Mese: settembre 2016

Torna Sabir(*) Fest, festival delle culture e della cittadinanza mediterranea

Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

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Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

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Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

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Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

Torna Sabir(*) Fest, festival delle culture e della cittadinanza mediterranea

Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

Torna Sabir(*) Fest, festival delle culture e della cittadinanza mediterranea

Torna Sabir Fest in doppia edizione su Messina e Catania Debora del Pistoia E’ un’edizione speciale questa del Sabir Fest 2016, un’edizione doppia dato che il Sabir si espande e arriva a includere due città,  in due settimane di programmazione diversamente declinate (“Vuoti di memoria”, Messina 6-9  “Città arcipelago”, Catania 13-16),  in un’ottica di creazione di spazi in cui si possa […]

SabirFest 2016

sabir-16-110Cultura e cittadinanza mediterranea, giunto alla sua III Edizione, si svolgerà quest’anno in due città mediterranee: Messina e Catania.  (6-9 ottobre – “Vuoti di memoria”, Messina / 13-16 ottobre – “Città Arcipelago”, Catania)

Zizzanie. Agenda letteraria 2017

Zizzanie 110Un’agenda letteraria, dove ogni mese è introdotto da una narrazione in versi o in prosa in lingua originale, tradotta in italiano, accompagnata da un dipinto. Le zizzanie, come emblema delle erbe selvatiche che crescono inaspettate e spuntano, nel calendario anche lunare.

La prima guerra angloafgana

Il dottor Brydon, l’uomo che si credeva  l’unico superstite della guerra, 

protagonista del celebre dipinto vittoriano
 Remnants of an Army della pittrice Eizabeth Butler

A metà del 1800 Londra e Calcutta, sede della Compagnia delle Indie, decidono di reinsediare a Kabul Shah Shuja, un re afgano sadozai spodestato anni prima dai rivali barakzai. Lo vogliono a Kabul per controllare il Paese e contenere la Russia di cui temono l’espansione verso l’India, antica ossessione dell’Impero britannico.
Ne uscirono con le ossa rotta. Una lezione che sembra restare valida ancora oggi….

Il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulga il “Manifesto di Simla” con cui la Gran Bretagna decide ufficialmente di spodestare il re dell’Afghanistan, che teme alleato dei russi, per sostituirlo con un altro monarca che rientra nelle sue simpatie. E’ il punto di partenza della più tragica sconfitta subita dagli inglesi nel Paese dell’Hindukush. Una lezione che, ripetutasi con i sovietici negli anni Ottanta, sembra ricordare in parte anche quanto succede adesso in quel lontano Paese. E’ il vero inizio guerreggiato del “Great Game”, il grande gioco tra l’Impero zarista e quello britannico per la conquista dell’Asia centrale. Un gioco che non è mai finito anche se gli attori sono in parte cambiati. Tutto comincia alla vigilia della prima grande operazione guerreggiata del “Grande Gioco”….

Domani a

alle 14 su Rai3

La prima guerra angloafgana

Il dottor Brydon, l’uomo che si credeva  l’unico superstite della guerra, 

protagonista del celebre dipinto vittoriano
 Remnants of an Army della pittrice Eizabeth Butler

A metà del 1800 Londra e Calcutta, sede della Compagnia delle Indie, decidono di reinsediare a Kabul Shah Shuja, un re afgano sadozai spodestato anni prima dai rivali barakzai. Lo vogliono a Kabul per controllare il Paese e contenere la Russia di cui temono l’espansione verso l’India, antica ossessione dell’Impero britannico.
Ne uscirono con le ossa rotta. Una lezione che sembra restare valida ancora oggi….

Il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulga il “Manifesto di Simla” con cui la Gran Bretagna decide ufficialmente di spodestare il re dell’Afghanistan, che teme alleato dei russi, per sostituirlo con un altro monarca che rientra nelle sue simpatie. E’ il punto di partenza della più tragica sconfitta subita dagli inglesi nel Paese dell’Hindukush. Una lezione che, ripetutasi con i sovietici negli anni Ottanta, sembra ricordare in parte anche quanto succede adesso in quel lontano Paese. E’ il vero inizio guerreggiato del “Great Game”, il grande gioco tra l’Impero zarista e quello britannico per la conquista dell’Asia centrale. Un gioco che non è mai finito anche se gli attori sono in parte cambiati. Tutto comincia alla vigilia della prima grande operazione guerreggiata del “Grande Gioco”….

Domani a

alle 14 su Rai3

A Roma la presentazione di “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nagi con Ayman al-Zorqani

La libreria Griot questa domenica ospita la presentazione del libro “Vita: istruzioni per l’uso”, del blogger, giornalista e scrittore egiziano Ahmed Nagi, con le illustrazioni di Ayman al-Zorqani.  Nagi, come tutti già saprete, non sarà ovviamente presente. Si trova in carcere in Egitto a scontare una pena assurda e indecente, come vi avevo più volte … Continua a leggere A Roma la presentazione di “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nagi con Ayman al-Zorqani

La Siria che scrive: Khaled Khalifa e “Elogio dell’odio”

Nato vicino ad Aleppo nel 1964, Khaled Khalifa è uno degli autori siriani e arabi più rappresentativi e importanti della narrativa araba contemporanea. Autore di romanzi, poesie e sceneggiature, ha vinto nel 2013 la Medaglia Nagib Mahfouz per la Letteratura per il suo romanzo لا سكاكين في مطابخ هذه المدينة (Non ci sono coltelli nelle … Continua a leggere La Siria che scrive: Khaled Khalifa e “Elogio dell’odio”

Omicidio di Nahed Hattar: bisogna formare un pensiero critico

Il 25 settembre un estremista ha ucciso lo scrittore Nahid Hattar mentre si recava in tribunale per un processo a suo carico scatenato da una vignetta satirica che aveva condiviso, ritenuta offensiva nei confronti dell’Islam. Essendo lo scrittore un personaggio scomodo, è importante riflettere prima di esprimere la propria opinione sull’accaduto.

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Tunisia: le inflessibili risoluzioni dell’Europa

Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

Tunisia: le inflessibili risoluzioni dell’Europa

Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

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Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

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Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

Tunisia: le inflessibili risoluzioni dell’Europa

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Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

Tunisia: le inflessibili risoluzioni dell’Europa

Hafawa Rebhi La missione dei membri della Commissione composta da parlamentari europei e tunisini è terminata il 23 settembre scorso. Al loro rientro a Strasburgo, dopo una permanenza di cinque giorni a Tunisi, i parlamentari europei dovranno valutare le conseguenze della risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2016. Composta da 70 articoli, tale risoluzione commenta, valuta e orienta i […]

Dissento dunque scrivo. Visioni consigliate

Si apre oggi all’Università degli Studi di Milano una mostra dedicata alla storia recente del dissenso nell’ex Unione Sovietica attraverso uno dei suoi più famosi strumenti, il  Samizdat,  protagonista di “Dalla censura e dal samizdat alla libertà di stampa. URSS 1917-1990”, mostra inaugurata a Mosca e poi esposta alla Bibliothèque de Documentation Internationale Contemporaine di Nanterre e alla Biblioteca della Sorbona di Parigi, che da oggi approda a Milano.

La mostra, organizzata da Memorial Mosca e dalla Biblioteca Statale di Storia della Federazione Russa, a cura di Boris Belenkin e di Elena Strukova (che saranno presenti all’inaugurazione), deve il progetto grafico a Pëtr Pasternak: presenta  protagonisti e  documenti dell’opposizione al regime sovietico, dando ampio risalto figurativo a un fenomeno storico unico nel suo genere, il Samizdat, canale di distribuzione clandestino e alternativo di scritti illegali, censurati o ostili al regime.

materiali saranno in mostra sino al 1 ottobre 2016 (Orario d’apertura: dal lunedì al sabato ore 9.00 – 19.30 | Ingresso libero a Milano, Università degli Studi Atrio Aula Magna, via Festa del Perdono 7)

L’inaugurazione è oggi  alle ore 11,30 nella Sala Malliani dell’Università degli Studi di Milano.
Interverranno: Laura Rossi (Università degli Studi di Milano), Carlo Montalbetti (Direttore generale Comieco), Elda Garetto (Università degli Studi di Milano), Boris Belenkin (Memorial Russia), Elena Strukova (Biblioteca Statale di Storia della Federazione russa), Sergio Rapetti (traduttore e consulente editoriale), Valentina Parisi (Scuola Traduttori e Interpreti, Milano).

La mostra è organizzata dall’Università di Milano (Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Dipartimento di Scienze della Mediazione linguistica e di Studi interculturali) e da Memorial Italia con il contributo di Comieco e il sostegno della Fondazione Cariplo.In ottobre verrà edito da goWare un ebook con i testi dei pannelli della mostra una introduzione di Sergio Rapetti, un saggio di Boris Belenkin curatore della mostra, e tre saggi tratti da tre importanti libri sul dissenso e sul samizdat.

I materiali della mostra provengono da:
GARF Gosudarstvennyj Archiv Rossijskoj Federacii (Archivio di Stato della Federazione Russa).
Archivio di Memorial-Russia.
GPIB Gosudarstvennaja Publičnaja Istoričeskaja Biblioteka Rossii (Biblioteca storica statale della Federazione Russa).
Collezioni private di Ju.M. Baturin e M.A. Fedotov.

Dissento dunque scrivo. Visioni consigliate

Si apre oggi all’Università degli Studi di Milano una mostra dedicata alla storia recente del dissenso nell’ex Unione Sovietica attraverso uno dei suoi più famosi strumenti, il  Samizdat,  protagonista di “Dalla censura e dal samizdat alla libertà di stampa. URSS 1917-1990”, mostra inaugurata a Mosca e poi esposta alla Bibliothèque de Documentation Internationale Contemporaine di Nanterre e alla Biblioteca della Sorbona di Parigi, che da oggi approda a Milano.

La mostra, organizzata da Memorial Mosca e dalla Biblioteca Statale di Storia della Federazione Russa, a cura di Boris Belenkin e di Elena Strukova (che saranno presenti all’inaugurazione), deve il progetto grafico a Pëtr Pasternak: presenta  protagonisti e  documenti dell’opposizione al regime sovietico, dando ampio risalto figurativo a un fenomeno storico unico nel suo genere, il Samizdat, canale di distribuzione clandestino e alternativo di scritti illegali, censurati o ostili al regime.

materiali saranno in mostra sino al 1 ottobre 2016 (Orario d’apertura: dal lunedì al sabato ore 9.00 – 19.30 | Ingresso libero a Milano, Università degli Studi Atrio Aula Magna, via Festa del Perdono 7)

L’inaugurazione è oggi  alle ore 11,30 nella Sala Malliani dell’Università degli Studi di Milano.
Interverranno: Laura Rossi (Università degli Studi di Milano), Carlo Montalbetti (Direttore generale Comieco), Elda Garetto (Università degli Studi di Milano), Boris Belenkin (Memorial Russia), Elena Strukova (Biblioteca Statale di Storia della Federazione russa), Sergio Rapetti (traduttore e consulente editoriale), Valentina Parisi (Scuola Traduttori e Interpreti, Milano).

La mostra è organizzata dall’Università di Milano (Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Dipartimento di Scienze della Mediazione linguistica e di Studi interculturali) e da Memorial Italia con il contributo di Comieco e il sostegno della Fondazione Cariplo.In ottobre verrà edito da goWare un ebook con i testi dei pannelli della mostra una introduzione di Sergio Rapetti, un saggio di Boris Belenkin curatore della mostra, e tre saggi tratti da tre importanti libri sul dissenso e sul samizdat.

I materiali della mostra provengono da:
GARF Gosudarstvennyj Archiv Rossijskoj Federacii (Archivio di Stato della Federazione Russa).
Archivio di Memorial-Russia.
GPIB Gosudarstvennaja Publičnaja Istoričeskaja Biblioteka Rossii (Biblioteca storica statale della Federazione Russa).
Collezioni private di Ju.M. Baturin e M.A. Fedotov.

Enhanced local coordination for effective aid provision: the case of Lebanon (September 2016)

The Policy brief I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the ‘Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out. Here below its summary and the link to access it. Lebanon’s refugee crisis has highlighted the need for much closer coordination among the various organisations and local authorities involved in the response. A new study has laid […]

Enhanced local coordination for effective aid provision: the case of Lebanon (September 2016)

The Policy brief I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the ‘Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out. Here below its summary and the link to access it. Lebanon’s refugee crisis has highlighted the need for much closer coordination among the various organisations and local authorities involved in the response. A new study has laid […]

Enhanced local coordination for effective aid provision: the case of Lebanon (September 2016)

The Policy brief I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the ‘Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out. Here below its summary and the link to access it. Lebanon’s refugee crisis has highlighted the need for much closer coordination among the various organisations and local authorities involved in the response. A new study has laid […]

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Responding to the Syrian crisis in Lebanon: collaboration between aid agencies and local governance structures (September 2016)

The Urban Crisis Report I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out! Here below the executive summary and the link to access the whole report. This working paper seeks to document and analyse collaboration mechanisms between local authorities and humanitarian actors in addressing the Syrian refugee crisis in […]

Responding to the Syrian crisis in Lebanon: collaboration between aid agencies and local governance structures (September 2016)

The Urban Crisis Report I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out! Here below the executive summary and the link to access the whole report. This working paper seeks to document and analyse collaboration mechanisms between local authorities and humanitarian actors in addressing the Syrian refugee crisis in […]

Responding to the Syrian crisis in Lebanon: collaboration between aid agencies and local governance structures (September 2016)

The Urban Crisis Report I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out! Here below the executive summary and the link to access the whole report. This working paper seeks to document and analyse collaboration mechanisms between local authorities and humanitarian actors in addressing the Syrian refugee crisis in […]

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Responding to the Syrian crisis in Lebanon: collaboration between aid agencies and local governance structures (September 2016)

The Urban Crisis Report I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out! Here below the executive summary and the link to access the whole report. This working paper seeks to document and analyse collaboration mechanisms between local authorities and humanitarian actors in addressing the Syrian refugee crisis in […]

Responding to the Syrian crisis in Lebanon: collaboration between aid agencies and local governance structures (September 2016)

The Urban Crisis Report I co-authored with UN Habitat (Beirut) and the Issam Fares Institute (American University of Beirut) is finally out! Here below the executive summary and the link to access the whole report. This working paper seeks to document and analyse collaboration mechanisms between local authorities and humanitarian actors in addressing the Syrian refugee crisis in […]

Hei, c’è un cane che ha morso un uomo

Ci sono notizie di serie A e notizie ritenute di serie B che non leggeremo mai anche se riguardano milioni di lavoratori indiani nello sciopero quantitativamente più grande del mondo. Milioni di bambini in fuga. Milioni di afgani sfollati. Milioni di risarcimenti che non arrivano. Oscurati dall’arrivo sul mercato del nuovo iPhone o dalla somiglianza con una star

Dice un vecchio adagio che se un cane morde un uomo non è una notizia ma solo un fatto logico e abitudinario. Se invece un uomo morde un cane allora c’è quell’elemento di “notiziabilità” che le fa meritare un titolo. Anche in prima pagina. Ma non è vero. Se, come dicono i manuali di giornalismo, una notizia è tale se è una novità, se è importante per il grande pubblico, curiosa, stimolante e numericamente consistente, allora c’è qualcosa che non va nell’informazione mainstream. Forse è sempre stato così, perché dietro alla pubblicazione di una “notizia”, c’è sempre una scelta umana, ma oggi può bastare la nascita dell’ultimo telefonino per oscurare 150 milioni di indiani in sciopero o la somiglianza con Angiolina Jolie per far apparire la giovane curda Asia Ramazan Antar la clone di una star e non una combattente che ha sacrificato la vita per difendere la sua gente. Moralismo? No, solo senso della realtà e… della notizia. Facciamo qualche esempio. Esempi che hanno – non sempre – scatenato di recente sane e furiose reazioni in Rete, nel mondo virtuale dove girano valanghe di bufale ma anche un’attenzione critica che prima non aveva canali per esprimersi….  (segue)

Hei, c’è un cane che ha morso un uomo

Ci sono notizie di serie A e notizie ritenute di serie B che non leggeremo mai anche se riguardano milioni di lavoratori indiani nello sciopero quantitativamente più grande del mondo. Milioni di bambini in fuga. Milioni di afgani sfollati. Milioni di risarcimenti che non arrivano. Oscurati dall’arrivo sul mercato del nuovo iPhone o dalla somiglianza con una star

Dice un vecchio adagio che se un cane morde un uomo non è una notizia ma solo un fatto logico e abitudinario. Se invece un uomo morde un cane allora c’è quell’elemento di “notiziabilità” che le fa meritare un titolo. Anche in prima pagina. Ma non è vero. Se, come dicono i manuali di giornalismo, una notizia è tale se è una novità, se è importante per il grande pubblico, curiosa, stimolante e numericamente consistente, allora c’è qualcosa che non va nell’informazione mainstream. Forse è sempre stato così, perché dietro alla pubblicazione di una “notizia”, c’è sempre una scelta umana, ma oggi può bastare la nascita dell’ultimo telefonino per oscurare 150 milioni di indiani in sciopero o la somiglianza con Angiolina Jolie per far apparire la giovane curda Asia Ramazan Antar la clone di una star e non una combattente che ha sacrificato la vita per difendere la sua gente. Moralismo? No, solo senso della realtà e… della notizia. Facciamo qualche esempio. Esempi che hanno – non sempre – scatenato di recente sane e furiose reazioni in Rete, nel mondo virtuale dove girano valanghe di bufale ma anche un’attenzione critica che prima non aveva canali per esprimersi….  (segue)

Volevano lasciare l’Egitto…

mcc43 Mi racconta un amico egiziano e sento dalla sua voce la pietà e tanta rabbia. . Si sono imbarcati su una barca da pesca, piccola di quelle che possono portare solo l’equipaggio e nella cella della stiva il pescato del giorno. Erano tanti, forse 250 e arrivavano al peschereccio ancorato al largo su dei […]

Volevano lasciare l’Egitto…

mcc43 Mi racconta un amico egiziano e sento dalla sua voce la pietà e tanta rabbia. . Si sono imbarcati su una barca da pesca, piccola di quelle che possono portare solo l’equipaggio e nella cella della stiva il pescato del giorno. Erano tanti, forse 250 e arrivavano al peschereccio ancorato al largo su dei […]

Volevano lasciare l’Egitto…

mcc43 Mi racconta un amico egiziano e sento dalla sua voce la pietà e tanta rabbia. . Si sono imbarcati su una barca da pesca, piccola di quelle che possono portare solo l’equipaggio e nella cella della stiva il pescato del giorno. Erano tanti, forse 250 e arrivavano al peschereccio ancorato al largo su dei […]

Cucina giordana: galayet bandora

Questa pietanza è una delle più comuni in Giordania, servita soprattutto per la colazione. Ne esiste anche una versione con carne di manzo, preparata soprattutto nella zona del Wadi Rum, ma vi proponiamo la ricetta base: la galayet bandora, salsa di pomodoro piccante! Ingredienti: 3 pomodori medi da sugo 1 peperone serrano piccante 2 spicchi d’aglio 4 […]

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L’Unione Europea preoccupata per l’economia e la sicurezza dell’Algeria

Di Tewfik Abdelbari. Tout sur L’Algérie (21/09/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Lo scorso 20 settembre, il Consiglio europeo ha pubblicato il suo rapporto annuale per il 2015 sui diritti dell’uomo e la democrazie nel mondo. Nella sezione dedicata all’Algeria, nonostante venga evidenziato un”netto miglioramento” in termini di protezione dei diritti della donna, l’istituzione dell’Unione Europea […]

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Marocco: classe da 60 alunni a Kenitra

(Bladi.net). Anche quest’anno, classi in sovrannumero nelle scuole marocchine, come successo in un istituto nella regione di Kenitra, dove è stata formata una classe di ben 60 alunni. Secondo quanto riportato dal giornale Al Massae, l’insegnante incaricata di gestire la classe è andata su tutte le furie. Il surplus è stato tale che alcuni bambini sono […]

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Kuwait: nuova condanna a parlamentare sciita per insulti

(Agenzie). Una corte del Kuwait ha condannato in contumacia il parlamentare sciita Abdulhameed Dashti a 11 anni di reclusione per aver insultato l’emiro e l’Arabia Saudita. Il verdetto arriva due mesi dopo l’emanazione di un’altra sentenza contro Dashti, condannato a 14 anni e 6 mesi di carcere con accuse simili. In luglio, il parlamentare, che da […]

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Mauritania: 11 persone accusate di appartenere a gruppo terroristico

RFI Afrique (22/09/2016). Il 21 settembre scorso in Mauritania 11 persone sono state portate davanti a un giudice con l’accusa di appartenenza ad un gruppo terroristico e pertanto di preparare attentati. Queste persone erano state arrestate poco prima del vertice della Lega Araba dello scorso 24 luglio, tenutosi a Nouakchott. L’accusa si basa essenzialmente su […]

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Novità editoriale: “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar

Dalla scorsa settimana è disponibile in libreria il terzo libro della collana Altriarabi Migrante della casa editrice Il Sirente. si tratta del primo romanzo della scrittrice Sumia Sukkar. Questa volta ci spostiamo in Siria, dove il lettore è catturato dall’empatia di una famiglia che si ritrova a vivere nel bel mezzo della guerra civile che […]

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India e Pakistan: guerra di parole all’Onu

L’Assemblea generale dell’Onu si è trasformata nella tribuna di violente accuse tra India e Pakistan, definito ieri da Delhi uno «stato terrorista». E se Islamabad, nel discorso del suo premier Nawaz Sharif, aveva usato toni morbidi, lo stesso Nawaz Sharif aveva appena recapitato a Ban ki-moon un dossier sulle violazioni indiane in Kashmir, prontamente sostenuto dai rappresentanti dell’Organizzazione della conferenza islamica. Islamabad intanto – benché la cosa fosse in agenda – ha  chiuso ieri lo spazio areo nelle zone vicine al conteso territorio del Kashmir dove aveva previsto esercitazioni aree che, dice la stampa locale, hanno aumentato il sospetto che le forze armate pachistane si stiano preparando a una possibile escalation militare tra i due Paesi. La tensione è alta e, se la cornice è antica da quando i pachistani invasero il Kashmir il cui maraja indu aveva deciso di stare con l’India nonostante una popolazione largamente musulmana, lo sfondo attuale è l’attacco che il 18 settembre, ha visto morire diciotto soldati indiani nella base kashmira di Uri. Lo stato di allerta è diffuso e in alcune zone è stato innalzato (in Maharashtra ad esempio, dove gli indiani hanno denunciato strane manovre vicino a una base della marina). Inutile dire che le frontiere – terreno di scontri continui anche fuori dalla regione kashmira – sono ultra presidiate. Senza contare che è in ballo anche un possibile boicottaggio del meeting della Saarc che si dovrebbe tenere in novembre a Islamabad*.

L’Asia del Sud con la cerniera afgana:
 otto Paesi riunti nella Saarc il cui incontro
a Islamabad l’India vuole boicottare

Il nodo del Kashmir resta un bubbone purulento. All’Onu Nawaz Sharif ha sostenuto che una pace tra i due Paesi sarà possibile solo con la risoluzione del contenzioso e ha chiesto la demilitarizzazione dello Stato indiano del Jammu e Kashmir, condizione inaccettabile per chi lamenta infiltrazioni terroristiche dall’area kashmira controllata dai pachistani. Delhi, per altro, non esita a usare il pugno di ferro: settimana scorsa è stato arrestato Khurram Parvez – coordinatore della Jammu Kashmir Coalition of Civil Society – che, appena uscito di prigione, è stato riarrestato grazie al controverso Public Safety Act, una legge speciale che consente la detenzione per sei mesi senza processo. Parvez doveva recarsi a Ginevra per denunciare gli effetti della repressione che si è scatenata dopo la morte nel luglio scorso di un famoso separatista locale, Burhan Wani a capo del più vasto gruppo secessionista locale, l’Hizbul Mujahideen. Le proteste dopo la sua morte e la repressione che ne è seguita hanno lasciato sul terreno decine di vittime civili in un’ondata di violenze che non si vedeva nella regione da almeno cinque anni.

In un momento così teso tra i due Paesi c’è chi getta benzina sul fuoco anche da fuori. E se il segretario di Sato Kerry all’Onu ha condannato l’attacco di Uri ma ha anche espresso preoccupazione per le violenze in Kashmir (gli Usa sono alleati di entrambi i Paesi), due parlamentari americani hanno appena deciso di chiedere al Congresso un voto che definisca il Pakistan «Stato sponsor del terrorismo», rafforzando così la durissima posizione che gli indiani hanno tenuto ieri all’Onu attraverso la replica all’intervento di Sharif affidata al primo segretario della missione permanente a Palazzo di Vetro: Eenam Gambhir ha definito il Pakistan uno Stato terrorista che, sponsorizzando il terrorismo, commette crimini di guerra. Gli han fatto eco le parole di Sarwar Danish, uno dei vicepresidenti afgani che, pur senza nominare il Pakistan, lo ha di fatto accusato di aver allevato i talebani, ospitato Al Qaeda e di dare rifugio alla Rete Haqqani, la più estremista delle fazioni talebane. Anche se proprio in quelle ore in Afghanistan la realpolitik faceva firmare la pace col gruppo combattente Hezb-e-islami che consentirà a Gulbuddin Hekmatyar, il “macellaio di Kabul” di tornare nella capitale.

* La Saarc, Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (South Asian Association for Regional Cooperation), è un’organismo internazionale di cooperazione economica e politica  che comprende otto stati membri: Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan, Sri Lanka; e sette osservatori: Cina, Corea del Sud, Giappone, Iran, Stati Uniti, Unione europea, Australia.

India e Pakistan: guerra di parole all’Onu

L’Assemblea generale dell’Onu si è trasformata nella tribuna di violente accuse tra India e Pakistan, definito ieri da Delhi uno «stato terrorista». E se Islamabad, nel discorso del suo premier Nawaz Sharif, aveva usato toni morbidi, lo stesso Nawaz Sharif aveva appena recapitato a Ban ki-moon un dossier sulle violazioni indiane in Kashmir, prontamente sostenuto dai rappresentanti dell’Organizzazione della conferenza islamica. Islamabad intanto – benché la cosa fosse in agenda – ha  chiuso ieri lo spazio areo nelle zone vicine al conteso territorio del Kashmir dove aveva previsto esercitazioni aree che, dice la stampa locale, hanno aumentato il sospetto che le forze armate pachistane si stiano preparando a una possibile escalation militare tra i due Paesi. La tensione è alta e, se la cornice è antica da quando i pachistani invasero il Kashmir il cui maraja indu aveva deciso di stare con l’India nonostante una popolazione largamente musulmana, lo sfondo attuale è l’attacco che il 18 settembre, ha visto morire diciotto soldati indiani nella base kashmira di Uri. Lo stato di allerta è diffuso e in alcune zone è stato innalzato (in Maharashtra ad esempio, dove gli indiani hanno denunciato strane manovre vicino a una base della marina). Inutile dire che le frontiere – terreno di scontri continui anche fuori dalla regione kashmira – sono ultra presidiate. Senza contare che è in ballo anche un possibile boicottaggio del meeting della Saarc che si dovrebbe tenere in novembre a Islamabad*.

L’Asia del Sud con la cerniera afgana:
 otto Paesi riunti nella Saarc il cui incontro
a Islamabad l’India vuole boicottare

Il nodo del Kashmir resta un bubbone purulento. All’Onu Nawaz Sharif ha sostenuto che una pace tra i due Paesi sarà possibile solo con la risoluzione del contenzioso e ha chiesto la demilitarizzazione dello Stato indiano del Jammu e Kashmir, condizione inaccettabile per chi lamenta infiltrazioni terroristiche dall’area kashmira controllata dai pachistani. Delhi, per altro, non esita a usare il pugno di ferro: settimana scorsa è stato arrestato Khurram Parvez – coordinatore della Jammu Kashmir Coalition of Civil Society – che, appena uscito di prigione, è stato riarrestato grazie al controverso Public Safety Act, una legge speciale che consente la detenzione per sei mesi senza processo. Parvez doveva recarsi a Ginevra per denunciare gli effetti della repressione che si è scatenata dopo la morte nel luglio scorso di un famoso separatista locale, Burhan Wani a capo del più vasto gruppo secessionista locale, l’Hizbul Mujahideen. Le proteste dopo la sua morte e la repressione che ne è seguita hanno lasciato sul terreno decine di vittime civili in un’ondata di violenze che non si vedeva nella regione da almeno cinque anni.

In un momento così teso tra i due Paesi c’è chi getta benzina sul fuoco anche da fuori. E se il segretario di Sato Kerry all’Onu ha condannato l’attacco di Uri ma ha anche espresso preoccupazione per le violenze in Kashmir (gli Usa sono alleati di entrambi i Paesi), due parlamentari americani hanno appena deciso di chiedere al Congresso un voto che definisca il Pakistan «Stato sponsor del terrorismo», rafforzando così la durissima posizione che gli indiani hanno tenuto ieri all’Onu attraverso la replica all’intervento di Sharif affidata al primo segretario della missione permanente a Palazzo di Vetro: Eenam Gambhir ha definito il Pakistan uno Stato terrorista che, sponsorizzando il terrorismo, commette crimini di guerra. Gli han fatto eco le parole di Sarwar Danish, uno dei vicepresidenti afgani che, pur senza nominare il Pakistan, lo ha di fatto accusato di aver allevato i talebani, ospitato Al Qaeda e di dare rifugio alla Rete Haqqani, la più estremista delle fazioni talebane. Anche se proprio in quelle ore in Afghanistan la realpolitik faceva firmare la pace col gruppo combattente Hezb-e-islami che consentirà a Gulbuddin Hekmatyar, il “macellaio di Kabul” di tornare nella capitale.

* La Saarc, Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (South Asian Association for Regional Cooperation), è un’organismo internazionale di cooperazione economica e politica  che comprende otto stati membri: Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan, Sri Lanka; e sette osservatori: Cina, Corea del Sud, Giappone, Iran, Stati Uniti, Unione europea, Australia.

25 anni dopo

che anniversario dimenticato, quello della guerra del Golfo del 1991…. Stasera al Teatro Massimo di Palermo, c’è Apocalisse nel Deserto. La memoria è importante

25 anni dopo

che anniversario dimenticato, quello della guerra del Golfo del 1991…. Stasera al Teatro Massimo di Palermo, c’è Apocalisse nel Deserto. La memoria è importante

Syria: a cinematic revolution

I’ve just published this piece on Hyperallergic that I’d love to share here. It’s about what I feel to be a “new wave” in Syrian cinema…   A New Wave of Syrian Films Exposes the Failure of Images   Still from Avo Kaprealian’s ‘Houses Without Doors’ (2016) (image courtesy Bidayyat and Avo Kaprealian jointly)   […]

Syria: a cinematic revolution

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Syria: a cinematic revolution

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Germania: aumenta il tasso di violenza xenofoba, più 42%

(El País). In Germania, è aumentata la violenza xenofoba. Il governo tedesco ha diffuso un rapporto che mostra come nel 2015 sono stati registrati più di 1.400 atti violenti contro immigrati perpetrati da militanti di gruppi dell’estrema destra. Un aumento del 42% rispetto al 2014. I dati evidenziano, inoltre, che nella maggior parte dei casi le violenze […]

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“In prima linea”- Donne fotoreporter in luoghi di guerra

torino-foto-110Quattordici donne “armate” solo della loro macchina fotografica, in prima linea nei punti caldi del mondo dove ci sono guerre, conflitti, miserie e drammi umani. Con coraggio, sensibilità e professionalità ci aiutano a capire, a non dimenticare, a fermarci a pensare.

Appunti nomadici 1

di Giuseppe Cossuto

Con questo articolo, inizio a trattare alcuni argomenti, più o meno noti, legati alla presenza dei “nomadi” (e di coloro considerati tali) in Europa. Inauguro con gli “Zingari Bianchi” (i Jenisch) e le politiche di sterminio dei nazisti riguardo costoro, considerati “primitivi” e portatori del “gene del nomadismo”, capace di “infettare e degenerare” le popolazioni stanziali.…

Appunti nomadici 1 è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Appunti nomadici 1

di Giuseppe Cossuto

Con questo articolo, inizio a trattare alcuni argomenti, più o meno noti, legati alla presenza dei “nomadi” (e di coloro considerati tali) in Europa. Inauguro con gli “Zingari Bianchi” (i Jenisch) e le politiche di sterminio dei nazisti riguardo costoro, considerati “primitivi” e portatori del “gene del nomadismo”, capace di “infettare e degenerare” le popolazioni stanziali.…

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di Giuseppe Cossuto

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Appunti nomadici 1

di Giuseppe Cossuto

Con questo articolo, inizio a trattare alcuni argomenti, più o meno noti, legati alla presenza dei “nomadi” (e di coloro considerati tali) in Europa.

Inauguro con un articolo riguardante gli “Zingari Bianchi” (i Jenisch) e le politiche di sterminio dei nazisti riguardo costoro, considerati “primitivi” e portatori del “gene del nomadismo”, capace di “infettare e degenerare” le popolazioni stanziali.…

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Potere politico e libertà di stampa in Marocco: intervista ad Ali Anouzla

Nella cornice della seconda edizione di Imbavagliati, festival internazionale giornalismo civile di Napoli dedicato alla libertà di espressione, abbiamo fatto qualche domanda ad Ali Anouzla, giornalista marocchino direttore del sito Lakome, noto per la sua posizione alquanto critica nei confronti dell’establishment del regno, che più di una volta lo ha fatto scontrare con la giustizia marocchina. Con […]

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Il divieto del burkini fa esplodere le vendite

Di Tasnim Nazeer. Your Middle East (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Emanuela Barbieri. Nonostante la controversia sul burkini, o grazie ad essa, gli affari di Harun Rashid, fondatore della Islamic Desgn House, vanno alla grande. Il divieto del burkini in Francia ha generato un aumento delle vendite su scala globale del 200%. “Le donne hanno trovato […]

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Hijarbie, la Barbie in hijab che conquista Instagram

Barakabits (20/09/2016). Recentemente Barbie, la bambola più famosa al mondo, sta diventando sempre più vicina alla realtà, cercando di rappresentare le donne nelle varie sfaccettature e diversità. Così, una donna musulmana ha sentito il bisogno di avere una Barbie che rappresentasse anche le donne musulmane nel mondo: Hijarbie, la nuova icona della moda islamica. Succede […]

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I musulmani sciiti festeggiano oggi l’Eid al-Ghadir

(Agenzie). Milioni di musulmani sciiti in tutto il mondo celebrano oggi, 20 settembre, l’Eid al-Ghadir, festa che secondo l’islam sciita segna il momento in cui Ali, primo imam sciita, è stato designato dal profeta Muhammad come suo successore. Festeggiato anche in Yemen, è soprattutto in Iran che l’Eid al-Ghadir viene celebrato. Molti iraniani lo considerano […]

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La Siria che scrive: Faraj Bayrakdar e la poesia in carcere

Faraj Bayrakdar (anche Bayraqdar) è un poeta siriano che ha passato 15 anni nelle carceri sotto il regime di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar. Nato nel 1951, è stato incarcerato nel 1987 con l’accusa di essere membro del partito comunista; il primo processo si è svolto però solo nel 1993, dove è stato condannato … Continua a leggere La Siria che scrive: Faraj Bayrakdar e la poesia in carcere

Alla “New York Fashion Week” la prima sfilata tutta hijab

The Huffington Post Religion (15/09/2016). In un Paese in cui le donne musulmane sono state licenziate e respinte dai college perché indossavano l’hijab, è stata una piacevole sorpresa vedere protagonista questo indumento religioso alla New York Fashion Week. La stilista indonesiana musulmana Anniesa Hasibuan ha presentato infatti sulla passerella ben 48 abiti, tutti accompagnati rigorosamente dall’hijab, […]

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In Palestina, un albergo di Betlemme usa bisturi e fiamma ossidrica per rivisitare i piatti locali

Di Mary Pelletier. Middle East Eye (06/09/2016). Traduzione e sintesi di Chiara Avanzato. Lontano dal trambusto della strada principale della Città Vecchia di Betlemme, lo chef Fadi Kattan, nella sua minuscola cucina, si racconta. Pescando un paio di lunghe forbici dagli utensili sparpagliati sul tavolo, in compagnia del suo assistente Mohammed Masalmeh con una grande fiamma ossidrica […]

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Libia: la soluzione alla crisi impantanata in un limbo senza fine

Di Samir at-Tanir. As-safir (17/09/2016). Traduzione e sintesi di Raffaele Massara. Alcuni analisti sostengono che uno dei punti deboli dell’amministrazione Obama, in materia di affari esteri, sia stata la mancanza di lungimiranza dopo l’intervento aereo in Libia. L’opposizione ha potuto sovvertire il regime di Gheddafi grazie agli intensi bombardamenti occidentali, ma lo stesso Occidente ha […]

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Siria, i fragili accordi, la fame e l’indifferenza. Intervista a Shady Hamadi

Intervista di Katia Cerratti A pochi giorni dall’accordo raggiunto tra Kerry e Lavrov per il cessate il fuoco in Siria e per una lotta congiunta all’Isis, lo scenario siriano resta grave. La tregua praticamente violata, ancora civili uccisi, gli aiuti umanitari bloccati al confine tra Turchia e Siria, la popolazione stremata dalla fame. Le responsabilità e […]

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Cucina somala: lahooh con lenticchie

La ricetta di oggi ci porta in Somalia, a scoprire un piatto la cui base è un pane molto simile a una crêpe ed è molto diffuso soprattutto durante le festività islamiche: il lahooh con lenticchie! Ingredienti: Per il lahooh: 130g di farina 00 65g di farina integrale 65g di farina di mais 3 cucchiaini di […]

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Perché i media insistono nell’usare il termine “islamismo”?

Di Ibrahima Vawda. Middle East Monitor (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. L’islam non è un “ismo”. Non è nemmeno un’entità geografica, una forza militare, un’ideologia passeggera o un movimento che riemerge in modo temporaneo e che può essere soppresso dalla forza delle superpotenze. L’islam è una vera religione, una fede il cui potere imbattibile […]

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Un milione di lacrime. Il prezzo del drone che uccise Giovanni

Gli Stati Uniti “donano” ai Lo Porto un milione di euro per chiudere il caso del cooperante ucciso in Pakistan. E avvertono:“Non è un risarcimento” . Una pratica sempre più diffusa sugli omicidi segreti dal cielo. Ma la famiglia non ci sta

Giovanni Lo Porto. Alla famiglia
il denaro ma non la verità sulla morte

Con una “donazione” di 1 milione e 185mila euro alla famiglia Lo Porto per compensare la morte del figlio Giovanni, gli Stati Uniti considerano chiuso il caso del cooperante ucciso da un drone americano in Pakistan nel gennaio del 2015. Una donazione “in memoria”, formula ribadita ieri dall’ambasciata americana dopo che il quotidiano La Repubblica aveva rivelato l’accordo siglato l’8 luglio da un diplomatico incaricato di mettere una pietra tombale sulla vicenda. Che resta invece aperta in tutta la sua drammaticità anche se Washington si è tutelata con una formuletta che esclude che la donazione – non dunque un risarcimento ma al massimo un asettico riconoscimento del fatto – possa collegarsi a qualsivoglia futura azione legale: «Ciò non implica il consenso degli Stati Uniti d’America all’esercizio della giurisdizione italiana in eventuali controversie direttamente o indirettamente connesse al presente atto…». Punto e basta.

Ma per i familiari la ferita sanguina perché il denaro non spiega l’errore fatale che si portò via Giovanni e il suo compagno di prigionia Warren Weinstein (detenuti pare da un gruppo qaedista) alla memoria del quale per ora non si sa se l’Amministrazione abbia riconosciuto altrettanto: « Non potrò più rivedere mio figlio e il suo sorriso. Hanno preso il mio prezioso figliolo e hanno ucciso anche me – ha detto la madre di Giovanni – e ora tutto ciò che mi rimane è attendere l’ultimo giorno della mia vita per aver giustizia divina, non certo terrena». Le fa eco Margherita Romanelli della Ong Gvc con cui Lo Porto aveva a lungo collaborato: «Bene i soldi ai genitori di Giovanni, ma non ci arrendiamo. Vogliamo tutta la verità sulla vicenda. Possono mascherare come vogliono ma non ci sarebbe stata donazione senza una responsabilità reale e i soldi sono una chiara dimostrazione di risarcimento. Chiediamo che venga fatta chiarezza per vie legali, con un’inchiesta per far luce sulla vicenda e scoprire cosa sia esattamente successo e quali siano stati gli errori che hanno determinato la morte». E’ quanto ha sempre chiesto anche il senatore Luigi Manconi (lo stesso che segue da vicino il caso Regeni) che proprio alcuni mesi fa, dopo l’ammissione pubblica di Obama sulla morte di Lo Porto e Wallestein, aveva chiesto, con la famiglia, sia il risarcimento sia la verità. Ma quella, rischiando di compromettere la “sicurezza nazionale”, difficilmente verrà fuori.

Quella per Giovanni non è né la prima né sarà forse l’ultima donazione-risarcimento fatta dagli americani per chiudere i casi in cui i droni hanno ucciso civili innocenti. Il caso forse più famoso è quello che vede protagonista Faisal bin Ali Jaber cui un funzionario yemenita aveva messo in mano 100mila dollari in contanti che Faisal aveva rifiutato preferendo rivolgersi al tribunale. Nell’aprile scorso ha impugnato la decisione di un tribunale distrettuale federale di Washington che ha rigettato la sua causa del 2015 con cui voleva determinare se fossero o meno legali gli attacchi dei droni che, nell’agosto 2012, avevano ucciso suo cognato Salem, un imam (tra l’altro anti jihadista), e il nipote Waleed, agente di polizia. Un caso che non smette di far discutere e che vede coinvolti anche tre veterani che hanno lavorato nei programmi speciali militari che utilizzano droni. Gli ex soldati hanno detto alla corte di essere “testimoni di un segreto”, di un sistema che non ha riguardo per i confini e che molto spesso non ti fa sapere chi stai uccidendo. In molti casi infatti si tratta di “signature strike” (quel che di potrebbe definire un “attacco all’impronta”) e che si verifica quando i militari o gli agenti della Cia decidono di colpire non in base all’identità dell’obiettivo ma perché il bersaglio ricalca un’impronta: rientra cioè in un certo schema che automaticamente lo infila in una determinata casella che funziona secondo certi criteri. Naturalmente non sempre è così ma nell’aprile del 2015 (proprio l’anno della morte di Lo Porto) il Wall Street Journal rivelò che il presidente Obama aveva autorizzato a violare le regole piuttosto rigide sui droni approvate nel 2013 per far si che la Cia potesse spingersi a colpire i jihadisti pachistani con maggior “flessibilità”. Quanto alla giustizia americana, segue lo stesso copione che per Faisal: un giudice federale, come nel suo caso, ha rigettato l’azione legale contro l’Amministrazione promossa dopo uno “strike”sempre in Yemen nel 2011 che aveva ucciso tre cittadini americani. In un altro caso yemenita, per evitare azioni legali, gli americani (secondo Reprieve, un’associazione di tutela dei diritti umani) han pagato un milione di dollari ai parenti delle 12 vittime di un attacco di droni durante un matrimonio nel 2013.

E se per la morte di un solo italiano gli Stati Uniti hanno versato un milione – la cifra più alta pagata per la vittima di un drone – c’è anche uno spiacevole aspetto razzista, di convenienza politica, di equilibri diplomatici e pelosi con gli alleati. Sì perché, come ha scritto un vecchio giornalista di vaglia – Valerio Pellizzari nel suo “In battaglia, quando l’uva è matura” – la vita degli “altri” costa davvero poco: «Un morto afgano vale tremila dollari. Ma è una cifra teorica… non viene pagata in valuta ma in kit, in pacchi di vario genere che possono contenere dai pannelli solari…. ai ferri da stiro elettrici… in villaggi dove la corrente non arriva… Per ricevere queste donazioni c’è da seguire una procedura rigorosa e contorta… umiliante… e il costo del viaggio (per trasportare i kit ndr) spesso supera il valore del materiale trasportato».

Di seguito la ricostruzione dell’Ufficio di giornalismo investigativo di Londra

Casualty estimates
Reported deaths and injuries

Pakistan
US Drone Strikes

Total strikes: 424
Obama strikes: 373
Total killed: 2,499-4,001
Civilians killed: 424-966
Children killed: 172-207
Injured: 1,161-1,744

Yemen

Confirmed drone strikes: 133-153
Total killed: 573-833
Civilians killed: 65-101
Children killed: 8-9
Injured: 98-232
Possible extra drone strikes:89-106
Total killed: 351-503
Civilians killed: 26-61
Children killed: 6-9
Injured: 82-109
Other covert operations: 15-78
Total killed: 203-436
Civilians killed: 68-102
Children killed: 26-28
Injured: 43-132

Somalia

Drone strikes: 30-34
Total killed: 228-392
Civilians killed: 3-10
Children killed: 0-2
Injured: 2-8
Other covert operations: 9-13
Total killed: 59-160
Civilians killed: 7-47
Children killed: 0-2
Injured: 11-21

Afghanistan

Total strikes: 458-463
Total killed: 2,036-2,688
Civilians killed: 75-130
Children killed: 4-21
Injured: 217-225
USAF data
Missions with at least one
weapon release: 733
Total weapons released: 1,622

Un milione di lacrime. Il prezzo del drone che uccise Giovanni

Gli Stati Uniti “donano” ai Lo Porto un milione di euro per chiudere il caso del cooperante ucciso in Pakistan. E avvertono:“Non è un risarcimento” . Una pratica sempre più diffusa sugli omicidi segreti dal cielo. Ma la famiglia non ci sta

Giovanni Lo Porto. Alla famiglia
il denaro ma non la verità sulla morte

Con una “donazione” di 1 milione e 185mila euro alla famiglia Lo Porto per compensare la morte del figlio Giovanni, gli Stati Uniti considerano chiuso il caso del cooperante ucciso da un drone americano in Pakistan nel gennaio del 2015. Una donazione “in memoria”, formula ribadita ieri dall’ambasciata americana dopo che il quotidiano La Repubblica aveva rivelato l’accordo siglato l’8 luglio da un diplomatico incaricato di mettere una pietra tombale sulla vicenda. Che resta invece aperta in tutta la sua drammaticità anche se Washington si è tutelata con una formuletta che esclude che la donazione – non dunque un risarcimento ma al massimo un asettico riconoscimento del fatto – possa collegarsi a qualsivoglia futura azione legale: «Ciò non implica il consenso degli Stati Uniti d’America all’esercizio della giurisdizione italiana in eventuali controversie direttamente o indirettamente connesse al presente atto…». Punto e basta.

Ma per i familiari la ferita sanguina perché il denaro non spiega l’errore fatale che si portò via Giovanni e il suo compagno di prigionia Warren Weinstein (detenuti pare da un gruppo qaedista) alla memoria del quale per ora non si sa se l’Amministrazione abbia riconosciuto altrettanto: « Non potrò più rivedere mio figlio e il suo sorriso. Hanno preso il mio prezioso figliolo e hanno ucciso anche me – ha detto la madre di Giovanni – e ora tutto ciò che mi rimane è attendere l’ultimo giorno della mia vita per aver giustizia divina, non certo terrena». Le fa eco Margherita Romanelli della Ong Gvc con cui Lo Porto aveva a lungo collaborato: «Bene i soldi ai genitori di Giovanni, ma non ci arrendiamo. Vogliamo tutta la verità sulla vicenda. Possono mascherare come vogliono ma non ci sarebbe stata donazione senza una responsabilità reale e i soldi sono una chiara dimostrazione di risarcimento. Chiediamo che venga fatta chiarezza per vie legali, con un’inchiesta per far luce sulla vicenda e scoprire cosa sia esattamente successo e quali siano stati gli errori che hanno determinato la morte». E’ quanto ha sempre chiesto anche il senatore Luigi Manconi (lo stesso che segue da vicino il caso Regeni) che proprio alcuni mesi fa, dopo l’ammissione pubblica di Obama sulla morte di Lo Porto e Wallestein, aveva chiesto, con la famiglia, sia il risarcimento sia la verità. Ma quella, rischiando di compromettere la “sicurezza nazionale”, difficilmente verrà fuori.

Quella per Giovanni non è né la prima né sarà forse l’ultima donazione-risarcimento fatta dagli americani per chiudere i casi in cui i droni hanno ucciso civili innocenti. Il caso forse più famoso è quello che vede protagonista Faisal bin Ali Jaber cui un funzionario yemenita aveva messo in mano 100mila dollari in contanti che Faisal aveva rifiutato preferendo rivolgersi al tribunale. Nell’aprile scorso ha impugnato la decisione di un tribunale distrettuale federale di Washington che ha rigettato la sua causa del 2015 con cui voleva determinare se fossero o meno legali gli attacchi dei droni che, nell’agosto 2012, avevano ucciso suo cognato Salem, un imam (tra l’altro anti jihadista), e il nipote Waleed, agente di polizia. Un caso che non smette di far discutere e che vede coinvolti anche tre veterani che hanno lavorato nei programmi speciali militari che utilizzano droni. Gli ex soldati hanno detto alla corte di essere “testimoni di un segreto”, di un sistema che non ha riguardo per i confini e che molto spesso non ti fa sapere chi stai uccidendo. In molti casi infatti si tratta di “signature strike” (quel che di potrebbe definire un “attacco all’impronta”) e che si verifica quando i militari o gli agenti della Cia decidono di colpire non in base all’identità dell’obiettivo ma perché il bersaglio ricalca un’impronta: rientra cioè in un certo schema che automaticamente lo infila in una determinata casella che funziona secondo certi criteri. Naturalmente non sempre è così ma nell’aprile del 2015 (proprio l’anno della morte di Lo Porto) il Wall Street Journal rivelò che il presidente Obama aveva autorizzato a violare le regole piuttosto rigide sui droni approvate nel 2013 per far si che la Cia potesse spingersi a colpire i jihadisti pachistani con maggior “flessibilità”. Quanto alla giustizia americana, segue lo stesso copione che per Faisal: un giudice federale, come nel suo caso, ha rigettato l’azione legale contro l’Amministrazione promossa dopo uno “strike”sempre in Yemen nel 2011 che aveva ucciso tre cittadini americani. In un altro caso yemenita, per evitare azioni legali, gli americani (secondo Reprieve, un’associazione di tutela dei diritti umani) han pagato un milione di dollari ai parenti delle 12 vittime di un attacco di droni durante un matrimonio nel 2013.

E se per la morte di un solo italiano gli Stati Uniti hanno versato un milione – la cifra più alta pagata per la vittima di un drone – c’è anche uno spiacevole aspetto razzista, di convenienza politica, di equilibri diplomatici e pelosi con gli alleati. Sì perché, come ha scritto un vecchio giornalista di vaglia – Valerio Pellizzari nel suo “In battaglia, quando l’uva è matura” – la vita degli “altri” costa davvero poco: «Un morto afgano vale tremila dollari. Ma è una cifra teorica… non viene pagata in valuta ma in kit, in pacchi di vario genere che possono contenere dai pannelli solari…. ai ferri da stiro elettrici… in villaggi dove la corrente non arriva… Per ricevere queste donazioni c’è da seguire una procedura rigorosa e contorta… umiliante… e il costo del viaggio (per trasportare i kit ndr) spesso supera il valore del materiale trasportato».

Di seguito la ricostruzione dell’Ufficio di giornalismo investigativo di Londra

Casualty estimates
Reported deaths and injuries

Pakistan
US Drone Strikes

Total strikes: 424
Obama strikes: 373
Total killed: 2,499-4,001
Civilians killed: 424-966
Children killed: 172-207
Injured: 1,161-1,744

Yemen

Confirmed drone strikes: 133-153
Total killed: 573-833
Civilians killed: 65-101
Children killed: 8-9
Injured: 98-232
Possible extra drone strikes:89-106
Total killed: 351-503
Civilians killed: 26-61
Children killed: 6-9
Injured: 82-109
Other covert operations: 15-78
Total killed: 203-436
Civilians killed: 68-102
Children killed: 26-28
Injured: 43-132

Somalia

Drone strikes: 30-34
Total killed: 228-392
Civilians killed: 3-10
Children killed: 0-2
Injured: 2-8
Other covert operations: 9-13
Total killed: 59-160
Civilians killed: 7-47
Children killed: 0-2
Injured: 11-21

Afghanistan

Total strikes: 458-463
Total killed: 2,036-2,688
Civilians killed: 75-130
Children killed: 4-21
Injured: 217-225
USAF data
Missions with at least one
weapon release: 733
Total weapons released: 1,622

Sarajevo, my love!

sarajevo-my-love-110“Sarajevo, my love” è il documentario della giornalista turcha Eylem Kaftan, in lingua inglese, che traccia un profilo di Jovan Divljak, generale dell’esercito serbo scelse di schierarsi al fianco delle vittime bosniache, per raccontare il doloroso processo di recupero dal dramma della guerra che ancora scuote la Bosnia.

L’incontro OPEC fallirà per colpa dell’Iran?

Di Randa Taghi Deen. Al-Hayat (14/09/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi. Ci si avvicina all’incontro del prossimo 27 ottobre in Algeria, dove si punta al rialzo del costo del barile, rimasto tra i 47-49 dollari, quando i maggiori produttori sperano di portarlo a 60-65. La svolta centrale è stato l’accordo di cooperazione energetica russo-saudita, con […]

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Novità editoriale: “Khatem, una bambina d’Arabia” di Raja Alem

Khatem, in arabo “sigillo” o “ultimo”, è la sesta e ultima figlia di una famiglia saudita che ha perso la progenie maschile tra guerre ed epidemie. La sua corporatura mascolina e gli eventi della vita porteranno la giovane a scoprire la sua ambiguità sessuale ermafrodita, grazie anche all’incontro con una musicista siriana. Raja Alem, con la […]

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Marocco: sesso, bugie e falsi devoti

Di Leila Slimani. Jeune Afrique (12/09/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Come non gioire nel vedere impostori smascherati e i predicatori di lezioni di vita razzolare male, dandosi la zappa sui piedi? La farsa è ancora più grottesca, dato che i due amanti hanno sempre professato di voler combattere il vizio e la depravazione. La barba […]

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Consiglio di lettura: “Sensi” di Adania Shibli

“Sensi” mi è stato prestato da una cara amica, in cambio di altri libri che le avevo passato io. Ormai, infatti, conosceva i miei gusti letterari e così ha pensato che anche questo libricino sarebbe stato nelle mie corde. Ovviamente aveva ragione. Leggendo le pagine scritte da Adania Shibli siamo calati dentro a un quadro […]

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Israele sta approfittando della Primavera Araba e i paesi arabi chiudono gli occhi

Di Adbelhamid Ijmahiri. Al-Araby al-Jadeed (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini. Il detto “Gli amici dei miei nemici sono miei nemici” non sempre funziona e in questo caso è la geopolitica a ricordarcelo. Lo scorso 5 settembre, il giornale francese Le Figaro ha proposto in un suo articolo la seguente domanda: “È veramente possibile […]

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L’élite siriana di fronte alla prova più difficile

Di ‘Abd al-Basit Saida. Al-Hayat (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. Dopo cinque anni di conflitto, la società siriana è arrivata al punto di convincersi che la separazione del territorio nazionale sia il male minore? I siriani sono così rassegnati da delegare la loro sorte ad altri? La divisione della Siria è solo una questione […]

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Arriva in libreria “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nagi

Esce oggi in traduzione italiana per Il Sirente Vita: istruzioni per l’uso, opera dello scrittore e blogger egiziano Ahmed Nagi, finito in carcere qualche mese fa proprio per una vicenda legata a questo libro. I lettori del blog se ne ricorderanno perché ne ho parlato diverse volte: il romanzo viene pubblicato nel 2014 dall’editore Dar … Continua a leggere Arriva in libreria “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nagi

Dalla Turchia alla Siria al Festival Internazionale di Giornalismo Civile

Dal 18 al 24 settembre prossimi si svolgerà la seconda edizione del Festival Internazionale di Giornalismo Civile “Imbavagliati” a Napoli. Ideato e diretto dalla giornalista Désirée Klain, il festival avrà luogo al Museo Pan di Napoli, con lo slogan “Chi dimentica diventa colpevole” e con la collaborazione della fondazione Polis, che “si occupa di rendere più efficace il riutilizzo […]

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“Il libraio di Kabul” di Asne Seierstad

“Pensa se nascesse un’altra femmina! Una nuova, piccola catastrofe nella famiglia Kahn”. Con questa frase si chiude “Il libraio di Kabul”, un reportage scritto dalla giornalista norvegese Asne Seierstad e che si legge come fosse un romanzo. Sfortunatamente però le vicende narrate dalla reporter non sono frutto di fantasia, bensì il resoconto della realtà quotidiana […]

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Turchia: dall’interesse per la Siria a una nuova Cipro turca

Di George Samaan. Al-Hayat (12/09/2016). Traduzione e sintesi di Federico Seibusi. La battaglia di Aleppo definirà il futuro della Siria, la sua identità, la sua immagine e naturalmente il vincitore. In essa vi sono riassunti tutti i conflitti del paese, così come tutti i fronti: dalla presenza degli Stati Uniti attraverso il supporto alle forze […]

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“Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese” da Griot

Sabato 17 settembre da Griot a Roma c’è la presentazione del libro di cucina “Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese, salam cuisine tra Gaza e Jenin”, un bellissimo progetto di testi e foto a cura di Fidaa Abuhamdiya e Silvia Chiarantini, con le fotografie di Alessandra Cinquemani. Pop Palestine (Stampa Alternativa, 2016) è un … Continua a leggere “Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese” da Griot

Torah batte Corano nel conflitto israelo-palestinese?

Di Alastair Sloan. Middle East Monitor (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina Che cosa c’è di così speciale nel conflitto israelo-palestinese? Tutto e niente, soprattutto se sei un sostenitore delle politiche di sicurezza del Likud (partito del centro-destra israeliano) e della lenta e dolorosa dissoluzione di un futuro stato palestinese. Sono i sostenitori di […]

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Tunisia: l’ingiustizia potrebbe accendere una nuova rivolta

Di Mohammad Hunaid. Middle East Monitor (13/09/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Basta una telefonata per ritrovarsi dietro le sbarre senza aver commesso altro reato se non quello di aver reclamato i propri diritti o il rispetto della legge. Una volta arrestati, si viene umiliati e picchiati. Questo è il trattamento riservato a tutti quei tunisini […]

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In Yemen non vengono pubblicati giornali né riviste da due anni

Di Ahmed Aghbari. Al-Quds al-Arabi (12/09/2016). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini. Per il secondo anno consecutivo, lo Yemen rimane senza giornali e riviste. Una volta, uscivano regolarmente più di cento pubblicazioni giornalistiche ed erano distribuite altrettante edizioni di giornali arabi e internazionali. Adesso ne vengono pubblicate molto poche e nessun giornale arabo entra nel […]

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Hisham Matar racconta la Libia con una storia che ci riguarda tutti

Internazionale ha pubblicato la mia recensione di The Return. Fathers, Sons and the Land in Between (Penguin 2016), nuovo libro dello scrittore libico Hisham Matar, in corso di traduzione in italiano per Einaudi.  Ve lo dico subito: è un libro da leggere per tantissimi motivi. Il primo e più importante è che Matar sa scrivere. … Continua a leggere Hisham Matar racconta la Libia con una storia che ci riguarda tutti

Islam: 100 Ulema a Grozny per servire Putin

mcc43 Se erano 100 o 200 non si sa,  ma questi studiosi dell’Islam si sono riuniti in concilio nella Federazione Russa. La lista completa dei paesi partecipanti non è stata pubblicata, la Fatwa finale è scritta in lingua russa e, nel sito islamnews.ru, compare come una serie di immagini, impossibili da sottoporre al traduttore automatico. I pochi […]

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La diffusione di una corrente anti-wahhabismo nel mondo arabo

Di Ali Mamouri. Al-Monitor (11/09/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Lo scorso 5 settembre, la Guida Suprema iraniana Ali Khameneni ha attaccato il governo saudita per aver proibito ai fedeli iraniani di visitare La Mecca quest’anno per effettuare il hajj, il grande pellegrinaggio islamico. L’ayatollah Khamenei ha inoltre accusato Riyad di negligenza nella gestione dell’evento religioso, dopo […]

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L’Iran e la “Siria utile”

(di Hanin Ghaddar*, per The Washington Institute. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Con l’aiuto militare dell’Iran il regime del presidente siriano Bashar al Asad  sta accelerando l’evacuazione dei sobborghi sunniti […]

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Soltanto un dio può cambiare il mondo

Santiago Alba Rico Lo scorso mese di luglio, dopo il brutale omicidio di un anziano sacerdote da parte dello Stato Islamico in Francia, Papa Francesco -con un coraggio ed una lucidità che fanno difetto ai nostri governanti- si è rifiutato di mettere in relazione l’Islam con la violenza, ricordando che anche tra i cattolici ci sono minoranze fondamentaliste e ha […]

Soltanto un dio può cambiare il mondo

Santiago Alba Rico Lo scorso mese di luglio, dopo il brutale omicidio di un anziano sacerdote da parte dello Stato Islamico in Francia, Papa Francesco -con un coraggio ed una lucidità che fanno difetto ai nostri governanti- si è rifiutato di mettere in relazione l’Islam con la violenza, ricordando che anche tra i cattolici ci sono minoranze fondamentaliste e ha […]

Soltanto un dio può cambiare il mondo

Santiago Alba Rico Lo scorso mese di luglio, dopo il brutale omicidio di un anziano sacerdote da parte dello Stato Islamico in Francia, Papa Francesco -con un coraggio ed una lucidità che fanno difetto ai nostri governanti- si è rifiutato di mettere in relazione l’Islam con la violenza, ricordando che anche tra i cattolici ci sono minoranze fondamentaliste e ha […]

Soltanto un dio può cambiare il mondo

Santiago Alba Rico Lo scorso mese di luglio, dopo il brutale omicidio di un anziano sacerdote da parte dello Stato Islamico in Francia, Papa Francesco -con un coraggio ed una lucidità che fanno difetto ai nostri governanti- si è rifiutato di mettere in relazione l’Islam con la violenza, ricordando che anche tra i cattolici ci sono minoranze fondamentaliste e ha […]

Soltanto un dio può cambiare il mondo

Santiago Alba Rico Lo scorso mese di luglio, dopo il brutale omicidio di un anziano sacerdote da parte dello Stato Islamico in Francia, Papa Francesco -con un coraggio ed una lucidità che fanno difetto ai nostri governanti- si è rifiutato di mettere in relazione l’Islam con la violenza, ricordando che anche tra i cattolici ci sono minoranze fondamentaliste e ha […]

Siria: possiamo essere ottimisti sull’accordo Kerry-Lavrov?

Di Ilyas Harfoush. Al-Hayat (11/09/2016). Traduzione e sintesi di Laura Cassata. Gli sforzi compiuti da John Kerry e dal suo omologo russo Sergey Lavrov al fine trovare una soluzione alla crisi siriana hanno dato vita a un ottimismo seducente. Questo sentimento non è però realistico, a meno che non si basi su realtà stabili della […]

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Sabato notte di pace tra Perugia e Assisi

“Non sarà facile ma lo faremo. Questa notte* marceremo da Perugia ad Assisi sfidando il buio e il
sonno. A mezzanotte, ciascuno accenderà una torcia e ci metteremo in cammino. La meta è certa e la strada è già stata tracciata nel 1961 da Aldo Capitini, ma l’oscurità della notte rende tutto più incerto. E’ la prima volta che un gruppo di persone decide di fare la PerugiAssisi di notte. Lo facciamo perché sentiamo il dovere di reagire al buio che sta ricoprendo la coscienza e l’umanità di tante persone…”

* La marcia “tradizionale” si tiene il 9 ottobre sempre da Parugia ad Assisi

Eid el Adha Mubarak to all my Muslim Friends

Un augurio sincero per la Festa del sacrificio a tutti i miei amici musulmani La cartolina è conservata alla Library of Congress. E’ della fine dell’Ottocento, e ritrae i fedeli riuniti al Cairo per iniziare il pellegrinaggio alla Mecca in occasione della Festa del Sacrificio.  

Tunisia. I primi passi della rinascita amazigh

Nel Maghreb è la Tunisia ad avere il minor numero di berberofoni, ma il primato nella “folklorizzazione” del loro patrimonio. Dopo la rivoluzione, gli attivisti amazigh stanno cercando di restituire importanza a una cultura ridotta per decenni ad attrattiva turistica.



Tra i paesi del Maghreb, la Tunisia detiene il minor numero di berberòfoni (1) e allo stesso tempo il primato nella “folklorizzazione” del patrimonio amazigh (berbero, ndt): Matmata e le sue case troglodite, i tappeti berberi, il couscous berbero, la tenda berbera…elementi dei quali Mongi Bouras, curatore del museo di Tamerzert (2) mostra tutta la studiata artificiosità.

Il tratto distintivo “berbero” appare come una garanzia di autenticità, il contrassegno del carattere locale, ancestrale ma anche emblema di un passato destinato al consumo del turista.

Il patrimonio amazigh non è un tabù né un fardello, come è stato a lungo per il Marocco, ma appartiene alla storia del paese e rappresenta un aspetto, locale e relativo, del retaggio che contribuisce a formare il “mosaico” della Tunisia mediterranea e tollerante. 

Le ricerche universitarie in materia, però, difficilmente risultano imparziali. Per molti sociologi tunisini rimane almeno una “minoranza berbera” locale, della quale i tratti comuni con il Marocco e l’Algeria non possono essere negati, ma che manca di un ancoraggio concreto rispetto alla società attuale.

Al contrario, gli storici della facoltà La Manouba a Tunisi, riabilitano da qualche anno gli studi sui “patrimoni minoritari” tra i quali appunto quello amazigh.

La dimensione politica amazigh invece non è mai esistita in Tunisia, anche se sono presenti pulsioni nazionaliste arabe che temono una possibile “coesione berbera” con le realtà degli altri paesi della regione.

Rim Saidi, presentatrice tunisina del canale Nessma Tv, aveva timidamente affermato di avere un nonno berbero, dando vita ad un’aspra polemica che ha alimentato la teoria del complotto sionista e anti-musulmano del canale.

Contrariamente all’Algeria e al Marocco, dove risiedono identità più definite e radicate, in Tunisia, “Amazigh” non è considerato (ancora?) il contrario di “Arabo”.

Non entra neanche pienamente in conflitto con l’islamismo del partito Ennahdha o con il nazionalismo arabo del partito CPR (Congrès pour la République, di Marzouki, ndt); attivisti di associazioni locali del sud-est hanno sostenuto i due partiti alle ultime elezioni e continuano a farlo anche oggi. Inoltre, sfatando il mito della “berbericità” laica, essa può declinarsi perfino in un Islam conservatore come nel caso dell’Ibadismo di Djerba (3).

Per i berberòfoni della Tunisia, essere amazigh non ha molto senso al di fuori del fatto di parlare la lingua in famiglia, nel villaggio, o a Tunisi, per non essere capiti dagli altri.

Finora la lingua amazigh, che come in tutti i paesi del Maghreb varia da regione a regione, appare niente di più che un tocco locale, un patrimonio familiare, una caratteristica quasi personale della quale non ci si domanda né l’origine né il futuro. 

Lo sviluppo del turismo maghrebino nelle regioni berberòfone (4) e l’emigrazione in Francia hanno permesso il contatto tra amazigh provenienti da differenti regioni del Maghreb.

Questi contatti, di amicizia o di militanza, hanno aiutato la concettualizzazione di una lingua amazigh non più relativa al locale o al nazionale, ma estesa a tutto il nord Africa. Hanno favorito la riflessione sulla sua importanza storica, culturale e identitaria.

Da alcuni anni, attivisti marocchini e algerini indipendenti o legati al Congès Mondial Amazigh (CMA) mantengono relazioni con tunisini propensi alla militanza in loco, ma più spesso in Francia, soprattutto a Parigi.

Alla caduta del regime autoritario di Ben Ali, prende forma la prima associazione tunisina per la cultura amazigh (ATCA), durante una riunione preparatoria del CMA tenutasi simbolicamente a Tataouine nell’aprile 2011, simbolo di una rinascita berbera imminente in Tunisia come in Libia.

Durante l’assemblea dell’ultimo CMA, che ha avuto luogo per la prima volta dalla sua fondazione in Tunisia (Djerba, settembre 2011), l’elezione del presidente libico, Fathi Benkhalifa, permette di allargare i confini della militanza amazigh alla Libia, fino ad allora esclusa a causa della dura repressione del regime di Gheddafi contro l’attivismo berbero.

L’espressione dell’identità amazigh in Libia interagisce così con la nascente militanza tunisina. Interessi di tipo commerciale e familiare hanno da sempre legato tunisini del sud-est e libici dell’ovest, ma le ripercussioni politiche tra 2011-2012 hanno creato un nuovo spazio di dibattito identitario e politico.

Nel 2011, tra i numerosi rifugiati libici, alcuni berberofoni trovano rifugio nel sud-est tunisino. Parallelamente, l’appena nata associazione amazigh di Djerba (Guellala) organizza alcuni incontri con i libici di Djeb Nefoussa, alla ricerca di un’identità comune di cui la lingua sarebbe una prima prova (le varietà di berbero di Djeb Nefoussa in Libia e di Gellala in Tunisia, separate da un centinaio di chilometri, sono simili).

Attualmente, per le associazioni locali del sud-est tunisino, la militanza “sul campo” privilegia la salvaguardia di un patrimonio linguistico e artistico vivente, onorato da serate musicali o da altre iniziative mirate.

Oggi alcuni giovani provenienti da villaggi berberofoni sperduti e isolati (Taoujout, Zraoua) sperano di accelerare lo sviluppo (strade, acqua ed elettricità correnti, bar, internet point) servendosi della berberità come elemento catalizzatore.

Infine, soprattutto a Tunisi, “la militanza amazigh” diventa il simbolo culturale per una certa opposizione di sinistra nel contesto post-elettorale, quella di una cultura sindacale laica e di un anti-nazionalismo arabo. E così i primi “io non sono arabo” indirizzati al governo, appaiono sui profili Facebook.

Da parte sua lo Stato, tramite il ministro alla cultura Mehdi Mabrouk, presenta la Tunisia come una nazione araba e musulmana aperta alla pluralità (ta’adoudiya) e rifiuta la categorizzazione di “minoranza” (aqaliyyat) per la cultura berbera, che classifica nella “diversità culturale” (tanawa’ thaqafi), adeguando la definizione alla carta dell’UNESCO.

Nella Tunisia post-rivoluzione, lo Stato sembra aver capito l’importanza della questione: “Non si può essere una democrazia senza essere aperti alla diversità culturale” afferma il ministro.

Tuttavia, in seguito alla diffusione di un reportage televisivo sugli amazigh in Tunisia, il settimanale di orientamento islamista El Fajer pubblica un articolo (5) che scatenerà le reazioni negative degli attivisti amazigh. Il giornalista denuncia che “la maggior parte dei militanti amazigh di Tunisi abitano all’estero, soprattutto in Francia” e che questo gruppo “etichettato laico” (tâbi’a al ‘almâni) cerca di “fondare una nuova identità al di fuori dell’ambito dell’identità religiosa”.

Ma l’attacco più insopportabile per gli attivisti è quello che riduce la loro cultura a “resti di spazzatura, dei quali neppure i polli si nutrirebbero”.

E’ proprio questa assimilazione della cultura amazigh a resti, rovine, tracce culturali che vanno perdendosi, a persone semplici e povere, che indignano la comunità militante amazigh.

Le associazioni tunisine ma anche quelle marocchine, hanno pubblicato comunicati increduli riguardo all’articolo di El Farej. Tra questi spicca la risposta di un membro dell’associazione ATCA, firmato ironicamente “Un abitante di Tamezret, villaggio di uomini preistorici”.

L’attivista ricorda la sua prigionia e l’esilio forzato di 30 anni sotto i regimi precedenti (per la sua militanza sindacale), colloca la Tunisia nella Tamazgha al koubra (“lo spazio amazigh transnazionale”) e informa sul recente insegnamento della grafia tifinagh a Tunisi.

Ripristina così la dimensione della civiltà (scrittura, storia) berbera che il giornalista aveva screditato.

Ma la reazione ufficiale, pubblicata sullo stesso giornale filo-islamista la settimana successiva, proviene dal presidente dell’associazione Azrou pour la culture amazigh, Arafat Almahrouk.

Dal villaggio di Azrou, dove Ennahdha ha ottenuto il 70% dei voti alle ultime elezioni, egli afferma che la questione amazigh non è legata ad un’ideologia politica, che è nazionale e che non offende la religione musulmana.

Ed è proprio questa la realtà delle cose a livello locale: non entrare in opposizione diretta con il partito islamista Ennahdha nelle regioni che hanno, d’altronde, aderito alla sua ideologia.      

[Articolo di Stephanie Pouessel, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it]

(1) Dai principali studi sull’argomento, è stato stabilito che rappresentano circa l’1% della popolazione ; un militante amazigh di Tunisi, l’ottobre scorso, ha affermato che i berberi sarebbero in realtà più del 10%. In ogni caso, questa debole percentuale deriva dalla conquista islamica del Maghreb che ha significato l’arabizzazione quasi completa della regione; in aggiunta, dall’indipendenza, la Tunisia registra il più elevato tasso di alfabetizzazione in arabo tra i paesi del Maghreb

(2) Villaggio situato nel sud-est tunisino, regione di Matmata

(3) Uno Cheikh ibadita berbero di Guellala spiega che la lingua berbera è sopravvissuta sull’isola di Djerba grazie alla presenza millenaria del culto ibadita, testimonianza televisiva nel programma “Fissamim” che dedica un servizio alla cultura amazigh, canale Ettounsiya, 2.11.2012.

(4) Regione di Matmata – Tamerzet, Zraoua, Taoujout ; regione di Djerba – Guellala, Sedouikch, Ajim ; regione di Tataouine – Douiret, Guermessa, Chenini.

(5) Salim Al-Hakimi, “man yourid tahrik khouyout al fitna al amazighiya fi tounis ?” (Chi vuole alimentare le divisioni in Tunisia ?), Al Fajer, 16.11.2012, p.9.

Tunisia. I primi passi della rinascita amazigh

Nel Maghreb è la Tunisia ad avere il minor numero di berberofoni, ma il primato nella “folklorizzazione” del loro patrimonio. Dopo la rivoluzione, gli attivisti amazigh stanno cercando di restituire importanza a una cultura ridotta per decenni ad attrattiva turistica.



Tra i paesi del Maghreb, la Tunisia detiene il minor numero di berberòfoni (1) e allo stesso tempo il primato nella “folklorizzazione” del patrimonio amazigh (berbero, ndt): Matmata e le sue case troglodite, i tappeti berberi, il couscous berbero, la tenda berbera…elementi dei quali Mongi Bouras, curatore del museo di Tamerzert (2) mostra tutta la studiata artificiosità.

Il tratto distintivo “berbero” appare come una garanzia di autenticità, il contrassegno del carattere locale, ancestrale ma anche emblema di un passato destinato al consumo del turista.

Il patrimonio amazigh non è un tabù né un fardello, come è stato a lungo per il Marocco, ma appartiene alla storia del paese e rappresenta un aspetto, locale e relativo, del retaggio che contribuisce a formare il “mosaico” della Tunisia mediterranea e tollerante. 

Le ricerche universitarie in materia, però, difficilmente risultano imparziali. Per molti sociologi tunisini rimane almeno una “minoranza berbera” locale, della quale i tratti comuni con il Marocco e l’Algeria non possono essere negati, ma che manca di un ancoraggio concreto rispetto alla società attuale.

Al contrario, gli storici della facoltà La Manouba a Tunisi, riabilitano da qualche anno gli studi sui “patrimoni minoritari” tra i quali appunto quello amazigh.

La dimensione politica amazigh invece non è mai esistita in Tunisia, anche se sono presenti pulsioni nazionaliste arabe che temono una possibile “coesione berbera” con le realtà degli altri paesi della regione.

Rim Saidi, presentatrice tunisina del canale Nessma Tv, aveva timidamente affermato di avere un nonno berbero, dando vita ad un’aspra polemica che ha alimentato la teoria del complotto sionista e anti-musulmano del canale.

Contrariamente all’Algeria e al Marocco, dove risiedono identità più definite e radicate, in Tunisia, “Amazigh” non è considerato (ancora?) il contrario di “Arabo”.

Non entra neanche pienamente in conflitto con l’islamismo del partito Ennahdha o con il nazionalismo arabo del partito CPR (Congrès pour la République, di Marzouki, ndt); attivisti di associazioni locali del sud-est hanno sostenuto i due partiti alle ultime elezioni e continuano a farlo anche oggi. Inoltre, sfatando il mito della “berbericità” laica, essa può declinarsi perfino in un Islam conservatore come nel caso dell’Ibadismo di Djerba (3).

Per i berberòfoni della Tunisia, essere amazigh non ha molto senso al di fuori del fatto di parlare la lingua in famiglia, nel villaggio, o a Tunisi, per non essere capiti dagli altri.

Finora la lingua amazigh, che come in tutti i paesi del Maghreb varia da regione a regione, appare niente di più che un tocco locale, un patrimonio familiare, una caratteristica quasi personale della quale non ci si domanda né l’origine né il futuro. 

Lo sviluppo del turismo maghrebino nelle regioni berberòfone (4) e l’emigrazione in Francia hanno permesso il contatto tra amazigh provenienti da differenti regioni del Maghreb.

Questi contatti, di amicizia o di militanza, hanno aiutato la concettualizzazione di una lingua amazigh non più relativa al locale o al nazionale, ma estesa a tutto il nord Africa. Hanno favorito la riflessione sulla sua importanza storica, culturale e identitaria.

Da alcuni anni, attivisti marocchini e algerini indipendenti o legati al Congès Mondial Amazigh (CMA) mantengono relazioni con tunisini propensi alla militanza in loco, ma più spesso in Francia, soprattutto a Parigi.

Alla caduta del regime autoritario di Ben Ali, prende forma la prima associazione tunisina per la cultura amazigh (ATCA), durante una riunione preparatoria del CMA tenutasi simbolicamente a Tataouine nell’aprile 2011, simbolo di una rinascita berbera imminente in Tunisia come in Libia.

Durante l’assemblea dell’ultimo CMA, che ha avuto luogo per la prima volta dalla sua fondazione in Tunisia (Djerba, settembre 2011), l’elezione del presidente libico, Fathi Benkhalifa, permette di allargare i confini della militanza amazigh alla Libia, fino ad allora esclusa a causa della dura repressione del regime di Gheddafi contro l’attivismo berbero.

L’espressione dell’identità amazigh in Libia interagisce così con la nascente militanza tunisina. Interessi di tipo commerciale e familiare hanno da sempre legato tunisini del sud-est e libici dell’ovest, ma le ripercussioni politiche tra 2011-2012 hanno creato un nuovo spazio di dibattito identitario e politico.

Nel 2011, tra i numerosi rifugiati libici, alcuni berberofoni trovano rifugio nel sud-est tunisino. Parallelamente, l’appena nata associazione amazigh di Djerba (Guellala) organizza alcuni incontri con i libici di Djeb Nefoussa, alla ricerca di un’identità comune di cui la lingua sarebbe una prima prova (le varietà di berbero di Djeb Nefoussa in Libia e di Gellala in Tunisia, separate da un centinaio di chilometri, sono simili).

Attualmente, per le associazioni locali del sud-est tunisino, la militanza “sul campo” privilegia la salvaguardia di un patrimonio linguistico e artistico vivente, onorato da serate musicali o da altre iniziative mirate.

Oggi alcuni giovani provenienti da villaggi berberofoni sperduti e isolati (Taoujout, Zraoua) sperano di accelerare lo sviluppo (strade, acqua ed elettricità correnti, bar, internet point) servendosi della berberità come elemento catalizzatore.

Infine, soprattutto a Tunisi, “la militanza amazigh” diventa il simbolo culturale per una certa opposizione di sinistra nel contesto post-elettorale, quella di una cultura sindacale laica e di un anti-nazionalismo arabo. E così i primi “io non sono arabo” indirizzati al governo, appaiono sui profili Facebook.

Da parte sua lo Stato, tramite il ministro alla cultura Mehdi Mabrouk, presenta la Tunisia come una nazione araba e musulmana aperta alla pluralità (ta’adoudiya) e rifiuta la categorizzazione di “minoranza” (aqaliyyat) per la cultura berbera, che classifica nella “diversità culturale” (tanawa’ thaqafi), adeguando la definizione alla carta dell’UNESCO.

Nella Tunisia post-rivoluzione, lo Stato sembra aver capito l’importanza della questione: “Non si può essere una democrazia senza essere aperti alla diversità culturale” afferma il ministro.

Tuttavia, in seguito alla diffusione di un reportage televisivo sugli amazigh in Tunisia, il settimanale di orientamento islamista El Fajer pubblica un articolo (5) che scatenerà le reazioni negative degli attivisti amazigh. Il giornalista denuncia che “la maggior parte dei militanti amazigh di Tunisi abitano all’estero, soprattutto in Francia” e che questo gruppo “etichettato laico” (tâbi’a al ‘almâni) cerca di “fondare una nuova identità al di fuori dell’ambito dell’identità religiosa”.

Ma l’attacco più insopportabile per gli attivisti è quello che riduce la loro cultura a “resti di spazzatura, dei quali neppure i polli si nutrirebbero”.

E’ proprio questa assimilazione della cultura amazigh a resti, rovine, tracce culturali che vanno perdendosi, a persone semplici e povere, che indignano la comunità militante amazigh.

Le associazioni tunisine ma anche quelle marocchine, hanno pubblicato comunicati increduli riguardo all’articolo di El Farej. Tra questi spicca la risposta di un membro dell’associazione ATCA, firmato ironicamente “Un abitante di Tamezret, villaggio di uomini preistorici”.

L’attivista ricorda la sua prigionia e l’esilio forzato di 30 anni sotto i regimi precedenti (per la sua militanza sindacale), colloca la Tunisia nella Tamazgha al koubra (“lo spazio amazigh transnazionale”) e informa sul recente insegnamento della grafia tifinagh a Tunisi.

Ripristina così la dimensione della civiltà (scrittura, storia) berbera che il giornalista aveva screditato.

Ma la reazione ufficiale, pubblicata sullo stesso giornale filo-islamista la settimana successiva, proviene dal presidente dell’associazione Azrou pour la culture amazigh, Arafat Almahrouk.

Dal villaggio di Azrou, dove Ennahdha ha ottenuto il 70% dei voti alle ultime elezioni, egli afferma che la questione amazigh non è legata ad un’ideologia politica, che è nazionale e che non offende la religione musulmana.

Ed è proprio questa la realtà delle cose a livello locale: non entrare in opposizione diretta con il partito islamista Ennahdha nelle regioni che hanno, d’altronde, aderito alla sua ideologia.      

[Articolo di Stephanie Pouessel, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it]

(1) Dai principali studi sull’argomento, è stato stabilito che rappresentano circa l’1% della popolazione ; un militante amazigh di Tunisi, l’ottobre scorso, ha affermato che i berberi sarebbero in realtà più del 10%. In ogni caso, questa debole percentuale deriva dalla conquista islamica del Maghreb che ha significato l’arabizzazione quasi completa della regione; in aggiunta, dall’indipendenza, la Tunisia registra il più elevato tasso di alfabetizzazione in arabo tra i paesi del Maghreb

(2) Villaggio situato nel sud-est tunisino, regione di Matmata

(3) Uno Cheikh ibadita berbero di Guellala spiega che la lingua berbera è sopravvissuta sull’isola di Djerba grazie alla presenza millenaria del culto ibadita, testimonianza televisiva nel programma “Fissamim” che dedica un servizio alla cultura amazigh, canale Ettounsiya, 2.11.2012.

(4) Regione di Matmata – Tamerzet, Zraoua, Taoujout ; regione di Djerba – Guellala, Sedouikch, Ajim ; regione di Tataouine – Douiret, Guermessa, Chenini.

(5) Salim Al-Hakimi, “man yourid tahrik khouyout al fitna al amazighiya fi tounis ?” (Chi vuole alimentare le divisioni in Tunisia ?), Al Fajer, 16.11.2012, p.9.

Tunisia. I primi passi della rinascita amazigh

Nel Maghreb è la Tunisia ad avere il minor numero di berberofoni, ma il primato nella “folklorizzazione” del loro patrimonio. Dopo la rivoluzione, gli attivisti amazigh stanno cercando di restituire importanza a una cultura ridotta per decenni ad attrattiva turistica.



Tra i paesi del Maghreb, la Tunisia detiene il minor numero di berberòfoni (1) e allo stesso tempo il primato nella “folklorizzazione” del patrimonio amazigh (berbero, ndt): Matmata e le sue case troglodite, i tappeti berberi, il couscous berbero, la tenda berbera…elementi dei quali Mongi Bouras, curatore del museo di Tamerzert (2) mostra tutta la studiata artificiosità.

Il tratto distintivo “berbero” appare come una garanzia di autenticità, il contrassegno del carattere locale, ancestrale ma anche emblema di un passato destinato al consumo del turista.

Il patrimonio amazigh non è un tabù né un fardello, come è stato a lungo per il Marocco, ma appartiene alla storia del paese e rappresenta un aspetto, locale e relativo, del retaggio che contribuisce a formare il “mosaico” della Tunisia mediterranea e tollerante. 

Le ricerche universitarie in materia, però, difficilmente risultano imparziali. Per molti sociologi tunisini rimane almeno una “minoranza berbera” locale, della quale i tratti comuni con il Marocco e l’Algeria non possono essere negati, ma che manca di un ancoraggio concreto rispetto alla società attuale.

Al contrario, gli storici della facoltà La Manouba a Tunisi, riabilitano da qualche anno gli studi sui “patrimoni minoritari” tra i quali appunto quello amazigh.

La dimensione politica amazigh invece non è mai esistita in Tunisia, anche se sono presenti pulsioni nazionaliste arabe che temono una possibile “coesione berbera” con le realtà degli altri paesi della regione.

Rim Saidi, presentatrice tunisina del canale Nessma Tv, aveva timidamente affermato di avere un nonno berbero, dando vita ad un’aspra polemica che ha alimentato la teoria del complotto sionista e anti-musulmano del canale.

Contrariamente all’Algeria e al Marocco, dove risiedono identità più definite e radicate, in Tunisia, “Amazigh” non è considerato (ancora?) il contrario di “Arabo”.

Non entra neanche pienamente in conflitto con l’islamismo del partito Ennahdha o con il nazionalismo arabo del partito CPR (Congrès pour la République, di Marzouki, ndt); attivisti di associazioni locali del sud-est hanno sostenuto i due partiti alle ultime elezioni e continuano a farlo anche oggi. Inoltre, sfatando il mito della “berbericità” laica, essa può declinarsi perfino in un Islam conservatore come nel caso dell’Ibadismo di Djerba (3).

Per i berberòfoni della Tunisia, essere amazigh non ha molto senso al di fuori del fatto di parlare la lingua in famiglia, nel villaggio, o a Tunisi, per non essere capiti dagli altri.

Finora la lingua amazigh, che come in tutti i paesi del Maghreb varia da regione a regione, appare niente di più che un tocco locale, un patrimonio familiare, una caratteristica quasi personale della quale non ci si domanda né l’origine né il futuro. 

Lo sviluppo del turismo maghrebino nelle regioni berberòfone (4) e l’emigrazione in Francia hanno permesso il contatto tra amazigh provenienti da differenti regioni del Maghreb.

Questi contatti, di amicizia o di militanza, hanno aiutato la concettualizzazione di una lingua amazigh non più relativa al locale o al nazionale, ma estesa a tutto il nord Africa. Hanno favorito la riflessione sulla sua importanza storica, culturale e identitaria.

Da alcuni anni, attivisti marocchini e algerini indipendenti o legati al Congès Mondial Amazigh (CMA) mantengono relazioni con tunisini propensi alla militanza in loco, ma più spesso in Francia, soprattutto a Parigi.

Alla caduta del regime autoritario di Ben Ali, prende forma la prima associazione tunisina per la cultura amazigh (ATCA), durante una riunione preparatoria del CMA tenutasi simbolicamente a Tataouine nell’aprile 2011, simbolo di una rinascita berbera imminente in Tunisia come in Libia.

Durante l’assemblea dell’ultimo CMA, che ha avuto luogo per la prima volta dalla sua fondazione in Tunisia (Djerba, settembre 2011), l’elezione del presidente libico, Fathi Benkhalifa, permette di allargare i confini della militanza amazigh alla Libia, fino ad allora esclusa a causa della dura repressione del regime di Gheddafi contro l’attivismo berbero.

L’espressione dell’identità amazigh in Libia interagisce così con la nascente militanza tunisina. Interessi di tipo commerciale e familiare hanno da sempre legato tunisini del sud-est e libici dell’ovest, ma le ripercussioni politiche tra 2011-2012 hanno creato un nuovo spazio di dibattito identitario e politico.

Nel 2011, tra i numerosi rifugiati libici, alcuni berberofoni trovano rifugio nel sud-est tunisino. Parallelamente, l’appena nata associazione amazigh di Djerba (Guellala) organizza alcuni incontri con i libici di Djeb Nefoussa, alla ricerca di un’identità comune di cui la lingua sarebbe una prima prova (le varietà di berbero di Djeb Nefoussa in Libia e di Gellala in Tunisia, separate da un centinaio di chilometri, sono simili).

Attualmente, per le associazioni locali del sud-est tunisino, la militanza “sul campo” privilegia la salvaguardia di un patrimonio linguistico e artistico vivente, onorato da serate musicali o da altre iniziative mirate.

Oggi alcuni giovani provenienti da villaggi berberofoni sperduti e isolati (Taoujout, Zraoua) sperano di accelerare lo sviluppo (strade, acqua ed elettricità correnti, bar, internet point) servendosi della berberità come elemento catalizzatore.

Infine, soprattutto a Tunisi, “la militanza amazigh” diventa il simbolo culturale per una certa opposizione di sinistra nel contesto post-elettorale, quella di una cultura sindacale laica e di un anti-nazionalismo arabo. E così i primi “io non sono arabo” indirizzati al governo, appaiono sui profili Facebook.

Da parte sua lo Stato, tramite il ministro alla cultura Mehdi Mabrouk, presenta la Tunisia come una nazione araba e musulmana aperta alla pluralità (ta’adoudiya) e rifiuta la categorizzazione di “minoranza” (aqaliyyat) per la cultura berbera, che classifica nella “diversità culturale” (tanawa’ thaqafi), adeguando la definizione alla carta dell’UNESCO.

Nella Tunisia post-rivoluzione, lo Stato sembra aver capito l’importanza della questione: “Non si può essere una democrazia senza essere aperti alla diversità culturale” afferma il ministro.

Tuttavia, in seguito alla diffusione di un reportage televisivo sugli amazigh in Tunisia, il settimanale di orientamento islamista El Fajer pubblica un articolo (5) che scatenerà le reazioni negative degli attivisti amazigh. Il giornalista denuncia che “la maggior parte dei militanti amazigh di Tunisi abitano all’estero, soprattutto in Francia” e che questo gruppo “etichettato laico” (tâbi’a al ‘almâni) cerca di “fondare una nuova identità al di fuori dell’ambito dell’identità religiosa”.

Ma l’attacco più insopportabile per gli attivisti è quello che riduce la loro cultura a “resti di spazzatura, dei quali neppure i polli si nutrirebbero”.

E’ proprio questa assimilazione della cultura amazigh a resti, rovine, tracce culturali che vanno perdendosi, a persone semplici e povere, che indignano la comunità militante amazigh.

Le associazioni tunisine ma anche quelle marocchine, hanno pubblicato comunicati increduli riguardo all’articolo di El Farej. Tra questi spicca la risposta di un membro dell’associazione ATCA, firmato ironicamente “Un abitante di Tamezret, villaggio di uomini preistorici”.

L’attivista ricorda la sua prigionia e l’esilio forzato di 30 anni sotto i regimi precedenti (per la sua militanza sindacale), colloca la Tunisia nella Tamazgha al koubra (“lo spazio amazigh transnazionale”) e informa sul recente insegnamento della grafia tifinagh a Tunisi.

Ripristina così la dimensione della civiltà (scrittura, storia) berbera che il giornalista aveva screditato.

Ma la reazione ufficiale, pubblicata sullo stesso giornale filo-islamista la settimana successiva, proviene dal presidente dell’associazione Azrou pour la culture amazigh, Arafat Almahrouk.

Dal villaggio di Azrou, dove Ennahdha ha ottenuto il 70% dei voti alle ultime elezioni, egli afferma che la questione amazigh non è legata ad un’ideologia politica, che è nazionale e che non offende la religione musulmana.

Ed è proprio questa la realtà delle cose a livello locale: non entrare in opposizione diretta con il partito islamista Ennahdha nelle regioni che hanno, d’altronde, aderito alla sua ideologia.      

[Articolo di Stephanie Pouessel, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it]

(1) Dai principali studi sull’argomento, è stato stabilito che rappresentano circa l’1% della popolazione ; un militante amazigh di Tunisi, l’ottobre scorso, ha affermato che i berberi sarebbero in realtà più del 10%. In ogni caso, questa debole percentuale deriva dalla conquista islamica del Maghreb che ha significato l’arabizzazione quasi completa della regione; in aggiunta, dall’indipendenza, la Tunisia registra il più elevato tasso di alfabetizzazione in arabo tra i paesi del Maghreb

(2) Villaggio situato nel sud-est tunisino, regione di Matmata

(3) Uno Cheikh ibadita berbero di Guellala spiega che la lingua berbera è sopravvissuta sull’isola di Djerba grazie alla presenza millenaria del culto ibadita, testimonianza televisiva nel programma “Fissamim” che dedica un servizio alla cultura amazigh, canale Ettounsiya, 2.11.2012.

(4) Regione di Matmata – Tamerzet, Zraoua, Taoujout ; regione di Djerba – Guellala, Sedouikch, Ajim ; regione di Tataouine – Douiret, Guermessa, Chenini.

(5) Salim Al-Hakimi, “man yourid tahrik khouyout al fitna al amazighiya fi tounis ?” (Chi vuole alimentare le divisioni in Tunisia ?), Al Fajer, 16.11.2012, p.9.

Tunisia. I primi passi della rinascita amazigh

Nel Maghreb è la Tunisia ad avere il minor numero di berberofoni, ma il primato nella “folklorizzazione” del loro patrimonio. Dopo la rivoluzione, gli attivisti amazigh stanno cercando di restituire importanza a una cultura ridotta per decenni ad attrattiva turistica.



Tra i paesi del Maghreb, la Tunisia detiene il minor numero di berberòfoni (1) e allo stesso tempo il primato nella “folklorizzazione” del patrimonio amazigh (berbero, ndt): Matmata e le sue case troglodite, i tappeti berberi, il couscous berbero, la tenda berbera…elementi dei quali Mongi Bouras, curatore del museo di Tamerzert (2) mostra tutta la studiata artificiosità.

Il tratto distintivo “berbero” appare come una garanzia di autenticità, il contrassegno del carattere locale, ancestrale ma anche emblema di un passato destinato al consumo del turista.

Il patrimonio amazigh non è un tabù né un fardello, come è stato a lungo per il Marocco, ma appartiene alla storia del paese e rappresenta un aspetto, locale e relativo, del retaggio che contribuisce a formare il “mosaico” della Tunisia mediterranea e tollerante. 

Le ricerche universitarie in materia, però, difficilmente risultano imparziali. Per molti sociologi tunisini rimane almeno una “minoranza berbera” locale, della quale i tratti comuni con il Marocco e l’Algeria non possono essere negati, ma che manca di un ancoraggio concreto rispetto alla società attuale.

Al contrario, gli storici della facoltà La Manouba a Tunisi, riabilitano da qualche anno gli studi sui “patrimoni minoritari” tra i quali appunto quello amazigh.

La dimensione politica amazigh invece non è mai esistita in Tunisia, anche se sono presenti pulsioni nazionaliste arabe che temono una possibile “coesione berbera” con le realtà degli altri paesi della regione.

Rim Saidi, presentatrice tunisina del canale Nessma Tv, aveva timidamente affermato di avere un nonno berbero, dando vita ad un’aspra polemica che ha alimentato la teoria del complotto sionista e anti-musulmano del canale.

Contrariamente all’Algeria e al Marocco, dove risiedono identità più definite e radicate, in Tunisia, “Amazigh” non è considerato (ancora?) il contrario di “Arabo”.

Non entra neanche pienamente in conflitto con l’islamismo del partito Ennahdha o con il nazionalismo arabo del partito CPR (Congrès pour la République, di Marzouki, ndt); attivisti di associazioni locali del sud-est hanno sostenuto i due partiti alle ultime elezioni e continuano a farlo anche oggi. Inoltre, sfatando il mito della “berbericità” laica, essa può declinarsi perfino in un Islam conservatore come nel caso dell’Ibadismo di Djerba (3).

Per i berberòfoni della Tunisia, essere amazigh non ha molto senso al di fuori del fatto di parlare la lingua in famiglia, nel villaggio, o a Tunisi, per non essere capiti dagli altri.

Finora la lingua amazigh, che come in tutti i paesi del Maghreb varia da regione a regione, appare niente di più che un tocco locale, un patrimonio familiare, una caratteristica quasi personale della quale non ci si domanda né l’origine né il futuro. 

Lo sviluppo del turismo maghrebino nelle regioni berberòfone (4) e l’emigrazione in Francia hanno permesso il contatto tra amazigh provenienti da differenti regioni del Maghreb.

Questi contatti, di amicizia o di militanza, hanno aiutato la concettualizzazione di una lingua amazigh non più relativa al locale o al nazionale, ma estesa a tutto il nord Africa. Hanno favorito la riflessione sulla sua importanza storica, culturale e identitaria.

Da alcuni anni, attivisti marocchini e algerini indipendenti o legati al Congès Mondial Amazigh (CMA) mantengono relazioni con tunisini propensi alla militanza in loco, ma più spesso in Francia, soprattutto a Parigi.

Alla caduta del regime autoritario di Ben Ali, prende forma la prima associazione tunisina per la cultura amazigh (ATCA), durante una riunione preparatoria del CMA tenutasi simbolicamente a Tataouine nell’aprile 2011, simbolo di una rinascita berbera imminente in Tunisia come in Libia.

Durante l’assemblea dell’ultimo CMA, che ha avuto luogo per la prima volta dalla sua fondazione in Tunisia (Djerba, settembre 2011), l’elezione del presidente libico, Fathi Benkhalifa, permette di allargare i confini della militanza amazigh alla Libia, fino ad allora esclusa a causa della dura repressione del regime di Gheddafi contro l’attivismo berbero.

L’espressione dell’identità amazigh in Libia interagisce così con la nascente militanza tunisina. Interessi di tipo commerciale e familiare hanno da sempre legato tunisini del sud-est e libici dell’ovest, ma le ripercussioni politiche tra 2011-2012 hanno creato un nuovo spazio di dibattito identitario e politico.

Nel 2011, tra i numerosi rifugiati libici, alcuni berberofoni trovano rifugio nel sud-est tunisino. Parallelamente, l’appena nata associazione amazigh di Djerba (Guellala) organizza alcuni incontri con i libici di Djeb Nefoussa, alla ricerca di un’identità comune di cui la lingua sarebbe una prima prova (le varietà di berbero di Djeb Nefoussa in Libia e di Gellala in Tunisia, separate da un centinaio di chilometri, sono simili).

Attualmente, per le associazioni locali del sud-est tunisino, la militanza “sul campo” privilegia la salvaguardia di un patrimonio linguistico e artistico vivente, onorato da serate musicali o da altre iniziative mirate.

Oggi alcuni giovani provenienti da villaggi berberofoni sperduti e isolati (Taoujout, Zraoua) sperano di accelerare lo sviluppo (strade, acqua ed elettricità correnti, bar, internet point) servendosi della berberità come elemento catalizzatore.

Infine, soprattutto a Tunisi, “la militanza amazigh” diventa il simbolo culturale per una certa opposizione di sinistra nel contesto post-elettorale, quella di una cultura sindacale laica e di un anti-nazionalismo arabo. E così i primi “io non sono arabo” indirizzati al governo, appaiono sui profili Facebook.

Da parte sua lo Stato, tramite il ministro alla cultura Mehdi Mabrouk, presenta la Tunisia come una nazione araba e musulmana aperta alla pluralità (ta’adoudiya) e rifiuta la categorizzazione di “minoranza” (aqaliyyat) per la cultura berbera, che classifica nella “diversità culturale” (tanawa’ thaqafi), adeguando la definizione alla carta dell’UNESCO.

Nella Tunisia post-rivoluzione, lo Stato sembra aver capito l’importanza della questione: “Non si può essere una democrazia senza essere aperti alla diversità culturale” afferma il ministro.

Tuttavia, in seguito alla diffusione di un reportage televisivo sugli amazigh in Tunisia, il settimanale di orientamento islamista El Fajer pubblica un articolo (5) che scatenerà le reazioni negative degli attivisti amazigh. Il giornalista denuncia che “la maggior parte dei militanti amazigh di Tunisi abitano all’estero, soprattutto in Francia” e che questo gruppo “etichettato laico” (tâbi’a al ‘almâni) cerca di “fondare una nuova identità al di fuori dell’ambito dell’identità religiosa”.

Ma l’attacco più insopportabile per gli attivisti è quello che riduce la loro cultura a “resti di spazzatura, dei quali neppure i polli si nutrirebbero”.

E’ proprio questa assimilazione della cultura amazigh a resti, rovine, tracce culturali che vanno perdendosi, a persone semplici e povere, che indignano la comunità militante amazigh.

Le associazioni tunisine ma anche quelle marocchine, hanno pubblicato comunicati increduli riguardo all’articolo di El Farej. Tra questi spicca la risposta di un membro dell’associazione ATCA, firmato ironicamente “Un abitante di Tamezret, villaggio di uomini preistorici”.

L’attivista ricorda la sua prigionia e l’esilio forzato di 30 anni sotto i regimi precedenti (per la sua militanza sindacale), colloca la Tunisia nella Tamazgha al koubra (“lo spazio amazigh transnazionale”) e informa sul recente insegnamento della grafia tifinagh a Tunisi.

Ripristina così la dimensione della civiltà (scrittura, storia) berbera che il giornalista aveva screditato.

Ma la reazione ufficiale, pubblicata sullo stesso giornale filo-islamista la settimana successiva, proviene dal presidente dell’associazione Azrou pour la culture amazigh, Arafat Almahrouk.

Dal villaggio di Azrou, dove Ennahdha ha ottenuto il 70% dei voti alle ultime elezioni, egli afferma che la questione amazigh non è legata ad un’ideologia politica, che è nazionale e che non offende la religione musulmana.

Ed è proprio questa la realtà delle cose a livello locale: non entrare in opposizione diretta con il partito islamista Ennahdha nelle regioni che hanno, d’altronde, aderito alla sua ideologia.      

[Articolo di Stephanie Pouessel, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it]

(1) Dai principali studi sull’argomento, è stato stabilito che rappresentano circa l’1% della popolazione ; un militante amazigh di Tunisi, l’ottobre scorso, ha affermato che i berberi sarebbero in realtà più del 10%. In ogni caso, questa debole percentuale deriva dalla conquista islamica del Maghreb che ha significato l’arabizzazione quasi completa della regione; in aggiunta, dall’indipendenza, la Tunisia registra il più elevato tasso di alfabetizzazione in arabo tra i paesi del Maghreb

(2) Villaggio situato nel sud-est tunisino, regione di Matmata

(3) Uno Cheikh ibadita berbero di Guellala spiega che la lingua berbera è sopravvissuta sull’isola di Djerba grazie alla presenza millenaria del culto ibadita, testimonianza televisiva nel programma “Fissamim” che dedica un servizio alla cultura amazigh, canale Ettounsiya, 2.11.2012.

(4) Regione di Matmata – Tamerzet, Zraoua, Taoujout ; regione di Djerba – Guellala, Sedouikch, Ajim ; regione di Tataouine – Douiret, Guermessa, Chenini.

(5) Salim Al-Hakimi, “man yourid tahrik khouyout al fitna al amazighiya fi tounis ?” (Chi vuole alimentare le divisioni in Tunisia ?), Al Fajer, 16.11.2012, p.9.

Fermare l’orrore delle carceri siriane

logo amnesty 110Dall’inizio della crisi in Siria nel 2011, le autorità siriane hanno sottoposto decine di migliaia di persone a detenzione arbitraria o sparizione forzata. Molte di loro sono state sottoposte a torture o altri maltrattamenti nei centri di detenzione e si riporta che 17.723 siriani siano morti di conseguenza in custodia.

Hajj: un milione di iraniani in pellegrinaggio a Karbala invece che La Mecca

(Asharq al-Awsat). Il ministero degli Interni iracheno ha annunciato che il paese sta accogliendo circa un milione di iraniani nella città di Karbala, considerata sacra dai musulmani sciiti, giunti per il giorno di ‘Arafa, uno dei giorni più importanti del hajj, il grande pellegrinaggio islamico iniziato ieri nella città saudita di La Mecca. Haidar al-Ghurabi, esponente […]

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Cucina tunisina: methawma bel karnit, ragù di polpo all’aglio

Con la ricetta di oggi andiamo in Tunisia, per la precisione a Djerba, per scoprire un piatto tipico della tradizione culinaria dell’isola: methawma bel karnit, ragù di polpo all’aglio! Ingredienti: 1 polpo grande 1 testa d’aglio 1 cucchiaio di passata di pomodoro 2 pomodori da sugo 1 cucchiaio di harissa 1 cucchiaino di coriandolo in polvere […]

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Pakistan/Afghanistan: guerra diplomatica sulla pelle della gente

Che Pakistan e Afghanistan siano ai ferri corti da mesi è noto.  Per Islamabad è cruciale controllare il negoziato coi talebani e assicurarsi un governo amico a Kabul dove invece si amoreggia con Nuova Delhi. Il Pakistan ha ospitato e nutrito dentro le sue frontiere schiere di jihadisti di ogni sorta finché il problema non si è fatto grosso in casa sua e i figliocci pachistani dei talebani afgani han cominciato a far stragi nel Paese dei puri. A quel punto Kabul ha reso pan per focaccia a Islamabad chiudendo un occhio sui paktalebani che si rifugiano oltre confine: l’esempio eclatante e mullah Fazluallh, detto mullah Radio e leader dei paktalebani (Ttp). Si nasconderebbe oltre frontiera in Afghanistan e la cosa rende rabbiosi i pachistani. Kabul dal canto suo sa bene che la Rete Haqqani, la più radicale tra gli afgtalebani, gode da sempre dei buoni uffici di Islamabad: e quando c’era un problema o da chiedere una mano ai Saud in ambasciata, nessuno interferiva nei viaggi dei capi della famiglia nella capitale. Nemmeno un vigile. Gli americani ci mettono del loro: qualche mese fa han fatto secco il capo dei talebani afgani, possibile negoziatore. In più, continuano a bombardare e non solo coi droni. Con un solo risultato: seppellire definitivamente il processo di pace. Morale: pace addio e tensioni alle stelle.

Tutto è iniziato nell’agosto scorso con una camion bomba mai rivendicato che, scoppiando in piena notte ha creato un cratere, profondo dieci metri a Kabul. I circoli più antipachistani han dato fiato alle trombe e il processo negoziale, appena iniziato, si è fermato. Anche il presidente Ghani, più morbido con Islamabad, ha cambiato idea. Poi le cose si sono ulteriormente complicate anche perché l’offensiva talebana, che per gli afgani è roba dei pachistani, si è fatta più violenta e sanguinaria. . Morale della favola, Islamabad tratta con l’Acnur il rimpatrio degli afgani che vivono in Pakistan: son 2,5 milioni, un milione dei quali senza documenti. L’espulsione – cominciata per decreto dopo l’assalto alla scuola militare di Peshawar nel dicembre 2014 – a oggi registrerebbe  quota 245mila. Entro dicembre tutti gli indocumentati  correvano il rischio di essere espulsi, ossia un milione di sfollati in più per un Paese che ne deve sistemare già più di un milione. Ieri però, forse dopo le pressioni dell’Onu, Nawaz Sharif ha fatto sapere che il suo governo ha spostato la deadline a marzo 2017. Tre mesi in più di respiro (è il terzo rinvio: anziché dicembre 2015 la deadline era già stata spostata a giugno 2016 e poi a fine 2016). Vuol dire che invece che 5mila al giorno le espulsioni saranno solo di 2500 persone al dì. Tanti quanti i siriani che affollano la frontiera turca.

A destra Ashraf Ghani, a sinistra il capo
dell’esecutivo Abdullah. Sopra Nawaz Sharif

Kabul comunque non sta con le mani in mano: ieri Ashraf Ghani ha detto che intende bloccare le merci pachistane che transitano dal suo Paese dirette in Asia centrale. Ci mandate a casa i profughi? E allora noi vi blocchiamo le merci. Del resto Islamabad ha bloccato il commercio della frutta dall’Afghanistan. E gli indiani, sempre pronti a mettere il dito nella piaga, hanno offerto di far transitare prugne e melograni… in areo. Qualsiasi prezzo non è troppo alto per dar fastidio a  Islamabad.

Come se ne esce? Non se ne esce per ora. Si può solo sperare che la moratoria venga prolungata e che la comunità internazionale risponda all’appello di Ocha per versare un po’ di denaro e far fronte all’emergenza…. Su tutto ciò aleggia la prossima conferenza di Bruxelles voluta dalla Ue. Di che parleranno? Forse di diritti delle donne, il mantra che non conosce confine (non che non sia giusto ma pare che ormai l’Afghanistan sia solo una questione di burqa). Forse anche di immigrazione. Preoccupati come siamo dalle nuove invasioni di barbari forse possiamo immaginare che un milione di sfollati in più in Afghanistan significherà qualche centomila in più alle porte di case.

Palestina: The day after

mcc43 Il giorno 7 settembre nell’articolo Caldo Autunno in Palestina: elezioni e prospettive di dialogo con Israele esponevamo possibilità e difficoltà riguardo alle prime elezioni congiunte dei Palestinesi e all’iniziativa di Putin per un confronto diretto Mahmud Abbas – Netanyahu. Nel giro di 24 ore: elezioni sfumate e negoziati sabotati da Israele. Le elezioni rimandate Il giorno […]

Palestina: The day after

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Passaggi: “L’autistico e il piccione viaggiatore” di Rodaan Al Galidi

Nel frammento che voglio proporvi questa settimana, vorrei farvi fare conoscenza con Geert, il protagonista dell’affascinante romanzo d Rodaan Al Galidi. Ve lo vorrei far conoscere in un momento molto particolare della sua vita, quando decide di voler smontare e ricostruire il suo primo violino. Quella domenica Geert osservò a lungo le varie parti del violino. […]

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Il Marocco e le lezioni della Primavera Araba

Di Abderrahim Chalfaouat. Middle East Monitor (07/09/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. In Marocco la campagna elettorale per le elezioni legislative del 7 ottobre è in pieno svolgimento. Il Partito dell’Autenticità e Modernità (PAM), sostenuto dalle istituzioni, promette di salvare il paese dal collasso, tentando di cavalcare l’onda dell’opposizione agli islamisti. Un fronte si sta […]

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Fathi Chamkhi: la Tunisia sprofonda nella crisi

Fathi Chamkhi, deputato del Front Populaire Ci sono voluti sei anni, sette governi e un paese in rovina per far sputare finalmente il rospo agli assassini economici: la Tunisia è completamente sprofondata nella crisi. In mancanza di argomenti anche solo minimamente rassicuranti per tunisini annientati e depressi, Youssef Chahed (YC), il nuovo capo del governo, ha sfoggiato la sua giovane […]

Fathi Chamkhi: la Tunisia sprofonda nella crisi

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Fathi Chamkhi, deputato del Front Populaire Ci sono voluti sei anni, sette governi e un paese in rovina per far sputare finalmente il rospo agli assassini economici: la Tunisia è completamente sprofondata nella crisi. In mancanza di argomenti anche solo minimamente rassicuranti per tunisini annientati e depressi, Youssef Chahed (YC), il nuovo capo del governo, ha sfoggiato la sua giovane […]

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Fathi Chamkhi, deputato del Front Populaire Ci sono voluti sei anni, sette governi e un paese in rovina per far sputare finalmente il rospo agli assassini economici: la Tunisia è completamente sprofondata nella crisi. In mancanza di argomenti anche solo minimamente rassicuranti per tunisini annientati e depressi, Youssef Chahed (YC), il nuovo capo del governo, ha sfoggiato la sua giovane […]

Bambini sotto tiro nel mondo e in Afghanistan. E i talebani smentiscono l’attacco a Care International

Un altro milione di sfollati afgani nel 2016. L’Onu lancia l’allarme per un’emergenza annunciata. A rischio la vita di 120mila bambini. Quelli in fuga nel mondo, dice Unicef, sono 50 milioni, la metà da Irak e Afghanistan. I talebani smentiscono di aver attaccato la Ong “Care”

C’è un’emergenza profughi anche nella guerra ormai semi nascosta che si combatte in Asia centrale. Una guerra che miete vittime ogni giorno ma ormai uscita dalla lettura mainstream e senza quasi più copertura mediatica. Eppure, dice l’Onu, c’è di che preoccuparsi: entro la fine dell’anno in Afghanistan ci saranno un milione di nuovi profughi e ogni giorno 5mila attraversano la frontiera pachistana preparando una delle più pericolose e sofferte emergenze umanitarie del 2016. Tra loro molti bambini, parte rilevante di un esercito, spiega l’Unicef, che conta nel mondo 50 milioni di piccoli profughi che in gran parte sono afgani. E sul fronte umanitario di notizia ce n’è anche un’altra: i talebani hanno scritto sul loro sito che non volevano colpire Care International, la cui sede a Kabul è stata sventrata da un’esplosione lunedi notte, ma che l’obiettivo era un centro militare. L’Ong fu quindi un “danno collaterale”.

Nel suo ultimo rapporto su bambini e adolescenti “sradicati” il Fondo dell’Onu per l’infanzia spiega che quasi 50 milioni di ragazzi e bambini hanno attraversato frontiere o han dovuto sfollare a causa di conflitti. E’ un calcolo “prudente” dice un rapporto che segnala come 28 milioni di ragazze e ragazzi di età compresa tra o e 18 anni abbiano dovuto scappare da violenza e insicurezza, mentre altri 20 milioni – accompagnati o soli – hanno comunque dovuto abbandonare le loro case: «Possono essere rifugiati, sfollati interni o migranti – scrive Unicef – però, prima di tutto, sono bambini: senza eccezione e senza che sia importante chi siano e da dove vengano». Nel 2015 la maggior parte dei bambini in fuga proveniva da dieci Paesi ma il 45% di tutti quelli sotto mandato dell’Acnur hanno origine da soli due Paesi: Siria e Afghanistan. Della Siria siamo abbastanza consci. Dell’Afghanistan assai meno. E mentre scatta l’ennesima idea di muro per far fronte a 9mila migranti a Calais, ogni giorno alle frontiere afgane si affacciano 5mila persone che la nuova politica pachistana sta cacciando dal Paese dove, dall’invasione sovietica, si sono installati 2,5 milioni di afgani, un milione dei quali senza documenti.

L’allarme l’ha lanciato mercoledi a Kabul il sottosegretario generale per gli Affari umanitari (Ocha) Stephen O’Brien che ha chiesto alla comunità internazionale un intervento urgente in Afghanistan per far fronte a quello che si pensa sarà presumibilmente il numero degli sfollati interni e di quelli che attraversano la frontiera col Pakistan entro la fine dell’anno: un milione di persone. L’inverno ha detto O’Brian rischia di vedere centinaia di famiglie esposte con un flusso dalla frontiera pachistana che è di 5mila persone al giorno (già 245mila dall’inizio del 2016). La richiesta è di uno stanziamento di almeno 150 milioni di dollari per far fronte all’emergenza di «gente che ha perso casa e armenti, vive nelle tende e non è in grado di sfamare i suoi figli». I nuovi arrivati si aggiungono alla fila che conta già oltre un milione di sfollati interni in una situazione in cui 2,7 milioni di persone sono malnutrite: fra questi ci sono un milione di bambini sotto i 5 anni. Il rischio è che quest’anno si chiuda con un bilancio di oltre 120mila tra loro morti per fame.

Intanto è arrivata la smentita dei talebani sull’azione di commando che lunedi notte ha semidistrutto un ufficio di Care a Kabul: alcuni militanti armati, con l’aiuto di un autobomba, avevano preso d’assalto Sharenaw, area della città dove hanno sede ambasciate e Ong, sventrando diverse strutture. Care aveva messo le mani avanti sostenendo che a loro avviso l’obiettivo era altro e i talebani hanno chiarito che il target era «un centro di intelligence militare gestito dall’ex capo dell’intelligence dell’amministrazione di Kabul nella quale ha sede anche una branca dello spionaggio straniero… la Ong ha sede in una strada della zona militarizzata e dunque non aveva nulla a che vedere col piano. L’obiettivo – scrivono – non era Care International cosa che peraltro Care aveva già detto indicando che il target era un compound accanto al loro ufficio». Vero o falso che sia, la guerra afgana è anche una guerra di bugie visto che per il ministero degli Interni l’obiettivo era senza dubbio Care anche se la Ong aveva smentito. I talebani hanno polemizzato anche con Amnesty, accusata per il il suo comunicato contro l’azione di lunedi definita un “crimine di guerra” seguendo, dicono i talebani, «le fantasie dell’ambasciata americana». Amnesty però ha chiesto anche un’indagine indipendente che chiarisca le responsabilità anche se purtroppo questo genere di inchieste, sempre invocate (come nel caso del bombardamento dell’ospedale di Kunduz), non vengono mai messe in opera. La guerra (ieri i talebani han preso la capitale della provincia di Uruzgan, Tarinkot) con le sue ombre, i pelosi distinguo, la violazione costante di ogni regola finisce per appiattire un paesaggio dove le prime a pagare sono le vittime civili e i loro diritti.

Questione di veli

Di Emanuela Barbieri. Osservatore Romano (05/09/2016) È incredibile come un semplice pezzo di stoffa sia in grado di scuotere tanto la sensibilità e gli umori occidentali. La polemica estiva nata sulle spiagge francesi intorno al burqini, estesasi poi al resto d’Europa, altro non è se non una diramazione di un dibattito più vasto: il copricapo femminile. Gente […]

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Non c’è onore tra i leader di colpi di Stato, Generale El Sisi

Di Basheer Nafi. Middle East Eye (06/09/2016). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini In un raro momento di sincerità, il presidente El Sisi ha fatto riferimento alla saggezza della generazione di golpisti venute prima di lui. Ha detto: “Il combattente onorevole non cospira contro il suo presidente né trama per rovesciarlo.” In effetti, l’onore del combattente […]

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Una bambola di carta nell’inferno della guerra di Cecenia

mcc43 “C’era una bambina, stringeva una bambola di carta, qualcosa che qualcuno aveva fatto per lei. Il mio amico gli chiede cosa fosse. Lei la solleva per farcela vedere, ma la bambola le sfugge di mano e si infila dentro un buco dove la strada bombardata sprofonda nella fogna. Lui si mette in ginocchio, si sporge più […]

Afghanistan, un milione di sfollati entro l’anno

In questa vecchia stampa il passo di
Bolan, l’ingresso meridionale dal Pakistan 

Il dovere di un giornalista dovrebbe essere quello di dare se possibile l’idea di quel che in futuro potrebbe accadere e non solo di limitarsi ad osservare quanto accade nell’ultima ora. Così che vale credo la pena di riferire quanto ha detto il sottosegretario generale per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi d’emergenza dell’Onu, Stephen O’Brien, in visita a Kabul mercoledi scorso. Ha invitato la comunità internazionale a considerare con urgenza il sostegno per oltre un milione di sfollati che presumibilmente, tra gente all’interno del Paese e altri che ne arrivano dal Pakistan (5mila al giorno!),  si potranno contare in Afghanistan entro la fine dell’anno.

 O’Brien ha chiesto 150 milioni di dollari per aiuti di emergenza. Mentre a Calé si pensa all’ennesimo muro per 9mila disperati in cerca di fortuna, laggiù tra le pietre asiatiche ce ne saranno un milione entro dicembre.

* Scarica da qui il rapporto dell’Unicef sui 50 milioni di bambini in fuga

L’assenza della politica nel mondo arabo

Di Khalil al-Anani. Al-Araby al-Jadeed (06/09/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. La storia del mondo arabo è segnata da regimi militari che hanno eliminato la politica e i suoi rappresentanti. Le società arabe non hanno retto a decenni di violenza e le conseguenze sono la guerra civile in Siria e la violenza di Stato in […]

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Caldo Autunno in Palestina: Elezioni e prospettiva di negoziati con Israele

mcc43 ANNO: Tre tentativi di ripresa del dialogo fra Israeliani e Palestinesi. AUTUNNO: Palestinesi al voto amministrativo in Gaza, West Bank, Gerusalemme. Possibile incontro di Mahmoud Abbas e Benjamin Netanyahu, convocati da Vladimir Putin.   *** Ripresa del dialogo Palestinesi e Israeliani Palestinesi e Israeliani non siedono a un tavolo di trattative per la pace dal […]

Quando si inverte lo sguardo

Ad approdare siamo noi. Ad aiutarci sono loro. Mani che cercano aiuto. Mani che si tendono, senza paura. E’ successo a Marsala, simbolicamente. Grazie a Istantanee, un’associazione culturale che è riuscita – con la giusta passione – a mettere assieme tutti, indistintamente. Ci sono stati racconti duri e commoventi, nessuna retorica, e un tramonto imperdibileRead more

Quando si inverte lo sguardo

Ad approdare siamo noi. Ad aiutarci sono loro. Mani che cercano aiuto. Mani che si tendono, senza paura. E’ successo a Marsala, simbolicamente. Grazie a Istantanee, un’associazione culturale che è riuscita – con la giusta passione – a mettere assieme tutti, indistintamente. Ci sono stati racconti duri e commoventi, nessuna retorica, e un tramonto imperdibileRead more

Egitto, la app per segnalare gli arresti. “Frequenti detenzioni arbitrarie e processi farsa”

Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha […]

L’articolo Egitto, la app per segnalare gli arresti. “Frequenti detenzioni arbitrarie e processi farsa” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Egitto, la app per segnalare gli arresti. “Frequenti detenzioni arbitrarie e processi farsa”

Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha […]

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Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha […]

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Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha […]

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Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha […]

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Il suq di Homs riemerge dalle rovine della guerra

(Agenzie). Nel cuore della città siriana di Homs, si lavoro per ripulire il vecchio mercato sventrato dalla guerra per ripristinare il suo antico splendore. La maggior parte della città vecchia era in macerie quando, nel 2014, è tornata sotto il controllo del regime dopo due anni di assedio e bombardamenti e un accordo con le forze […]

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La situazione in Yemen e Iraq

Di Rashid Saleh al-Araimi. Al-Hayat (05/09/2016). Traduzione e sintesi di Federico Seibusi. L’incontro tra il premier e il ministro degli Esteri iracheni con gli Houthi rappresenterebbe un tentativo per sostenere la natura settaria che caratterizza l’area, appoggiata dall’Iran. In realtà questa è una falsificazione, in quanto il confronto nella situazione yemenita non è fra sciiti e […]

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Erdogan e il ritorno dei rifugiati in Siria

Di Jihad al-Khazen. Al-Hayat (05/09/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Cascone. Forse mi sbaglierò, o meglio, spero di sbagliarmi, ma sono persuaso che il “sultano” Recep Tayyip Erdogan ha intenzione di sgomberare una zona nel nord della Siria, al confine con la Turchia, per farvi ritornare i rifugiati siriani residenti in Turchia, di cui la […]

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Bombe a Kabul e la difficoltà dello spazio umanitario

Come se i morti non bastassero – almeno una trentina lunedi più almeno uno nella notte tra lunedi e martedi oltre ai guerriglieri suicidi o uccisi e a un centinaio di feriti – c’è anche un giallo nell’ennesimo attacco suicida che costella ormai la quotidianità della capitale afgana. Un giallo sull’obiettivo e, ancora una volta, un problema che riguarda l’azione militare e lo spazio umanitario*.

Il primo attacco dei talebani a Kabul è di lunedi quando per l’ennesima volta la guerriglia cerca di colpire il ministero della Difesa. In quella che per il sito degli islamisti è una vittoria che avrebbe un bilancio di 58 agenti delle forze di sicurezza uccisi (poi la notizia è scomparsa ieri misteriosamente dal website dell’emirato), la carneficina soprattutto di civili si conclude con almeno una trentina di vittime. Ma non era l’unica azione prevista, benché per la seconda non vi sia ancora una rivendicazione scritta. Alcuni militanti armati, con l’aiuto di un autobomba, prendono d’assalto Sharenaw, la zona della città dove hanno sede le ambasciate e molte Ong che lavorano nel Paese (in quella zona c’è anche l’ospedale di Emergency). L’esplosione sventra un edificio. Poi comincia un vero e proprio assedio che si conclude solo il giorno seguente. Il giorno seguente perché l’attacco avviene di notte (il che segna una novità poiché gli attentato notturni sono rari) e quando la città pensa che forse per questa giornata di lunedi la guerra nella capitale sia finita. Il ministero degli Interni non ha dubbi: il colpo da assestare, che fortunatamente produce una sola vittima, è la Ong Care, che nella zona colpita ha una sede della sua rete internazionale in Afghanistan. Ma dopo un po’ l’organizzazione smentisce, sostenendo che il probabile target poteva invece essere un ufficio governativo situato a ridosso della sede umanitaria. La cosa fa una bella differenza e per ora la rivendicazione che viene citata da alcuni siti Internet non chiarisce quale fosse l’obiettivo. Se fossero gli attivisti di un’organizzazione umanitaria la cosa avrebbe un peso diverso che non se si fosse trattato di un obiettivo governativo. Non sarebbe la prima volta che gli umanitari entrano nel mirino, ma solitamente i talebani colpiscono solo gli afgani “collaborazionisti” (e di solito nelle aree periferiche) oppure attaccano obiettivi militari contigui facendo danno ad altre strutture (e potrebbe essere questo il caso) o ancora colpiscono umanitari per errore (famoso il caso di alcune cooperanti uccise mentre viaggiavano a bordo di auto bianche di solito in uso agli umanitari che però la Nato continua a usare benché proprio un comandante italiano di Isaf, anni fa, ne avesse vietato l’utilizzo proprio per evitare spiacevoli errori).

Care, in un comunicato successivo, punta l’indice sulla guerra e sulla difficoltà di operare in uno spazio umanitario sempre più ristretto e rischioso. “Secondo le Nazioni Unite – scrive l’organizzazione umanitaria nel suo cominciato – più di 5.100 civili sono stati uccisi o mutilati a causa del conflitto in atto nella sola prima metà del 2016… Oltre otto milioni di persone in Afghanistan hanno bisogno di assistenza umanitaria: soffrono di malnutrizione, hanno un sistema sanitario a pezzi mentre la maggior parte degli sfollati sono donne e bambini… Lo spazio umanitario è diventato molto più rischioso in questi ultimi anni, soprattutto nelle zone in cui vi è un conflitto intenso. Nonostante questo – continua Care che opera nel Paese da cinquant’anni – siamo desiderosi di riprendere il lavoro importante che stiamo facendo in Afghanistan il più presto possibile. Detto questo, siamo fortunati perché nessuno fra noi è stato ferito in modo grave o peggio, e come organizzazione continuiamo a sottolineare che una linea rigorosa deve essere osservata tra le operazioni umanitarie e quelle militari”. Un vecchio problema, uno fra i tanti della guerra che non finisce mai e mentre a Kabul i vertici del governo continuano a litigare. Se ne sono accorti anche gli americani, gli artefici del papocchio istituzionale benedetto dal ministro Kerry che “governa” a Kabul (due presidenti invece di uno): qualche giorno fa il Washington Post ha scritto questo titolo: “L’Afghanistan ha molti problemi. Il suo presidente potrebbe essere uno di questi”… I talebani sembrano approfittarsene e anche Daesh è riuscita a fare la sua apparizione nella capitale (con l’attentato che ha ucciso un’ottantina di hazara sciiti che manifestavano in centro). E per i talebani è ancora l’Operazione “Omari”, dedicata a mullah Omar e al capo talebano che lo ha sostituito – mullah Mansur – ucciso da un drone americano in Pakistan la primavera scorsa. Un gesto che ha dato nuovo vigore alla guerra e assestato un ennesimo deciso colpo al processo di pace. Per ora morto e sepolto.

*Mentre scrivo, dall’Italia, la giornalista Laura Cesaretti (da Kabul) avverte di un nuovo attentato una volta aclato il buio. Il terzo dunque in due giorni

“Ballando con Averroè” di Toni Maraini

toni-110“Ancora una che ha scoperto le bellezze di Marrakech e che ci parlerà dei suq, della luce, dei colori, dei profumi e dei rumori della vecchia medina…” Invece fui piacevolmente sorpreso. La persona che scopriì quella sera era tutto tranne una turista in cerca di esotismo. E il libro era tutt’altro che un raccolta di cartoline.

“Ballando con Averroè” di Toni Maraini

toni-110“Ancora una che ha scoperto le bellezze di Marrakech e che ci parlerà dei suq, della luce, dei colori, dei profumi e dei rumori della vecchia medina…” Invece fui piacevolmente sorpreso. La persona che scopriì quella sera era tutto tranne una turista in cerca di esotismo. E il libro era tutt’altro che un raccolta di cartoline.

“Ballando con Averroè” di Toni Maraini

toni-110“Ancora una che ha scoperto le bellezze di Marrakech e che ci parlerà dei suq, della luce, dei colori, dei profumi e dei rumori della vecchia medina…” Invece fui piacevolmente sorpreso. La persona che scopriì quella sera era tutto tranne una turista in cerca di esotismo. E il libro era tutt’altro che un raccolta di cartoline.

La bella platea di Rovereto al Festival Oriente Occidente

Rovereto

Quando vado in giro per l’Italia a parlare di conflitti, morte e dolore non mi aspetto mai platee piene. L’argomento non è molto sexy e la televisione, la cultura dominante di questo Paese, ci ha abituati che l’intrattenimento è meglio. Così che ieri a Rovereto, a un incontro promosso da Oriente Occidente (festival arrivato alla 36ma edizione!) ho trovato una piacevole sorpresa. All’incontro, organizzato per il Festival da Raffaele Crocco (il direttore dell‘Atlante delle guerre) c’erano circa 180 persone! Venute ad ascoltare un tema già ostico in sé e presentato come ancora più ostico: “Cos’è cambiato nella guerra? Non si combatte più tra eserciti ma “in mezzo alla gente”, tra coalizioni di Stati con mostrine unificate e combattenti senza divisa ma forti in termini ideologici. Alla radici – dicevamo sull’invito – ci sono antichi problemi irrisolti: il retaggio neo coloniale, le ingiustizie sociali, una vaga idea di riscatto nazionale che producono lo scoppio di tensioni latenti in cui si inserisce la criminalità organizzata, la devianza ideologica estremista, le manovre di gruppi di potere politico d economico. Le guerre moderne, al contrario di quelle convenzionali, tendono a trascinarsi. A iniziare ma a non terminare. A fingere successi che non sono reali. E a farci abituare alla guerra come a una delle tante forme della quotidianità moderna. La guerra richiede forse dunque un ripensamento: quanto è utile? quanto hanno senso le alleanze regionali? perché abbiamo deciso che l’Onu non serve? perché rinunciamo a priori a studiare strumenti di pacificazione e dialogo?”. Direi che ce n’era abbastanza per rifuggire tema e relatori. E invece…

Sun Tsu

L’abbiamo presa alla larga cominciando da definizioni possibili: non più ormai quella famosa e contenuta in “Della Guerra” di Carl Von Clausevitz (“E’ la continuazione della politica con altri mezzi”) ma passando in rassegna i conflitti del supposto periodo di pace che si chiama “Guerra fredda”: gli eserciti di liberazione nazionale, la nascita delle guerre asimmetriche o delle “guerre tra la gente”, definizione che si deve al militare britannico Rupert Smith nel suo “L’arte della guerra nel mondo contemporaneo”, dove sostiene che la guerra degli eserciti in divisa è stata sostituita da quella che egli chiama “guerra fra la gente”,  in cui il campo di battaglia è  costituito dalle strade, dalle case e, soprattutto, dalla popolazione civile, come è avvenuto in Cecenia, Jugoslavia, Medio Oriente, Ruanda… Ovunque. I civili diventano ostaggi da sfruttare, scudi umani da utilizzare senza scrupoli, bersagli da colpire, obiettivi da conquistare, in un nuovo paradigma bellico che ha minato la possibilità di un uso efficace della forza da parte degli Stati e dunque degli eserciti, non più  in grado di ottenere risultati. Abbiamo ricordato anche la “Guerra senza limiti”, saggio scritto dai  colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, eredi della tradizione che discende dal famoso “L’arte della guerra” di Sun Tzu.  Quella che descrivono è una  guerra condotta attraverso le manipolazioni dei media, le azioni di piraterie su Internet, le turbative dei mercati azionari o la diffusione di virus informatici. Guerre senza confini appunto, altro tema toccato (i confini post coloniali).

E poi ancora, le guerre nascoste, quelle dei droni e delle  truppe speciali, presenti anche in missioni “non combat”. Il tutto rigorosamente segreto. E poi il business della guerra col famoso esempio, a me caro, dell’acqua minerale. L’esempio è afgano: quando sul terreno c’erano circa 140mila soldati, ognuno di loro beveva forse una  una media di tre litri di acqua al giorno. Acqua in bottiglia, si intende. E che per tutela dei soldati deve provenire da un luogo sicuro, di solito da oltre confine. E se 420mila litri sono il fabbisogno quotidiano di acqua potabile dei militari, ciò significa che in Afghanistan, ogni anno, dovevano entrare qualcosa come 15 milioni di litri di acqua minerale (oggi si è ridotto a un decimo). Quante bottiglie ci vogliono per contenerla? E quanti camion per trasportarla? Il conto non è finito. Dietro ogni soldato c’è un folto personale a contratto che non è in divisa ma che lavora per lui. Ci sono cuochi, addetti alle pulizie, operatori della sicurezza, i cosiddetti contractor: americani, britannici, sudafricani, israeliani, filippini, tailandesi e, per quasi l’80%, anche personale locale. Soldati anche loro pur se non in divisa.

E se dietro ogni soldato c’è un uomo o due, dietro tutti loro ci sono pasti caldi, divise, stringhe per le

Carl Von Clausewitz

scarpe, spazzolini. Tutto materiale che arriva da fuori: dal dentifricio alle zucchine. Quanti camion fa marciare la guerra considerato che l’acqua la bevono anche loro?  In altre parole, se foste un produttore di acqua minerale, vorreste la fine della guerra?  Ma oltre a questo aspetto, ce n’è un altro. Questo lato oscuro e poco noto del conflitto, paradossalmente, oltre che alimentare una macchina economica milionaria,  nutre la guerra stessa. E nutre gli stessi nemici che l’esercito straniero è venuto a combattere. La guerra in Afghanistan finanzia i talebani con l’acqua minerale perché per ogni camion che passa la frontiera pachistana nel Sud, terra talebana, si paga una mazzetta di 800-1000 dollari alla guerriglia perché non attacchi i convogli e il nemico possa bere…

La guerra costa cara. In termini di vite umane soprattutto. E soprattutto di vittime civili. In Iraq, dove tra il 2003 e il 2012 sono morti poco più di 4mila militari (soprattutto americani), il conteggio delle vittime civili oltrepassava allora le 100mila unità. Oggi, contando i combattenti, siamo a oltre 250mila.  In Afghanistan (oltre 50 morti tra i militari italiani), ogni anno moriva invece una media di oltre 2mila civili innocenti anche se, secondo i rapporti dell’United Nation Assistance Mission in Afghanistan (Unama), le vittime civili  sono salite nel 2011 a 3021 (erano  2790 nel 2010 e  2412 nel 2009). Nel 2015 il costo è ancora più elevato: 11.002 civili colpiti (3545 morti e 7457 feriti. Sempre di più. Ma la guerra non era finita?

Abbiamo toccato molti temi e, dal pubblico, c’è chi aggiunto altre riflessioni davvero interessanti manifestate dal desiderio di “poter fare qualcosa”. Non so se anche la serata di ieri sia “fare qualcosa” ma penso di si. Per me è stata un’iniezione di fiducia nel mio lavoro: per farlo meglio, per continuare a raccontare cosa accade quando i riflettori delle telecamere si allontanano. Grazie!

Tutti contro Fatah in Palestina

Di Ahmad Saqr. Arabi21 (04/09/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina. Jibril Rajoub, un alto funzionario di Fatah, ha preso in giro su un canale televisivo egiziano i cristiani della comunità palestinese che votano per Hamas. Li ha definiti infatti come “la comunità del Buon Natale”. Il Movimento di Resistenza Islamico (Hamas), il Fronte Popolare per la […]

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Libano: la settimana si apre con la prospettiva di due sessioni parlamentari sterili

L’Orient le Jour (05/09/2016). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini. Lo stallo politico in Libano non accenna a migliorare. Dopo una sessione di dialogo nazionale e in prossimità della 44ª seduta parlamentare, infatti, l’elezione di un capo di Stato sembra ancora molto lontana. I libanesi non si fanno più troppe illusioni sulle possibilità di uno […]

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Le Mamme dell’Egitto e il “latte dell’esercito”

mcc43 “Non stiamo parlando di pomodori o di bibite, è il cibo dei nostri bambini”  gridano le madri ai poliziotti in assetto antisommossa, schierati a difesa dell’azienda statale Egyptian Pharmaceutical Trading Company. Già da qualche settimana risultava difficile reperire alcuni tipi di medicinali, ma quando la penuria ha colpito il  latte in polvere destinato ai […]

Elezioni locali palestinesi tra il sostegno e opposizione

Di Adel Shadid. Al-Araby al-Jadeed (03/09/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo. In questi giorni assistiamo al fermento che pervade la Cisgiordania e la Striscia di Gaza dovuto alle elezioni locali del prossimo 8 ottobre. Da poco sono scaduti i termini per la presentazione delle liste elettorali. Anche se queste elezioni non sono considerate determinanti per le […]

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Rompere gli stereotipi in un campo palestinese a Beirut

Qualche settimana fa a Beirut ho conosciuto Ashraf El Chouli, musicista palestinese che nel campo di Bourj el Barajneh, a sud della capitale libanese, ha aperto un centro culturale per favorire l’incontro tra libanesi e palestinesi. Sono andata a vederlo, e dalla mia chiacchierata con lui è nato questo articolo che è uscito su Internazionale la … Continua a leggere Rompere gli stereotipi in un campo palestinese a Beirut

Guerre moderne al Festival Oriente Occidente di Rovereto

Guerre moderne. Visibili, invisibili, calcolate. Dai talebani a Daesh, dalla guerra al terrore all’abitudine alla guerra

Cos’è cambiato nella guerra? Non si combatte più tra eserciti ma “in mezzo alla gente”, tra coalizioni di Stati con mostrine unificate e combattenti senza divisa ma forti in termini ideologici. Alla radici di sono antichi problemi irrisolti: il retaggio neo coloniale, le ingiustizie sociali, una vaga idea di riscatto nazionale che producono lo scoppio di tensioni latenti in cui si inserisce la criminalità organizzata, la devianza ideologica estremista, le manovre di gruppi di potere politico d economico. Le guerre moderne, al contrario di quelle convenzionali, tendono a trascinarsi. A iniziare ma a non terminare. A fingere successi che non sono reali. E a farci abituare alla guerra come a una delle tante forme della quotidianità moderna. La guerra richiede forse dunque un ripensamento: quanto è utile? quanto hanno senso le alleanze regionali? perché abbiamo deciso che l’Onu non serve? perché rinunciamo a priori a studiare strumenti di pacificazione e dialogo?

E ancora dunque. Come prevenirle? quali nuove forme di diplomazia, di coinvolgimento della società civile, di alleanze tra comunità diverse mettere in campo?

E infine: le migrazioni – che tanto ci affannano: non sono, oltre al prodotto della guerra, anche l’esplosione di quelle tensioni irrisolte che alla guerra hanno portato?

Lunedi alle 18  incontro con Raffaele Crocco per parlare di conflitti al Mart di Rovereto

La politica del fumo nel Medio Oriente di oggi

Di Khaled Alaswad. Your Middle East (20/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuela Barbieri. Tra tutti i divieti totalitari imposti da Daesh, quello del fumo è tra quelli che più evidenzia le dissonanze interne del gruppo. Le numerose immagini dei falò che bruciano le sigarette e l’alcol sequestrati, condivise on-line dal gruppo stesso, dà un senso viscerale […]

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Quei ragazzi tunisini partiti per la Siria, e le loro madri

f-alep-110Nel nuovo film di Ridha Behi, Fleur d’Alep, presentato recentemente alle Journées Cinématographiques de Carthage, la Tunisia fa i conti con il crescente fenomeno dei foreign fighters: ragazzi partiti dalla Tunisia per unirsi allo Stato Islamico. E racconta le madri, che non si arrendono a una radicalizzazione che contraddice i valori su cui hanno fondato le loro vite.

Quei ragazzi tunisini partiti per la Siria, e le loro madri

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Quei ragazzi tunisini partiti per la Siria, e le loro madri

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Festival Giornalisti del Mediterraneo a Otranto: al via il 6 settembre

OTRANTO (Le) – Tutto pronto per il Festival Giornalisti del Mediterraneo in programma a Otranto dal 6 all’11 settembre prossimi. Decretato il vincitore assoluto della 8° edizione: è Mimmo Lombezzi di Mediaset che, con un documentario degno del grande cinema realistico, ha raccontato e mostrato dal cuore di Gerusalemme l’intifada dei coltelli, vissuta da lui in […]

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Cucina libanese: labaniyet al-burghul

Con la ricetta di oggi vi proponiamo un piatto della tradizione libanese, salutare, rinfrescante ed estremamente facile da preparare: il labaniyet al-burghul, burghul in salsa di yogurt! Ingredienti: 300g di burghul (preferibilmente integrale) 4 spicchi d’aglio 300/400g di yogurt bianco al naturale una manciata di pinoli olio d’oliva o burro 1 cucchiaino di melassa di melograno […]

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Il prezzo che la Turchia deve pagare per un compromesso in Siria

Di Lina Khatib. Al-Hayat (01/09/2016). Traduzione e sintesi di Laura Cassata. È passato quasi un anno dall’inizio della campagna militare russa in Siria e solo adesso inizia a intravedersi una nuova fase del conflitto siriano, nella quale la Turchia si trova in prima linea. La posizione turca all’interno del conflitto si è trasformata lentamente, avvicinandosi […]

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Duplice attentato in Pakistan: con Al Qaeda o Daesh?

Un duplice attacco suicida in Pakistan nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan, ha segnato ieri l’ennesima giornata di violenza nel Paese dei puri. Entrambi gli attacchi, il cui bilancio è sinora di 13 morti tra poliziotti e civili oltre a diverse decine di feriti, ha preso di mira una corte di giustizia a Mardan, distretto a una cinquantina di chilometri da Peshawar. E nei sobborghi della capitale provinciale, poco prima, era stata presa di mira una Christian Colony, una comunità di cristiani. Tutti e due gli attentati – condotti da kamikaze armati – portano la stessa firma: Jamaat ul-Ahrar, un gruppo jihadista a geometria variabile che si è staccato nel 2014 dal cartello madre dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan o Ttp) per poi farvi ritorno nel 2015. Aveva espresso il suo sostegno a Daesh e al progetto del Grande Khorasan che dovrebbe segnare l’espansione a Est del califfato di Raqqa.


La strage di Mardan si deve a un uomo solo che prima ha lanciato una granata e poi si è fatto esplodere davanti alla corte di giustizia quando, fatto segno dei colpi della polizia, ha capito che non sarebbe riuscito a entrare nel tribunale. Tra i 13 morti ci sono tre poliziotti e quattro avvocati. I feriti sono oltre una quarantina. Il quotidiano pachistano “The Dawn” fa notare che il mese scorso 73 persone sono state uccise da un kamikaze all’Ospedale civile di Quetta (capitale della provincia occidentale Belucistan) e che la maggior parte tra loro erano avvocati che si erano ritrovati al nosocomio per rendere omaggio a Bilal Anwar Kasi, presidente dell’associazione provinciale degli avvocati (Balochistan Bar Association), vittima a sua volta di un omicidio. Anche l’attacco di Quetta, come i due odierni, era stato rivendicato da Jamaat ul-Ahrar e nel contempo da Desh.

La tentata strage alla Christian Colony di Peshawar si è invece conclusa con  la morte del laico cattolico Samuel Masih, il ferimento di  alcuni agenti e la morte dei quattro kamikaze (che si sono fatti esplodere), entrati all’alba nella zona dove vivono i cristiani, una sorta di ghetto abbastanza comune nelle città pachistane e spesso di recente costruzione: quartieri nati per paura di persecuzioni, delle leggi sulla blasfemia e per gli attacchi a chiese o luoghi di ritrovo messi in atto da gruppi settari. Ma, secondo la stampa locale, questa volta non erano i cristiani l’obiettivo del commando: la Christian Colony si trova alla periferia di Peshawar dove sono situati anche un centro di formazione, un istituto per cadetti e una scuola dell’esercito. Scoperti dall’intelligence e con la polizia alle calcagna, i militanti avrebbero optato per un obiettivo vicino e più semplice da colpire. La dinamica dell’attacco (sventato) ricorderebbe quella avvenuto il 16 dicembre 2014 in una scuola militare di Peshawar come ritorsione contro l’operativo Zarb-e-Azb* e nel quale un commando del Ttp fece una massacro tra gli studenti che si concluse con un bilancio di 141 vittime (Umar Naray, l’ideatore della strage di Peshawar del 2014 e di quello alla Bacha Khan University nel gennaio 2016 è stato poi ucciso da un drone).

Quanto alla Jamaat ul-Ahrar, il gruppo che ha rivendicato gli attentati, la sua posizione è controversa. Inizialmente si è scisso nel 2014 dal Ttp accusato di aver sposato una fallimentare linea negoziale col governo. I suoi leader, tra cui l’ex portavoce del Ttp, hanno in seguito dato il loro sostegno a Daesh (anche se non gli hanno giurato bay’a, fedeltà) ma nel 2015 il gruppo ha poi reso noto di essere rientrato nei ranghi del Ttp, conservando però l’etichetta. Riconoscendo dunque nuovamente come leader mullah Fazlullah, che non ha mai aderito a Daesh ed è semmai vicino ad Al Qaeda (nemico giurato dello Stato islamico) e che si troverebbe in Afghanistan uccel di bosco.

*Zarb-e-Azb è un’operzione lanciata nel 2014 allo scopo di colpire le basi jihadiste nelle aree tribali. Secondo l’esercito avrebbe eliminato 3500 militanti mentre sarebbero morti 537 soldati. Ha prodotto un milione di sfollati.

Trentasei anni fa a Beirut: una (brutta) storia italiana

Italo Toni in una foto di Fausto Giaccone

Il 2 settembre 1980, i due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella de Palo, scomparvero nella Beirut della guerra civile. Una storia italiana ancora coperta dal segreto di Stato. Un racconto per Wikiradio

Beirut, primo settembre 1980. Due giornalisti italiani si recano alla nostra ambasciata nella capitale libanese e confidano a un diplomatico di avere l’indomani, 2 settembre, un appuntamento con uomini del Fronte democratico per la Liberazione della Palestina. Sono preoccupati: «Se tra tre giorni non siamo rientrati in albergo, date l’allarme». Il giorno dopo, un’auto li preleva all’hotel Triumph, a Beirut Ovest. Non è chiaro di chi sia quell’auto; non lo sanno nemmeno Italo Toni e Graziella De Palo, i due reporter che da quel viaggio non faranno mai più ritorno. A 36 anni dalla loro scomparsa, i loro corpi non sono mai stati trovati e non si sa chi li andò a prendere né perché. Sono il simbolo di una delle storie più controverse del nostro Paese dove il segreto di Stato, omissioni, connivenze, servizi segreti e interessi si mescolano in un gioco delle ombre che né le inchieste giudiziarie né le indagini di colleghi e parenti hanno mai saputo completamente spiegare e dalle quali emergono solo spezzoni di verità.

Agenda rossa

I due giornalisti sono partiti per il Libano per continuare a lavorare sulle loro inchieste: Graziella è una specialista di traffico d’armi. Italo è un giornalista cui le redazioni vanno strette: ci rimane qualche mese al massimo, poi deve andare. E’ già diventato famoso per un’inchiesta sui campi d’addestramento palestinesi che, con le foto di Fausto Giaccone, è apparsa su Paris Match facendo il giro del mondo. E’ un filopalestinese militante che mescola il lavoro alla passione politica. Il Libano sembra il luogo ideale per entrambi. Nicola De Palo, cugino di Graziella e che ha ricostruito l’intera vicenda in un libro, ci restituisce parte della progettazione del viaggio attraverso il diario della giornalista che a un certo punto riappare. Scrive in “Omicidio di Stato” (Armando Curcio editore): «La sua agenda rossa è preziosa testimonianza dei preparativi: sulla pagina del 16 maggio appare l’abbozzo di una cartina geografica con una misteriosa freccia che parte dal Medio oriente e va verso la penisola greca e italiana… ».

Cosa voleva dire per Graziella quella freccia? Era un’esperta di traffico d’armi e Beirut è una delle grandi piazze di quel traffico. Armi che vanno e vengono. Anche da e per l’Italia. Era questo il motivo che l’aveva spinta a seguire Toni in Libano? Alvaro Rossi, un parente di Italo cui ha dedicato il libro “Il caso Toni De Palo” e un sito  traccia questo profilo del giornalista: «Era nato a Sassoferrato nel 1930 da una famiglia apprezzata di artigiani del ferro. Ma lui ha deciso di seguire un’altra strada. E’ maestro elementare, ma dopo pochi anni si trasferisce a Roma, dove lavora al periodico della Federazione giovanile socialista “La Conquista”, e poi all’”Avanti!”, al settimanale “L’Astrolabio”, al “Quotidiano dei lavoratori”, al “Diario” di Venezia ed alla sua agenzia “Notizie”…. Professionalmente si è sempre interessato delle vicende del vicino oriente e suo è il “colpo giornalistico” che rivela al mondo l’esistenza dei primi campi di addestramento della guerriglia palestinese… è un socialista sempre disposto a muoversi in modo istintivamente partecipe e solidale verso i deboli e le vittime delle violenze e dei soprusi».

Inchieste pericolose


Forse Toni vuole ripetere lo scoop di Paris Match o trovare altre strade. Chi lo ha conosciuto lo dipinge come un uomo appassionato, colto, pieno di contatti ma che a volte, pur di arrivare allo scopo, non esita a correre rischi. In lui, dicono le testimonianze, si mescola il desiderio di conoscere a fondo la realtà con la voglia di viverla in prima persona. Probabilmente è cosciente dei rischi e il viaggio lo ha preparato con cura. Quanto a Graziella, è molto più giovane: è nata a Roma nel ‘56. E’ meticolosa e non ha paura di addentrarsi in inchieste che scottano: la Fiat degli anni caldi, il lavoro sporco delle multinazionali, il traffico d’armi… Il 21 marzo, due mesi prima del viaggio, Paese Sera pubblica un suo articolo dal titolo “False vendite, spie, società fantasma: così diciamo armi”. Graziella, che ha indagato anche sulle coperture fornite dai servizi italiani, si espone. Forse è proprio nell’ostinata passione per le inchieste che va cercata una delle chiavi della sua scomparsa.

Quando è certo che sono stati rapiti inizia l’odissea delle famiglie. Sono soprattutto i De Palo, la madre Renata Capotorti e i fratelli Giancarlo e Fabio, a darsi da fare. Ma l’invito è il silenzio: nulla deve trapelare affinché ricerche e trattative vadano in porto. E in effetti solo il 2 ottobre, sulla base di un lancio Ansa, i giornali danno la notizia della scomparsa. Forse è stato l’ambasciatore a Beirut Stefano D’Andrea a far uscire la notizia. Fin da subito si nota infatti un contrasto tra come agisce l’ambasciatore a Beirut e come si muove la Farnesina a Roma. D’Andrea, poi sollevato dall’incarico e spedito in un’altra ambasciata nei Paesi scandinavi, non la vede allo stesso modo del segretario generale Malfatti di Montetretto. E non la vede allo stesso modo di Stefano Giovannone, colonnello del Simsi alle dipendenze del generale Giuseppe Santovito a capo dell’allora servizio segreto militare. Giovannone – accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreti di Stato nell’istruttoria del magistrato Renato Squillante sulla scomparsa di Toni e Graziella e poi inquisito nell’inchiesta sui rapporti fra palestinesi e Brigate rosse, è “il nostro uomo” a Beirut. Parla l’arabo. Lo chiamano “Stefano d’Arabia” o “il maestro”. Tra lui e l’ambasciatore non corre buon sangue. Il primo è convinto che Giovannone stia coprendo delle responsabilità. Il secondo detesta i modi troppo ufficiali del diplomatico. La vera arte di Giovannone infatti è il depistaggio. Sarà una costante dell’intera vicenda con piste che si intersecano e si confondono. C’è quella siro palestinese cara a D’Andrea e che viene rapidamente abbandonata. C’è quella falangista – la più improbabile – che è invece suggerita da Giovannone.

Sappiamo che a organizzare il viaggio in Libano ci ha pensato l’Olp di Arafat, attraverso la sua “ambasciata” a Roma. Ma una volta a Beirut, i due reporter hanno preso accordi anche col Fronte Democratico – una delle sigle più radicali dell’Olp – per un viaggio nel Sud che deve appunto iniziare il 2 settembre. E lì che accade qualcosa. Lo sappiamo grazie a Lya Rosa, una fonte scovata dalla caparbietà del parlamentare ecologista Marco Boato. Sono entrambi trentini e il senatore riesce a rintracciare a Beirut la “pasionaria” che presta il suo aiuto ai palestinesi come infermiera. Rosa conferma che fu un’auto di Fatah a prelevare i due e non quella del Fronte democratico. Ma cosa sia esattamente successo, se effettivamente l’auto era di Fatah e cosa accadde dopo non lo sappiamo. Non sappiamo se vi fu una prigionia e quanto durò e se, come si disse, i palestinesi consideravano i due delle spie. Quel che sappiamo è che allora i vertici della sicurezza e della diplomazia del nostro Paese propendono per mesi per la pista falangista, a destra insomma, tra gli estremisti cristiani. Ma è un depistaggio che si concluderà solo con il rinvio a giudizio di Santovito e Giovannone. Quanto alla Farnesina, il segretario generale di allora, Malfatti di Montetretto, risulterà iscritto alla loggia eversiva P2 di Licio Gelli. In quell’elenco c’è anche il nome di Santovito.

Il “Lodo Moro”

La verità sul caso dei due giornalisti è ancora in parte contenuta in documenti su cui vige ancora il segreto di Stato benché siano ormai passati oltre trent’anni. Cosa scotta ancora in quelle carte? La famiglia alcuni mesi fa ha reso nota l’ultima lettera inviata al presidente Mattarella in cui Renata Capotorti, Aldo Toni, Alvaro Rossi e Nicola De Palo hanno scritto: «Lo scorso 28 agosto 2014 sono scaduti i termini per il disvelamento completo del segreto di Stato. Rimangono però classificati gli ultimi documenti dove viene dimostrata l’esistenza della trattativa con il terrorismo arabo-palestinese. Questi documenti dimostrerebbero, almeno storicamente, che Graziella ed Italo sono stati sacrificati sull’altare della ragion di Stato. Non chiediamo la riapertura di indagini giudiziarie o di commissioni d’inchiesta, ma almeno di poter riavere i loro poveri resti». La tesi della famiglia è sempre stata quella che Italo e Graziella finirono tra le maglie di quello che è stato chiamato il Lodo-Moro, un accordo segreto tra l’Olp e Roma in cui i palestinesi si impegnavano a non creare problemi in Italia in cambio di protezione per le loro azioni.

Mappa di Beirut. Divisa dalla linea verde

Non c’è una prova del Lodo-Moro e non è detto che la loro morte sia legata, come è stato supposto, all’arresto in Italia di un palestinese implicato in un traffico d’armi che nel 1979 porta all’arresto di tre militanti dell’Autonomia Operaia e in seguito di Abu Anzeh Saleh, un tramite che si occupa del traffico di armi e che verrà scarcerato dopo venti mesi di galera. I tre di AO invece la pena la scontano per intero. E se non è neppure detto, come sostiene la famiglia, che ci sia un filo rosso che lega i palestinesi e la sparizione dei giornalisti addirittura alla strage di Bologna attraverso la figura di Saleh, è un fatto che Bassam Abu Sharif – uomo per anni a fianco di George Habbash nell’ufficio politico del Fronte popolare – ha confermato nel 2008 al Corriere della sera che quell’accordo esisteva: «Ho seguito personalmente le trattative… Aldo Moro non l’ho mai incontrato. Abbiamo discusso i dettagli con un ammiraglio, gente dei servizi segreti, e con Giovannone… a Roma e in Libano». E’ anche un fatto – ricorda il giornalista Amedeo Ricucci – che l’Olp stava preparando il viaggio a Roma di Arafat dove il capo dei capi, in ottimi rapporti col governo italiano, avrebbe incontrato il papa. Nulla doveva turbare quell’operazione. E’ un fatto anche che si fece di tutto per allontanare la pista palestinese. Che si nascose la verità. Su cui ancora pesa il segreto di Stato.

Nel turbine della guerra. Il contesto

Nel 1980 Beirut è in guerra, una guerra civile che viene combattuta tra il 1975 e il 1990, in un turbinio di voltafaccia, capovolgimenti di alleanze, distruzione, morte. Una guerra che si combatte soprattutto in città e che trasforma la “Svizzera del medio oriente” in un buco nero nel quale intervengono interessi, finanziamenti e pressioni di altri Paesi. Nel 1980 siamo tra due periodi che vedono l’intervento diretto degli israeliani che invadono il Paese una prima volta nel 1978 e una seconda nel 1982 con la famosa operazione “Pace in Galilea”. Nel 1980, la Beirut che Italo Toni e Graziella De Palo si trovano davanti è una città divisa in due dalla cosiddetta linea verde che si snoda lungo una grande arteria, la via di Damasco. La linea verde, definitivamente smantellata solo nel 1990, divide la capitale in due aree: la zona cristiana a Est, la musulmana a Ovest.
E’ qui che hanno sede le organizzazioni palestinesi cui Toni e Graziella si sono affidati. C’è l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il cartello unitario che è ufficialmente rappresentato da Yasser Arafat, leader di Al Fatah, la fazione che potremmo definire “moderata” o comunque quella che si muove soprattutto sul fronte diplomatico. Ma in quel cartello ci sono una miriade di gruppi e gruppuscoli che spesso si muovono con una propria personale agenda. Tra loro ci sono il Fronte Popolare di George Habbash, appoggiato da Siria e Iraq, e il Fronte Democratico di Nayef Hawatmeh, un gruppo rigidamente marxista leninista e ultra radicale. Italo e Graziella sono arrivati in Libano grazie a un accordo con il rappresentante dell’Olp a Roma Nemer Hammad che ha messo loro a disposizione un biglietto scontato, una prenotazione all’hotel Triumph e i buoni uffici con la Siria che proietta la sua ombra su tutto il Libano. Una volta a Beirut Italo e Graziella prendono accordi anche col Fronte Democratico per un viaggio nel Sud che deve iniziare il 2 settembre. E’ da lì che si perdono le loro tracce.
Per dipanare la matassa bisognerebbe che tutto fosse chiaro e limpido: senza omissis e senza prolungamenti del segreto di Stato, tutte cose che alimentano la sensazione che, anche a distanza di decenni, vi sia ancora qualcosa di imbarazzante da nascondere. Una trattativa segreta, una trama oscura, delle responsabilità insospettabili. E’ in quella rete che, forse inconsapevolmente o forse per aver fatto troppe domande, finirono Italo Toni e Graziella de Palo quel 2 settembre del 1980.

Egitto, stretta su costruzione delle chiese. Cristiani si dividono: “Passo avanti”. “No, copti trattati ancora come minoranza”

Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

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Egitto, stretta su costruzione delle chiese. Cristiani si dividono: “Passo avanti”. “No, copti trattati ancora come minoranza”

Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

L’articolo Egitto, stretta su costruzione delle chiese. Cristiani si dividono: “Passo avanti”. “No, copti trattati ancora come minoranza” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Egitto, stretta su costruzione delle chiese. Cristiani si dividono: “Passo avanti”. “No, copti trattati ancora come minoranza”

Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

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Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

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Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

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Egitto, stretta su costruzione delle chiese. Cristiani si dividono: “Passo avanti”. “No, copti trattati ancora come minoranza”

Martedì scorso il parlamento egiziano ha approvato, con il voto a favore di due terzi dei 596 parlamentari, una nuova legge che regola la costruzione delle chiese. Un provvedimento che negli ultimi mesi aveva acceso delle speranze tra la minoranza copta del Paese, che costituisce circa il 10% dei 90 milioni di cittadini che vivono […]

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Di ‘Antara bin Shaddad, degli Hawakati e delle soap opera del Ramadan

Mi è sempre piaciuta l’epica. Mi emozionavo di fronte alle imprese di Achille e alle arguzie di Odisseo e più tardi mi commuovevo di fronte alla pazzia di Orlando. La mia passione però, spesso, si fermava tra i banchi di scuola, tra le pagine delle antologie di italiano su cui studiavo. Finora è stato così […]

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I figli dimenticati dell’Iraq

Di Ahmed Twaij. Middle East Monitor (30/08/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), la metà della popolazione irachena ha meno di 19 anni. I bambini nati dopo il 1997 avevano al massimo 6 anni quando la coalizione americana ha invaso l’Iraq. I loro primi ricordi sono di […]

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Mistero italiano. Oggi su Wikiradio

Italo Toni in uno scatto di Fausto Giaccone

Il 2 settembre 1980 due giornalisti feelance scompaiono nella Beirut della guerra civile. Trentasei anni dopo cosa sappiamo della morte di Italo Toni e Graziella de Palo. Oggi alle 14 in onda su wikiradio (regia di Loredana Rotundo)

Il primo settembre del 1980 a Beirut, due giornalisti italiani vanno alla nostra ambasciata nella capitale libanese. L’ambasciatore è in ferie e vengono ricevuti da un consigliere di legazione a cui confidano di avere l’indomani, il 2 settembre, un appuntamento con uomini del Fronte democratico per la Liberazione della Palestina. Non sappiamo se spiegano al consigliere Guido Tonini il motivo dell’incontro ma gli confidano di essere preoccupati: “Consigliere, se tra tre giorni non siamo rientrati in albergo, date l’allarme. Venite a cercarci”…

Marocco. “Qandisha”, quando le donne prendono la parola

Dal novembre 2011 il panorama mediatico marocchino si è arricchito di un canale di espressione coraggioso e innovativo, tanto nella forma che nei contenuti. Si tratta del sito di informazione qandisha.ma, piattaforma partecipativa e dichiaratamente femminista che ha aperto le frontiere del citizen journalism nel regno.



[Arab Media Report] Tra le sue peculiarità, la capacità di restituire il prisma polifonico di una società in cambiamento e  la presenza di una redazione “fluida” dove i collaboratori sono affiancati da decine di contributors occasionali, figure del mondo accademico, dell’arte e in generale “ogni marocchina che voglia presentare un testo in lingua araba, francese o inglese”, fa notare la “qandishette” Souad Debbagh. La linea editoriale è sintetizzata in tre punti: emancipazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Blog collettivo, tribuna libera che dà voce alle donne di ogni estrazione o categoria, le definizioni per riassumere questa esperienza non mancano, come ricorda l’ideatrice del progetto Fedwa Misk. Dottoressa di formazione e giornalista di professione, animatrice di un caffè letterario a Casablanca, per questa trentenne dai modi eleganti e l’animo combattivo Qandisha è il risultato di una scommessa.

“Pensavo a qualcosa di diverso dalle riviste femminili già esistenti – afferma la Misk – sottomesse al modello della pubblicità, al triangolo cucina-moda-bellezza e disconnesse dalla realtà del paese”. Realtà che, nonostante gli avanzamenti introdotti nel 2004 dalla Mudawwana (codice della famiglia) e le quote rosa in Parlamento, continua a relegare la donna in una posizione di inferiorità, complici la mentalità conservatrice e una legislazione ancora largamente discriminatoria.

La scommessa è vinta. Mentre le riviste cartacee – di genere ma non solo – hanno registrato un calo di vendite notevole negli ultimi anni (fonte Ojd), Qandisha è riuscita a fidelizzare un lettorato ben più ampio della cerchia di amici e sostenitori immaginata dalla Misk: 10 mila ingressi unici a pochi giorni dal lancio, centinaia di visite giornaliere, commenti, polemiche, condivisioni. Alcuni articoli sono stati perfino ripubblicati dalle testate straniere Le Courrier International e Rue89.

Il successo del sito è legato all’abilità nell’alternare denunce e toni roventi – campagne per la legalizzazione dell’aborto e la depenalizzazione delle relazioni extraconiugali – a pezzi più “leggeri” ed ironici. Ma anche alla forza delle testimonianze, in grado di tratteggiare i contorni di una geografia femminile fatta di pressioni, privazioni, stereotipi e lotte troppo spesso silenziose. Dalla libertà di disporredel proprio corpo, di esibirlo come di nasconderlo, alla rivendicazione dei diritti delle bracciantinelle serre e delle domestiche-bambine.   

Per Qandisha non ci sono piccole o grandi battaglie, ma una ricerca costante di dignità che vede nel femminismo un valore quotidiano. “Smuovere le coscienze ed incidere sul pensiero comune è un processo lungo, non si cambiano percezioni e atteggiamenti dall’oggi al domani. Ne siamo consapevoli e cerchiamo di contribuire con gli strumenti che ci sono più congeniali”, risponde Fedwa Misk a chi la accusa di rifugiarsi dietro ad un computer disertando la vera battaglia, sul terreno.

L’obiettivo della giornalista, semmai, è proprio quello di ridurre la distanza dal virtuale al reale, anche nelle sue sfaccettature più crude. Ad esempio, riportando casi di cronacagiudiziaria dove le donne vengono penalizzate dall’essenza patriarcale che permea i tribunali, oppure rispondendo ai tentennamenti della ministra Bassima Hakkaoui – in tema di violenza sulle donne – con la pubblicazione di alcune testimonianze e osservazioniscritte da ragazze vittime di abusi.

Una simile libertà di parola, del resto, sembra possibile soltanto sul web, dopo che la stampa indipendente ha subito a più riprese la censura del governo. “Per i marocchini internet è ormai uno spazio di espressione vitale, che cerca di ovviare all’assenza di un dibattito pubblico”, continua la Misk secondo cui, sebbene il paese non abbia conosciuto rivoluzioni né cambiamenti effettivi, “il passaggio della primavera ha comunque permesso di incrinare tabù e ipocrisie”.





L’esistenza di Qandisha lo conferma. “Aprirsi, raccontarsi, prendere posizione è un passo necessario affinché le donne possano uscire dalla dominanza del pensiero maschile e divenire pienamente cittadine”. Ma Qandisha non è nemmeno un universo esclusivamente femminile: la rubrica tenuta “da un uomo” (anonima, sebbene gli autori siano molteplici) è tra le più seguite, mentre la metà degli iscritti al gruppo facebooksono maschi. “La prova che un cambio di prospettive è possibile, che c’è interesse nel condividere punti di vista ed esperienze”.

Le reazioni suscitate nei commenti o sui social network, tuttavia, oltrepassano a volte la soglia del confronto e del dibattito per degenerare in insulti e minacce. La libertà dei toni e il carattere degli argomenti affrontati espone la piattaforma ad attacchi e ostilità: il sito è stato piratato due volte, l’ultima dopo aver pubblicato l’intervento di un giovane omosessuale.

“Sapevamo fin dall’inizio che la nostra voce avrebbe dato fastidio – chiarisce la Misk -. La scelta del nome, del resto, non è casuale: Qandisha nella mitologia locale è un demone, una donna capace di stregare gli uomini che la circondano. Per il suo lato diabolico, secondo la leggenda, ma io dico per la sua forza, la sua bellezza e la sua intraprendenza. Ci aspettavamo di essere demonizzate così abbiamo preferito rivendicare a viso aperto la nostra ‘eresia’ piuttosto che nasconderci”.

Una critica invece che la fondatrice sposa senza reticenze è l’eccesso di editoriali e articoli d’opinione rispetto alle inchieste e alla sezione notizie. Un limite – spiega – legato alla natura volontaria del progetto e alla ristrettezza dei mezzi finanziari. Anche per questo, nelle ultime settimane, Qandisha sembra essere entrata in una fase di riflessione – a cui va ricondotto il calo degli aggiornamenti – preludio ad un rilancio in grande stile.

Per la redattrice “serve un modello economico che possa sostenere il nostro lavoro senza snaturarne le fondamenta. Sul tavolo abbiamo offerte pubblicitarie e donazioni che ci permetterebbero di professionalizzare almeno parte dei contributi proposti. Stiamo valutando”.

Di certo nel futuro prossimo del collettivo si assisterà alla nascita di una radio web accessibile dal sito. Uno strumento fondamentale, in un paese dove si legge poco e quasi metà della popolazione – femminile in primis – è analfabeta, per ridurre distanze geografiche e sociali, diversificando pubblico e canali di comunicazione, e per dare maggior efficacia al messaggio di emancipazione di cui Qandisha si è fatta portatrice.

(Articolo pubblicato sul sito di informazione Arab Media Report)

Marocco. “Qandisha”, quando le donne prendono la parola

Dal novembre 2011 il panorama mediatico marocchino si è arricchito di un canale di espressione coraggioso e innovativo, tanto nella forma che nei contenuti. Si tratta del sito di informazione qandisha.ma, piattaforma partecipativa e dichiaratamente femminista che ha aperto le frontiere del citizen journalism nel regno.



[Arab Media Report] Tra le sue peculiarità, la capacità di restituire il prisma polifonico di una società in cambiamento e  la presenza di una redazione “fluida” dove i collaboratori sono affiancati da decine di contributors occasionali, figure del mondo accademico, dell’arte e in generale “ogni marocchina che voglia presentare un testo in lingua araba, francese o inglese”, fa notare la “qandishette” Souad Debbagh. La linea editoriale è sintetizzata in tre punti: emancipazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Blog collettivo, tribuna libera che dà voce alle donne di ogni estrazione o categoria, le definizioni per riassumere questa esperienza non mancano, come ricorda l’ideatrice del progetto Fedwa Misk. Dottoressa di formazione e giornalista di professione, animatrice di un caffè letterario a Casablanca, per questa trentenne dai modi eleganti e l’animo combattivo Qandisha è il risultato di una scommessa.

“Pensavo a qualcosa di diverso dalle riviste femminili già esistenti – afferma la Misk – sottomesse al modello della pubblicità, al triangolo cucina-moda-bellezza e disconnesse dalla realtà del paese”. Realtà che, nonostante gli avanzamenti introdotti nel 2004 dalla Mudawwana (codice della famiglia) e le quote rosa in Parlamento, continua a relegare la donna in una posizione di inferiorità, complici la mentalità conservatrice e una legislazione ancora largamente discriminatoria.

La scommessa è vinta. Mentre le riviste cartacee – di genere ma non solo – hanno registrato un calo di vendite notevole negli ultimi anni (fonte Ojd), Qandisha è riuscita a fidelizzare un lettorato ben più ampio della cerchia di amici e sostenitori immaginata dalla Misk: 10 mila ingressi unici a pochi giorni dal lancio, centinaia di visite giornaliere, commenti, polemiche, condivisioni. Alcuni articoli sono stati perfino ripubblicati dalle testate straniere Le Courrier International e Rue89.

Il successo del sito è legato all’abilità nell’alternare denunce e toni roventi – campagne per la legalizzazione dell’aborto e la depenalizzazione delle relazioni extraconiugali – a pezzi più “leggeri” ed ironici. Ma anche alla forza delle testimonianze, in grado di tratteggiare i contorni di una geografia femminile fatta di pressioni, privazioni, stereotipi e lotte troppo spesso silenziose. Dalla libertà di disporredel proprio corpo, di esibirlo come di nasconderlo, alla rivendicazione dei diritti delle bracciantinelle serre e delle domestiche-bambine.   

Per Qandisha non ci sono piccole o grandi battaglie, ma una ricerca costante di dignità che vede nel femminismo un valore quotidiano. “Smuovere le coscienze ed incidere sul pensiero comune è un processo lungo, non si cambiano percezioni e atteggiamenti dall’oggi al domani. Ne siamo consapevoli e cerchiamo di contribuire con gli strumenti che ci sono più congeniali”, risponde Fedwa Misk a chi la accusa di rifugiarsi dietro ad un computer disertando la vera battaglia, sul terreno.

L’obiettivo della giornalista, semmai, è proprio quello di ridurre la distanza dal virtuale al reale, anche nelle sue sfaccettature più crude. Ad esempio, riportando casi di cronacagiudiziaria dove le donne vengono penalizzate dall’essenza patriarcale che permea i tribunali, oppure rispondendo ai tentennamenti della ministra Bassima Hakkaoui – in tema di violenza sulle donne – con la pubblicazione di alcune testimonianze e osservazioniscritte da ragazze vittime di abusi.

Una simile libertà di parola, del resto, sembra possibile soltanto sul web, dopo che la stampa indipendente ha subito a più riprese la censura del governo. “Per i marocchini internet è ormai uno spazio di espressione vitale, che cerca di ovviare all’assenza di un dibattito pubblico”, continua la Misk secondo cui, sebbene il paese non abbia conosciuto rivoluzioni né cambiamenti effettivi, “il passaggio della primavera ha comunque permesso di incrinare tabù e ipocrisie”.





L’esistenza di Qandisha lo conferma. “Aprirsi, raccontarsi, prendere posizione è un passo necessario affinché le donne possano uscire dalla dominanza del pensiero maschile e divenire pienamente cittadine”. Ma Qandisha non è nemmeno un universo esclusivamente femminile: la rubrica tenuta “da un uomo” (anonima, sebbene gli autori siano molteplici) è tra le più seguite, mentre la metà degli iscritti al gruppo facebooksono maschi. “La prova che un cambio di prospettive è possibile, che c’è interesse nel condividere punti di vista ed esperienze”.

Le reazioni suscitate nei commenti o sui social network, tuttavia, oltrepassano a volte la soglia del confronto e del dibattito per degenerare in insulti e minacce. La libertà dei toni e il carattere degli argomenti affrontati espone la piattaforma ad attacchi e ostilità: il sito è stato piratato due volte, l’ultima dopo aver pubblicato l’intervento di un giovane omosessuale.

“Sapevamo fin dall’inizio che la nostra voce avrebbe dato fastidio – chiarisce la Misk -. La scelta del nome, del resto, non è casuale: Qandisha nella mitologia locale è un demone, una donna capace di stregare gli uomini che la circondano. Per il suo lato diabolico, secondo la leggenda, ma io dico per la sua forza, la sua bellezza e la sua intraprendenza. Ci aspettavamo di essere demonizzate così abbiamo preferito rivendicare a viso aperto la nostra ‘eresia’ piuttosto che nasconderci”.

Una critica invece che la fondatrice sposa senza reticenze è l’eccesso di editoriali e articoli d’opinione rispetto alle inchieste e alla sezione notizie. Un limite – spiega – legato alla natura volontaria del progetto e alla ristrettezza dei mezzi finanziari. Anche per questo, nelle ultime settimane, Qandisha sembra essere entrata in una fase di riflessione – a cui va ricondotto il calo degli aggiornamenti – preludio ad un rilancio in grande stile.

Per la redattrice “serve un modello economico che possa sostenere il nostro lavoro senza snaturarne le fondamenta. Sul tavolo abbiamo offerte pubblicitarie e donazioni che ci permetterebbero di professionalizzare almeno parte dei contributi proposti. Stiamo valutando”.

Di certo nel futuro prossimo del collettivo si assisterà alla nascita di una radio web accessibile dal sito. Uno strumento fondamentale, in un paese dove si legge poco e quasi metà della popolazione – femminile in primis – è analfabeta, per ridurre distanze geografiche e sociali, diversificando pubblico e canali di comunicazione, e per dare maggior efficacia al messaggio di emancipazione di cui Qandisha si è fatta portatrice.

(Articolo pubblicato sul sito di informazione Arab Media Report)

Marocco. “Qandisha”, quando le donne prendono la parola

Dal novembre 2011 il panorama mediatico marocchino si è arricchito di un canale di espressione coraggioso e innovativo, tanto nella forma che nei contenuti. Si tratta del sito di informazione qandisha.ma, piattaforma partecipativa e dichiaratamente femminista che ha aperto le frontiere del citizen journalism nel regno.



[Arab Media Report] Tra le sue peculiarità, la capacità di restituire il prisma polifonico di una società in cambiamento e  la presenza di una redazione “fluida” dove i collaboratori sono affiancati da decine di contributors occasionali, figure del mondo accademico, dell’arte e in generale “ogni marocchina che voglia presentare un testo in lingua araba, francese o inglese”, fa notare la “qandishette” Souad Debbagh. La linea editoriale è sintetizzata in tre punti: emancipazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Blog collettivo, tribuna libera che dà voce alle donne di ogni estrazione o categoria, le definizioni per riassumere questa esperienza non mancano, come ricorda l’ideatrice del progetto Fedwa Misk. Dottoressa di formazione e giornalista di professione, animatrice di un caffè letterario a Casablanca, per questa trentenne dai modi eleganti e l’animo combattivo Qandisha è il risultato di una scommessa.

“Pensavo a qualcosa di diverso dalle riviste femminili già esistenti – afferma la Misk – sottomesse al modello della pubblicità, al triangolo cucina-moda-bellezza e disconnesse dalla realtà del paese”. Realtà che, nonostante gli avanzamenti introdotti nel 2004 dalla Mudawwana (codice della famiglia) e le quote rosa in Parlamento, continua a relegare la donna in una posizione di inferiorità, complici la mentalità conservatrice e una legislazione ancora largamente discriminatoria.

La scommessa è vinta. Mentre le riviste cartacee – di genere ma non solo – hanno registrato un calo di vendite notevole negli ultimi anni (fonte Ojd), Qandisha è riuscita a fidelizzare un lettorato ben più ampio della cerchia di amici e sostenitori immaginata dalla Misk: 10 mila ingressi unici a pochi giorni dal lancio, centinaia di visite giornaliere, commenti, polemiche, condivisioni. Alcuni articoli sono stati perfino ripubblicati dalle testate straniere Le Courrier International e Rue89.

Il successo del sito è legato all’abilità nell’alternare denunce e toni roventi – campagne per la legalizzazione dell’aborto e la depenalizzazione delle relazioni extraconiugali – a pezzi più “leggeri” ed ironici. Ma anche alla forza delle testimonianze, in grado di tratteggiare i contorni di una geografia femminile fatta di pressioni, privazioni, stereotipi e lotte troppo spesso silenziose. Dalla libertà di disporredel proprio corpo, di esibirlo come di nasconderlo, alla rivendicazione dei diritti delle bracciantinelle serre e delle domestiche-bambine.   

Per Qandisha non ci sono piccole o grandi battaglie, ma una ricerca costante di dignità che vede nel femminismo un valore quotidiano. “Smuovere le coscienze ed incidere sul pensiero comune è un processo lungo, non si cambiano percezioni e atteggiamenti dall’oggi al domani. Ne siamo consapevoli e cerchiamo di contribuire con gli strumenti che ci sono più congeniali”, risponde Fedwa Misk a chi la accusa di rifugiarsi dietro ad un computer disertando la vera battaglia, sul terreno.

L’obiettivo della giornalista, semmai, è proprio quello di ridurre la distanza dal virtuale al reale, anche nelle sue sfaccettature più crude. Ad esempio, riportando casi di cronacagiudiziaria dove le donne vengono penalizzate dall’essenza patriarcale che permea i tribunali, oppure rispondendo ai tentennamenti della ministra Bassima Hakkaoui – in tema di violenza sulle donne – con la pubblicazione di alcune testimonianze e osservazioniscritte da ragazze vittime di abusi.

Una simile libertà di parola, del resto, sembra possibile soltanto sul web, dopo che la stampa indipendente ha subito a più riprese la censura del governo. “Per i marocchini internet è ormai uno spazio di espressione vitale, che cerca di ovviare all’assenza di un dibattito pubblico”, continua la Misk secondo cui, sebbene il paese non abbia conosciuto rivoluzioni né cambiamenti effettivi, “il passaggio della primavera ha comunque permesso di incrinare tabù e ipocrisie”.





L’esistenza di Qandisha lo conferma. “Aprirsi, raccontarsi, prendere posizione è un passo necessario affinché le donne possano uscire dalla dominanza del pensiero maschile e divenire pienamente cittadine”. Ma Qandisha non è nemmeno un universo esclusivamente femminile: la rubrica tenuta “da un uomo” (anonima, sebbene gli autori siano molteplici) è tra le più seguite, mentre la metà degli iscritti al gruppo facebooksono maschi. “La prova che un cambio di prospettive è possibile, che c’è interesse nel condividere punti di vista ed esperienze”.

Le reazioni suscitate nei commenti o sui social network, tuttavia, oltrepassano a volte la soglia del confronto e del dibattito per degenerare in insulti e minacce. La libertà dei toni e il carattere degli argomenti affrontati espone la piattaforma ad attacchi e ostilità: il sito è stato piratato due volte, l’ultima dopo aver pubblicato l’intervento di un giovane omosessuale.

“Sapevamo fin dall’inizio che la nostra voce avrebbe dato fastidio – chiarisce la Misk -. La scelta del nome, del resto, non è casuale: Qandisha nella mitologia locale è un demone, una donna capace di stregare gli uomini che la circondano. Per il suo lato diabolico, secondo la leggenda, ma io dico per la sua forza, la sua bellezza e la sua intraprendenza. Ci aspettavamo di essere demonizzate così abbiamo preferito rivendicare a viso aperto la nostra ‘eresia’ piuttosto che nasconderci”.

Una critica invece che la fondatrice sposa senza reticenze è l’eccesso di editoriali e articoli d’opinione rispetto alle inchieste e alla sezione notizie. Un limite – spiega – legato alla natura volontaria del progetto e alla ristrettezza dei mezzi finanziari. Anche per questo, nelle ultime settimane, Qandisha sembra essere entrata in una fase di riflessione – a cui va ricondotto il calo degli aggiornamenti – preludio ad un rilancio in grande stile.

Per la redattrice “serve un modello economico che possa sostenere il nostro lavoro senza snaturarne le fondamenta. Sul tavolo abbiamo offerte pubblicitarie e donazioni che ci permetterebbero di professionalizzare almeno parte dei contributi proposti. Stiamo valutando”.

Di certo nel futuro prossimo del collettivo si assisterà alla nascita di una radio web accessibile dal sito. Uno strumento fondamentale, in un paese dove si legge poco e quasi metà della popolazione – femminile in primis – è analfabeta, per ridurre distanze geografiche e sociali, diversificando pubblico e canali di comunicazione, e per dare maggior efficacia al messaggio di emancipazione di cui Qandisha si è fatta portatrice.

(Articolo pubblicato sul sito di informazione Arab Media Report)

Marocco. “Qandisha”, quando le donne prendono la parola

Dal novembre 2011 il panorama mediatico marocchino si è arricchito di un canale di espressione coraggioso e innovativo, tanto nella forma che nei contenuti. Si tratta del sito di informazione qandisha.ma, piattaforma partecipativa e dichiaratamente femminista che ha aperto le frontiere del citizen journalism nel regno.



[Arab Media Report] Tra le sue peculiarità, la capacità di restituire il prisma polifonico di una società in cambiamento e  la presenza di una redazione “fluida” dove i collaboratori sono affiancati da decine di contributors occasionali, figure del mondo accademico, dell’arte e in generale “ogni marocchina che voglia presentare un testo in lingua araba, francese o inglese”, fa notare la “qandishette” Souad Debbagh. La linea editoriale è sintetizzata in tre punti: emancipazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Blog collettivo, tribuna libera che dà voce alle donne di ogni estrazione o categoria, le definizioni per riassumere questa esperienza non mancano, come ricorda l’ideatrice del progetto Fedwa Misk. Dottoressa di formazione e giornalista di professione, animatrice di un caffè letterario a Casablanca, per questa trentenne dai modi eleganti e l’animo combattivo Qandisha è il risultato di una scommessa.

“Pensavo a qualcosa di diverso dalle riviste femminili già esistenti – afferma la Misk – sottomesse al modello della pubblicità, al triangolo cucina-moda-bellezza e disconnesse dalla realtà del paese”. Realtà che, nonostante gli avanzamenti introdotti nel 2004 dalla Mudawwana (codice della famiglia) e le quote rosa in Parlamento, continua a relegare la donna in una posizione di inferiorità, complici la mentalità conservatrice e una legislazione ancora largamente discriminatoria.

La scommessa è vinta. Mentre le riviste cartacee – di genere ma non solo – hanno registrato un calo di vendite notevole negli ultimi anni (fonte Ojd), Qandisha è riuscita a fidelizzare un lettorato ben più ampio della cerchia di amici e sostenitori immaginata dalla Misk: 10 mila ingressi unici a pochi giorni dal lancio, centinaia di visite giornaliere, commenti, polemiche, condivisioni. Alcuni articoli sono stati perfino ripubblicati dalle testate straniere Le Courrier International e Rue89.

Il successo del sito è legato all’abilità nell’alternare denunce e toni roventi – campagne per la legalizzazione dell’aborto e la depenalizzazione delle relazioni extraconiugali – a pezzi più “leggeri” ed ironici. Ma anche alla forza delle testimonianze, in grado di tratteggiare i contorni di una geografia femminile fatta di pressioni, privazioni, stereotipi e lotte troppo spesso silenziose. Dalla libertà di disporredel proprio corpo, di esibirlo come di nasconderlo, alla rivendicazione dei diritti delle bracciantinelle serre e delle domestiche-bambine.   

Per Qandisha non ci sono piccole o grandi battaglie, ma una ricerca costante di dignità che vede nel femminismo un valore quotidiano. “Smuovere le coscienze ed incidere sul pensiero comune è un processo lungo, non si cambiano percezioni e atteggiamenti dall’oggi al domani. Ne siamo consapevoli e cerchiamo di contribuire con gli strumenti che ci sono più congeniali”, risponde Fedwa Misk a chi la accusa di rifugiarsi dietro ad un computer disertando la vera battaglia, sul terreno.

L’obiettivo della giornalista, semmai, è proprio quello di ridurre la distanza dal virtuale al reale, anche nelle sue sfaccettature più crude. Ad esempio, riportando casi di cronacagiudiziaria dove le donne vengono penalizzate dall’essenza patriarcale che permea i tribunali, oppure rispondendo ai tentennamenti della ministra Bassima Hakkaoui – in tema di violenza sulle donne – con la pubblicazione di alcune testimonianze e osservazioniscritte da ragazze vittime di abusi.

Una simile libertà di parola, del resto, sembra possibile soltanto sul web, dopo che la stampa indipendente ha subito a più riprese la censura del governo. “Per i marocchini internet è ormai uno spazio di espressione vitale, che cerca di ovviare all’assenza di un dibattito pubblico”, continua la Misk secondo cui, sebbene il paese non abbia conosciuto rivoluzioni né cambiamenti effettivi, “il passaggio della primavera ha comunque permesso di incrinare tabù e ipocrisie”.





L’esistenza di Qandisha lo conferma. “Aprirsi, raccontarsi, prendere posizione è un passo necessario affinché le donne possano uscire dalla dominanza del pensiero maschile e divenire pienamente cittadine”. Ma Qandisha non è nemmeno un universo esclusivamente femminile: la rubrica tenuta “da un uomo” (anonima, sebbene gli autori siano molteplici) è tra le più seguite, mentre la metà degli iscritti al gruppo facebooksono maschi. “La prova che un cambio di prospettive è possibile, che c’è interesse nel condividere punti di vista ed esperienze”.

Le reazioni suscitate nei commenti o sui social network, tuttavia, oltrepassano a volte la soglia del confronto e del dibattito per degenerare in insulti e minacce. La libertà dei toni e il carattere degli argomenti affrontati espone la piattaforma ad attacchi e ostilità: il sito è stato piratato due volte, l’ultima dopo aver pubblicato l’intervento di un giovane omosessuale.

“Sapevamo fin dall’inizio che la nostra voce avrebbe dato fastidio – chiarisce la Misk -. La scelta del nome, del resto, non è casuale: Qandisha nella mitologia locale è un demone, una donna capace di stregare gli uomini che la circondano. Per il suo lato diabolico, secondo la leggenda, ma io dico per la sua forza, la sua bellezza e la sua intraprendenza. Ci aspettavamo di essere demonizzate così abbiamo preferito rivendicare a viso aperto la nostra ‘eresia’ piuttosto che nasconderci”.

Una critica invece che la fondatrice sposa senza reticenze è l’eccesso di editoriali e articoli d’opinione rispetto alle inchieste e alla sezione notizie. Un limite – spiega – legato alla natura volontaria del progetto e alla ristrettezza dei mezzi finanziari. Anche per questo, nelle ultime settimane, Qandisha sembra essere entrata in una fase di riflessione – a cui va ricondotto il calo degli aggiornamenti – preludio ad un rilancio in grande stile.

Per la redattrice “serve un modello economico che possa sostenere il nostro lavoro senza snaturarne le fondamenta. Sul tavolo abbiamo offerte pubblicitarie e donazioni che ci permetterebbero di professionalizzare almeno parte dei contributi proposti. Stiamo valutando”.

Di certo nel futuro prossimo del collettivo si assisterà alla nascita di una radio web accessibile dal sito. Uno strumento fondamentale, in un paese dove si legge poco e quasi metà della popolazione – femminile in primis – è analfabeta, per ridurre distanze geografiche e sociali, diversificando pubblico e canali di comunicazione, e per dare maggior efficacia al messaggio di emancipazione di cui Qandisha si è fatta portatrice.

(Articolo pubblicato sul sito di informazione Arab Media Report)

Mistero italiano. Domani a Wikiradio

Italo Toni in uno scatto di Fausto Giaccone

Il 2 settembre 1980 due giornalisti feelance scompaiono nella Beirut della guerra civile. Trentasei anni dopo cosa sappiamo della morte di Italo Toni e Graziella de Palo. Domani su il manifesto e alle 14 in onda su wikiradio (regia di Loredana Rotundo)

Il primo settembre del 1980 a Beirut, due giornalisti italiani vanno alla nostra ambasciata nella capitale libanese. L’ambasciatore è in ferie e vengono ricevuti da un consigliere di legazione a cui confidano di avere l’indomani, il 2 settembre, un appuntamento con uomini del Fronte democratico per la Liberazione della Palestina. Non sappiamo se spiegano al consigliere Guido Tonini il motivo dell’incontro ma gli confidano di essere preoccupati: “Consigliere, se tra tre giorni non siamo rientrati in albergo, date l’allarme. Venite a cercarci”…

Inciucio alla tunisina

Patrizia Mancini Il 26 agosto 2016 la nuova formazione di governo detta di “unità nazionale”, guidata da Youssef Chahed, ha ottenuto il consenso del parlamento tunisino con con 167 voti a favore, 22 contrari e 6 astensioni. 23 deputati erano assenti (non ritenendo opportuno interrompere le vacanze estive neppure in tale congiuntura!). Esaminiamo le tappe che hanno portato alla costituzione […]

Inciucio alla tunisina

Patrizia Mancini Il 26 agosto 2016 la nuova formazione di governo detta di “unità nazionale”, guidata da Youssef Chahed, ha ottenuto il consenso del parlamento tunisino con con 167 voti a favore, 22 contrari e 6 astensioni. 23 deputati erano assenti (non ritenendo opportuno interrompere le vacanze estive neppure in tale congiuntura!). Esaminiamo le tappe che hanno portato alla costituzione […]

Inciucio alla tunisina

Patrizia Mancini Il 26 agosto 2016 la nuova formazione di governo detta di “unità nazionale”, guidata da Youssef Chahed, ha ottenuto il consenso del parlamento tunisino con con 167 voti a favore, 22 contrari e 6 astensioni. 23 deputati erano assenti (non ritenendo opportuno interrompere le vacanze estive neppure in tale congiuntura!). Esaminiamo le tappe che hanno portato alla costituzione […]

Inciucio alla tunisina

Patrizia Mancini Il 26 agosto 2016 la nuova formazione di governo detta di “unità nazionale”, guidata da Youssef Chahed, ha ottenuto il consenso del parlamento tunisino con con 167 voti a favore, 22 contrari e 6 astensioni. 23 deputati erano assenti (non ritenendo opportuno interrompere le vacanze estive neppure in tale congiuntura!). Esaminiamo le tappe che hanno portato alla costituzione […]

La “burkini-fobia” include anche noi

Di Diana Moukalled. Al-Arabiya (31/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Non sono stati estremisti islamici a promuovere il divieto del burkini in Francia, né uomini di stampo conservatore o tradizionalista, bensì sono stati i laici della repubblica di Francia. Secondo quanto riportato dai media occidentali, questi laici si sono congratulati con la polizia francese quando […]

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La posta in gioco a Naypyidaw

Centinaia di delegati delle minoranze etniche e dei gruppi armati in lotta da sempre col governo centrale birmano hanno partecipato ieri all’apertura della 21ma Conferenza di Panglong, dal nome della città dove nel 1947 si celebrò il primo incontro. Che dal ‘47 se ne siano tenuti solo una ventina la dice lunga sulla distanza tra il centro e la periferia ma il fatto che la Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, ora al governo del Paese, sia riuscita in pochi mesi dalla sua vittoria elettorale in novembre a convocarla – pur suscitando qualche polemica tra chi l’ha vissuta ancora come un’imposizione dal centro – la dice lunga sulla volontà di sistemare le cose in un Paese con 135 gruppi etnici riconosciuti per legge e oltre una ventina di gruppi armati secessionisti di cui 17 partecipano agli incontri nella capitale.

Nel febbraio del 1947 a Panglong – nello Stato Shan, 700 chilometri a Nord di Ranggon – ci provò per la prima volta il padre di Aung San Suu Kyi, il generale Aung San: sul piatto c’era l’indipendenza dagli inglesi. E il patto siglato a Panglong era che, in cambio di un’alleanza anti britannica, il nuovo corso post coloniale avrebbe riconosciuto agli alleati sia una base legale sia la possibilità di secedere. Ma dopo l’indipendenza dal Regno unito nel 1948, e con Aung San già assassinato dai sicari dei suoi avversari politici nel luglio del ‘47, il patto fu tradito. Il pugno divenne anzi assai duro con un potere militare diventato la cornice istituzionale del Paese.

Secondo gli osservatori locali non ci si può aspettare troppo dai cinque giorni della Conferenza ma è anche abbastanza chiaro che non sono le conferenze a sistemare le cose. Sono un segno però di apertura al dialogo che sembra far dunque rispettare al governo un’agenda politica in cui il processo negoziale coi gruppi armati, in stallo da anni, resta una priorità. E così quello con le minoranze che rappresentano circa il 40% della popolazione del Paese (oltre 50 milioni di abitanti).

Alla Conferenza Aung San Suu Kyi è affiancata dal generale Min Aung Hlaing, a capo delle forze armate ma uomo con cui la Nobel ha saputo costruire un’intesa. A Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar, è arrivato però anche Ban Ki-moon che questa volta non si è limitato al cerimoniale. Il segretario generale dell’Onu ha affrontato con Suu Kyi una questione spinosa: i Rohingya, quel milione di musulmani che vive sul confine occidentale e che non solo non è presente alla Conferenza ma non rientra neppure tra le minoranze riconosciute. Indocumentati vissuti come “immigrati clandestini” venuti dal Bangladesh da una popolazione in maggioranza buddista che non ha esitato a paventare un’ipotetica jihad per dare addosso alla piccola e vessata comunità fedele al Profeta. 120Mila tra loro sono alloggiati In «squallidi campi per sfollati interni», scrive il giornale Irrawaddy, mentre in tanti han preso la via del mare cercando fortuna a Sud, in Thailandia o Malaysia.
Campi profughi per gli sfollati della lunga guerra interna si trovano invece a ridosso del confine occidentale con la Thailandia ed è l’altra immagine che accompagna la conferenza. Questa volta si spera. Sembra che Pechino, sponsor di molti gruppi armati, specie lungo i suoi confini, questa volta abbia indirettamente sostenuto la partecipazione agli incontri. Tra gli ottimisti c’è ad esempio Khua Uk Lian, membro del Chin National Front, uno dei tanti gruppi guerriglieri. Ma per far finire il conflitto – ha detto all’agenzia France Press – i problemi da risolvere sono tanti: oppio, risorse, tensioni locali. La partita è aperta.