Mese: settembre 2017

Rohingya, melina al Consiglio di sicurezza

Guterres al CdS: tutte le parole possibili
per scardinare l’inazione

Mentre il numero dei rohingya fuggiti in Bangladesh continua ad aumentare il bilancio di un esodo che sembra senza fine e sarebbero ormai 500mila i profughi di questa minoranza musulmana vittima di una cacciata biblica, il Consiglio di sicurezza dell’Onu aspetta. Riunitosi da giovedi per ora ascolta in attesa di pronunciarsi su possibili sanzioni e passi forti nei confronti del Myanmar da cui i rohingya fuggono in massa. Ma per ora non ci si aspetta molto altro che un messaggio formale forte. Anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non sa più bene che parole utilizzare: dalla “catastrofe umanitaria” è passato a “incubo dei diritti umani” ma le bocce restano ferme. Gli ha fatto eco l’ambasciatore all’Onu del Bangladesh Masud Bin Momen che, nelle riunioni consultive del Consiglio, ha chiesto alle Nazioni Unite un’indagine su quanto accade. Fatti che stanno facendo del suo Paese la riserva indiana dove cacciare la minoranza musulmana il cui nome, in Myanmar, non si può nemmeno menzionare.

La vicenda dei rohingya, per cui è già stato usato il termine “genocidio” e la locuzione “pulizia etnica”, infiamma però solo i Paesi musulmani e appena un pochino britannici e francesi. Persino gli americani, di solito molto “vocalist” – come si dice in gergo – quando si tratta di diritti umani, stanno un po’ in disparte. Nei discorsi preparatori nessuno è stato comunque avaro di frasi di rito ma al Consiglio di sicurezza, dove si prendono le decisioni che contano, tutti sanno che, soprattutto Pechino – spalleggiata da Mosca – non vuole soluzioni dure contro il Myanmar, alleato di ferro delle sue politiche energetiche. Ha già utilizzato in passato il diritto di veto anche se, si dice, la Cina si sarebbe ammorbidita in questa vicenda dove ormai ogni linea rossa è stata varcata. La gente che fugge, lasciandosi dietro case incendiate, stupri e violenze, arriva in Bangladesh stremata e assai spesso, è accaduto anche ieri, non ce la fa: fragili imbarcazioni che si capottano, gente che affoga nel fiume-mare che divide i due paesi: almeno una sessantina ieri dopo il ribaltamento di una barca.

Guterres, che potrebbe decidere un viaggio in Myanmar su invito del governo, vuole intanto almeno una Conferenza dei donatori e un po’ di quattrini per le sue agenzie. Ma c’è un problema di accesso – nello Stato del Rakhine da cui i rohingya fuggono – che renderebbero il denaro assai poco utile. Il problema è politico non umanitario. O meglio, la catastrofe umanitaria e l’incubo sui diritti, gli stupri e le violenze non sono che gli effetti di una politica disattenta su una vicenda annosa, marcata dall’imbarazzo di avere a che fare questa volta con dei musulmani che non sono dalla parte del torto. I rohingya però sono solo una piccola popolazione senza protezione né protettori, non vivono in deserti petroliferi e le loro terre ormai stanno passando nelle mani di altri padroni: erano un milione e ora son solo la metà. Questione di tempo e il caso, con qualche spicciolo per i campi profughi, si risolverà da solo.

Guterres lo sa e infatti ha paventato il rischio che questa situazione, oltre che catastrofica sul piano umanitario, diventi nuova benzina da gettare sul fuoco – in Bangladesh o in Myanmar – per chi ha interesse ad allevare gruppi armati e terroristici. Intanto Facebook dà una mano: i post dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), il gruppo secessionista rohingya accusato dai birmani di terrorismo, è stato oscurato. Un regalo a chi sta pensando a scelte radicali e ai Paesi che possono essere interessati a creare caos nella regione finanziando chi non ha più nulla da perdere.

Un caffè in Puglia con Mahmud Darwish

Il viaggio di Darwish, un progetto di Bruno Soriato e Iyas Jubeh che vi avevo raccontato qui, volge quasi al termine. Tra le numerose tappe in giro per la Puglia, i due si sono fermati anche a Bitonto (Bari), dove ad assistere allo spettacolo c’era anche Silvia Moresi, arabista e traduttrice, che ne ha scritto […]

Referendum Kurdistan, l’indipendenza resta un’utopia ma il risultato lancia Barzani alle elezioni presidenziali

L’annuncio è arrivato ieri sera mentre il Kurdistan iracheno si riprendeva a rilento dall’ebbrezza del voto per l’indipendenza. Il presidente del governo regionale curdo Masoud Barzani non ha voluto aspettare la comunicazione ufficiale della commissione elettorale. Ha tenuto un discorso in diretta televisiva e ha proclamato la vittoria del sì. Anche se i dati non […]

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Il Califfo e l’Asia al Festival di Internazionale: i Rohingya e il web

Chiostro di San Paolo
piazzetta Schiatti 7
Festival di Internazionale

VENERDÌ 29 SETTEMBRE 2017

17.00

Emanuele Giordana
e Tiziana Guerrisi

A oriente del Califfo
(Rosenberg&Sellier)
con
Junko Terao

Il gruppo Stato islamico (Is) vuole estendere i confini del califfato oltre il mondo arabo e alcune regioni asiatiche sembrano un terreno ideale. Una raccolta di saggi per capire il progetto dell’Is per la conquista dei musulmani non arabi e per comprendere chi sta dando una mano al califfato.
Giordana racconterà del suo viaggio alla frontiera Bangladesh/Myanmar di cui ha scritto per Internazionale e di come i secessionisti rohingya possano cadere nella trappola dello Stato islamico. Tiziana Guerrisi racconterà di come la diffusione del verbo di Al Baghdadi si sia diffusa nella Rete sperimentando un nuovo tipo di guerra a tecnologia avanzata

(Sarà presente il cane Fanny)

Humanitarian Pedagogies of Transit (September 2017)

(Syrian refugee children at school in Turkey. Photo credit: worldbulletin.net) http://www.anthropology-news.org/index.php/2017/09/26/humanitarian-pedagogies-of-transit/ Despite the traditionally temporary character of their interventions, humanitarian agencies providing ad hoc services in crisis-affected areas are increasingly viewing education as a necessity. As such, education has been progressively integrated into the standard humanitarian toolkit. Delivering formal education in crises, however, remains an […]

Saleem Haddad, Faraj Bayrakdar e Khaled Khalifa a Internazionale a Ferrara 2017

Al prossimo festival di Internazionale a Ferrara, che comincia questo venerdì, ci sono due incontri (tra i tantissimi da non perdere) con alcuni scrittori arabi a cui vi consiglio di assistere se siete nei paraggi! Sabato 30 settembre ore 14.30: Amore e rivoluzione in Medio Oriente Saleem Haddad (autore di Guapa, edizioni e/o 2016) dialoga […]

La radio racconta

Ho sempre amato Wikiradio, una di quelle trasmissioni che restituiscono alla radio il fascino del tempo in cui era uno dei pochi mezzi di diffusione di massa del racconto. Wikiradio, nello specifico, sta peraltro assolvendo a un compito di documentazio…

Bellezza oltre la guerra a Trani. Afghanistan in terra di Puglia

Con Soraya sullo sfondo
del castello di Federico II
  a 25 km da Trani

Il tema della bellezza è al centro di un Festival cui mi sarebbe sempre piaciuto andare e che si intitola Dialoghi di Trani anche se poi gli appuntamenti corrono qui e la in questa bella terra di Puglia. Con mio grande piacere quest’anno sarò li domenica 24 con Soraya d’Afghanistan e Giorgio Zanchini a parlare della “bellezza oltre la guerra” dell’Afghanistan, Paese bellissimo e purtroppo in gran parte distrutto. Di cosa parlerò? Di cos’è ma anche di com’era. Posto dunque il mio ricordo di quella che un afgano definì l'”età dell’oro” ossia il periodo in cui visitammo l’Afghanistan durante il “Viaggio all’Eden”,  libro nel quale ho dedicato a questo splendido Paese gran parte delle pagine… Ne pubblico qualche estratto dal 4 Capitolo: L’epopea di chicken street

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…La notte, a quelle latitudini, arriva velocemente. Avevamo appena lasciato il posto di frontiera iraniano di Tayyebad ed eravamo entrati in Afghanistan mentre le luci del giorno si andavano affievolendo. Il passaggio del confine non era stato indolore ma sapevamo che la vera frontiera del Viaggio all’Eden, la mitica strada che portava dall’Europa sino all’India e a Kathmandu, era finalmente qui. Qui dove il grande altipiano del Khorasan persiano si perde nei deserti dell’Afghanistan, un luogo, un nome che con l’andar del viaggio – nelle storie raccolte a Istanbul o Teheran – stava diventando qualcosa in più di una semplice tappa. Alla frontiera iraniana la polizia dello Scià imponeva, a chi andava o veniva, un passaggio obbligato in un corridoio degli orrori: batterie scoperchiate, scatole di conserva squarciate, gomme rivoltate come calzini, cruscotti smontati, tubetti di dentifricio svuotati. Mentre ti avventuravi nella terra di nessuno tra le due frontiere, quel passaggio obbligato nel museo della punizione divina, ti dava un avvertimento chiaro: stavi entrando nel Paese patria, tra l’altro, dell’ “afgano nero”, l’hascisc più ricercato del pianeta. Lasciavi la Persia del Trono del pavone con le sue lugubri promesse penitenziarie e agenti azzimati dalle divise luccicanti e arrivavi al posto di frontiera de la “République d’Afghanistan”, che allora il francese era la lingua di una monarchia che, appena un anno prima, nel 1973, era diventata repubblica con un golpe bianco dei suoi parenti, mentre il re Zaher Shah era in vacanza a Capri…

… Dopo qualche chilometro il minibus carico di stranieri zazzeruti e completamente fumati si arrestava in una ciakana, una taverna dove si beve il tè, si può dormire e mangiare sdraiati su tappeti pulciosi ma altrettanto ricchi di fascino, odori e geometrie colorate approntate da abili tessitori.  Completamente stravolti dalla potenza dell’afgano nero, i giovani viaggiatori vedevano entrare uomini scesi da cammelli battriani a una sola gobba e avvolti in tabarri – il patu, coperta di finissima lana dell’Hindukush –, fieri pastori delle montagne, abili commercianti della pianura, chapandaz dal prezioso cavallo arabo che ti proiettavano in una sorta di medioevo islamico, dove regole antiche come massicci dirupi e vigili come guardiani occhiuti di una tradizione millenaria, sembravano – complice l’ambiente e l’hascisc – aver costruito a tua misura la magia di una notte stellata perduta nei grandi spazi dell’Oriente che finalmente si era fatto realtà. Altro che scimmiottamenti di un’altra cultura, altro che divise in stile germanico, altro che modernità più o meno digerita: dopo l’Iran dello Scià – dove l’impronta della modernità sapeva di esportazione forzata di un modello del tutto estraneo – l’Afghanistan era una favola perfetta dove ti era consentito immergerti fino al midollo. Dovevi solo rispettare le sue regole scandite dall’adhan, la chiamata alla preghiera cinque volte al giorno. O dal pashtunwali, le norme rigorose della tradizione. Regole ferree. Una notte, un povero fricchettone di qualche città europea, in nome del leggendario codice d’onore dei pashtun che prevede non si possa negare l’ospitalità a chi la chiede nemmeno se si tratta di un assassino, viene accolto di buon grado in una famiglia cui domanda riparo. Ma il povero giovinastro si sveglia nella notte per la sete e, nel buio, sbaglia stanza entrando in quella delle donne, oggetto di un desiderio irrivelabile e negate alla vista altrui dai dettami della purdah (letteralmente: tenda). Punizione: la morte. Rapida come era stata la grazia con cui era stato accettato e ospitato…

…Oggi a Kabul o a Herat si arriva in aereo. Si può ancora fare quella strada ma l’ossessione della guerra o dei sequestri fanno sì che il viaggiatore sia costretto ad aspettare l’ingresso nel sogno orientale non più a Mashhad ma a Dubai o ad Abu Dhabi, città ad aria condizionata (come Terzani battezzò Singapore nel suo Un indovino mi disse), senza calore umano e in compenso intorpidite da un clima torrido, umido, arrogante e impietoso come la gente del Golfo. L’aeroporto civile della capitale e quello della provincia occidentale – dal 2003 posta sotto controllo italiano – condividono la pista con panciuti aerei militari, grigi come il fumo delle bombe e anonimi come il colore della guerra. C’è poco fascino, se non per gli amanti di elmetti e gagliardetti, nel discendere una scaletta che approda su una terra ostile e polverosa che ospita città militarizzate in piena evoluzione e ormai quasi irriconoscibili. I bulldozer della famiglia Karzai, speculatori di Ankara o Dubai, ostinati ingegneri della sicurezza delle ambasciate, hanno ricoperto la capitale di cemento. I soldi della guerra avevano fatto dell’afghanis una moneta così forte che conveniva convertirla per comprare ovunque – fuorché in Afghanistan – merci che in Iran, Pakistan e Tagikistan costavano la metà. Facevano eccezione le noci di Baghlan o il melone di Kunduz, famoso per la succosa dolcezza, tra i pochi doni agricoli sopravvissuti: per il resto quasi tutto, dai pomodori alle uova, veniva e viene dai vicini. La bolla speculativa dell’economia di guerra – dall’edilizia alle commesse per gli scarponi dell’esercito – è però durata sino a quando i soldati americani e della Nato sono rimasti padroni del campo arrivando a contare 150mila militari e altre migliaia di contractor: con la loro presenza, accanto a una popolazione di diplomatici, umanitari e spioni, son stati una potente macchina per far girare i soldi. Adesso, che i soldati hanno iniziato ad andarsene con la fine nel 2014 della missione Isaf lasciando soltanto qualche migliaio di uomini a guardia del bidone, la bolla si è sgonfiata. E in un mercato del lavoro ormai asfittico dove i soldi facili son finiti e si affacciano ogni anno 400mila nuovi soggetti in cerca di occupazione, forse scenderà anche il prezzo di noci e meloni tanto quanto è scesa la speranza che la guerra, perfida matrigna, un giorno smetta di abbracciare questo Paese…

…Gli afgani sono poeti. Lo erano e lo restano ancora oggi. L’usignolo (bulbul) è un protagonista assoluto nei romanzi, nelle poesie e persino nei serial televisivi. Ne sa qualcosa Parwin Mushthal, attrice afgana di una serie televisiva intitolata appunto Bulbul e a cui gli islamisti hanno ucciso il marito per punirla. Per le donne è dura in questo Paese e lo era ovviamente anche negli anni Settanta. Eppure noi allora, pur essendo accompagnati da fervide femministe che il corpo è mio e lo gestisco io, facevamo poco conto a quella condizione di assoluta esclusione della figura femminile dal consesso sociale. Relativismo culturale? Facevano anche poca attenzione agli usignoli.
Nella casa che per alcuni anni abbiamo affittato a Kabul durante la guerra, sulle pendici di De Afghanan, il quartiere forse più antico della capitale, lo sguardo si perde fuori dalla finestra: si vedono le vette dell’Hindukush che circondano la città e i tetti delle case che in parte ancora sono fatti col sistema tradizionale: un miscuglio di fango e paglia che riveste gli ampi terrazzi e accompagna le balze degli edifici ammantati da un intonaco giallastro che ne segue le curve, come se fosse stato lavorato con le mani, anziché con la cazzuola. Siamo fortunati. Vediamo ancora una Kabul in via di rapida estinzione. Ancora, ma solo in parte, simile a quella città di soli 400mila abitanti (oggi son quattro milioni) che conoscemmo quarant’anni fa. Adesso che è iniziata cilleh-e-qurd, la seconda parte dell’inverno, il sole e il risveglio della natura cominciano a spandersi nei bagh, nei giardini aihmè sempre più rari in una città che ogni giorno costruisce palazzi nuovi e di dubbio gusto. Cilleh-e qalon, la prima parte dell’inverno, inizia invece col nostro solstizio del 21 dicembre e arriva in sostanza fino a fine gennaio. Dura 40 giorni come la fase successiva, cilleh-e-qurd, che segna la transizione di altri 40 giorni e che ci porterà fuori dal freddo secco dell’inverno. Da inguaribile romantico, lo ammetto, continuo a inseguire i segni del passato e dell’impossibile che è anche forse un modo per fingere che la guerra sia lontana e che, anche a Kabul, si possa vivere una vita normale: osservando il volo degli uccelli, spiando le gemme sui rami, indovinando suoni e bisbigli di una natura quotidianamente calpestata….

Come ti insegno a uccidere meglio

Dopo l’assurdo errore del volantino sganciato dal cielo in cui un cane “cattivo”, animale impuro per l’islam, portava una frase del Corano sul corpo mentre era inseguito da un leone “buono” (l’idea era che il cane fossero i talebani), a dimostrazione di una confusa strategia anche mediatica, l’unica certezza all’orizzonte del nuovo surge trumpiano è  che dal cielo non cadranno solo volantini ma sempre più bombe


Volantini dal cielo bombe dall’aria

Dai cieli afgani non piovono solo volantini. La nuova strategia americana, fumosa e incerta, una sicurezza l’ha data: più bombe, più omicidi mirati, miglior utilizzo dell’arma aerea e un maggior impegno – con l’aiuto dei partner Nato – per costruire una forza aerea nazionale con più aerei e piloti meglio addestrati. Non è una novità perché è la stessa politica di Obama (meno soldati più bombe) ma con almeno tre differenze: la prima è che l’impegno di “stivali sul terreno” aumenterà: per ora siamo a oltre 15mila soldati ma potrebbero crescere; la seconda è che l’Afghanistan può essere un buon teatro dove testare nuove armi (come quella da 11 tonnellate sganciata nell’aprile scorso nella provincia orientale di Nangarhar, nella foto a sinistra); la terza è che sono tornati i B-52, le “fortezze volanti” rese note dalla guerra nel Vietnam. Già utilizzati in passato, non erano stati più usati a partire dal 2005 ma sono riapparsi nel 2012 quando giunsero a sganciare sino a 600 bombe nel mese di agosto di quell’anno. Poi c’è stato un nuovo arresto e ora sono ricomparsi con una media di 150 bombe al mese: ad agosto 2017 hanno superato quota 500. I B-52, gli stessi da cui sarebbero stati sganciati i volantini, portano normalmente bombe da 220 chili (Gbu-38/B) fino a una tonnellata (Gbu-31/B). Ogni aereo ne può portare sino a una trentina per un totale di 31 tonnellate, salvo che non si tratti della Gbu-43 Moab da 11 tonnellate di Tnt – quella utilizzata nel Nangarhar – che per la dimensione deve essere lanciata da un C-130.

Il totale delle bombe sganciate nel 2017 è 2.487, più della metà di quelle lanciate in tutto il 2012 ma solo 271 in meno che in tutto il 2013 e quasi il doppio di quelle del 2016. I B-52 sono coadiuvati nei bombardamenti da caccia F-16 e droni MQ-9. In totale 761 missioni con bombe (su 2.861 uscite) nel 2017. Sul fronte interno – spiega l’Air Power Summary americano del 31 agosto – “ L’Afghan Air Force ha espanso la sua capacità aerea con la prima operazione di sganciamento notturno il 22 agosto con propri C-208”. Train Advise Assist, come vuole l’imperativo della missione Nato “Supporto risoluto”.

Insegnare a bombardare meglio in un paese dove nei primi mesi del 2017, guarda caso, l’Onu ha segnalato un aumento del 43% negli incidenti dovuti ai raid aerei.

Regeni, i legali della famiglia al Cairo: “Polizia ha tentato di chiuderci lo studio”

Avevano chiesto protezione all’Italia la scorsa settimana, ma le loro richieste sono rimaste inascoltate. Nemmeno il ritorno dell’ambasciatore Gianpaolo Cantini al Cairo ha fermato, infatti, gli attacchi del governo egiziano contro l’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione che rappresenta legalmente in Egitto la famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore di Fiumicello trovato senza vita […]

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Fantasmi birmani

Dopo un’attesa durata settimane la Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, sotto i riflettori della cronaca per l’esodo forzato di oltre 400mila rohingya, ha preso la parola e affrontato la questione. Sotto gli occhi delle telecamere e dei parlamentari e militari del Myanmar nel quale conta più di un nemico. L’attesa non è stata tradita e la leader de facto del governo birmano ha affrontato la questione con un lungo discorso, per certi versi anche coraggioso, ma che in sostanza ha difeso l’operato dell’esercito e messo davanti a tutto la stabilità del suo Paese. Un Paese sempre minacciato dal rischio di un golpe militare che non sarebbe nemmeno tale visto che la Costituzione lo prevede in caso la sicurezza nazionale sia compromessa. Suu Kyi dice che il suo governo non teme il “controllo internazionale” sulla gestione della crisi e ha dichiarato di sentirsi profondamente colpita per la sofferenza di “tutte le persone” imprigionate nel conflitto; che il Myanmar è comunque “impegnato in una soluzione sostenibile … per tutte le comunità”. Ha infine detto che non ci sono state “operazioni di pulizia”, la terribile accusa che è piovuta dall’Onu quando il Myanmar è stato appunto accusato di pulizia etnica.

Poche ore dopo il suo discorso, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra – da cui l’accusa è piovuta – ha chiesto l’accesso completo alla regione in modo da poter indagare la situazione “con i propri occhi”. Il suo messaggio al parlamento (con un discorso in inglese) è stato giudicato insufficiente da Amnesty International, che ha lamentato l’assenza di un riferimento diretto ed esplicito al ruolo dell’esercito nelle violenze nel Paese. Human Rights Watch dal canto suo continua invece a testimoniare il contrario di quanto il governo vorrebbe far credere (Suu Kyi ha detto che la maggior parte del Rakhine è in pace) perché, stando all’organizzazione, ci sono ancora “colonne di fumo che si levano dallo Stato del Rakhine”.

Ma l’aspetto forse più inquietante del discorso della Nobel è che non ha mai usato il termine “rohingya”, il nome della comunità che in Myanmar è un tabù perché la minoranza musulmana perseguitata (e ormai ridotta al lumicino dopo l’ennesimo esodo in Bangladesh) viene considerata solo una popolazione di immigrati illegali dal Bengala.

Il video integrale del discorso della Nobel ripreso da Al Jazeera


Vero è che il discorso pubblico richiedeva coraggio in un Paese dove il neo governo civile e democratico è sotto il tiro incrociato dei partiti di opposizione ma soprattutto dei militari. Ci voleva dunque coraggio a citare la missione affidata mesi fa a Kofi Annan che ha chiesto al Myanmar nel suo rapporto di rivedere la legge sulla cittadinanza che vieta ai rohingya di essere “birmani”. Un rapporto che il capo dell’esercito ha rigettato considerandolo “parziale” e per il quale Suu Kyi è stata accusata di avallare chi rema contro la stabilità del Paese. L’equilibrio è difficile: il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, nel ribadire la posizione del suo Paese, lo ha messo in luce: “Non possiamo assistere al ritorno di un regime militare” ed è dunque “vitale che Aung San Suu Kyi e il governo civile dicano chiaramente che questi abusi devono finire”. Una sorta di contraddizione in termini che rivela quanto la faglia sia sottile.

L’anno scorso, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, la leader birmana aveva promesso di difendere i diritti delle minoranze e promesso anche impegno contro pregiudizi e intolleranza. Ma quest’anno, anche se il Myanmar non teme il “controllo internazionale”, la Nobel a New York non c’è. Per evitare imbarazzi e, alla fine, tener buoni i militari.

Il Ttp e le minoranze birmane

«Massacri condotti e patrocinati dallo Stato, esecuzioni extragiudiziali, omicidi, sparizioni,
annegamenti, stupri e violenze sessuali, distruzione di interi villaggi, negazione dei diritti in un cointesto di terrore promosso dallo Stato, diffuso e sistematico…». La lista delle accuse riempie cinque cartelle nel primo giorno in cui il Tribunale permanente dei popoli (Tpp) si riunisce a Kuala Lumpur per giudicare «…lo Stato del Myanmar, i dipartimenti del governo, il complesso militare nel suo insieme, polizia, polizia di frontiera, membri della Lega Nazionale per la Democrazia, il presidente, Htin Kyaw, e la consigliera, Aung San Suu Kyi, accusati di detti crimini in relazione ai gruppi etnici Kachin e Rohingya e alla popolazione islamica…». C’è altro: pur se non rientra nell’ambito di queste accuse, la Procura riconosce «il ruolo significativo dei media, degli ultranazionalisti del Rakhine e delle organizzazioni buddiste anti-musulmane estremiste nella diffusione di propaganda anti-musulmana e anti-Kachin, nell’incitamento all’odio con discorsi e ideologie atte a promuovere e raccogliere il sostegno pubblico per la persecuzione di questi gruppi…».

Benché le sentenze del Tribunale non siano vincolanti e benché si tratti per ora solo di accuse, per la prima volta in questi anni un gruppo autorevole di ricercatori e magistrati della società civile mette sotto accusa senza mezzi termini la politica birmana sulle minoranze e, in particolare, sui Kachin e i Rohingya per i quali Amnesty International chiede la fine della “pulizia etnica” e Human Right Watch chiede al Consiglio di sicurezza sanzioni e embargo sulla vendita di armi al Myanmar. Intanto la vicenda dei profughi verso il Bangladesh – 400mila – si avvicina alla “catastrofe umanitaria” prevista dal segretario generale dell’Onu Guterres. (Em. Gio.)-

Che bestialità vietare il cricket nei parchi italiani!

Foto tratta da EastWest

“Il recente ferimento di un bimbo di due anni, colpito alla testa da una pallina vagante mentre era sul balcone di casa, ha indotto il sindaco (di Bolzano) Renzo Caramaschi a vietare lo sport più amato dalla comunità pakistana” rende noto una cronaca del Corsera del 12 settembre. Per ora, scrive Francesco Clementi, il provvedimento di veto sul cricket è limitato a Parco Mignone, ma si valuta l’estensione a tutti gli spazi aperti, dopo una “valutazione con rappresentanti della comunità pakistana”. In effetti una palla di cricket, una sorta di solido agglomerato di pelle di cervo, può arrivare a 150 km/h di velocità anche se questo attrezzo fondamentale del gioco più famoso dell’Impero britannico e delle sue colonie è così costoso che i giovani giocatori gli devono spesso preferire le più volgari palle da tennis. Non sappiamo quanto il bambino sia stato ferito ma sappiamo bene quanto possa far male una pallina da tennis: nella finale junior degli Us Open edizione 1983 per esempio, un giudice di linea fu colpito all’inguine da un “servizio killer” che lo precipitò a terra dove batté la testa e morì. Se invece si avesse la voglia di scorrere google per vedere tutti gli effetti collaterali di un pallone da calcio, si troverebbero circa un paio di milioni di risultati dove la sfera è una truce protagonista, più o meno diretta (“colpito da pallone in spiaggia sviene” “insegue pallone e viene travolto da un’auto” “cerca pallone e cade dal tetto”…). Nessuno però ha mai pensato di vietare il tennis e soprattutto il pallone nei parchi pubblici. Vien da pensare che, come spesso accade con le cose che non conosciamo, l’ignoranza connessa alla diffidenza finisca per produrre scelte sconsiderate…. (continua su EastWest)

Viaggio all’Eden in Trentino

Presento Viaggio all’Eden  domenica sera a Flavon (ore 20.30, sala civica del Municipio) – organizzato da La Viaggeria e presentato da Raffaele Crocco.Un viaggiatore di lungo corso, per passione e per lavoro, ritorna sulla rotta degli anni Settant…

Come ti insegno a uccidere meglio

Dopo l’assurdo errore del volantino sganciato dal cielo in cui un cane “cattivo”, animale impuro per l’islam, portava una frase del Corano sul corpo mentre era inseguito da un leone “buono” (l’idea era che il cane fossero i talebani), a dimostrazione di una confusa strategia anche mediatica, l’unica certezza all’orizzonte del nuovo surge trumpiano è  che dal cielo non cadranno solo volantini ma sempre più bombe


Volantini dal cielo bombe dall’aria

Dai cieli afgani non piovono solo volantini…(continua nei prossimi giorni su il manifesto in un articolo a due mani con Giuliano Battiston)

Jeu et sport. Comprendre les enjeux entre pratiques de développement, protection et migration

(Photo by Right to Play-Ethiopia). Appel à communications pour l’atelier: Jeu et sport. Comprendre les enjeux entre pratiques de développement, protection et migration WOCMES 2018 Séville (Espagne) 16-20 Juillet 2018. Suite aux derniers flux migratoires provenant de certains pays du Moyen-Orient, les organisations internationales humanitaires mettent en place des projets de développement ayant comme moyen […]

Lo ius soli visto dai rohingya

Il villaggio di Yandabo si trova nel Myanmar centrale sulle rive del fiume Ayeyarwady ed è famoso oggi per i suoi manufatti in terracotta. Ma il 24 febbraio del 1826 fu il teatro di un trattato tra birmani e britannici a conclusione della prima guerra anglo-birmana.

In un certo senso il dramma dei rohingya, la minoranza musulmana di lingua bengalese oggetto in queste settimane di una persecuzione che ne ha espulsi circa 380mila dal Myanmar in Bangladesh, è iniziata a Yandabo oltre duecento anni fa. A quell’epoca l’attuale stato di Rakhine – luogo di residenza dell’ormai sempre più ridotta comunità rohingya – era ancora sotto l’influenza birmana, le cui monarchie avevano sottomesso i regni indipendenti di questo territorio affacciato sul Golfo del Bengala. Gli interessi dei birmani e quelli della East India Company, che da Calcutta dirigeva l’espansione dell’impero commerciale con sede a Londra, entrarono in conflitto a spese del Rakhine e di altre regioni sotto dominio birmano. E la guerra privò i birmani, col trattato di Yandabo, del territorio che un tempo, prima delle invasioni da Est, arrivava fino all’odierna Chittagong, la seconda città dell’attuale Bangladesh….

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Il parlamento tunisino approva la legge per l’amnistia dei corrotti

Patrizia Mancini Ieri, 13 settembre 2017, il famigerato progetto per la riconciliazione amministrativa è diventato legge dello Stato con 117 voti a favore, un’astensione, 9 voti contrari e la non partecipazione al voto da parte dell’opposizione. Opposizione che, a più riprese, aveva chiesto che il testo venisse sottoposto all’esame del Consiglio Superiore della Magistratura (in Tunisia ancora non è ancora […]

Catastrofe sui rohingya

Si aggiungono sempre nuovi campi profughi
come spiega l’infografica di Al Jazeera. Sianmo a quota 380mila

E’ forse stata anche la decisione di Aung San Suu Kyi di non partecipare alla prossima Assemblea dell’Onu a New York a scuotere nuovamente il Palazzo di Vetro sulla questione rohingya. Il segretario generale Antonio Guterres, che già aveva preso posizione nei giorni scorsi ma non si era spinto così avanti, ha usato ieri parole forti: la situazione di questa minoranza si avvia ad essere “catastrofica” e sono “completamente inaccettabili” le azioni dei militari birmani che devono essere sospese. Le parole di Guterres – e nel linguaggio della diplomazia a volte anche un solo termine o un rafforzativo fanno la differenza – segnano un livello sempre più alto nell’asticella che registra gli umori della comunità internazionale e la sensibilità delle agenzie umanitarie – dell’Onu e non – che non riescono a fare il proprio lavoro per dare sollievo alla minoranza rohingya – circa 380mila persone – che nel giro di due settimane sono scappate dal Myanmar. Fuggite per la “spropositata reazione” (sono ancora parole dell’Onu) delle forze dell’ordine birmane all’attacco di un gruppo armato rohingya il 25 agosto scorso a diversi posti di polizia. Il crescendo è iniziato con le dichiarazioni dell’inviato speciale per il Myanmar, la docente coreana Yanghee Lee, che di fatto non ha potuto fare la sua inchiesta. Poi, Zeid Ra’ad Al Hussein – Alto commissario per i diritti umani – ha usato senza girarci troppo intorno la locuzione “pulizia etnica”. Anzi, una pulizia etnica – ha detto – “da manuale”.

La posizione critica dell’Onu ha continuato a inasprirsi riflettendo il contegno del governo e soprattutto della sua leader de facto, la Nobel Aung San Suu Kyi. Che prima ha rotto il suo imbarazzante silenzio per denunciare un “iceberg di disinformazione” in quella che definito “propaganda” sulla questione rohingya. Poi ha deciso di disertare la prossima Assemblea generale dell’Onu, un palco pubblico dove ha già difeso le posizioni del suo governo l’anno scorso (dopo le violenze dell’ottobre 2016) ma che quest’anno rischierebbe di vederla oggetto di pesanti accuse, soprattutto dai Paesi musulmani ma anche da molte organizzazioni della società civile: da Human Rights Watch ad Amnesty, da Msf alle varie organizzazioni rohingya o semplicemente attive nel campo dei diritti.

Guterres comunque, nel rivolgersi al governo e ai militari birmani, stava in realtà mandando anche un segnale al Consiglio di sicurezza dell’Onu, riunito per la seconda volta sulla questione rohingya ma dove soprattutto Cina e Russia frenano prese di posizione troppo dure. Il motivo è chiaro: la situazione nel Myanmar è drammatica per i rohingya ma è estremamente pericolosa anche per il governo di Suu Kyi: un governo debole, nonostante i numeri, e ostaggio del vecchio potere militare. Pechino, soprattutto, non vuole instabilità nei Paesi dove investe. E quanto sia complicata la situazione lo si vede in questi giorni: mentre all’estero il dibattito continua ad allargarsi (sono state Svezia e Gran Bretagna a chiedere al CdS dell’Onu di riunirsi e che però si è limitato a chiedere “passi immediati per por fine alle violenze”) in casa le acque sono agitate. Una coalizione di 29 partiti con a capo l’Union Solidarity and Development Party (erede del vecchio governo militare) ha condannato il governo per aver dato ascolto al consiglio della Rakhine advisory commission, capeggiata su incarico di Suu Kyi dall’ex segretario Onu Kofi Annan, accusato di “parzialità” dal capo dell’esercito birmano, generale Min Aung Hlaing. La commissione chiede che sia rivista la legge del 1982 sulla nazionalità, legge che ne esclude i rohingya. I partiti non solo usano termini minacciosi ma bollano il rapporto di Annan come opera di “traditori e gruppi stranieri che vogliono distruggere la nazione”.

E a dare una mano a chi sulla questione agita lo spettro dell’islamismo radicale ci si mette anche Al Qaeda: in un comunicato reso noto dal sito di intelligence SITE i qaedisti accusano il governo del Myanmar di un “trattamento selvaggio” dei fratelli musulmani che deve essere “punito”. Minacce di altro tipo dunque ma che alimentano la propaganda dei militari secondo cui esiste un piano che si serve di “terroristi” jihadisti per distruggere il Paese. Il gruppo sotto accusa però, l’Arsa, non ha legami – per quanto si sa – né con Al Qaeda né con lo Stato islamico.

Caso Regeni, ritrovato l’avvocato egiziano della famiglia. E’ accusato di danneggiare la sicurezza nazionale

Dopo due giorni di ricerche Ibrahim Metwally, l’avvocato per i diritti umani che collabora con l’organizzazione che rappresenta la famiglia Regeni al Cairo, è stato ritrovato. Al momento è detenuto in un edificio dietro il tribunale del 5th Settlement nella periferia est del Cairo. Martedì pomeriggio Metwally ha affrontato un interrogatorio, le accuse sono di danneggiare la […]

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Report della riunione del 9 settembre del comitato promotore della manifestazione del 7 ottobre “Pace e libertà per il popolo siriano e tutti i popoli oppressi! Accoglienza, senza condizioni, per tutti i profughi e gli immigrati!”

Siamo ad un mese dalla manifestazione e siamo convinti delle ragioni che ci hanno spinto a convocarla. Salutiamo con soddisfazione la notizia che per lo stesso giorno è convocata una manifestazione sugli stessi contenuti del nostro appello a Barcellona, città così gravemente colpita dalla violenza assassina del terrorismo mentre è stata protagonista della più grande […]

In viaggio in Puglia con la poesia di Mahmud Darwish

Parte oggi Il viaggio di Darwish, progetto di Iyas Jubeh e Bruno Soriato dell’associazione Kuziba, che per 20 giorni porterà per la Puglia la poesia del poeta palestinese Mahmud Darwish, percorrendo l’antica via Francigena fino ad arrivare idealmente allo sbocco sul mare pugliese, antico punto di imbarco dei pellegrini che si mettevano per mare per […]

L’Onu a chiare lettere: in Myanmar pulizia etnica

L’Alto commissario
Zeid Ra’ad Al Hussein

…According to UNHCR, in less than three weeks over 270,000 people have fled to Bangladesh, three times more than the 87,000 who fled the previous operation. Many more people reportedly remain trapped between Myanmar and Bangladesh. The operation, which is ostensibly in reaction to attacks by militants on 25 August against 30 police posts, is clearly disproportionate and without regard for basic principles of international law. We have received multiple reports and satellite imagery of security forces and local militia burning Rohingya villages, and consistent accounts of extrajudicial killings, including shooting fleeing civilians.

I am further appalled by reports that the Myanmar authorities have now begun to lay landmines along the border with Bangladesh, and to learn of official statements that refugees who have fled the violence will only be allowed back if they can provide “proof of nationality”. Given that successive Myanmar governments have since 1962 progressively stripped the Rohingya population of their political and civil rights, including citizenship rights – as acknowledged by Aung San Suu Kyi’s own appointed Rakhine Advisory Commission – this measure resembles a cynical ploy to forcibly transfer large numbers of people without possibility of return.

Last year I warned that the pattern of gross violations of the human rights of the Rohingya suggested a widespread or systematic attack against the community, possibly amounting to crimes against humanity, if so established by a court of law. Because Myanmar has refused access to human rights investigators the current situation cannot yet be fully assessed, but the situation seems a textbook example of ethnic cleansing

Estratto da
Darker and more dangerous: High Commissioner updates the Human Rights Council on human rights issues in 40 countries

Human Rights Council 36th session / Opening Statement by Zeid Ra’ad Al Hussein, United Nations High Commissioner for Human Rights/ 11 sept 2017

Le due mappe tematiche sono scelte da un servizio dedicato di  Al Jazeera

Regeni, avvocati egiziani della famiglia dopo la sparizione del collega: “L’Italia ci deve proteggere”

“Il governo italiano ci deve proteggere, siamo in pericolo perché le autorità egiziane ci hanno dichiarato guerra”. Ahmed Abdallah, il presidente dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione che rappresenta legalmente al Cairo la famiglia di Giulio Regeni, lancia un appello disperato dopo la sparizione di un loro collaboratore Ibrahim Metwally, avvocato per i diritti […]

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Addio a Nancy Dupree

Nancy Hatch Dupree, cittadina americana nata in Kerala nel 1927 è morta ieri a Kabul all età di 89 anni.
All’Afghanistan ha dedicato sforzi, passione e amore anche nei momenti più difficili. E non ha voluto lasciare il Paese per far ritorno negli Usa a  farsi curare. Addio Nancy e che onore averti conosciuta!  Grazie per il lavoro che hai fatto.

A Mosul si è svolto il primo festival letterario dopo la liberazione dall’Isis

Sono giovani e più anziani, sorridenti, sono uomini, donne e bambini. Sono tantissimi. A centinaia si sono dati appuntamento mercoledì 6 settembre nei giardini della Biblioteca centrale dentro l’Università di Mosul, in Iraq, per partecipare al primo Festival della lettura di Mosul. Sono passati pochi mesi da quando la città, ex roccaforte irachena dell’Isis, è […]

Mosul, sfollati della città martire dell’Isis tra depressione e sete di vendetta: ‘Bimbi pensano di essere stati puniti da Dio’

Gli ottanta chilometri di strada che vanno dalla città di Erbil a Mosul sono sono una piana costellata di campi profughi in cui hanno trovato rifugio parte degli 838.000 sfollati della battaglia che lo scorso luglio ha portato alla caduta della capitale irachena dello Stato Islamico. Agglomerati con migliaia di tende bianche delimitate da una […]

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Ci siamo: luce verde ai soldati Usa in Afghanistan

Un ufficiale delle forze armate americane ha detto ieri ad ABC che il ministro Mattis ha firmato  ordine di invio in  Afghanistan per 3500 soldati, poco meno dei 4mila previsti. Mattis, il titolare della Difesa, aveva confermato la firma dellordine ma senza dare dettagli. Bizzarro! E pensare che qualche giorno fa, per dovere di trasparenza, il Pentagono aveva detto che i militari Usa in Afghanistan sono 11mila e non 8.400 come si era sempre detto. Cento più, cento meno, mille più mille meno, che differenza fa del resto? E la guerra bellezza e i dettagli han poca importanza.
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Passaggi: “Canto d’amore per le parole” di Nazik al-Mala’ika

In questi giorni di rientro definitivo dalle vacanze estive, dopo giorni di calma e silenzio, voglio dedicarvi un estratto di questo inno alle parole di Nazik al-Mala’ika, tradotta a Manuela Rasori.   Canto d’amore per le parole   Perché abbiamo paura delle parole quando sono state mani dal palmo rosa delicate quando ci accarezzano gentilmente […]

L’articolo Passaggi: “Canto d’amore per le parole” di Nazik al-Mala’ika sembra essere il primo su Arabpress.

Un bookclub di letteratura araba a Sesto San Giovanni

Dal 20 settembre a Sesto San Giovanni parte un club del libro dedicato alla letteratura araba contemporanea: il primo libro del club sarà L’italiano, di Shukri al-Mabkhut (e/o, 2017). Ho fatto qualche domanda a Jolanda Guardi, esperta e traduttrice di letteratura araba, e promotrice dell’iniziativa. Perché un club del libro sulla letteratura araba? Volevo fare […]

Venerdi a Ostuni Viaggio all’Eden

Festival della Letteratura di Viaggio
direttore artistico: Antonio Politano
X edizione
Ostuni 8-10 settembre 2017

Venerdi 8 settembre
Ore 20.30

Fino a Kathmandu e Brindisi, dalla Macedonia alla Siria
Chiostro di San Francesco, Piazza della Libertà
[«Conoscere i luoghi, vicino o lontani, non vale la pena, non è che teoria; saper dove meglio si spini la birra, è pratica, è vera geografia», Wolfgang Johann Goethe]
Visioni locali e globali, in alcune produzioni dell’editoria nata in Puglia, dall’editore di respiro e prestigio nazionale alle piccole case editrici di qualità. Incontro con Emanuele Giordana, autore di Viaggio all’Eden. Da Milano a Kathmandu (Laterza), Matteo Sabato, per Crocevia, rivista di scritture straniere, migranti e di viaggio (Besa), Pierfrancesco Rescio, autore di Via Appia. Strada di imperatori, soldati e pellegrini e Via Traiana. Una strada lunga duemila anni (Schena Editore). Con accompagnamento musicale e letture.

La diaspora rohingya nel mondo

Fonte: Al Jazeera settembre 2017Oggi 7 settembre: According to the UN office in Cox’s Bazaar, over 164,000 refugees have crossed into Bangladesh since August 25 [Mohammad Ponir Hossain/Reuters]

Rohingya? Una montagna di bugie dice Suu Kyi

Mentre Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e ministro degli Esteri del Myanmar, liquida la questione rohingya come un “enorme iceberg di disinformazione”, fonti del governo di Dacca citate dalla stampa locale accusano i soldati birmani di aver disseminato mine antiuomo lungo il confine col Bangladesh per impedire ai profughi di far ritorno nel “loro” Paese. Il governo di Dacca ha consegnato ieri pomeriggio una protesta formale ai diplomatici di Naypyidaw e, anche se nelle note ufficiali non si fa menzione di ordigni, nell’incontro al ministero degli Esteri della capitale bangladese la questione sarebbe stata affrontata. Se la notizia fosse confermata (cioè causando vittime) sarebbe di estrema gravità proprio nel momento in cui le prime reazioni alla persecuzione della minoranza musulmana del Myanamr cominciano sempre di più a travalicare i confini nazionali dei due Stati coinvolti: il Myanmar che caccia e il Bangladesh che accoglie. Il flusso dei profughi si sarebbe attestato a oltre 10mila unità al giorno e, secondo le Nazioni unite, martedi scorso il bilancio sarebbe già stato di 125mila. Non è però chiaro quanti riescano di fatto a passare il fiume Naf che divide come frontiera i due Paesi: molti sarebbero infatti imprigionati nello no man’s land tra i due Stati asiatici.

Quanto alla Nobel, accusata di un silenzio imbarazzante e connivente con le scelte dei militari e che è stata fortemente criticata da altri Nobel – come Malala – e dalla stessa Amnesty International (l’organizzazione che per anni ha seguito il suo caso), il suo ufficio ha reso nota una telefonata che Suu Kyi ha avuto con Erdogan, il leader turco che tra i primi ha criticato il Myanmar sulla questione rohingya (pur avendo di che riflettere su quanto Ankara sta facendo con gli oppositori al regime). Suu Kyi sostiene che l’intera vicenda è frutto di disinformazione di cui sarebbero colpevoli “terroristi”, come i militari hanno definito il gruppo armato secessionista responsabile degli attacchi del 25 agosto che hanno dato la stura a una una reazione brutale dell’esercito birmano. Secondo Suu Kyi, il suo Paese sta già difendendo la popolazione dello Stato di Rakhine, dove vive la maggior parte dei rohingya, “nel miglior modo possibile”. Commento assai poco credibile anche perché l’unico in sostanza fatto dalla Nobel sulla vicenda.

Lelio Basso: Qui le dichiarazioni dei giudici del Tpp
al lancio della sessione sul Myanmar
 che si è tenuta a Londra, nel marzo del 2017

Per ora, soprattutto da parte occidentale (con l’esclusione del papa che andrà in Myanmar a fine novembre), le reazioni al dramma della minoranza senza cittadinanza del Myanmar sono state blande e poco più che formali. Solo il Palazzo di Vetro ha preso una posizione chiara e lo stesso stanno facendo soprattutto Paesi a maggioranza musulmana. La Malaysia, la prima nazione ad aver usato per i rohingya il termine “genocidio”, ospiterà tra l’altro dal 18 al 22 settembre una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (Ttp, fondato da Lelio Basso a prosecuzione del lavoro del Tribunale Russell II) che si occuperà dei crimini commessi dal Myanmar nei confronti delle minoranza e in particolare nei casi dei Rohingya, dei Kachin e dei musulmani (5% della popolazione). E’ stata proprio Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia che ha vinto le elezioni del 2015, a non volere candidati musulmani nel suo partito. Allora la questione rohingya aveva già visto le prime violenza – nel 2012 – da parte di gruppi mobilitati da estremisti buddisti anche con l’abito monacale. Ma in seguito, nel 2016, i pogrom si sono ripetuti con l’effetto di cacciare oltre 70mila rohingya. Questa volta il numero dei profughi si è già raddoppiato: si lasciano alle spalle una regione in fiamme e dove questa volta sono già morte 400 persone.

Calais, un anno dopo la Giungla

Calais, ottobre 2016. La Giungla, la più grande bidonville d’Europa, viene smantellata. Si parla di quasi 10.000 persone ricondotte verso i centri d’accoglienza e di orientamento, i famosi CAO, sparsi per tutta la Francia. Immagini di una città in fiamme…. Continue Reading →

UFFICIALE: PER L’O.N.U., ASSAD E’ IL RESPONSABILE DEL BOMBARDAMENTO CHIMICO SU KHAN SHEIKHOUN E DI ALTRI 25 ATTACCHI CON ARMI CHIMICHE

6 settembre 2017 O.N.U.: Le forze governative siriane hanno usato armi chimiche più di due dozzine di volte. Ginevra (REUTERS) – Le forze siriane hanno usato armi chimiche più di due dozzine di volte durante la guerra civile nel Paese, incluso l’attacco mortale di aprile a Khan Sheikhoun, hanno affermato mercoledì i ricercatori dell’O.N.U. sui […]

Regeni, l’Egitto oscura il sito dei legali della famiglia: “E’ la vendetta di Al Sisi. Da Roma ok per far dimenticare Giulio”

“Il regime sta iniziando la vendetta contro di noi”. Ahmed Abdallah è il presidente dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione egiziana che rappresenta legalmente la famiglia di Giulio Regeni in Egitto. La preoccupazione nella sua voce è tangibile perché questa mattina il sito web dell’ECRF è stato bloccato dalle autorità del Cairo. Sorte già toccata […]

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Un gruppo di scrittori libici è in pericolo

Questo post è apparso in inglese sul noto blog di letteratura araba (in inglese) ArabLit, di Marcia L. Qualey. Lo traduco qui in italiano perché credo che possa interessare a tutti sapere cosa succede ai letterati libici che fanno cultura in Libia, oggi (e anche perchè ultimamente si parla spesso di Libia, ma non di […]

Tunisia, la legge contro la violenza maschile sulle donne: tra diritto e trasformazione radicale

Arianna Taviani Dopo una settimana di accesi dibattiti in seno al parlamento tunisino, il 26 luglio, il progetto di legge organica n. 2016-60 per il contrasto alle violenze di genere è stato adottato all’unanimità dai 146 deputati presenti. Poco più tardi, l’11 agosto, il Presidente della Repubblica, Béji Caïd Essebsi, ha posto la sua firma al testo: la Tunisia si […]

Rohingya/Rakhine. Chi ha appiccato il fuoco? (aggiornato)*

La bandiera dei secessionisti. Per il governo
sono loro ad aver distrutto migliaia di case

Mentre il Programma alimentare dell’Onu ha deciso di sospendere gli aiuti nello Stato birmano del Rakhine dove, dal 25 agosto, infuria l’ennesimo pogrom contro la minoranza rohingya, i militari del Myanmar hanno innescato anche una guerra di numeri. Fonti governative hanno tracciato un bilancio di 2.625 case date alle fiamme nei villaggi di Kotankauk, Myinlut e Kyikanpyin e in due distretti. Ma sarebbero case incendiate dall’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army), il gruppo armato definito “terrorista” responsabile degli attacchi di agosto. Un conteggio che non risponde a quanto affermano le testimonianze degli sfollati e le ricerche di Human Rights Watch che accusano i militari della responsabilità degli incendi: «Nuove immagini mostrano la totale distruzione di un villaggio musulmano e fanno crescere seriamente la preoccupazione che tale stato di devastazione nel Nord del Rakhine possa essere ben più vasto di quanto credevamo», ha detto alla Reuters Phil Robertson il vicedirettore Asia dell’organizzazione. In quel villaggio il 99% degli edifici è andato in fumo.

Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati il bilancio di chi è in fuga verso il Bangladesh ha ormai sfondato quota 58mila sabato e quota 75mila domenica e fa pensare che il pogrom sia di proporzioni ancora più vaste di quello dell’ottobre scorso, quando in migliaia scapparono verso il Paese vicino. Ma oggi le condizioni sono cambiate e il Bangladesh oppone resistenza per evitare un’altra invasione di profughi in un Paese dove povertà e sovrappopolazione sono due costanti. La gente resta dunque intrappolata nella no man’s land tra i due Paesi mentre il flusso alla frontiera non si arresta.


Il lavoro di Hrw attraverso il satellite
contraddice la versione dei militari

Il segretario generale dell’Onu Guterres esprime «seria preoccupazione» ma le sue parole servono a poco. La sua preoccupazione in compenso si è tradotta nello stop all’agenzia con sede a Roma che distribuisce gli aiuti alimentari ai rohingya in Myanmar, la cui popolazione sfollata internamente ha raggiunto quota 250mila, la metà dei quali vive in campi allestiti per dar loro rifugio dal 2012 (quando si scatenò una campagna che vide distruzioni e violenze in diverse aree musulmane del Paese). Nell’ottobre del 2016, a seguito di nuove violenze, i militari vietarono alle agenzie umanitarie di intervenire dando così la stura all’emigrazione di massa. Secondo Al Jazeera, il Pam è stato accusato dal governo di aver fornito razioni alimentari poi finite nelle mani dei ribelli e dello stesso tenore sono state le accuse verso altre agenzie umanitarie. Come il caso italiano ben dimostra, quando i piani di un governo violano le regole elementari del diritto, parte sempre una campagna che demonizza Ong e organizzazioni umanitarie, colpevoli di essere neutrali e di assistere chi ha bisogno senza fare domande.

A volte però succedono anche cose in controtendenza. Se è vero che il governo di Dacca sta cercando di porre un freno all’immigrazione di nuovi sfollati, un corrispondente della Bbc da Cox Bazar, la città al confine dove ha sede il Comitato che si occupa dei rifugiati, sostiene che la polizia bangladese sta in parte ignorando gli ordini che vengono dall’alto e chiude un occhio quando vede la gente in fuga passare la frontiera. Può anche darsi che il Bangladesh tenga due posizioni: una ufficiale, l’altra – nascosta – umanitaria. Un Paese disastrato dalle piogge alluvionali, dove vivono 1145 persone per chilometro quadrato e dove il reddito medio è di 160 dollari al mese, dà una lezione di civiltà, accogliendo non senza difficoltà chi scappa dalla guerra. Nei suoi campi profughi alloggiano decine di migliaia di sfollati e nel Paese i rohingya sono ormai almeno mezzo milione, arrivati a ondate successive. Intanto si aspetta la visita del premier indiano Modi in Myanmar. Si parlerà dei rohingya. L’India ne vuole espellere 40mila. Difficile che Naypyidaw li voglia indietro.

* aggiornato domenica 3 settembre 2017

Una campagna per Santiago Maldonado

Si è svolta a Buenos Aires una grande manifestazione per la scomparsa di Santiago Maldonado, un attivista scomparso in Patagonia. Una richiesta di verità e giustizia come per Giulio Regeni…

Queste due illustrazioni (altre domani su il manifesto in edicola) fanno parte della campagna per Santiago Maldonado e sono di Daniel Rabanal. L’artista argentino, arrestato poco prima del golpe del 1976, era stato fortunatamente registrato dalla polizia, a differenza dei desaparecidos, il che gli ha salvato la vita anche perché Amnesty era al corrente della sua sorte, e non sarebbe stato facile giustificarne la morte. Ma son stati 8 anni di torture, botte, finte esecuzioni. Anche la prima moglie era stata arrestata ma uccisa dopo molte violenze. Alla fine della dittatura, il governo Alfonsin concede carta e matite ai carcerati sopravvissuti. E quando si decide l’amnistia di militari e detenuti politici nel 1984, viene rilasciato. Si trasferisce allora a Bogotà, in Colombia, dove diviene l’Altan locale, con le sue vignette politiche per la rivista Semana, e con i suoi personaggi di fantasia, che si muovono nella Colombia molto reale di Pablo Escobar. Qui si è sposato e ha lavorato per 20 anni. Nel 2009 è tornato a Baires dove vive e disegna. Ha pubblicato molti libri illustrati e nel 1996 è stato invitato al Salone del fumetto di Lucca. Ha così potuto conoscere la metà delle sue radici. Due nonni di Daniel erano infatti di Sala Consilina in Campania. 

7 OTTOBRE IN PIAZZA

Questa estate non verrà ricordata solo per il caldo soffocante e per la siccità, ma anche e soprattutto per alcuni fatti che hanno reso veramente soffocante il clima politico e sociale del Paese. Fra gli altri, citiamo la vergognosa normalizzazione dei rapporti diplomatici con il regime egiziano, nonostante le sue scoperte responsabilità nel martirio di […]

Rohingya, i generali danno i numeri

La pagina fb del generale generale Min Aung Hlaing
capo delle forze armate

Tra i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia Reuters di aver trovato venerdi sulle rive del fiume Naf, che divide il Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a non avercela fatta. Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il “venerdi nero” scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica. Non si tratta di una dichiarazione “ufficiale” ma di un post sulla pagina FB di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya ridotta a qualche “like” o a condivisione sul social più diffuso.

Myanmar, India, Cina e Bangladesh

 Il bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto così come i 3mila scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti dunque tra cui, dicono i militari, 29 “terroristi”. E poi ben 38mila profughi – la cifra aumenta di ora in ora – che si aggiungono agli 87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati interni). I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva contati “solo” 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi: secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono il piè fermo. Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello Ariful se non riescono ad attraversare il fiume – a nuoto o con barche dov’è più largo – mentre altri aspettano il momento buono, quando si può sfuggire alle guardie di frontiera. Quel che è certo è che indietro non si può tornare. I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza musulmana che, prima del 2012, contava circa un milione di persone. Adesso, di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che di immigrati bangladesi.

Mappa del Rakhine

Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo spettro di uno “stato islamico”, incarnato da un gruppo secessionista armato responsabile degli attacchi. E se anche i residenti locali non musulmani (11mila) sono oggetto di “evacuazione” dalle zone sotto tiro, Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi. Reazione troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale, o un piano di eliminazione? «Siamo ormai in una nuova fase – dice a Radio Popolare il responsabile Asia di Hrw – e siamo convinti che dietro alle operazioni dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitamente la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna militare contro gli insorti».

Modi: settimana prossima
in visita d’affari

Se la diplomazia resta a guardare, i vicini non sono da meno. La Thailandia si richiama al principio di “non ingerenza”. Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e settimana prossima il premier Modi sarà in Myanmar, Paese strategico per l’economia del colosso asiatico. La decisione ha però suscitato polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato con l’Acnur (14mila persone).

 C’è poi un altro colosso – la Cina – che difende le ragioni del governo birmano a cominciare dalle riunioni del Consiglio di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel Rakhine, lo Stato dove vive questa scomoda minoranza. E’ interessata al porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, nella Cina del Sud. C’è un altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo progetto One Belt, One Road, meglio noto come “Nuova via della seta”. E per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto uno dei bastioni del nazionalismo identitario locale. E’ il partito che vorrebbe nel Rakhine lo stato di emergenza.