Mese: aprile 2017

LA MOSTRA DI CAESAR A FIRENZE

Con il patrocinio del Comune di Firenze   In collaborazione tra Comunità araba Siriana e Harmoon Center for Contemporary Studies Biblioteca Oblate, Firenze Via dell’ Oriuolo, 24 Primo giorno Gioverdì 04/05/2017 Ore 16.00: Apertura della mostra Nome in codice codice Caesar. Intervento della Comunità araba siriana Intervento del Comune di Firenze (da confermare) Ore 17.00-19.00: […]

1 maggio sulla T-shirt

Rana Plaza, quattro anni dopo. Il 24 aprile del 2013, una settimana prima della festa internazionale
di chi lavora, un edifico di cinque piani crollava alla periferia industriale di Dacca, Bangladesh. 1.134 morti e 2mila feriti. L’edificio ospitava cinque fabbriche di abbigliamento che producevano per marchi europei e nordamericani, alcuni dei quali fecero di tutto per non essere coinvolti nel crollo e dunque nei risarcimenti. Non è certo stato l’unico “incidente” (fu preceduto dagli incendi nella fabbrica Ali Enterprises in Pakistan e alla Tazreen Fashions in Bangladesh che uccisero più di 350 persone) ma il dossier Rana Plaza, anche se con il pagamento di un prezzo altissimo in vite umane, ha però segnato un punto di svolta. Un punto di svolta, deve essere ben chiaro, dovuto alla resistenza delle famiglie dei lavoratori di quelle fabbriche e a un’attività sindacale locale fortissima quanto rischiosa. Una resistenza e una lotta sindacale che forse non avrebbe raggiunto i loro obiettivi se non fossero state accompagnate da campagne internazionali e dalla solidarietà di altri lavoratori, attivisti, comuni cittadini.

Alcuni programmi innovativi sono stati sviluppati per evitare nuovi disastri e per garantire i risarcimenti alle famiglie. Il primo riguarda l’Accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi che è un programma quinquennale, giuridicamente vincolante, col quale i firmatari si impegnano a migliorare la sicurezza delle fabbriche con cui lavorano. Lanciato dopo un mese dal crollo e non senza una forte pressione internazionale sui marchi, dopo sei mesi aveva più di 200 firmatari. L’Accordo per il risarcimento delle vittime del disastro ha terminato il suo percorso nel 2015 dopo una battaglia durata due anni per ricevere il denaro e per l’istituzione di un fondo medico fiduciario per sostenere i sopravvissuti feriti. Ma, dicono alla Campagna Abiti Puliti – la sezione italiana della Rete internazionale Clean Clothes – «Questi risultati hanno bisogno di essere costantemente difesi e sviluppati, non erosi e invertiti» perché – sostengono – le promesse di un cambiamento strutturale «non sono ancora divenute realtà: restano i problemi sistematici di una concorrenza spietata, bassi salari, repressione sindacale, un diritto del lavoro debole e l’impunità legale».

E’ anche per questo che la Campagna invita le aziende dell’abbigliamento e delle calzature che non l’hanno ancora fatto a unirsi alle 17 che già sono in linea con una nuova importante iniziativa per la trasparenza che impegna i marchi a pubblicare le informazioni che permettano a lavoratori e consumatori di scoprire dove e come vengono realizzati i loro prodotti. Un rapporto di 40 pagine (“Segui il filo”) chiede alle aziende di adottare un modello che garantisca trasparenza nella catena di fornitura dell’abbigliamento e delle calzature. «Le aziende che vi aderiscono – dicono gli attivisti di Abiti Puliti* – si impegnano a pubblicare informazioni che identifichino le fabbriche che realizzano i loro prodotti, rimuovendo un ostacolo fondamentale per sradicare pratiche di lavoro abusive e aiutando a prevenire disastri come quello del Rana Plaza». Delle 72 aziende contattate, 17 saranno perfettamente in linea con gli standard dell’iniziativa entro il 31 dicembre 2017. «La trasparenza è uno strumento molto potente per promuovere la responsabilità di impresa verso i lavoratori del tessile lungo tutta la catena di fornitura e permette alle organizzazioni e ai lavoratori di avvertire le aziende riguardo agli abusi nella fabbriche fornitrici. Facilita il ricorso più veloce a meccanismi di reclamo per abusi dei diritti umani». Ed è anche un modo per rendere più responsabili i consumatori (alcune aziende hanno dichiarato che rivelare le informazioni potrebbe svantaggiarle commercialmente…).

E perché i consumatori sappiano ecco la lista dei refrattari: American Eagle Outfitters, Canadian Tire, Carrefour, Desigual, DICK’S Sporting Goods, Foot Locker, Hugo Boss, KiK, MANGO, Morrison’s, Primark, Sainsbury’s, The Children’s Place e Walmart non si sono impegnate a pubblicare nulla. Inditex si è rifiutata di pubblicare le informazioni, ma mette a disposizione i dati. Armani, Carter’s, Forever 21, Matalan, Ralph Lauren Corporation, Rip Curl, River Island, Shop Direct, Sports Direct e Urban Outfitters non hanno risposto alla coalizione e non pubblicano alcuna informazione.


* Fa parte della coalizione composta da: Clean Clothes Campaign, Human Rights Watch, IndustriALL Global Union, International Corporate Accountability Roundtable, International Labor Rights Forum, International Trade Union Confederation, Maquila Solidarity Network, UNI Global Union e Worker Rights Consortium.

Novità editoriale: Oltre le mura di Baghdad

Marika Guerrini, scrittrice, indologa, storica dell’Afghanistan, studiosa di antropologia culturale e pedagogica è l’autrice del romanzo “Oltre le mura di Baghdad”, che racconta le vicende di Richard Schwan, giovane giornalista del New York Times e un inviato di guerra. Prima freelance, poi embedded, il giornalista compie un viaggio che inizia e finisce a New York e che passa per Los Angeles, Istanbul, Baghdad, […]

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Cucina libica: salsa di yogurt con aglio, peperoncino e coriandolo

Dalla Libia, un condimento dal sapore forte e fresco allo stesso tempo: la salsa allo yogurt con aglio, peperoncino e coriandolo! Ingredienti: 250g di yogurt intero non dolce 2-3 spicchi d’aglio 1-2 peperoncini un mazzetto di coriandolo fresco tritato sale a piacere Preparazione: Servendosi di un mixer, tritare insieme gli spicchi d’aglio e il peperoncino, […]

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SOLIDARIETA’ VUOL DIRE ANCHE LOTTA CONTRO IL DECRETO MINNITI – ORLANDO

  Germano Monti La manifestazione promossa per il prossimo 20 maggio a Roma in solidarietà con il popolo siriano e gli altri popoli del Vicino Oriente vittime di dittature, guerre e terrorismo vede, fra i suoi punti fondamentali, un aspetto molto particolare, vale a dire la denuncia del decreto “Minniti-Orlando”, il cui oggetto non è […]

Francia…focus sull’estremismo

Di Fatima Yassin. Al-Araby Al-Jadeed (25/04/2017). Traduzione e sintesi di Gemma Baccini. Il Fronte Nazionale ha un programma “nazionale” e una visione politica del governo che è un miscuglio sciovinista che si focalizza in maniera eccessiva sull’ interno e sulla protezione dei confini, e si basa sull’adozione di mezzi per espellere i migranti o per prendere […]

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La rivoluzione di Francesco su TED

  Su TED. Anche il papà ha fatto un TED Talk! È un uomo sorprendente, come la sua capacità di ‘abbassarsi con umiltà’ e usare il linguaggio della piattaforma scelta o proposta. 17 minuti da ascoltare dal primo all’ultimo. Nel tempo della guerra mondiale a pezzi, papa Francesco parla di futuro, di tu e noi.Continua a leggere

Paese che vai, accuse di brogli che trovi: ora tocca alla Turchia

mcc43 Prima della consultazione è un brontolio, a urne chiuse un tuono che sale dalle file dei perdenti negli articoli dei giornali e nei post dei social media con accuse di irregolarità, frodi, brogli. Il caso più eclatante fu il ballottaggio delle elezioni presidenziali in Austria.   In  maggio 2016 vince Alexander Van Der Bellen; il […]

Tunisia, il difficile equilibrio tra tradizione e modernità al tempo dei social

gay-tu-110Nelle ultime settimane sui social tunisini si sono scatenati infiammati dibattiti fra tradizionalisti e modernisti, islamisti e laici. Omosessualità, scienza, libertà di espressione, anche quando ci si riferisce ai precetti religiosi. Un segnale di vitalità dall’esito non scontato, tra radicalizzazione islamica e resistenza in nome della modernità. Chi non si lascia distrarre dalle battaglie per i propri diritti sono e continuano a essere le donne.

Tunisia: le riforme economiche non placano le rivolte sociali

Clara Capelli  Cooperation and Development Network – Pavia Come altre economie della regione, la Tunisia continua a muoversi su due sentieri che solo raramente si incontrano e quasi mai comunicano. Da una parte il governo guidato da Youssef Chahed cerca di consolidare i conti pubblici e stabilizzare i dati macroeconomici, programma sostenuto da diverse organizzazioni internazionali quali l’Unione europea, la Banca […]

SABATO 20 MAGGIO A ROMA PER LA PACE, LA DEMOCRAZIA E LA GIUSTIZIA IN SIRIA E IN TUTTO IL VICINO ORIENTE, PER L’ACCOGLIENZA A MIGRANTI E RIFUGIATI, CONTRO IL DECRETO MINNITI-ORLANDO

Sabato 22 aprile si è riunito il comitato promotore della manifestazione in solidarietà con il popolo siriano. La riunione ha affrontato essenzialmente alcuni aspetti organizzativi e logistici, a partire dalla consapevolezza dei tempi molto stretti, ma anche due nodi politici di fondo, quali quello relativo alla chiarezza in merito alle responsabilità della tragedia siriana e […]

Anime dell’Islam

LE DIVERSE ANIME DELL’ISLAM

Ciclo di conferenze organizzato dal 27 aprile al 25 maggio 2017
dalla Casa della Cultura, in collaborazione con il Centro di cultura Italia-Asia




“L’Islam in Afghanistan”
Giovedì 11 maggio, ore 21.00
Relatore: Emanuele Giordana
curatore del volume “A Oriente del Califfo: la conquista dello Stato islamico dell’islam non arabo”, collettanea di Lettera22 per Rosenberg&Sellier in libreria a maggio

“L’Islam in Indonesia”
Martedì 16 maggio, ore 21.00
Relatore: Antonio Cuciniello

“Sufismo e confraternite in Turchia nel XX secolo”
Giovedì 25 maggio, ore 18.00
Relatrice: Anna Maria Martelli

Sede degli incontri: Casa della Cultura – Via Borgogna 3, Milano
MM1 San Babila – Ingresso libero
Per informazioni: 02 79.55.67 – 02 76.00.53.83 – [email protected]
Siti web di riferimento
Centro di cultura Italia-Asia: www.italia-asia.it
Casa della Cultura: www-casadellacultura.it

Associazione Casa della Cultura – Via Borgogna 3 – 20122 Milano (MM1 – San Babila)
02 795567 – 02 76005383 – fax 02 76008247
e-mail: [email protected] – www-casadellacultura.it
C.F. 80115850150 – P.IVA 13307640154

I segreti della bomba

Dopo una settimana ora anche i militari afgani possono visitare il sito dove è esplosa Moab. Mentre i talebani assaltano una base dell’esercito e fanno strage di soldati. Viene da chiedersi come mai nessuno abbia ancora invocato una commissione di indagine indipendente in questa terra martoriata da quello che appare, più che una bomba giustiziera, un crimine contro l’umanità e il pianeta.

Soltanto venerdi l’esercito afgano ha potuto entrare nell’area dove, giovedi scorso, è stata sganciata la bomba da 11 tonnellate di esplosivo che gli americani hanno sganciato nel distretto di Achin, nella provincia orientale di Nangarhar. Ma alcuni video girati nei dintorni a due giorni dallo scoppio e i primi che ora cominciano a girare dopo che gli americani hanno tolto i sigilli dall’area del bombardamento, mostrano le prime distruzioni e gli effetti di un ordigno considerato secondo solo alla bomba atomica: il più potente ordigno non nucleare i cui effetti sono ancora segreti e probabilmente tali rimarranno. Conditi da dichiarazioni, dati e simil certezze – tra cui le “scuse” di un alto comandante americano per possibili vittime civili – che conviene continuare a prendere con le molle. Ma mentre i primi soldati afgani ricevevano il permesso di vistare l’aera, cinquecento chilometri più a Nord, nella provincia di Balkh, i talebani mettevano a segno il più sanguinoso attacco contro un obiettivo militare nazionale. Lasciando sul terreno oltre cento soldati morti.

La dinamica che ricostruisce l’attacco di venerdi alla base militare dove si trova il 209 Shaheen Corps nella provincia di Balkh, città circondata da una cintura della guerriglia in turbante ormai da diversi anni, è ancora oggetto di ricostruzione. Quel che è certo è che la guerriglia, che ha rivendicato l’attacco condotto con kamikaze e un commando armato (una decina tra loro sono stai uccisi), ha atteso che i militari fossero alla preghiera del venerdi e dunque in un momento di riposo alla una e mezza mentre altri commilitoni erano in pausa pranzo. Sono riusciti a passare i check point, probabilmente aiutati da spie interne, e hanno fatto strage a colpi di kalashnikov sparati da mezzi militari che hanno forse indotto in errore i controlli dell’ingresso. I morti ufficialmente sarebbero un centinaio ma diverse fonti fissano il bilancio tra i 130 e i 140 morti con almeno una sessantina di feriti. Nelle prime ore le cifre erano molto più basse: una decina si era detto all’inizio, forse stimando che nascondere la verità avrebbe ridotto l’effetto dell’azione.

Mezze bugie, aperte falsità e propaganda di guerra

Le mezze bugie, quando non le aperte falsità, sono una costante della propaganda di guerra e l’Afghanistan non fa eccezione. E eccezione non fa la vicenda della GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast (Moab), la madre di tutte le bombe. Il refrain, in attesa di un rapporto ufficiale definitivo sugli effetti della bomba, è stato fin dall’inizio che l’ordigno non ha causato vittime civili, dato certificato anche dal ministero della Sanità. Ma alcuni video girati fuori dall’area recintata dagli americani e immediatamente vicini alla zona della deflagrazione, mostrano cadaveri con segni evidenti di ustioni, case distrutte e un terreno violentato dal calore e da uno spostamento d’aria che, dicono le cronache di quella bomba, può uccidere anche a grande distanza. Venerdi scorso però, a poche ore dall’esplosione, gli americani hanno sentito il bisogno di un’excusatio anticipata nel caso di “possibili vittime civili”. Lo racconta Luca Lo Presti, presidente della Onlus Pangea, una delle poche organizzazioni italiane (con Emergency) rimaste ad operare in Afghanistan e che, a Kabul, ha progetti di microcredito e protezione di bambini e donne. “La notizia della bomba l’ho avuta dall’Italia la sera di giovedi – dice Lo Presti – nonostante fossi a Kabul dove quella sera ho dormito da una famiglia afgana. Sentivo una pena incredibile a vedere i fragili corpi di quei bambini riposare ignari nei loro letti. Poi, il giorno dopo, vedo in televisione un alto grado dell’esercito americano chiedere scusa nel caso la bomba avesse prodotto effetti collaterali sui civili…”. Ma di civili morti non si parla e dall’area blindata escono notizie col contagocce mentre l’ex presidente Karzai – l’unico ad alzare la voce – accusa il governo (che ora dice addirittura che la bomba è stata sganciata sotto la sua supervisione) di aver rinunciato alla sua sovranità territoriale per consentire a Trump di testare nuovi ordigni.

Ma quel che più appare comico, se non del tutto tragico, è che le autorità hanno fatto nomi, cognomi, origine etnica e ruolo nelle organizzazioni eversive (tra cui i talebani pachistani) di alcuni tra i novanta cadaveri di appartenenti allo Stato islamico rimasti sotto la bomba sganciata sul villaggio fantasma di Assadkhil nell’area conosciuta come Mohmand Dara. Come abbiano ritrovato corpi o anche solo ossa, e dunque il Dna, di queste vittime è un vero mistero che gli effetti della bomba, da quel poco che si vede nei primi video che circolano, rendono ancora più che tragicomico.
E mentre la guerra infuria viene da chiedersi come mai nessuno abbia ancora invocato una commissione di indagine indipendente in questa terra martoriata da quello che appare, più che una bomba giustiziera, un crimine contro l’umanità e il pianeta.

Corsa al rialzo

In Afghanistan c’è una corsa al rialzo: a chi, si potrebbe dire, la spara più grossa. Con la differenza che qui non sono battute e boutade ma proiettili veri che uccidono e feriscono in una terra dove il “Nuovo Grande Gioco” sembra non solo ritornato prepotentemente alla ribalta ma vicino al punto più basso della sua tragica storia. Una storia centenaria se il Grande Gioco tra lo Zar di tutte le russie e la Corona britannica iniziò nell’800 per poi proseguire, nel secolo scorso, con la Guerra Fredda e adesso con un nuovo episodio il cui terreno di conquista è sempre quello: l’Afghanistan e la porta maledetta tra l’Asia centrale, il Medio oriente e il subcontinente indiano. La riedizione di un gioco condotto con l’usuale brutalità e meschinità che l’ha sempre contraddistinto.

La corsa al rialzo ha come protagonisti diversi attori: l’azione di venerdi a Balkh da parte dei talebani sembra indicare il tentativo non solo di affermare la superiorità militare nei confronti del governo e dell’esercito nazionali, ma anche di dimostrare agli affiliati al Califfato di Al-Bagdadi (che sei settimane fa hanno ucciso 50 soldati nell’ospedale militare di Kabul a due passi dall’ambasciata americana) che il jihad contro l’invasore stranieri e i suoi alleati afgani è roba loro e non di questi nuovi guerriglieri in parte stranieri, in parti desunti da ex talebani spesso espulsi dalle file del movimento che fa capo a mullah Akhundzada.

Ma i due veri protagonisti sembrano al momento ancora i vecchi attori della Guerra Fredda che, cambiati di poco gli abiti di allora, si contendono la scena centroasiatica e dunque l’Afghanistan, il suo boccone più succulento. La bomba sganciata giovedi, prima ancora dei militanti del Califfato, è sembrata in realtà diretta altrove per affermare la supremazia degli Stati Uniti nei confronti della Russia di Putin che, in quelle ore, stava preparando il punto di arrivo di una maratona diplomatica durata almeno quattro anni. Venerdì mattina infatti, i delegati di Cina, India, Pakistan, Afghanistan e delle cinque repubbliche centroasitiche dell’ex Urss dovevano incontrarsi per una conferenza internazionale proprio sul futuro dell’Afghanistan cui anche Washington era stata inviata e a cui aveva sdegnosamente rifiutato di partecipare. Questa offensiva russa, iniziata negli ultimi anni dell’era Karzai e proseguita pur con molte difficoltà, nell’era Ghani-Abdullah (i due “copresidenti” attuali), ha molto infastidito gli americani. La bomba non sembra dunque una coincidenza ma, come l’attacco ieri dei talebani per mostrare i pugni a Daesh, la sottolineatura di una primogenitura sul Paese dell’Hindukush. “Roba nostra, sembra aver detto la GBU-43/B Moabc on i suoi 11mila chili di esplosivo.

Pachistani afgani, i tradizionali protagonisti di questa guerra locale, sembrano invece, in questo momento, del tutto in sordina. Al netto dei litigi tra le due capitali, all’ordine del giorno con vigore ormai da due anni, entrambi sembrano aver ormai perso del tutto il controllo della situazione. Islamabad è stata bypassata da russi e americani che trattano, più o meno segretamente direttamente con la guerriglia, e Kabul è ormai così schiacciata sulle posizioni di Washington (da cui spera di ricevere altro denaro e nuove forze militari) che sembra ormai davvero solo una marionetta in mani altrui. Quanto alla Nato, anche l’Alleanza di volenterosi (tra cui mille soldati italiani di stanza a Herat) sembra aver ormai totalmente lasciato agli americani ogni strategia senza nemmeno salvare le apparenze, come ai tempi della missione Isaf. Ora la missione Resolute Support sembra solo la misera foglia di fico su decisioni che si prendono a Washington e assai poco a Bruxelles. Dove al massimo è richiesto di rispondere soltanto “Signorsì”.

Cucina libanese: sfiha, fagottini ripieni di carne speziata

Con la ricetta di oggi andiamo in Libano, a scoprire un’altra delle tante pietanze dello street food mediorientale: gli sfiha, fagottini ripieni di carne speziata! Ingredienti: Per la pasta: 500g di farina 230ml di acqua tiepida 2 cucchiai di zucchero 1 cucchiaio di latte in polvere 2 cucchiaio di lievito istantaneo 1 pizzico di bicarbonato 1 pizzico […]

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Trump vs Putin via Kabul

La bomba americana GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast (Moab), sganciata giovedì 13 aprile, ha colpito sì il distretto di Achin della provincia orientale afgana del Nangarhar, ma lo sguardo degli osservatori vi ha colto un messaggio rivolto ad altri. In particolare, alla Corea del Nord, uno dei punti di tensione più elevati del continente asiatico.

Una serie di apparenti coincidenze invita però a una riflessione d’altro tipo che forse può essere utile considerare. E che fa dell’Afghanistan, ancora una volta, non solo uno dei maggiori terreni di scontro col terrorismo di matrice islamica – obiettivo dell’azione – ma anche il teatro di un confronto tra due potenze in contrapposizione su varie caselle dello scacchiere geopolitico internazionale: gli Stati Uniti e la Russia.

Il 13 aprile non era infatti un giorno come un altro, ma la vigilia della terza Conferenza sul futuro dell’Afghanistan organizzata dal Cremlino nella capitale russa. Nelle due tornate precedenti la diplomazia di Vladimir Putin aveva convocato solo alcuni attori regionali ed era assente il protagonista principale – l’Afghanistan. Il 14 aprile doveva invece segnare il vero e proprio rientro sulla scena afgana della Russia – dopo l’uscita dell’URSS da quel Paese nel 1989, dieci anni dopo l’invasione e nel momento in cui l’impero sovietico si avviava alla disintegrazione.

Per diversi anni i russi hanno tenuto un profilo molto basso sull’Afghanistan, limitandosi a criticare in qualche intervista l’intervento della Nato e, soprattutto, a mettere in guardia l’Occidente sui rischi insiti nella “tomba degli imperi”, come l’Afghanistan è stato più volte soprannominato per la capacità di infliggere sconfitte militari agli eserciti più forti. Ma negli ultimi tre-quattro anni Mosca ha tentato, con qualche successo, di riaffaccciarsi sulla scena: promesse d’aiuto e regali di armamenti hanno accompagnato una morbida e sottile offensiva diplomatica con le autorità di Kabul….(segue)

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Siria: una guerra (anche) di simboli

Il 17 aprile ricorre l’anniversario dell’ indipendenza della Siria, ottenuta dai francesi nel 1946 proprio in questa data. La bandiera adottata allora dalla neonata repubblica siriana era il tricolore verde,bianco e nero con le tre stelle rosse sulla banda centrale. Oggi,… Continue Reading →

Effetti della bomba: off limits anche per gli afgani

A quasi una settimana dal lancio della “madre di tutte le bombe”, sganciata il 13 aprile nel distretto Achin – provincia orientale del Nangarhar -, l’area resta completamente sigillata sia per i giornalisti
ficcanaso sia per lo stesso esercito afgano, escluso da un perimetro guardato a vista dalle forze americane di stanza in Afghanistan.

Nonostante l’acquiescenza generalizzata con cui la bomba è stata accolta sia dal governo (che l’ha anzi definita una giusta azione in appoggio agli operativi dell’esercito afgano) sia dalla stampa locale, qualche sospetto si è fatto strada ad esempio tra i giornalisti di ToloNews, un’emittente privata a larga diffusione, che ha tentato di andar oltre la versione ufficiale che a oggi attesta un successo con 99 cadaveri di membri dello Stato islamico spazzati via dalla bomba sganciata sul villaggio di Assadkhil nell’area conosciuta come Mohmand Dara. Il giornalista Karim Amini, che ha pubblicato anche una foto della “frontiera” attorno al cratere causato da un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo, sostiene che lo Stato islamico è ancora attivo nella zona da cui spara razzi sull’esercito afgano che, in mancanza di una presa di visione di quanto è successo nella zona colpita, deve accontentarsi della reazione rabbiosa dei jihadisti.

Ma la domanda vera cui per ora non c’è risposta riguarda le vittime civili. Il raid puntava a una serie di tunnel costruiti dai mujaheddin con soldi della Cia durante gli anni dell’invasione sovietica e poi diventati alloggio dei jihadisti d’importazione del Califfato, attivi soprattutto nella provincia del Nangarhar, al confine col Pakistan. E qualche sospetto arriva dalle parole di un membro del Consiglio provinciale che dice al giornalista che dovrebbe esserci libero accesso alle organizzazioni umanitarie per consentire alle popolazioni sfollate di far ritorno nei loro villaggi. Amini non approfondisce così che non è chiaro se si tratti solo delle famiglie sfollate per la presenza dello Stato islamico, noto per la sua brutalità, o anche per gli effetti della guerra: sia per gli operativi militari afgani e americani nell’area, sia anche per effetto della bomba. La versione ufficiale è che non ci sono state vittime civili ma si sono trovati solo militanti jihadisti tra i cadaveri rinvenuti (resta da capire come si è arrivati al conteggio e al riconoscimento visto che la GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast è in grado di uccidere un uomo col solo spostamento d’aria ed è in grado di perforare cemento armato sino a 100 metri di profondità). La versione ufficiale sosteneva anche che nell’aera bombardata viveva una sola famiglia, evacuata prima del raid. E’ però inevitabile far mente locale non solo sulle vittime civili di questa guerra (in aumento rispetto agli anni precedenti da quando, dal 2009, la missione Onu a Kabul ha iniziato a tenerne il bilancio): tra i tanti episodi c’è quello dell’ottobre 2016 quando un drone ha bombardato alle tre del mattino una guest house nel villaggio di Shadal Bazar, distretto di Achin, uccidendo almeno 15 persone convenute per celebrare un anziano di ritorno dalla Mecca. Allora l’Onu disse che erano civili mentre le autorità locali li avevano bollati come islamisti tra cui non c’erano né donne né bambini anche se un giornalista del Guardian, che aveva fatto vista ai feriti dell’ospedale di Jalalabad, trovò tra loro un ragazzino di 12 anni e due anziani.

 Le attività dei droni sono segrete e anche sui bombardamenti in atto nel Sud del Paese da mesi c’è una cortina di silenzio. Identico a quello che ora circonda gli effetti della prima bomba di Donald Trump.

Tre ragazze palestinesi di Tel Aviv: In between

mcc43 Capita di fidarsi della critica positiva e del titolo di un film. Leggendo che l’opera prima “Libere disobbedienti innamorate”della regista palestinese Maysaloun Hamoudi narra di tre ragazze arabo-israeliane di Tel Aviv le mie aspettative sono schizzate in alto. I Palestinesi cittadini dello stato di Israele sono un argomento negletto. Come vivono l’estraneità che loro attribuisce lo “stato […]

Playing on the Move: Understanding Play, Care and Migration through Inter-relationality

Photo taken by: Right to Play, Ethiopia. Call for Abstracts, WOCMES 2018 Playing on the Move: Understanding Play, Care and Migration through Inter-relationality In the wake of the latest migration flows from the Middle Eastern region, mostly the result of economic hardships and protracted political failures, humanitarian and development organisations have increasingly been relying on […]

Veramente è risorto

Quando si cucina si pensa, ci si prende cura, si usano le mani assieme al cervello. Con il cuore a Gerusalemme, oggi raramente unita nelle Pasque e allo stesso tempo come sempre complicata. Ecco il mio modo di festeggiare la Pasqua e di rilassarmi, come spesso facevo quando vivevo bella Città Tre Volte Santa. Con gliContinua a leggere

Pasqua, in Egitto senza festeggiamenti dei copti dopo gli attentati: “Pregare è diventato pericoloso”

Il ritorno in chiesa dei cristiani, a una settimana dagli attacchi delle domenica della Palme, avviene in una Cairo blindata da polizia e esercito con lo stato di emergenza che, come deciso dal presidente Sisi, andrà avanti provvisoriamente per tre mesi. “Sono stati annullati tutti i festeggiamenti, ad eccezione della sola celebrazione della Santa Messa di […]

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Il successo di Mosca

Il mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa.
L’Orso russo torna in scena

Se la cosa farà strada si vedrà ma intanto Mosca, la bestia nera dell’Afghanistan, incassa un successo. E offre, durante la terza conferenza sull’Afghanistan organizzata dai russi nella loro capitale, di fare di Mosca la sede di un possibile negoziato tra talebani e governo afgano. Incassa anche toni amichevoli dagli afgani stessi (pur se la strategia dei due Paesi è assai diversa), tanto che la bomba americana sganciata giovedi scorso sull’Afghanistan orientale – se doveva essere una dimostrazione di forza anche contro l’Orso russo – non sembra aver portato a casa risultati politici soddisfacenti. Le note ufficiali dicono che quasi cento affiliati allo Stato islamico sono stati uccisi  dall’ordigno ma il risultato definitivo è che intanto Mosca rientra in scena proprio sul territorio nel quale si pensava non avrebbe mai rimesso piedi. Una notizia che oscura il colpaccio contro il Califfato ammesso che venga confermato che la bomba non ha fatto danno ai civili (al di là della distruzione di pascoli, terreni e probabilmente abitazioni).

Sofian : vittima dell’islamofobia

Continua a tenerci con il fiato sospeso la vicenda di Sofian, giovane studente di origini marocchine, che qualche giorno fa, in piena mensa universitaria, si era alzato in piedi pronunciando una frase : ”chi vuole morire rimanga qui”. Da li sono tante leggende sul triste evento. C’è chi dice che Sofian aveva urlato frasi contro le religioni. I più creativi invece hanno dichiarato che Sofian agitava in mano il proprio telefonino, quasi fosse il detonatore di un ordigno, quando stava pronunciando quelle frasi ambigue.  Le fantasiose testimonianze sono tante quanto sono gli stereotipi costruiti sulla testa degli arabi musulmani. Non metto in dubbio che Sofian soffriva di problemi psichici, ma nessuno si era chiesto quali sono le origini di questo male interiore ? Qualche giorno prima della triste vicenda Sofian mi aveva inviato la fotografia del suo diario dove appariva

una frase :



‘’È così che vi creano il terrorismo a casa vostra e dicono che i musulmani sono terroristi ma l’islam è la religione di amare l’altro’’


Da questa frase, e da ciò che mi aveva raccontato nei mesi passati, traspare un sentimento di frustrazione e di rabbia verso una società profondamente islamofoba. Sofian me lo aveva confidato più di una volta negli ultimi mesi. Era stanco di nascondere agli altri la sua religione. Di doverla sempre difendere dagli attacchi di una società ammorbata dalla paura mediatica. Mi aveva pure confidato che era alla ricerca di una donna da amare, che lo accettasse per quello che è e non per quello che ” beve ”.

Adesso cerchiamo di non girare intorno al problema. Diciamoci la verità, quanti di voi, cari amici europei e non musulmani, di destra e di sinistra, sono disposti ad avere per amico un arabo musulmano, praticante per giunta ? Quante donne ” europee e non musulmane ” sono disposte ad avere una relazione con un uomo musulmano ? Comprendo il male interiore di Sofian, e vi dico che adesso anch’io sono tentato di ripetere il suo gesto in pubblico.


SIRIA: NON C’E’ PACE SENZA GIUSTIZIA

I firmatari di questo appello intendono sollecitare le forze civili e politiche del nostro Paese a mobilitarsi in solidarietà del popolo siriano e degli altri popoli che dal 2011 sono in lotta per diritti universali ed inalienabili quali dignità, libertà, autodeterminazione e giustizia sociale e che per questo si trovano ad affrontare guerra, repressione, le […]

Tunisia, il calvario delle donne sotto la dittatura

Thierry Brésillon Dal novembre 2016 e dall’inizio delle audizioni pubbliche organizzate dall’Instance Verité et Dignité, ritrasmesse in diretta alla televisione, la società tunisina esamina i suoi decenni di dittatura. Creata per fare luce sui soprusi di Stato perpetratisi per oltre mezzo secolo, questa Istanza raccoglie le testimonianze di donne e uomini che hanno subito i peggiori abusi. Grazie a questi […]

In Egitto di carcere si muore!

In Egitto migliaia e migliaia di prigionier* soffrono chius* nelle loro celle a causa del sovraffollamento, della scarsa igiene, della mancanza di cibo e di acqua potabile, di ogni sorta di privazione, abusi e torture. In molt*, poi, sono mort* … Continue reading

Usa/Urss/Afghanistan. Messaggio da undici tonnellate di esplosivo

Moab Gbu-43, il più potente ordigno
convenzionale. Sganciato giovedi in Afghanistan

Il giorno dopo la “madre di tutte le bombe” elicotteri da combattimento americani continuano l’operazione di pulizia iniziata nella provincia di Nangarhar giovedi sera nel distretto di Achin, dove tunnel costruiti dai mujaheddin durante la guerra contro i sovietici (con soldi americani ha denunciato ieri con un tweet Edward Snowden) sarebbero adesso i rifugi tattici dello Stato islamico in Afghanistan. Il distretto è abbastanza disabitato e, stando alle dichiarazioni del governo, nella zona del bombardamento (il villaggio di Mohmand Dara) viveva una sola famiglia afgana evacuata per tempo. Secondo Kabul infatti non ci sarebbero state vittime civili nell’attacco dell’altro ieri ma solo militanti del Califfato. I morti sarebbero quasi una quarantina su settanta (il Califfato smentisce) possibili obiettivi ma il bilancio è probabilmente provvisorio come provvisorie potrebbero essere le notizie sulle vittime civili che, male che vada, devono aver perso raccolti e abitazioni nell’operazione che ha visto il lancio di una bomba da 11 tonnellate di esplosivo costata al contribuente americano 15 milioni di dollari.


Le reazioni all’operazione, avvenuta alla vigilia della Conferenza sull’Afghanistan voluta dalla Russia e che si sta svolgendo a Mosca, sono di tipo diverso: il governo è compatto e compiaciuto. E’ ormai da tempo schiacciato sulle scelte americane e del resto appoggia l’escalation di raid aerei in corso da oltre un anno tanto che dal palazzo presidenziale si è appreso che la bomba americana serviva come appoggio alle operazioni dell’esercito nazionale. Infine non è un mistero che l’esecutivo a due teste di Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah stia aspettando l’arrivo del consigliere per la sicurezza di Trump con la speranza che gli americani (che hanno ora in Afghanistan 8.500 soldati accanto a poco meno di 5mila militari Nato di cui 1000 italiani) decidano, in controtendenza con Obama, di aumentare il contingente militare. Per Ghani sarebbe un sollievo, più che per la guerra, per l’iniezione di denaro fresco che l’arrivo di un nuovo contingente verrebbe a significare in un’economia sempre più asfittica dopo che la Nato se n’è andata lasciando solo il ricordo dei bei tempi in cui nel Paese stazionavano oltre 100mila soldati stranieri.
L’opposizione più violenta al raid viene dal vecchio presidente Hamid Karzai che ha usato parole durissime sostenendo che per gli americani l’Afghanistan è solo un territorio dove testare nuove armi. Gli ha fatto eco l’inviato speciale per il Pakistan Umar Zakehlwal che ha bocciato la bomba come “riprovevole e controproducente”.

Le reazioni della gente della strada infine – raccolte dalla stampa locale – sono diverse: chi è d’accordo, chi pensa che in realtà gli americani abbiano bombardato per i loro fini e non per aiutare gli afgani, chi invece pensa – ha detto uno studente di Kabul – che la bomba fosse diretta a Mosca. Quella del giovane studente sembra in effetti la lettura più interessante: alla Conferenza sull’Afghanistan che si è aperta oggi a Mosca gli americani avevano opposto un secco diniego all’invito russo in un clima di nervosismo per le avance dei russi verso il vecchio Paese occupato nel 1979. Mosca di conferenze ne ha già organizzate altre due ma questa, a differenza delle altre più in sordina, è una cosa seria: ci sono tutti, dall’Iran alla Cina, dall’India al Pakistan passando per le cinque repubbliche dell’ex Urss in Asia centrale. E c’è naturalmente Kabul che, pur se sostiene Washington e la sua politica, ha accettato di buon grado alcune iniziative di sostegno da parte russa. Questa parte del mondo sembra dunque tornare a essere, come ai tempi del “Great Game” e della Guerra Fredda, la pedina da giocare tra due giganti. Se Washington e i suoi militari sono preoccupati dal ritorno sula scena dell’Orso russo, Mosca è allarmata dall’accerchiamento sul suo lato Sud che gli americani, dopo aver preso il controllo dell’Afghanistan, hanno allargato corteggiando le repubbliche dell’Asia centrale, tradizionali alleate di Mosca.

Lo schiaffo di Trump all’Afghanistan (e a Mosca)

Gli avieri statunitensi delle Forze speciali, impegnati da mesi in una campagna di bombardamenti aerei in Afghanistan, hanno sganciato ieri un ordigno da undici tonnellate di esplosivo nel distretto di Achin, nella provincia orientale di Nangharhar al confine col Pakistan e considerata la base dello Stato islamico nel Paese.

La bomba Gbu-43, nota anche come “Moab” ( massive ordnance air blast bomb ma in gergo mother of all bombs) è la più grande bomba non nucleare mai sganciata. Il primo test dell’ordigno è del marzo e poi nel novembre del 2003 e, a parte i test, non si aveva mai avuto notizia di altri lanci. Quello di eri, alle sette di sera, è dunque un duplice messaggio. Allo Stato Islamico ma indirettamente anche a Mosca che, proprio in queste ore, sta ultimando i preparativi di una conferenza sull’Afghanistan in agenda da mesi. Al meeting, cui saranno presenti oltre agli afgani i delegati di Cina, India, Pakistan, Iran e delle repubbliche centroasiatiche dell’ex Urss, era stata invitata anche Washington che aveva però opposto un diniego. Convitato di pietra, Trump si è invece auto invitato ieri mettendo a segno un colpo clamoroso proprio nel Paese di cui si sta per discutere a Mosca. E non è l’unica notizia di un rinnovato attivismo americano in Afghanistan (da cui a breve sapremo l’entità del danno provocato dall’ordigno). Sempre alla vigilia del meeting organizzato da Putin, Trump ha annunciato l’arrivo imminente a Kabul del suo National Security Adviser, il generale McMaster. Il presidente ha annunciato il suo invio – è il funzionario di Stato più alto in grado a visitare Kabul da che Trump si è insediato – durante una conferenza stampa ma si è limitato a dire che il viaggio – di cui per ora non si conoscono né la data né altri dettagli – servirà a capire “che progressi si potranno fare con i nostri partner afgani e i nostri alleati della Nato”. Nel giro di boa che Trump sta facendo rispetto alle sue promesse elettorali (tra cui quella di lasciare l’Afghanistan) non c’è solo la nuova apertura nei confronti di una Nato “non più obsoleta” ma anche la possibilità, sostengono gli osservatori, che la Casa Bianca decida per un aumento delle sue truppe, come peraltro richiesto dal generale John Nicholson, comandante delle forze straniere nel Paese. La bomba sembra esserne il biglietto da visita.


L’Afghanistan conosce dunque una nuova escalation anche se di fatto una campagna di bombardamenti aerei nel Sud del Paese è in atto da mesi. Ancora non si conoscono gli effetti di questa massiccia operazione ma i dati del solo anno trascorso parlano chiaro: l’anno passato le vittime civili sono state oltre 11mila: 3512 morti (tra cui 923 bambini) e 7.920 feriti (di cui 2.589 bambini), con un aumento del 24% rispetto al periodo precedente. Ma il rapporto di Unama, la missione Onu a Kabul, spiegava anche che i bombardamenti aerei – afgani e internazionali – pur se responsabili “solo” del 5% delle vittime nel 2016, rispetto al 2015 hanno raddoppiato il loro bilancio: 250 morti e 340 feriti, i numeri più elevati dal 2009. Forse per difetto, perché – ad esempio – i bombardamenti coi droni non sono calcolati in quanto operazioni secretate. Le manifestazioni di protesta si susseguono e anche se spesso si manifesta contro la guerriglia, non meno spesso gli afgani manifestano contro le bombe che da un anno a questa parte cadono sempre più frequentemente.

Storie all’ombra di Gerusalemme – Palermo 19 aprile ore 18

Mercoledì 19 aprile ultimo appuntamento con il caffè letterario del Rouge et Noir. Alle 18:00 “Articolo Femminile” – conversazione con Paola Caridi su “Storie all’ombra di Gerusalemme”. Si può dare spazio ai dettagli quando incombe, su di noi, la Grande Storia? Ci si può innamorare di un caffè al cardamomo, quando la violenza quotidiana èContinua a leggere

L’ultimo tweet di Trump

Congratulations to our great military men and women for representing the United States, and the world, so well in the Syria attack. — Donald J. Trump (@realDonaldTrump) April 8, 2017 Santiago Alba Rico Chi scambia bombe scambia anche segni, messaggi. Nel caso di Trump, una persona dipendente dai social network che ha vinto le elezioni a colpi di tweets, quasi […]

Il lato oscuro delle nostre scarpe

«L’etichetta Made in Italy o Made in EU ha sempre suggerito qualità del lavoro e degli standard ma se le scarpe sono solo progettate nella UE e poi prodotte in Serbia, Albania, Birmania o Indonesia da lavoratori stranieri in condizioni miserabili, oppure in Italia da parte di terzisti che pagano salari contrattati al di sotto del salario vivibile, dove sta il valore aggiunto del Made in EU o Made in Italy?». Se lo chiede un’inchiesta della Campagna Abiti Puliti e di Change your Shoes – progetto di 15 organizzazioni europee e 3 asiatiche – che è un viaggio nel lato oscuro delle nostre scarpe. Proprio “nostre” perché Il vero costo delle nostre scarpe: viaggio nelle filiere produttive di tre marchi globali delle calzature, studio realizzata dal Centro Nuovo Modello Di Sviluppo e FAIR, racconta il percorso compiuto lungo le filiere produttive di tre grandi marchi italiani (Tod’s, Geox, Prada), mostrando quanto si sia ancora lontani dal rispettare i diritti umani e sindacali di chi confeziona le loro-nostre scarpe.

Nel mondo si fabbricano ogni anno circa 23 milioni di paia di scarpe e qualche barlume di consapevolezza sulle condizioni di lavoro in cui vengono assemblate attraverso una filiera che agisce su diversi Paesi (prodotto base, tomaia, design, distribuzione etc) ci aveva mostrato processi ad alta intensità di manodopera sottoposti a rapidi tempi di consegna e prezzi ridotti all’osso soprattutto in Cina, India, Bangladesh, Pakistan e Indonesia. Ma oggi – spiega il rapporto – dopo la delocalizzazione si assiste alla rilocalizzazione o reshoring, ossia al trasferimento in direzione contraria delle attività produttive precedentemente delocalizzate in Asia grazie al basso costo del lavoro. «L’aumento di produttività, unito a una politica di moderazione salariale, maggiore flessibilità del lavoro, maggior libertà di licenziamento, relazioni industriali soft affiancate da incentivi e sussidi per attrarre gli investimenti – dice l’inchiesta – sta rendendo di nuovo appetibile anche la vecchia Europa che presenta il vantaggio di una mano d’opera ad alta tradizione manifatturiera. Ad essere più interessati al fenomeno sono i Paesi dell’Europa dell’Est con salari a volte più bassi di quelli asiatici». Spesso anche grazie a incentivi locali.

Uno tra gli esempi citati dal rapporto riguarda ad esempio 11 milioni di euro messi a disposizione da
Belgrado nel gennaio 2016 grazie ai quali Geox ha aperto un impianto a Vranje, in Serbia. L’estate seguente, il marchio è stato oggetto di contestazioni sulla stampa locale per diverse irregolarità: condizioni sanitarie e di sicurezza insoddisfacenti, offese verbali ai lavoratori, forme di assunzione non regolari, straordinari eccessivi e altre violazioni. Anche se le denunce, la pressione dei media e l’attività sindacale e degli attivisti hanno migliorato le cose, le preoccupazioni non sono cessate.
La pratica del “terzismo” è comune: «I terzisti capofiliera utilizzati da Geox si trovano tutti all’estero, prevalentemente in Estremo Oriente, anche se non manca l’Europa dell’Est. Tod’s, invece – scrive il rapporto – li ha prevalentemente in Italia distribuiti fra Marche, Abruzzo e Puglia. Tuttavia dispone di terzisti capofiliera anche in Romania per la produzione di scarpe a marchio Hogan Rebel. Quanto a Prada, fino al 2015 intratteneva rapporti produttivi anche col gruppo cinese Stella International Holding, che dispone di stabilimenti calzaturieri in Cina, Vietnam, Indonesia e Bangladesh, ma vista la progressiva perdita di competitività dell’Asia, oggi la politica di Prada è di abbandonare l’Asia per tornare a produrre in Italia e Paesi dell’Europa dell’Est, principalmente Romania, Serbia, Bosnia Erzegovina, oltre alla Turchia». Questa diversificazione consente ai marchi di pagare prezzi differenti ai loro fornitori in base all’area geografica.

Ciò fa si che il “mercato del lusso” metta in evidenza una crescente sproporzione tra prezzi e valore reale dei beni. Un surplus di valore che però «non è distribuito equamente fra coloro che partecipano alla sua produzione ed è assorbito per la maggior parte da due fasi della catena:la distribuzione e il marchio, che si appropriano di circa il 60% del prezzo finale. Con questo meccanismo si attiva una spirale crescente per cui chi detiene più ricchezza e potere nella catena del valore finirà per detenerne sempre di più, potendo accrescere a dismisura il proprio potere di vendita attraverso il marketing e così mantenere il proprio controllo sui fornitori che denunciano prezzi troppo bassi e tempi di consegna troppo rapidi».

La presenza di consumatori informati e reti di solidarietà internazionali, secondo Abiti Puliti e Change your Shoes, sono le condizioni per ottenere dalle imprese comportamenti conformi alle tutele previste dalle leggi nazionali, dalle convenzioni internazionali e dai principi guida dell’Onu. Le Campagne chiedono ai marchi (compresi Tod’s, Prada e Geox) di garantire trasparenza sulla catena di fornitura e il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui un salario dignitoso; ai governi nazionali e alla UE chiedono di rafforzare i controlli sull’applicazione delle leggi sul lavoro. Il 14 aprile Abiti Puliti organizza a Genova al Teatro Altrove l’evento 13600HZ Concerto per macchine da cucire, progetto dell’artista concettuale Sara Conforti. Verrà proiettato anche il video-documentario “In My Shoes” dopo un dibattito pubblico sui temi dell’inchiesta.

Islam e pensiero scientifico, incontro ad Altamura

Il 4 aprile, all’interno dell’Infopoint di Altamura, ha avuto luogo una conferenza sull’Islam e il pensiero scientifico, che si inserisce all’interno del ciclo di incontri “Epicentro”, organizzato dall’associazione culturale “Spiragli”. La rassegna affronta le tematiche più varie, spaziando dall’architettura, al… Continue Reading →

Siria, il discorso del miliardario

solera-sy-110Da un compound superprotetto, circondato da lastroni di cemento incastrati in modo identico a quello del Muro di segregazione israeliano, e serrato da cancelli di ferro e sbarre pesanti quanto un fuoristrada, a Kabul, questa mattina, ascoltavo l’intervento del presidente Trump sull’attacco all’aeroporto militare siriano.

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Ci sono momenti, e in questo periodo sono lunghi momenti, in cui vorrei sottrarmi. Rispondere con l’assenza alle parole altisonanti che ascolto e leggo. Parole abusate e pericolose. Mi sa che mi tocca tornare dall’esilio virtuale.  

Cucina irachena: kubba Mosul

Oggi scopriamo uno dei piatti più tipici della cucina irachena, diffusa soprattutto nel nord del Paese, in particolare nella città di Mosul, dalla quale prende il nome, e che tristemente oggi ci evoca solo immagini di guerra e desolazione. Rendiamo un omaggio a questa città e prepariamo insieme la kubba Mosul! Ingredienti: Per la parte esterna: […]

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Usa/Russia: Afghanistan, il fronte nascosto

C’è un altro fronte di scontro tra russi e americani in Asia. Un fronte nascosto e dimenticato ma
dove la guerra infuria con continuità e, per numero di decessi, più di prima. E’ il fronte afgano, la porta che dal Medio oriente e dall’Asia centrale arriva al subcontinente indiano. Un fronte di guerra che l’anno scorso ha contato 11mila vittime civili e dove si sta assistendo a un’escalation dei bombardamenti americani nel Sud e alla possibilità che Trump, in campagna elettorale favorevole al ritiro, aumenti le truppe nel Paese. Come anche il governo di Ashraf Ghani gli chiede.

L’Afghanistan fu terreno di scontro durante il “Grande Gioco” tra Impero zarista e Inghilterra nell’800 e divenne il confine della guerra guerreggiata durante la Guerra Fredda quando l’Urss invase l’Afghanistan e gli Usa armarono, con sauditi e pachistani, l’armata mujaheddin: i primi “combattenti della fede” manovrati anche dall’Occidente come da lì a poco sarebbe avvenuto anche per la guerra in Bosnia.

I sovietici lasciarono l’Afghanistan con le ossa rotte nel 1989, dopo dieci anni e migliaia di morti, poco prima che la Perestrojka desse il colpo di grazia all’Unione delle Repubbliche socialiste. L’Afghanistan fu il detonatore di una crisi profonda e la carta che Washington aveva giocato, assieme a molte altre, per combattere i comunisti nel mondo. Poi fu la volta degli americani. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001, prima gli Stati Uniti e poi la Nato (quindi ancora gli Stati Uniti), presero il controllo del Paese per far presto i conti con le tribù afgane adesso col turbante nero dei talebani. Mosca intanto si era ritirata dalla scena, alle prese con la ricomposizione di un impero ormai spezzettato. Se aveva perso l’Afghanistan, Mosca stava soprattutto perdendo influenza in Asia centrale e nel Caucaso dove, oltre alla protesta islamista, c’era da far i conti con la perdita di giacimenti di gas e petrolio, cotone, minerali.

Ma da qualche tempo a questa parte ecco che Mosca ricomincia a occuparsi del piccolo Paese crocevia perché le preoccupazioni crescono. Sul fronte afgano ci sono almeno tre grossi problemi: la presenza di truppe Nato e soprattutto il controllo delle basi aeree afgane da parte degli Usa, una cintura pericolosa sul suo lato sudorientale. Il narcotraffico, che porta in Russia vagoni di eroina. Lo Stato Islamico, che ha creato una testa di ponte sui porosi confini tra Afghanistan e Pakistan. Gli americani e la Nato hanno deciso di lasciare? Bene, è il momento di farsi avanti. A Kabul c’è ancora Karzai e Mosca fa le prime avance. Regali, offerte di training militare, aiuti economici. E’ un avvicinamento lento portato avanti dall’ambasciata a Kabul e dall’inviato speciale Zamir Kabulov. Kabulov conosce il Paese: ci ha lavorato dal 1983 all’87 come secondo segretario d’ambasciata (e, per gli americana, come spia del Kgb) e poi è stato ambasciatore a Kabul sino al 2009. E’ un uomo che ha conosciuto mullah Omar e ha trattato con lui, nel 1995, per il rilascio di prigionieri russi. La carta da giocare è diplomatica. Mosca organizza un incontro in Russia sul futuro dell’Afghanistan ma non invita né Kabul né Washington. Intanto tratta coi talebani. E mentre i comandanti americani e afgani cominciano ad accusare Mosca di vendere armi alla guerriglia, la Russia organizza per il prossimo 14 aprile una nuova conferenza internazionale cui invita Kabul, Teheran, Islamabad, Pechino, Delhi e le repubbliche centroasiatiche. Fa la sua offerta anche a Washington che declina l’invito. I nervi sono tesi anche se quel fronte sembra apparentemente ininfluente e lontano. La conferenza si svolgerà proprio mentre il segretario di Stato Usa Tillerson sarà Mosca.

“I rohingya possono tornare”

Per la prima volta la Nobel birmana si difende ma prende posizione: “Non è pulizia etnica. Se

rientrano sono i benvenuti”

Nella prima dichiarazione pubblica da che il dramma dei rohingya birmani si è trasformato in un
esodo di massa verso il Bangladesh dopo gli incidenti alla frontiera nell’ottobre scorso, Aung San Suu Kyi, in un’intervista alla Bbc, nega la “pulizia etnica” e non prende posizione sulla campagna militare ma sostiene però che il suo Paese è pronto ad accogliere chi vorrà tornare e che gli sarà garantita la sicurezza necessaria. “Chi torna è il benvenuto”, dice la signora in giallo, che questa volta sfoggia un elegante abito verde (il colore dell’islam per paradosso): riceve il giornalista della Bbc Fergal Keane con cui affronta le difficoltà della transizione, il processo di pace e, dopo qualche minuto, le vicenda rohingya. Suu Kyi si difende dall’accusa di aver taciuto sostenendo al contrario di aver preso misure incaricando Kofi Annan di una missione specifica e di avere, col suo governo, iniziato un percorso di verifica sulla cittadinanza. Nega che si possa usare il termine “pulizia etnica” (che lo stesso Annan si è rifiutato di utilizzare) e, non condannandoli, la Nobel finisce per giustificare l’operato dei militari (accusati di stupri, violenze, uccisioni e incendi di villaggi) ma, in più di un passaggio, torna sul concetto di cittadinanza. Non dice direttamente che spetti ai rohingya ma insistere su questo punto diventa rilevante: qualche giorno fa infatti, i militari hanno preso posizione proprio sul tasto più controverso: la nazionalità dei musulmani rohingya in Myanamr.

Dopo che la missione di Kofi Annan, voluta da Aung San Suu Kyi per metter fine alle polemiche sull’espulsione dei rohingya, è stata resa pubblica con la richiesta di svuotare i campi profughi nello stato del Rakhine, un’indispettita casta militare che, benché al governo ci siano i civili pare aver sempre l’ultima parola, ha detto la sua. In risposta al rapporto dell’ex segretario generale il capo dell’esercito birmano, generale Min Aung Hlaing, ha sottolineato con parole chiare che i rohingya in Myanmar non ci sono e che quelli che ci sono, restano degli “immigrati bangladesi” senza diritto di cittadinanza birmana. E’ la parola fine cui segue il silenzio di sempre a cominciare dalla leadership civile nel Paese, oppressa dal timore di un colpo di coda degli uomini in divisa. Nonostante le prese di posizione forti alle Nazioni Unite (il rapporto di Annan è piuttosto blando ma le denunce dell’Onu non sono mancate specie dalla Commissione diritti umani e dall’Unhcr), le parole del generale sembrano chiudere il capitolo in modo definitivo. Ma ecco che, a distanza di una settimana Suu Kyi puntualizza. Lo fa in punta di coltello, attenta a non dire una parola di troppo ma sottolinea il ruolo del governo civile e, seppur senza attaccarli direttamente, risponde ai militari. Si difende ma apre: “Pulizia etnica – dice – è una parola troppo forte… è una questione di persone su diversi lati dello spartiacque e questo divario stiamo cercando di chiuderlo… saremo felici se faranno ritorno”. C’è da capire se da cittadini o no.

Radicalizzazione e movimenti sociali: stesso contesto, battaglie diverse

. Henda Chennaoui Nonostante la repressione, i movimenti sociali sono in continuo aumento in tutte le regioni della Tunisia. Mentre i sit-in degli operai della fabbrica di cavi al Kef proseguono da una decina di giorni, gli abitanti di Tataouine sono al loro tredicesimo giorno di contestazione e non sembrano pronti a rinunciare al diritto allo sviluppo regionale, al lavoro […]

Space of Refuge Symposium Report

Originally posted on Refugee Hosts :
On Wednesday 15 March 2017, Samar Maqusi, Prof. Murray Fraser (both of UCL-Bartlett School of Architecture) and Dr Elena Fiddian-Qasmiyeh (UCL-Geography and Refugee Hosts PI) convened a symposium on Space of Refuge. The symposium drew heavily on Maqusi’s PhD research in Jordan and Lebanon, enabling a conversation around the roles that space and scale play…

The True Cost

Sabato 8 aprile 2017

Terra Equa Bologna (vedi il programma intero)

Terra Equa quest’anno ha dedicato il suo Festival del Commercio Equo e dell’Economia Solidale al tema della moda, del tessile, dell’abbigliamento, degli accessori.
Per toccare con mano che cosa significa Made in Dignity, Fashion Revolution, Slow Fashion, Abiti Puliti.

Ecco la composizione tipica del prezzo di una maglietta prodotta in Asia e venduta nell’Unione Europea, come riportata dal quaderno di Equo Garantito Tessile, il filo rosso. L’industria della moda tra diritti e business: 
3% costo della manodopera
5% dazi e trasporti
6% costi generali di produzione
11% materiali
15% costi e profitti del marchio
60% tasse, costi e profitti del distributore.

Ore 18 Sala cinema e parole
The True Cost

“Uno dei più bei film che ho avuto occasione di guardare al Festival di Cannes 2015” – Huffington Post / “Questo film sconvolgerà tutto il mondo della moda” – The Guardian

Proiezione del documentario The True Cost (versione originale, sottotitoli in italiano), presentato al Festival di Cannes nel 2015, che racconta le storie delle persone che producono i nostri vestiti, l’impatto dell’industria della moda sul nostro mondo e qual è il vero costo della maglietta da 10 € che indosso.

Intervengono:
Linda Triggiani (C’è un mondo – Terra Equa)
David Cambioli (altraQualità)
Deborah Lucchetti (Fair Coop. Soc. – Campagna Abiti Puliti)
Emanuele Giordana (giornalista, saggista e direttore di Lettera22)

In collaborazione con “Tutti nello stesso piatto”, Festival Internazionale di cinema e videodiversità
Per l’occasione saranno presentate le campagne internazionali in corso per la difesa dei diritti dei lavoratori del settore.

Le mire di Mosca e l’islam radicale in Asia Centrale

Samarcanda, piazza Registan.
Sotto una mappa dell’Uzbekistan

L’ondata di arresti seguita ai fatti di San Pietroburgo porta dritta a una pista che dalla tradizionale rotta ceceno-daghestana arriva in Asia Centrale, la nuova frontiera da cui Mosca teme adesso un’ondata di violenze dirette o meno che siano dal Califfato di Raqqa. Un progetto che peraltro non ha fatto molta strada nell’Azerbaijan o nelle cinque repubbliche dell’ex Urss ai confini orientali di quel che fu l’Impero zarista e poi l’Unione sovietica. Eppure, se un timore islamista esiste, sono proprio le turbolente aree caucasiche ancora sotto diretto dominio russo a impaurire gli Stati orientali che temono un contagio dal Daghestan o dalla Cecenia anche se pubblicamente non lo ammettono. La bestia nera delle cinque repubbliche dell’Asia centrale è invece, pubblicamente, l’Afghanistan, la terra dei talebani, agitata come uno spauracchio per reprimere il dissenso islamista e non. Per Mosca l’Asia centrale resta comunque una preoccupazione perché il controllo di quelle terre gli è ormai in gran parte sfuggito di mano anche se gli accordi con la Russia prevedono la difesa militare dei confini in caso di conflitto. Lo si è visto con la presa di Kunduz in Afghanistan per alcuni giorni nel 2015. Sui confini è scattata l’allerta e una massiccia presenza di militari russi.


I Paesi dell’Asia centrale hanno un’antica tradizione islamica ma è solo l’Uzbekistan il Paese che potrebbe temere, a ragione, la pressione dei gruppi radicali armati. Naturalmente, come altrove, i conflitti in Afghanistan/Pakistan e nel vicino Caucaso settentrionale – e così la più recente guerra siriana e, a suo tempo, la guerra in Iraq – sono stati il motore di un revivalismo radicale che sembra aver assecondato la diffusione di movimenti salafiti e wahabiti e infine la partenza di foreign fighter verso l’estero per aderire alle brigate islamiche internazionali in vari Paesi. A volte i numeri hanno una certa rilevanza ma il fenomeno sembra abbastanza ridotto. L’Uzbekistan è un caso a parte: l’obiettivo del governo è sempre stato quello di far terra bruciata attorno al Movimento islamico dell’Uzbekistan (Mui), al punto che si era arrivati a proporre ai talebani, agli inizi del 2001, persino un riconoscimento dell’Emirato in cambio dell’espulsione dei militanti Mui dall’Afghanistan. Creato nel 1998 con l’obiettivo di rovesciare il regime e instaurare una forma di governo conforme alle leggi islamiche, il Mui si è alleato con i Talebani e Al Qaeda. Nel 2015 ha espresso fedeltà al Califfato di Al-Bagdadi creando una spaccatura tra i suoi membri, molti dei quali non hanno aderito alla svolta. I suoi combattenti sono attivi soprattutto in Pakistan. Oltre 1500 uzbechi militerebbero all’estero in gruppi come il Mui o la Jamaat Imam Bukhari. Lontano però dai confini russi.

Se all’epoca sovietica il controllo su moschee e madrase era ferreo, le cose cambiano con la “liberazione” dal tallone di Mosca ma l’enfasi sul nazionalismo e un ambiguo atteggiamento verso la religione intesa soprattutto come stampella del potere, hanno finito per rivitalizzare l’islam centroasiatico favorendo la nascita di sezioni locali anche di movimenti transnazionali islamici. La risposta dei governi è stata soprattutto repressiva e con la tendenza a fare di ogni erba un fascio senza grandi distinzioni. Secondo diversi analisti le preoccupazioni che riguardano la sicurezza sono in realtà da leggersi, in molti casi, in chiave interna: preoccupazioni insomma che derivano più da un timore per la stabilità dei governi – in una situazione di povertà crescente per la crisi del greggio e del rublo e per l’incertezza nella successione interna delle leve di potere – che non per la paura reale di un contagio o di un’espansione dell’islamismo esogeno armato. In sostanza i Paesi centroasiatici avrebbero cioè utilizzato e utilizzerebbero il “pericolo jihadista” anche per contenere le spinte dal basso che possano mettere in difficoltà (come già avvenuto in passato) il sistema di potere locale. Lo stesso per il narcotraffico, attività economica sotto traccia che consente il transito di oppio e oppiacei prodotti in Afghanistan anche se, scrivono i due ricercatori C. Bleuer e S. Kazemi, «Il rischio in termini di sicurezza che lega l’Afghanistan alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale viene di frequente altamente esagerato e così il presunto collegamento tra narcotraffico e gruppi radicali islamisti. In realtà in tutta l’Asia Centrale i principali attori del narcotraffico sono impiegati governativi, agenti della sicurezza e personaggi legati alla mafia…». Anche qui c’è ovviamente uno zampino dei russi, destinatari dell’eroina afgana. Naturalmente un rischio islamista, benché sovrastimato, esiste ma, avvertono gli studiosi, in quest’area si fa più affidamento alla repressione che al dialogo. Un metodo che in Asia Centrale hanno imparato da Mosca.

Workshop di Calligrafia Araba a Cassino(FR)

أموت ويبقى كل ما قد كتبته فياليت من يقرأ مقالي دعا ليا Morirò……ma rimarrà tutto ciò che ho scritto, spero che tutti coloro che leggeranno i miei scritti pregheranno per me La calligrafia è l’arte della scrittura bella, stilizzata ed … Continue reading

Novità editoriale: “Prima che parli il fucile”

Questa è la storia di un siriano qualunque, figlio della buona borghesia damascena, che scrive un vero e proprio manifesto teorico-pratico sulla rivoluzione dal basso, nello specifico quella siriana. Emigrato all’estero e poco interessato al clima repressivo del suo Paese, agli inizi della rivolta siriana della primavera del 2011 torna a Damasco per restare. Dalla sua […]

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