eden, il Sud-Est asiatico e l’America Latina. È un racconto molto concreto, una sorta di diario di bordo kerouac-conradiano in cui sono evocati i sapori, gli odori e i volti di quelle strade che si attraversavano in preda ad una vera e propria “febbre del viaggio”.
Il ritorno in quegli stessi luoghi 40 anni dopo permette al Giordana giornalista di registrare, con l’abilità di fervente cronista qual è, le violente trasformazioni ancora in atto: la magia, l’inconsapevolezza e la fascinazione di allora lasciano così spazio a un senso di profondo turbamento di fronte ai teatri di guerra e alle vetrine del turismo di massa capitalista fatte di polvere e cemento.
Il libro, già presentato nelle principali città italiane, sta dando vita ad un interessante dibattito su determinati scenari geopolitici per troppo tempo rimossi nell’opinione pubblica italiana, e sul tema più generale di una conoscenza dell’Oriente che possa essere finalmente scevra da ogni rappresentazione strumentale e pregiudizio.

Insieme al viaggiatore di lungo corso, giornalista e scrittore indipendente, durante la presentazione interverranno Floriana Lenti ed Emmanuel Di Tommaso.

Luce verde ai raid segreti della Cia in Afghanistan

Mike Pompeo: muscolare come Trump

Il viaggio lampo del segretario di Stato americano Rex Tillerson, che dopo Irak e Afghanistan è arrivato ieri in Pakistan per visitare poi Nuova Delhi, è la prima vera offensiva diplomatica in casa dell’amico-nemico. L’amico nemico è il Pakistan verso cui Tillerson – assai più morbido a Islamabad – ha avuto parole durissime durante i suoi colloqui afgani. Accusati di essere la sentina della guerra, i pachistani – colpevoli di dare rifugio ai talebani afgani – non la prendono molto bene questa offensiva diplomatica preceduta dalle parole di fuoco di Trump e della sua ambasciatrice all’Onu che sul Paese dei puri han sparato duro. I pachistani – messi in imbarazzo anche da un’intervista di Caitlan Coleman (un’americana liberata col marito canadese Joshua Boyle che ha appena detto al Toronto Star, smentendo Islamabad, che il rapimento afgano si è trasformato in una cattività in Pakistan per più di un anno) sono allarmati soprattutto da due cose: una diplomatica e l’altra militare. Quella diplomatica riguarda l’India, il fratello-coltello oltre confine, la cui espansione in Afghanistan preoccupa molto Islamabad. E da che gli americani hanno addirittura chiesto a Delhi di “tenere d’occhio” il Pakistan, il furore è difficile da nascondere. La seconda è che il viaggio di Tillerson inaugura anche un nuovo stadio della guerra afgana e della sua scia pachistana.


La notizia riguarda la luce verde del presidente alla nuova strategia contro insurrezionale di Michael “Mike” Pompeo, parlamentare repubblicano (di origini italiane) nelle grazie del Tea Party che da gennaio è a capo della Cia. Pompeo, che ha frequentato West Point e ha una carriera militare alle spalle, è un tipo muscolare proprio come Trump. La sua interpretazione del messaggio di Donald (nessuno avrà più un luogo dove nascondersi) è una nuova espansione delle attività dell’Agenzia che superino le restrizioni dell’era Obama, che autorizzava le operazioni coi droni solo all’esercito e che, al massimo, consentiva alla Cia di operare in Pakistan. Negli ultimi tre anni i raid coi droni militari sono comunque aumentati (ammesso che il dato sia veritiero) da 304 nel 2015 a 376 nel 2016 a 362 nei primi otto mesi del 2017 (mentre la Cia ne avrebbe totalizzati solo 3 l’anno scorso e 4 quest’anno e solo in Pakistan). Ma per Pompeo, e per Trump, non bastano né basta più che la Cia addestri la sua controparte (Nds) afgana. Da adesso la Cia potrà fare tutti i raid che vuole in Afghanistan senza rispondere all’esercito schierato al comando del generale Nicholson che guida anche le truppe Nato. La gestazione del progetto Pompeo, che impiega le cosiddette forze paramilitari dell’agenzia o soldati prestati dal Pentagono, non è stata facile: la Cia è nota per andar ancor meno per il sottile in fatto di danni collaterali così che alla Difesa diversi generali – dice la stampa americana – hanno storto il naso: «Cosa possono fare che non possiamo fare noi»? In realtà i servizi segreti fanno solo operazioni “coperte” e dunque bypassano ogni catena di comando. Ma chi pagherà il conto delle vittime civili, già alto durante i raid aerei “normali”? Per l’afgano della strada, un drone è un drone e una pallottola non ha firma. Le colpe della Cia si riverseranno sull’esercito.

Gli afgani dal canto loro plaudono. La pratica hunt and kill (caccia e uccidi) piace al ministero della Difesa che ha espresso apprezzamento. Washington sostiene che la nuova massiccia campagna di omicidi mirati porterà più facilmente i talebani al tavolo del negoziato. Ma è molto più probabile che si limiti a far crescere la guerra e il bilancio delle vittime civili.

Rappresentanti curdi a Washington chiedono protezione a Trump, la Casa Bianca continua a sostenere l’unità dell’Iraq

La rappresentante ufficiale del governo del Kurdistan a Washington dichiara che i Peshmerga stanno resistendo ad attacchi ingiustificati delle milizie filo-iraniane e dell’esercito iracheno a Kirkuk in attesa di un intervento di Trump

L’articolo Rappresentanti curdi a Washington chiedono protezione a Trump, la Casa Bianca continua a sostenere l’unità dell’Iraq sembra essere il primo su Arabpress.

Il Califfo asiatico a Roma giovedi 26 ottobre alle 18

Il Califfo a Roma: una presentazione organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio
26 ottobre 2017 ore 18.00
modera: Valeria Martano

A oriente del Califfo
A est di Raqqa: il progetto dello Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi
a cura di
Emanuele Giordana
con la collaborazione di
Lettera 22
Rosenberg&Sellier 2017

Non è un libro solo sullo Stato Islamico.
Il progetto di al-Baghdadi è infatti anche quello di estendere i confini di un neo-Califfato all’intera comunità sunnita oltre il mondo arabo e le conflittuali aree asiatiche appaiono un terreno ideale. Il caso afgano, la guerra sempre sotto traccia tra India e Pakistan, il revivalismo islamico presente in Caucaso e in Asia centrale, come nelle province meridionali della Thailandia o nel Sud filippino segnato dal contrasto tra governo e comunità musulmane; nell’arcipelago indonesiano, che è la realtà
musulmana più popolosa del pianeta, come nel dramma dei rohingya, cacciati dal Myanmar in Bangladesh. Al di là del progetto del Califfo, ci si chiede perché e con quali strumenti il messaggio ha potuto funzionare, qual è il contesto e quale l’entità del contrasto con al-Qaeda per il primato del jihad.
Un libro che si chiede cosa potrà restare del messaggio di al-Baghdadi, anche dopo la caduta di Raqqa, in paesi così distanti dalla cultura mediorientale; cosa ha spinto un giovane di Giacarta, di Dacca o del Xinjang a scegliere la spada del Califfo?


Lettera22 è un’associazione tra freelance specializzata da 25
anni in politica internazionale. Alcuni dei suoi membri fanno
anche parte dell’agenzia China Files.

Usa e Arabia Saudita corteggiano Baghdad per sottrarla all’Iran

Prosegue il disgelo iracheno-saudita Baghdad (al-Roayah). Il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita Khaled al-Faleh si è recato in visita a Baghdad il 21 ottobre, nella seconda visita ufficiale dopo quella di maggio, nel contesto del graduale riavvicinamento tra il governo Abadi e la monarchia saudita. Faleh ha discusso gli orizzonti di cooperazione energetica elogiando l’Iraq per […]

100XBalfour

100XBalfour dal 27 Ottobre al 3 Novembre 2017: 100 anni di storia e di cultura palestinese   Il CAIL – Coordinamento Associazioni Islamiche del Lazio,  la Comunità Palestinese a Roma e nel Lazio, e l’Associazione dei Palestinesi in Italia lanciano … Continue reading

WWE signs first woman wrestler from Arab world in global push

shadia-bseiso

World Wrestling Entertainment Inc. signed its first female performer from the Arab world on Sunday, smashing cultural taboos as the U.S.-based pageant seeks to piledrive its way into lucrative foreign markets.

Shadia Bseiso, a Jordanian versed in jiu-jitsu, dreams of encouraging more Arab women to take up sports – and of one day maybe even crashing a metal chair over WWE mega-star John Cena.

“Female athletes are finally getting the credit they deserve. The world is more open to that, and in terms of how the region will react to it, I‘m hoping its going to be very positive,” said Bseiso.

While women exercising in public is rare in the Arab world and the local entertainment industry often relegates them to docile roles, big companies such as Nike have stepped up advertising geared towards female athletes.

Still, the high octane physicality and outrageous storylines of professional wrestling remain a novelty in the region.

Speaking to Reuters in the WWE’s Dubai office, Bseiso said she made sure to tell her parents about her colorful career choice in person.

After announcing she would join the ranks of the WWE, they paused in disbelief for a moment, she said, worried for her safety in the often bruising shows.

They support her fully, she added, as she now heads to the company’s Orlando, Florida, training center for grueling in-ring training and what WWE calls “character development” – transformation into one of their trademark big personalities.

She has a Jordan-themed persona in mind, she says, declining to elaborate.

For decades a quintessential if curious emblem of Americana, professional wrestling has now won die-hard fans in the Arab world and beyond, and features widely in apparel and toys.

WWE’s reach deeper into new demographics makes plenty of business sense for the $1.5 billion Connecticut company, which has also recently signed several Indian and Chinese athletes in the hope of snaring millions of potential new devotees.

“Recruiting Shadia to join our developmental system underscores WWE’s ongoing commitment to building a talent roster as diverse as our fan base,” said Paul “Triple H” Levesque, WWE Executive Vice President and himself a popular wrestler.

Bseiso insists the quirky genre has room to expand if only fans could find a hero from home.

“As it is, the WWE’s incredibly popular in the Middle East, but I think having athletes from the region who grew up here – it will change things. You finally have someone to root for.”

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The “Butcher of Deir Ezzor,” Issam Zahreddine, Dies 1 Month After Threatening Syrian Refugees

Major General Issam Zahreddine, one of the most prominent military figures in the Syrian Arab Army (SAA), died on Wednesday, October 18, after his vehicle reportedly drove over an active landmine, causing an explosion. The Telegraph claims that “[Zahreddine’s] death will be a major blow to the regime, which has lost huge numbers of high-ranking […]

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Révolte silencieuse pour sauver l’Unesco

L’Unesco doit être défendue et préservée ; c’est pourquoi, de l’intérieur, est dénoncée la politique mise en œuvre ces dix dernières années. L’élection, ce mois-ci, d’un nouveau directeur général revêt une importance cruciale pour l’organisation. / Culture, ONG, Diplomatie – (…)
/ Culture, ONG, Diplomatie2009/09

I passaggi nella Siria in frantumi di Samar Yazbek

Quella che segue  è la recensione del libro “Passaggi in Siria”, di Samar Yazbek, appena uscito per Sellerio e tradotto dall’inglese da Andrea Grechi. Avete mai pensato a cosa fareste se la vostra casa venisse bombardata e la vostra città occupata dall’esercito del vostro Paese? Avete mai pensato a come reagireste se la stanza di […]

Viaggio all’Eden a Pisa mercoledi 25 ottobre

Con il giornalista Alessandro De Pascale e Alberto Mari, un attivista dell’Osservatorio Antiproibizionista

VIAGGIO ALL’EDEN

Dall’Europa a Kathmandu il Volo Magico nei ruggenti Settanta e quarant’anni dopo
Emanuele Giordana
Laterza 2017

Un viaggiatore di lungo corso, per passione e per lavoro, ricorda la rotta degli anni Settanta per Kathmandu: il Grande Viaggio in India fatto allora da ragazzo e ripercorso poi come giornalista a otto lustri di distanza. Il libro, un lungo racconto del percorso che portava migliaia di giovani a Kabul, Benares, Goa fino ai templi della valle di Kathmandu, si destreggia tra gli appunti presi allora su un quadernetto riemerso dalla polvere, esercizi di memoria e il confronto con le inevitabili trasformazioni di quei Paesi che, terminata l’epoca della Guerra fredda, sono stati attraversati da conflitti e anche da una nuova orda di invasori: i turisti che, dopo il Viaggio all’Eden dei frikkettoni, seguirono quella pista preferendogli però alberghi lussuosi e viaggi organizzati con tutto il bene e il male che ciò comporta. Il registro narrativo è doppio: c’è il ricordo tratteggiato con leggerezza e ironia tra droghe, sesso libero e scoperta di nuovi paesaggi e una zona d’ombra più riflessiva su cosa vuole dire “viaggiare” e sulla guerra. Libro godibile da chi aveva vent’anni allora, chi quel viaggio non ha mai fatto e chi ancora vorrebbe farlo.  

La settimana nera di una guerra dietro le quinte

La settimana appena conclusa ha un bilancio di oltre 200 morti, una delle peggiori della guerra afgana. Una guerra che apparentemente non c’è più ma che sta continuando ininterrottamente da 36 anni. Ecco la lista stilata dalla Tv afgana Tolo.
E’ stata una buona occasione, come si rileva dall’articolo, per le polemiche interne.

Saturday’s attack on Ministry of Defense (MoD) cadets in Kabul:
15 cadets killed
4 cadets wounded
Friday’s attack on Imam Zaman Mosque in Dast-e-Barchi in Kabul:
about 70 civilians killed
55 civilians wounded
Attack on mosque in Ghor province on Friday:
10 civilians killed
20 civilians wounded
Thursday’s attack on a base in the Maiwand district of Kandahar:
43 soldiers killed
9 soldiers wounded
Tuesday’s attack in Paktia on the police headquarters:
Over 50 soldiers and civilians killed
Over 150 civilians and soldiers wounded
Monday’s attack on Andar district of Ghazni province:
28 soldiers killed
18 soldiers wounded
5 civilians killed
40 civilians wounded

17mila anime a Beit Beirut

Sala dopo sala, un intero piano di Beit Beirut è stato riempito di una foresta di listelli di legno colorati di verde. Tutti diversi, eppure tutti uguali. Sono 17mila, come 17mila sono gli scomparsi, i desaparecidos della guerra civile libanese. Nessun memoriale, spiega Zena al Khalil, l’artista autrice della megainstallazione a Beit Beirut. Nessun memorialeContinua a leggere

Rohingya, l’ultima accusa

“Una sistematica campagna di crimini contro l’umanità per terrorizzare e costringere alla fuga i
rohingya”. Dopo che il vocabolario dell’orrore sembrava ormai aver esaurito tutte le parole – esodo forzato, violenza, genocidio, stupro, pulizia etnica – Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, aggiunge l’aggettivo “sistematico” a una campagna che ha come risultato il più numeroso esodo della storia recente da un Paese non in conflitto, una nuova biblica cacciata dai propri luoghi di origine. Il popolo senza identità, invisibile nei registri delle autorità birmane, accusato di essere la prole di un’immigrazione illegale dal Bengala, è così fisicamente minacciato che il governo birmano sembra aver in mente un solo obiettivo: cacciarli finché non resti un solo rohingya.

Amnesty non lo dice ma le “nuove prove” raccolte dall’organizzazione, che con Human Rights Watch ha immediatamente preso le difese della minoranza, mettono in chiaro un quadro sistematico di violenza continuata con una “campagna di omicidi, stupri e incendi di villaggi” portata avanti – dicono decine di testimonianze – da “specifiche unità delle forze armate, come il Comando occidentale, la 33ma Divisione di fanteria leggera e la Polizia di frontiera”. La contabilità ha ormai superato quota 530mila, un record possibile solo se, in un Paese apparentemente in pace, c’è in realtà una guerra che ha come obiettivo l’esodo di intere famiglie, tribù, villaggi. “Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini – scrive Amnesty – sono vittime di un attacco sistematico e massiccio che costituisce un crimine contro l’umanità” così come lo concepisce lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale. Il Tpi elenca 11 atti che, se commessi intenzionalmente durante un attacco, costituiscono il più grave dei reati. E Amnesty ne ha riscontrati almeno sei: “omicidio, deportazione, sfollamento forzato, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione oltre a ulteriori atti inumani come il diniego di cibo e di altre forniture necessarie per salvare vite umane”.

Alla voce di Amnesty si aggiunge quella di organizzazione come Msf:“Le strutture mediche, incluse le nostre cliniche, sono al collasso. E in poche settimane – scrivono i Medici senza frontiere – abbiamo ricevuto 9.602 pazienti in ambulatorio e 3.344 pazienti in pronto soccorso. Tra loro, anche adulti sul punto di morire a causa della disidratazione: il sintomo che una catastrofe sanitaria è dietro l’angolo”. La voce dell’Onu è risuonata molte volte ma con scarsi risultati. E lo sa bene il sottosegretario Jeffrey Feltman che martedi a Yangoon si è sentito fare una reprimenda dal generale Min Aung Hlaing, il capo di stato maggiore birmano, che non vuole l’Onu tra i piedi: la maggior parte delle agenzie del palazzo di Vetro infatti nel Rakhine, il luogo del delitto, non ci può andare. Sono di parte, dicono i generali, che si apprestano a rilasciare un loro dossier su come sono andate le cose. Ai militari birmani non basta evidentemente che, per non turbare troppo gli equilibri, il Programma alimentare mondiale (Wfp) abbia fatto sparire un dossier “imbarazzante” e che per molto tempo, fin dal 2016, le agenzie dell’Onu abbiano fatto di tutto per evitare polemiche e scandali. Una mediazione senza risultati.

La diplomazia comunque batte un colpo e ieri l’Alto commissario Ue Federica Mogherini ha comunicato per telefono ad Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri ma premier de facto, che tutti i 28 membri Ue (inclusa l’Italia che ha recentemente inviato il suo ambasciatore, Pier Giorgio Aliberti, nel Rakhine) hanno chiesto l’immediato accesso alle agenzie umanitarie nel Paese ma che soprattutto, per via dello “sproporzionato uso della forza”, hanno deciso che né il generalissimo, né altri soldati birmani potranno mettere piede in Europa sino a che esista questa situazione (e a breve anche gli Stati Unite potrebbero seguire l’esempio).

 L’embargo sulle armi, già in essere da tempo, non solo continuerà ma gli uomini in divisa non potranno nemmeno venire a girare le fiere e i mercati degli armamenti che probabilmente si procurano con oculate triangolazioni. E’ almeno un primo passo e a ridosso di due incontri importanti: il meeting nella capitale birmana dell’Asem il 20 novembre (Asia-Europe Meeting, un processo di dialogo tra i Paesi Ue, altri due paesi europei, e 22 paesi asiatici più il segretariato dell’Asean) e, subito dopo, la visita di papa Francesco il 26. Anche li è già in corso una guerra delle parole: i vescovi locali non vogliono che il pontefice parli di “rohingya”, termine che la stessa Suu Kyi non utilizza mai. I “self-identifying Rohingya Muslims” come li chiamano i giornali più progressisti birmani (anche loro molto attenti a non incorrere nelle maglie della censura) oltre a non aver più la casa non hanno nemmeno più un’identità.

Tunisia: verso la restaurazione di un potere personalistico

Thierry Brésillon Una riforma costituzionale annunciata Lo scorso settembre il presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi ha annunciato un’imminente revisione della Costituzione del 2014 che aveva inciso  nella pietra le conquiste del 2011. Secondo il Presidente, la Costituzione bloccherebbe l’azione del Governo. Nello specifico egli denuncia il parlamentarismo costituzionale, istituito per evitare una restaurazione di un qualsiasi potere personale che però […]

Refugee Self-Reliance: Moving Beyond the Marketplace (October, 2017)

https://www.rsc.ox.ac.uk/news/new-research-in-brief-on-refugee-self-reliance I have contributed to this research in brief with my study on Halba in northern Lebanon. You can download the whole paper here: https://www.rsc.ox.ac.uk/publications/refugee-self-reliance-moving-beyond-the-marketplace. The issue of how to promote refugee self-reliance has become of heightened importance as the number of forcibly displaced people in the world rises and budgets for refugees in long-term situations […]

Rohingya, un incontro ad Arco (Tn) venerdi 20 ottobre

Venerdì 20 ottobre 2017 ore 20.30
 Arco (Trento) Palazzo dei Panni

Un incontro sulla questione rohingya

Un filo conduttore tra la fortunata ascesa del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e le difficoltà nell’estendere i diritti umani a tutta la popolazione birmana, tra interessi economici delle super potenze vicine, India e Cina. Un quadro d’insieme accompagnato da un reportage fotografico e dall’esperienza di un progetto di solidarietà in campo medico da parte di un’associazione trentina.

Promosso da Apibimi Onlus e Biblioteca di Arco

con Emanuele Giordana e il fotografo Ramon Sist

Impressioni (e qualche critica) dall’ultima Fiera del Libro di Amman

Annamaria Bianco, storica amica e collaboratrice di editoriaraba, nonché esperta e lettrice di letteratura araba contemporanea, qualche giorno fa ha visitato la Fiera del Libro di Amman, in Giordania, città dove al momento vive per lavoro. Tra una sovrabbondanza di libri religiosi e accademici e qualche gradita sorpresa che ha anche a che fare con […]

Un’agenzia birmana per aiutare i rohingya: buona idea o foglia di fico?

Devo alla collega Francesca Lancini di Lifegate* una notizia che mi era sfuggita: il Guadian ha reso noto che Aung San Suu Kyi intende creare una agenzia civile, cioè senza aiuto dei militari, che si occupi di alleviare la condizione dei rohingya in accordo con le agenzie umanitarie internazionali. Una buona scelta o una foglia di fico? Un fatto è certo: se Aung San Suu Kyi tira troppo la corda, i militari usciranno dalle caserme e per lei e qualche decina di milioni di birmani scatteranno le manette. Bisogna essere prudenti e questo prezioso articolo di Irrawaddy spiega bene perché: i militari possono, per Costituzione, esautorare un governo civile e dichiarare lo stato di emergenza nazionale. Non è però cosi facile così come non è stato possibile dichiararlo nel Rakhine dove l’esercito voleva lo stato di emergenza e Suu Kyi si è opposta. Ma bisogna purtroppo farsi altre domande: cosa può fare questa agenzia umanitaria birmana? Per aiutare chi e dove? Aiutare gli oltre 530mila rohingya ormai in Bangladesh o quel mezzo milione che ancora non è stato cacciato e vive presumibilmente nella paura? Palliativi.

Penso che quanto Suu Kyi sta facendo sia qualcosa che si può comprendere anche se tutto ciò non giustifica il suo operato. Sono contrario alla campagna per la restituzione del Nobel e sono contrario alle sue dimissioni ma penso che il suo comportamento vada censurato anche se ci sono diversi motivi che rendono comprensibile il suo modo di agire. Si può comprendere ma non si può giustificare. Quello dei rohingya è l’esodo più imponente da un Paese non in conflitto che la storia recente ricordi. Circondato da un assordante silenzio rotto solo dal dolore degli uomini e donne invisibili che attraversano, ormai da un anno, la frontiera maledetta sul fiume Naf.

* A questo link un articolo ben documentato di Francesca sul land grabbing in Myanmar

DOSSIER. Omicidio di Giulio Regeni. Come oscurare informazione e ricerca sociale in Egitto

0 Reg 110Mentre l’Italia e l’Egitto provano a normalizzare i propri rapporti, sullo sfondo degli accordi commerciali che legano i due paesi e del piano Minniti per contenere i flussi migratori nel Mediterraneo, si cerca di spingere l’omicidio di Giulio Regeni nel dimenticatoio. Sui media filogovernativi si costruisce una narrazione che individua capri espiatori e molti media online indipendenti, tra gli altri Mada Masr, da cui è tratto questo dossier, non sono più accessibili dall’Egitto. La ricerca sociale è sempre più sgradita alle autorità. La paura è ovunque, anche e soprattutto in chi fa ricerca. Un meccanismo psicologico profondo, il cui svelamento aggiunge un tassello importante alla comprensione della deriva autoritaria che l’Egitto sta vivendo dopo l’avvento al potere del generale al Sisi.

I Palestinesi di Gaza e Cisgiordania riprendono il cammino in comune

mcc43 Il travagliato percorso dal 2014  alla riunificazione politica Perché è stato possibile riavviare il governo comune nel 2017 I punti chiave dell’accordo globale – Il travagliato percorso dal 2014  verso la riunificazione politica Il primo effettivo passo verso la riunificazione è avvenuto con scarso rilancio mediatico nel 2014. I colloqui fra Hamas e Fatah – […]

Intervista a Olfa Lamloum e Michel Tabet sul documentario “Voices from Kasserine”

  a cura di Patrizia Mancini Il film “Voices from Kasserine” è stato realizzato da Olfa Lamloum et Michel Tabet con Talal Khoury alla videocamera. Patrizia Mancini: Perché avete scelto la regione di Kasserine per il vostro documentario? Olfa Lamloum : Abbiamo scelto questa regione perché International Alert lavora sin dal 2012 in tutto il governatorato. Vi abbiamo condotto numerose […]

Regeni, Amnesty e Fnsi lanciano la scorta mediatica per Giulio: “Monitoriamo le azioni del governo sulle indagini”

Una scorta mediatica che continui a seguire l’operato del governo italiano sulle indagini per trovare la verità sulla morte di Giulio Regeni. Così Amnesty International, con la collaborazione della Federazione Nazionale della Stampa e dell’associazione Articolo 21, prova a richiamare l’attenzione dei media italiani sulla fine del ricercatore di Fiumicello, ritrovato senza vita il 3 […]

L’articolo Regeni, Amnesty e Fnsi lanciano la scorta mediatica per Giulio: “Monitoriamo le azioni del governo sulle indagini” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Sinan Antoon vince la quinta edizione del Prix de la littérature arabe

Lo scorso 26 settembre, lo scrittore iracheno-americano Sinan Antoon ha vinto il Prix de la littérature arabe 2017 con il suo romanzo Seul le grenadier (Solo il melograno), tradotto dall’arabo in francese da Leyla Mansour e pubblicato in Francia da Sindbad/Actes Sud. La menzione speciale del Premio è andata invece all’autrice marocchina Yasmine Chami per […]

Il punto a Tunisi sulle migrazioni nel Mediterraneo

Marta Bellingreri “Se il rubinetto è rotto e perde acqua, l’idraulico può venire ad aggiustarlo; o può invece chiudere l’acqua per evitare la perdita e dare delle bottiglie d’acqua da tenere a casa, facendo finta di aver riparato il danno”. Così Blamasi, presidente dell’associazione Union des Leaders Africains, descrive le politiche europee nei confronti dell’Africa. “L’Europa continua a mettere un tappo […]

Il poeta siriano Faraj Bayrakdar vince il Premio alla carriera del Festival internazionale di poesia civile “Città di Vercelli” 2017

    «Ma le circostanze erano di pietra e il tintinnio del tempo e del luogo aveva una macchia che somiglia a sangue» (Specchi dell’assenza, F. Bayrakdar, Interlinea 2017, trad. di E. Chiti) Bayrakdar è stato insignito del prestigioso premio del Festival internazionale di poesia civile “Città di Vercelli”, la cui premiazione in anteprima si […]

Dance in Poetry per salvare l’Ex Lavanderia

lavanderia 110L’Ex Lavanderia si trova nell’ex ospedale psichiatrico di Roma, meglio conosciuto semplicemente come Santa Maria della Pietà. Agli anni di abbandono che hanno fatto seguito alla sua chiusura grazie alla legge Basaglia, sono seguiti anni di riappropriazione cittadina che hanno avuto come motore e fulcro l’impegno culturale e artistico.

L’esercito algerino di fronte a sfide dall’interno e pressioni dall’esterno

Una grande oscurità circonda l’esercito algerino: dopo la sua fondazione in seguito allo scoppio della Rivoluzione del 1954 e ai momenti di crisi politica prima e dopo l’indipendenza, vengono alla luce alcune funzioni e ruoli di questo esercito sconosciuto.

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Afghanistan, quanto costa la guerra

La guerra di Afghanistan, secondo un rapporto di  Milex, è costata complessivamente  900 miliardi di dollari. Dopo 16 anni di conflitto il costo della partecipazione italiana alle operazioni in Afghanistan a partire da novembre 2001 è stimata dal dossier a “oltre 7,5 miliardi, a fronte di 260 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile”.

Scarica il rapporto dal sito di Milex

Novità editoriale: Fifa nera / Fifa blu di Alessandra Ballerini e Lorenzo Terranera

In che modo si può raccontare la paura? Alessandra Ballerini e Lorenzo Terranera, con la collaborazione di Fabio Geda e Marco Aime, l’hanno fatto con penna e matita, dandole due volti e due colori. Fifa nera / Fifa blu narra la storia, anzi, le storie della stessa paura vista dall’una e dall’altra parte. La fifa blu […]

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….ancora Iran….

http://www.rsi.ch/rete-tre/programmi/intrattenimento/baobab/Sveliamo-il-lato-pi%C3%B9-inaspettato-dellIran-9579472.html….ancora Iran….

Mejel Bel Abbès: inchiesta su diffusione dell’epatite A e cattiva gestione dell’acqua

Zoé Vernin, Coordinatrice del dipartimento Giustizia sociale e ambiente per il ‎Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux (FTDES) in collaborazione con l’Osservatorio Tunisino dell’Acqua. “I pozzi dei cammelli di Monsieur Abbes”: conosciuta in questo modo in passato, la piccola città di Mejel Bel Abbès oggi è malata. Manca l’acqua, oppure quella disponibile non è più potabile. Lo scorso […]

Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Messina, Catania e Padova

Lo scrittore siriano Khaled Khalifa in questi giorni è in Italia per partecipare ad una serie di incontri in Festival culturali. Dopo essere stato a Ferrara al “Festival di Internazionale”, sarà a Messina e Catania, ospite di “SabirFest”, e a Padova, ospite del Festival “La fiera delle Parole”. Giovedì 5 ottobre, ore 11 @Messina: incontro […]

Il Governo di Unità della Palestina si riunisce a Gaza

mcc43 Si chiude un decennio di insensate ostilità fra Gaza e la West Bank, fra Hamas e Fatah, fra il governo della Striscia e l’ Autorità Palestinese. Inshallah, è bene aggiungere, perché i Palestinesi hanno davanti a sé un percorso assai difficile e l’aiuto che hanno ottenuto, dall’Egitto, per la riconciliazione non è senza prezzi […]

Samar Yazbek e Mustafa Khalifa al Festival delle Letterature Migranti di Palermo

Palermo così sontuosa, barocca, araba e mediterranea, con i suoi viali alberati, i mercati ripieni di cibo e cianfrusaglie e quei teatri e monumenti massicci e scenografici che spuntano da dietro un vicolo senza che uno se lo aspetti. Questa nostra bellissima Palermo, dal 4 all’8 ottobre accoglie ancora una volta il Festival delle letterature migranti, […]

Wibu Codemeter Free Dumper on RequestCracks.com

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C’era una volta la Guerra Fredda

Prosegue il ciclo di incontri “Dalla Guerra Fredda alla Globalizzazione: 40 anni di politica estera
raccontati da Icei e Radio Popolare”. Lunedì 2 ottobre alle 21, nell’auditorium di via Ollearo 5, il sesto appuntamento, dedicato all’Oriente: “L’Asia, dal Vietnam alla “fabbrica del mondo””. Intervengono i relatori Gabriele Battaglia ed Emanuele Giordana, conduce Chawki Senouci.
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Aiuto, nei libri di testo scolastici si sponsorizza lo Ius Soli

Ormai quindi l’Italia è terra di immigrazione e gli immigrati sono una presenza indispensabile, soprattutto in alcuni settori lavorativi come l’edilizia, il lavoro domestico, l’assistenza a bambini e anziani. La convivenza tra italiani e stranieri  non è sempre facile e non sempre la legge italiana favorisce l’integrazione. Ad esempio i figli di stranieri nati in Italia continuano a non aver diritto alla cittadinanza italiana, anche se vivono nel nostra Paese da sempre“.

Non so cosa ne pensate di questa frase che è tratta da un libro di testo per la scuola media: Zoom Geografia da vicino scritto a sei mani da tre autori (Brandi, Corradi, Morazzoni). Direi che si tratta di una verità inequivocabile  tra l’altro illustrata, nel libro,  da tabelle e dati. Che gli immigrati facciano un lavoro che molti italiani non vogliono più fare è del resto un elemento così assodato che penso possa riconoscerlo persino Matteo Salvini. Eppure per il Giornale, con un articolo a firma Giuseppe De Lorenzo, si tratta di uno “spot allo ius” che, se non fosse chiaro, sarebbe lo ius soli, legge appena affossata da Alfano e che lascia nel limbo migliaia di ragazzi che avrebbero diritto alla cittadinanza italiana. Rimando all’articolo di De Lorenzo e alle reazioni (come questo commento sul blog Butac o lo stesso comunicato della casa editrice Loescher): spiegano meglio di me come l’articolo del quotidiano milanese sia non solo riferito a un testo del 2015, ma abbia tutta l’aria di essere uno dei tanti elementi utilizzati ad arte nella campagna contro i migranti, gli stranieri, i loro figli e i loro diritti. Uno spot contro lo ius soli insomma. Aggiungo solo una piccola nota.

Secondo il Giornale il testo di Brandi, Corradi, Morazzoni – che ha stimolato la reazione di un gruppo vicentino che si chiama “Prima Noi” –  esprime una “sponsorizzazione” dell’immigrazione atta a “plasmare la malleabile mente di un bambino, propenso com’è a credere a quasi tutto quello che gli viene proposto dagli insegnanti“. In buona sostanza, meglio non pensare. Meglio non farsi domande, in tenera età, su cosa ci fanno persone di altri Paesi nel nostro. Meglio non domandarsi – secondo Prima Noi  e l’articolista – come mai queste persone  non abbiano i nostri stessi diritti (e da bambino mi sarebbe sembrato normale chiederlo). Che miseria italiana. I libri di testo dovrebbero spiegarci che gli immigrati sono inutili, spesso se non sempre delinquenti, e che, se ci sono problemi di convivenza, è colpa loro. Se l’articolista si fosse limitato a riportare la notizia della reazione oscurantista di Prima Noi – il cui nome è tutto un programma –  sarebbe cronaca,  ma il pezzo opina, mette in guardia, paventa danni psicologici. E allora non sarebbe stato meglio, visto che si parla di scuola e di bimbi italiani, fare un piccolo ripasso della lingua di Dante? Il libro infatti sarebbe un’opera scritta a “tre mani“. Ma come, gli autori di mani ne hanno una sola a testa? L’altra se la son già presa i migranti? Chi di italiano ferisce, di italiano perisce.