Mese: agosto 2016

La biblioteca di Alessandria d’Egitto al Festivaletteratura di Mantova

Le città sul mare sono diverse. L’ho capito quando sono andata a vivere a Napoli: venendo da Roma, dove avevo sempre vissuto e dove sono nata, il confronto è stato impari e a vincere è stata Napoli.  Non saprei spiegare come e perché sono diverse, ma lo sono: più sguaiate, meno ritrose. Più ventose, più … Continua a leggere La biblioteca di Alessandria d’Egitto al Festivaletteratura di Mantova

Il burkini e il crollo dell’Europa

Santiago Alba Rico Vedo un’immagine sconvolgente: quattro omaccioni in divisa e armati che obbligano una donna indifesa a spogliarsi in un luogo pubblico. Non è uno stupro. E’ il laicismo armato che libera una musulmana dalle sue catene in una spiaggia di Nizza, e il tutto davanti allo sguardo indifferente di alcune virtuose repubblicane in bikini. Così come la polizia […]

Il burkini e il crollo dell’Europa

Santiago Alba Rico Vedo un’immagine sconvolgente: quattro omaccioni in divisa e armati che obbligano una donna indifesa a spogliarsi in un luogo pubblico. Non è uno stupro. E’ il laicismo armato che libera una musulmana dalle sue catene in una spiaggia di Nizza, e il tutto davanti allo sguardo indifferente di alcune virtuose repubblicane in bikini. Così come la polizia […]

Il burkini e il crollo dell’Europa

Santiago Alba Rico Vedo un’immagine sconvolgente: quattro omaccioni in divisa e armati che obbligano una donna indifesa a spogliarsi in un luogo pubblico. Non è uno stupro. E’ il laicismo armato che libera una musulmana dalle sue catene in una spiaggia di Nizza, e il tutto davanti allo sguardo indifferente di alcune virtuose repubblicane in bikini. Così come la polizia […]

Palestinesi di Deheisheh e Capitan Nidal, lo spaccaginocchia

mcc43 Questa immagine del campo Profughi di Deheisheh, o Duheisha, mostra un ambiente non diverso da quello di un nostro paesino in un pomeriggio estivo, ma è ingannevole. Il campo si estende per molto meno di un km² (0,33) e ci vivono 15.000 Palestinesi, di cui un terzo è senza lavoro. A conti fatti una densità di 45.000 […]

Uccisa la mente dell’attacco al bar di Dacca. Ma i dubbi sopravvivono

La polizia del Bangladesh ne è certa. Anzi, certissima: quel corpo riversato a terra accanto ad altri due distesi in un lago di sangue nella palazzina a due piani della cittadina di Narayanganj, 25 chilometri a Sud della capitale Dacca, è quello di Tamim Chowdhury. Con la sua morte, e quella di due suoi sodali, il Bangladesh chiude almeno in parte lo spinoso capitolo della strage che agli inizi di luglio ha visto uccidere un gruppo di 22 ostaggi – tra cui nove italiani – in un bar esclusivo della capitale frequentato da “expat”. L’azione era stata rivendicata da Daesh e Tamin ne sarebbe stato l’ideatore. Tamin è però anche leader di una fazione del gruppo Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh (Jmb), gruppo jihadista del Paese asiatico, che il governo aveva indicato subito come l’autore dell’attentato negando fosse opera di Daesh. La morte di Tamin non potrà smentirlo o confermarlo.

Daesh o no? Non possiamo saperlo per ora

Stando alle fonti di polizia, l’azione è iniziata al mattino presto, all’alba, quando la palazzina coi tre sospetti è stata circondata. Per un quarto d’ora (!), dice sempre la polizia, si intima la resa ma non arrivano risposte: i militanti invece avrebbero dato fuoco a una stanza con l’intento forse di distruggere prove, documenti, laptop. Alle 8 e 45 scatta l’operativo e benché ora la polizia dica che avrebbe voluto Tamin vivo, i tre vengono falciati. Del resto sono armati di mitra e machete e forse non si vogliono arrendere ma la resistenza comunque dev’essere durata poco. Passa qualche ora e giornali e rete vengono inondati di fotografie dei tre cadaveri il cui capo sarebbe stato l’uomo che progettò la strage del 1 luglio al Holey Artisan Bakery a Gulshan, quartiere residenziale di alto bordo a Dacca. Su Tamin, un bangla canadese tornato a Dacca nel 2013 e presto indicato tra i sospetti, vien messa una taglia di 22mila euro e per gli inquirenti il colpevole è lui. Non sono chiari i rapporti tra Daesh e Jmb ma Tamin sarebbe stato a capo di una fazione pro califfato.

Il quadro resta confuso, almeno nelle attribuzioni delle sigle. Daesh o no? Certo, ai famigliari delle vittime non deve comprensibilmente importare un granché, ma c’è un aspetto rilevante che non ha solo a che vedere con i diritti che vanno riconosciuti anche agli assassini e che è difficile riconoscere loro una volta morti. Il governo reagisce sempre come se Daesh non esistesse anche se ha rivendicato l’attentato a diversi stranieri, come nel caso degli italiani Cesare Tavella e Piero Parolari, quest’ultimo salvatosi per miracolo. Per il governo laico della premier Sheikh Hasina, la responsabilità è sempre di gruppi locali e non di una branca in Bangladesh del progetto dell’Uomo nero in turbante. Del resto coi gruppi islamisti (alcuni dei quali – come Jmb – fuorilegge) il governo ha scelto il pugno di ferro da tempo e molto spesso i militanti finiscono giustiziati senza che possano poi essere interrogati. Diversi attivisti di Jmb sono stati uccisi in scontri a fuoco con le forze dell’ordine e sei dei suoi leader sono stati impiccati nel 2007 dopo che l’organizzazione aveva messo a punto, nel 2005, l’esplosione in un solo giorno di 500 ordigni (da allora è stata messa fuori legge). In questo Paese violento, violento anche sul piano del riconoscimento dei diritti, si alterna il pugno di ferro alla tolleranza necessaria a far convivere oltre 150 milioni di persone che sopravvivono su un Paese grande la metà dell’Italia e che sono in larghissima maggioranza di fede musulmana (e poveri). E’ una storia difficile, complicata dal retaggio coloniale (e dalla guerra che divise l’allora Pakistan orientale – oggi Bangladesh – dal Pakistan) e di cui si fa fatica a venire a capo. A cominciare dall’attentato al bar: messo in atto da ragazzi che, in molti casi venivano da buone famiglie o, come Tamin, dalla diaspora ricca in Occidente. E’ che a volte, studiare apre il cervello e gli occhi anche sulle ingiustizie del proprio Paese e questo può portare a scelte radicali, specie se il retroterra culturale è un patrimonio di violenze. Ma Tamin non potrà raccontarcelo. Né dirci di Daesh o se davvero era stato lui a progettare l’attentato.

Il governo e la polizia registrano una vittoria. Noi forse ne sappiamo meno di prima.

Joumana Haddad: il burkini diventa simbolo della rivoluzione

Photo Credit immagine in evidenza: Frédéric Stucin Di Dounia Hadni. Libération (25/08/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina. Joumana Haddad, scrittrice, poetessa e giornalista libanese, si è da sempre battuta attraverso i suoi scritti affinché la donna araba potesse esprimere la propria femminilità e sessualità liberamente. È del 2014 il romanzo tragicomico Kafas (Cage – Gabbia), in cui […]

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Speciale Marocco: pastilla con pesce e frutti di mare

Ultimo appuntamento con il nostro speciale sulla cucina marocchina con una variante di uno dei piatti tipici del Marocco: la pastilla con pesce e frutti di mare! Ingredienti: 500g di calamari 500g di gamberetti 500g di filetto di pesce a scelta (merluzzo, nasello, rana pescatrice, etc.) 200g di spaghetti di riso 25g di champignon chermoula 8 fogli di pasta […]

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Quando si rialzeranno gli arabi?

Di Ibrahim El Syad. Al-Hayat (26/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Cassata. Negli anni Settanta, il mondo arabo era visto come la quinta potenza mondiale dopo gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, l’Europa e il Giappone. Tale successo era dovuto anche all’immagine presentata dai media occidentali, secondo cui il mondo arabo operava con una linea e […]

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Dimenticare Kabul. La guerra delle SIM

A tre giorni dall’attacco mercoledi scorso all’Università americana di Kabul (almeno 16 morti e oltre 50 feriti) una guerra delle “SIM card” si insinua nella guerra guerreggiata che tutti i giorni miete le sue vittime nel Paese dell’Hindukush. Come un un copione ritrito, Afghanistan e Pakistan si scontrano di nuovo perché, dicono a Kabul, ci sono tracce di telefonate che avrebbero raggiunto gli attentatori nella capitale dal Pakistan. Ergo, il colpevole sta nel Paese dei puri. Islamabad risponde per le rime: anche loro hanno tracciato le telefonate ma queste sarebbero partite da… sim afgane, che riescono a collegarsi dal poroso e indefinito confine tra i due Paesi. Ergo, cercate in casa vostra. Guerra delle parole per ora, e anche cauta perché a Islamabad è arrivata una delegazione statunitense di altissimo profilo e dunque, visto che di mezzo c’è l’università americana, la prudenza è di rigore: c’è l’inviato speciale per Afghanistan e Pakistan Richard Olson, l’assistente speciale del presidente Obama Peter Lavoy e il comandante di Resolute Support, la nuova missione Nato in Afghanistan (cui l’Italia partecipa con 800 soldati), generale John Nicholson. Non son queste visite che si programmano certo da un giorno con l’altro, ma il caso, o forse no, fa coincidere la visita con l’ennesima strage. Strage senza rivendicazione, il che getta una luce ancor più sinistra sull’attentato.

I rapporti tra i due Paesi sono ormai più che tesi da oltre un anno e la tensione ha subito nei mesi recenti un’accelerazione cui l’attentato all’Università porta acqua come a un mulino che lavora a pieno ritmo. Indispettito per gli incidenti di frontiera, la montante pachistanofobia afgana e la tolleranza che gli afgani dimostrano per mullah Fazlullah e i suoi accoliti – è il capo dei talebani pachistani che Islamabad è convinta abbia eletto residenza in territorio afgano – il Pakistan ha deciso di reagire con l’espulsione degli afgani che risiedono nel Paese: sono circa due milioni e mezzo e un milione fra loro non ha le carte a posto. Da gennaio Islamabad ha cominciato a far pulizia e adesso sono già 100mila gli afgani cacciati oltre frontiera (67mila solo da giugno). Molti di loro han così perso quel poco che avevano ricostruito della loro vita da profughi infiniti: c’è chi la prende con filosofia ma anche chi subisce l’espulsione come una catastrofe che l’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu, ha già denunciato chiedendo finanziamenti e attenzione a donatori già troppo impegnati coi profughi siriani e di vedute ristrette visto che quella gente finirà per ingrossare le fila di chi tenta fortuna a Occidente. Il governo afgano infatti è in difficoltà: non li può certo respingere ma non ha soldi per accoglierli. La notizia però è di quelle non troppo seducenti nemmeno per i cronisti visto che di immigrati clandestini e non se ne parla già fin troppo. Non è l’unico aspetto dell’Afghanistan a trovar distratti media e politici.

L’altro aspetto, che par quasi irrilevante, è la guerra. La “mission accomplished” infatti non è compiuta per niente. In Afghanistan si combatte, se non più di prima, come sempre. I morti civili aumentano. I bombardamenti sono frequenti e chissà di che entità visto che gli americani hanno introdotto in teatro i B-52, i bombardieri volanti con una fama sinistra acquisita durante la guerra in Vietnam. La differenza è che adesso combattono solo gli afgani e solo raramente le truppe speciali americane appoggiate dall’aviazione. La Nato sta a guardare (la sua non è una missione “combat” come si dice in gergo) e per ora gli afgani sembrano esser affiancati soprattutto dagli americani. Ma sono in difficoltà: militari e politiche. Quelle militari sono di routine (fatto salvo il fatto che ormai si combatte sempre più spesso nel Nord del Paese e non più solo nel Sudovest): i talebani riescono a prendere alcuni distretti per qualche giorno o qualche ora, poi arrivano gli afgani e riconquistano la postazione perduta. Ma, come commenta un militare, questo «non dovrebbe accadere». Il problema è che la catena di comando, dal centro alla periferia, è labile quando non è inceppata. Ciò dipende, dicono gli analisti afgani, dal grado di perenne litigiosità del governo di Unità nazionale, un “papocchio” istituzionale nato dalle elezioni malate di due anni fa che, per far contenti i due galli in batteria, ha inventato un capo dell’esecutivo (Abdullah Abdullah) che affianca il presidente (Ashraf Ghani) col risultato che quel che uno fa la sera l’altro disfa la mattina: si tratti della nomina di un viceministro o di quella di un governatore. Succede così che quando qualche colonnello chiede rinforzi a Kabul si temporeggia perché gli ordini da palazzo son vaghi in questa guerra infinita che pare sia finita soltanto perché non ne parliamo più.

Dalla Palestina la musica come rivolta sociale: la Typo Band

Di Israa Elkhatib. Barakabits. Traduzione e sintesi di Giusy Regina. Viene da Gaza la Typo Band – خطأ مطبعي, un gruppo musicale fondato da tre giovani palestinesi nel febbraio 2012. Mohammed H. Zohud, Islam M. Shanghan e Ala’a B. Hamalawi usano lo stile rock-and-roll per esprimere il personale punto di vista sulla realtà sociale palestinese e […]

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Operazione Scudo dell’Eufrate: il Vietnam turco

Di Yusuf Kanli. Hurriyet Daily News (26/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Quali sono le motivazioni dietro all’”Operazione Scudo dell’Eufrate” lanciata dalla Turchia? Potrebbe considerarsi, come molti commentatori occidentali l’hanno considerata, una copertura per attaccare i curdi siriani? Oppure la Turchia sta solo cercando di assicurare una zona sicura per i rifugiati proprio sul suo […]

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Egitto: dallo Stato alla rivoluzione e di nuovo allo Stato?

Di Abdel Monem Said. Al-Arabiya (23/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi Nell’articolo di settimana scorsa “La rinascita tradita in Egitto” abbiamo riassunto quattro verità storiche: in Egitto, non impariamo dalla storia; non siamo mai riusciti a staccarci dalla mischia dei “paesi in via di sviluppo” per raggiungere i “paesi sviluppati”; viviamo in mezzo al conflitto tra […]

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Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

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Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

Politics of Care and Social Responses in the July 2006 War: a Special Focus on Local Faith-Based Organisations (August, 2016)

Author(s): Estella Carpi Abstract: This paper examines the politics of care of international and local humanitarian actors, as well as the social responses to their intervention in the southern suburbs of Beirut (Dahiye) during the Israeli shelling in the summer of 2006. Several faith-based and secular international NGOs and UN agencies rushed to assist individuals displaced […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

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Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

PRESTO A ROMA LA MOSTRA DI “CAESAR”

Manca poco più di un mese all’inaugurazione della mostra delle fotografie scattate da “Caesar” alle vittime della repressione e della tortura del regime di Bashar Assad. Si tratta di un evento importante per molte ragioni, la prima delle quali è, forse, proprio il fatto che questa mostra è stata oggetto di varie forme di censura, […]

Donne in spiaggia

Di Dalal al-Bazri. Al-Modon (21/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. Le spiagge non sono più come un tempo: la liberalizzazione dei costumi ha permesso ai due sessi di condividere gli stessi luoghi e così, a fianco delle spiagge “tradizionali”,  si sono fatte strada le spiagge private in cui i costumi a due pezzi, o interi, […]

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Neon Moon, la lingerie femminista di una marocchina in UK

Di Ghia Ismaili. Al Huffington Post Maghreb (21/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Si chiama Hayat Rachi, la 26enne marocchina che dal 2015 dirige una start-up che ha lanciato una linea di lingerie per donne “normali”, con il marchio Neon Moon. Il suo progetto, che vuole essere “femminista” al 100%, dà molto da parlare nel Regno Unito. “Ho […]

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Dimenticare

Herat, la Grande Moschea

Mentre lascio ancora una volta questo amato Paese, mi vien da pensare che purtroppo Afghanistan significa ormai #guerra dimenticata#, una locuzione che ho sempre odiato ma temo proprio che adesso sia cosi. Nessuno ne vuol sapere di questa guerra che, anziché esser terminata, cresce di intensità. Qualche esempio. Dopo il famoso attacco alla scuola militare nel 2014 a Peshawar, Islamabad – forse per ritorsione con Kabul che chiude gli occhi sui paktalebani che hanno santuari in Afghanistan – ha deciso un piano di espulsione che, dal gennaio scorso,  ha gia riversati 100mila afgani residenti in Pakistan fuori dal Paese. 67mila solo da giugno (in Pakistan vivono 2 mln e mezzo di afgani  di cui 1 milione non registrati). In Helmand le cose vanno male come al solito ma ora assai peggio e i talebani sono a un passo di Lashkargah. Ma quel che par peggio riguarda tutta la zona di Baghlan Kunduz, dove i talebani hanno prima preso un distretto poi diversi check point governativi (poi ripresi), bloccato la autostrada e fatto saltare il ponte che va in città. Si combatte furiosamente mentre a Kabul il governo litiga.  Gli americani  fanno largo uso delle loro  forze speciali e hanno  ricominciato i bombardamenti ma con i famigerati B-52. Che questa non sia guerra…. Lascio il Paese con questa amarezza mentre ammiro le tonalità del terreno che circonda Herat, dal marrone scuro al giallo tipicamente desertico di un territorio struggente. E dimenticato

Marocco: scandalo sessuale per due esponenti del movimento islamista

(Agenzie). Due esponenti del movimento islamista marocchino sono rimasti implicati in una faccenda di adulterio che ha causato grande scandalo nel Regno, soprattutto in vista delle prossime elezioni in ottobre. I due protagonisti, Moulay Omar Ben Hamad – sposato con 7 figli e professore di Studi Islamici presso l’Università di Rabat – e Fatima Nejjar – vedova […]

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Governo Chahed: la Tunisia uscirà dalla crisi?

Di Inès Oueslati. Al Huffington Post Maghreb (22/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Anche se avvenuto in estate, quando l’attenzione generale è altrove, al nuovo governo tunisino non si possono risparmiare alcune critiche. Il nuovo paesaggio politico che attende la Tunisia al ritorno dalle vacanze, generato dalla crisi economica, è comunque responsabile di una crisi politica […]

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Di stereotipi sul mondo arabo e del ruolo della letteratura

La letteratura araba è importante? Sì. Ha un ruolo sociale da svolgere al giorno d’oggi? Sì. E non lo dico solo io, che l’ho già scritto su queste pagine una miriade di volte. A dirlo, in due interviste diverse pubblicate nei giorni scorsi, sono due intellettuali arabi. Uno è l’editore, intellettuale ed esperto di gastronomia … Continua a leggere Di stereotipi sul mondo arabo e del ruolo della letteratura

Come i Paesi arabi (non) hanno fatto la storia alle Olimpiadi

Non si può certo dire che siano numeri da record quelli raggiunti dai Paesi arabi alle Olimpiadi di Rio 2016. Su 350 milioni di persone, infatti, sono 8 gli atleti saliti sul podio. Una cosa però va sottolineata: di questi, 6 sono donne. La Giordania si guadagna per la prima volta l’oro con Ahmad Abughaush nella categoria 68kg […]

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Il mantello di Daesh a Manbij

Di Basheer al-Baker. Al Araby al-Jadeed (19/08/2016). Traduzione e sintesi di Chiara Avanzato Le immagini delle donne di Manbij che festeggiano la libertà ritrovata sono l’emblema della rinascita di una città che ha vissuto per quasi due anni l’incubo di Daesh (ISIS). Quelle donne fotografate mentre bruciano i loro burqa neri e fumano, le stesse donne che […]

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Speciale Marocco: crema di fichi e noci

Un’altra ricetta dal Marocco, quest’oggi vi proponiamo un dolce fresco, profumato e facile da preparare: una crema di fighi e noci! Ingredienti: 1kg di fichi freschi ½ cucchiaino di cannella, ½ cucchiaino di noce moscata 25cl di succo d’arancia 2 cucchiai di maizena 50cl di latte 50gr di miele 200gr ddi gherigli di noce 1 cucchiaino di burro […]

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Intorno al burkini

Costanza Jesurum In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza […]

Intorno al burkini

Costanza Jesurum In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza […]

Intorno al burkini

Costanza Jesurum In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza […]

Intorno al burkini

Costanza Jesurum In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza […]

Iraq multietnico: i Turkmeni e gli altri dopo la cacciata dell’Isis da Mosul

mcc43 Negli ultimi due anni in Iraq i Peshmerga curdi, l’esercito iracheno, le milizie sciite e alcune formazioni sunnite combattono l’Isis. Divergenti obiettivi e annosi conflitti fra queste forze vengono lasciati in sottofondo. Come già osservato a proposito di Raqqa in Siria (link), quando la liberazione di Mosul sarà avvenuta tutto tornerà a galla, complicato […]

Putin nella Incirlik del Golfo

Di Zouheir Kseibati. Al-Hayat (17/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi. La differenza è “semplice” tra la lotta con armi semplici dei gruppi armati moderati, senza copertura aerea, e la lotta dei russi contro le “bande terroriste” (come le definisce Mosca), che non fa distinzione tra gli oppositori del regime di Bashar al-Assad e chi era, […]

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Le armi di distrazione di massa. E i soldatini

Giornale radio, di prima mattina. Giovedì 18 agosto. Pieno clima ferragostano, in Italia e sulle coste nord del Mediterraneo. La priorità delle notizie è la seguente: Le polemiche ingenerate dalla decisione di alcuni comuni francesi di proibire l’uso di un costume più integrale, sul tipo di una muta da sub, da parte di donne musulmane.Read more

Le armi di distrazione di massa. E i soldatini

Giornale radio, di prima mattina. Giovedì 18 agosto. Pieno clima ferragostano, in Italia e sulle coste nord del Mediterraneo. La priorità delle notizie è la seguente: Le polemiche ingenerate dalla decisione di alcuni comuni francesi di proibire l’uso di un costume più integrale, sul tipo di una muta da sub, da parte di donne musulmane.Read more

Le armi di distrazione di massa. E i soldatini

Giornale radio, di prima mattina. Giovedì 18 agosto. Pieno clima ferragostano, in Italia e sulle coste nord del Mediterraneo. La priorità delle notizie è la seguente: Le polemiche ingenerate dalla decisione di alcuni comuni francesi di proibire l’uso di un costume più integrale, sul tipo di una muta da sub, da parte di donne musulmane.Read more

Cuffia, occhialetti e…

I ricordi risalgono in gola così, come fanno in acqua un paio di occhialetti da piscina. Università ebraica. Il vecchio campus. La piscina guarda alla Città Vecchia, sulle pendici del quartiere di Gerusalemme est che gli israeliani hanno chiamato French Hill. Una struttura moderna, efficiente, chiusa da pareti di cemento su tre lati. La luceRead more

Cuffia, occhialetti e…

I ricordi risalgono in gola così, come fanno in acqua un paio di occhialetti da piscina. Università ebraica. Il vecchio campus. La piscina guarda alla Città Vecchia, sulle pendici del quartiere di Gerusalemme est che gli israeliani hanno chiamato French Hill. Una struttura moderna, efficiente, chiusa da pareti di cemento su tre lati. La luceRead more

Cuffia, occhialetti e…

I ricordi risalgono in gola così, come fanno in acqua un paio di occhialetti da piscina. Università ebraica. Il vecchio campus. La piscina guarda alla Città Vecchia, sulle pendici del quartiere di Gerusalemme est che gli israeliani hanno chiamato French Hill. Una struttura moderna, efficiente, chiusa da pareti di cemento su tre lati. La luceRead more

Per rovesciare il regime in Siria, serve una vera rivoluzione

Di Louay Hussein. Al-Hayat (16/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. Per trasformarsi in una vera e propria rivoluzione, i movimenti di protesta devono attraversare due fasi: in primo luogo devono diffondere le mancanze e gli abusi del potere in carica, con l’obiettivo di sollevare una moltitudine di forze sociali verso il cambiamento; in secondo luogo, […]

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Fondamentalismo Islamico, la spiegazione dello studioso

mcc43 Intervista a Massimo Campanini,  arabista, orientalista e storico fra i più stimati. Si occupa di filosofia islamica medioevale e contemporanea,  di storia del Medio Oriente e nell’ambito del pensiero filosofico si occupa di pensiero politico. L’intervista affronta il tema del fondamentalismo nell’ Islam, del quale, nella maggior parte dei casi, le persone sanno solo […]

In Germania, un team di siriani inventa una app per districarsi nella burocrazia

Your Middle East (16/08/2016). Si chiama Bureaucrazy ed è una app creata ad hoc da un team di imprenditori siriani per facilitare nella navigazione della burocrazia tedesca per ottenere alloggio, assistenza medica, un conto in banca, per non parlare poi dell’asilo politico. Il team è formato da sei programmatori dalla ReDI School of Digital Integration di Berlino, un’organizzazione […]

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In Germania, un team di siriani inventa una app per districarsi nella burocrazia

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“Ultimo tè a Marrakesh” di Toni Maraini

Il blu del mare di Casablanca, il giallo ocra delle dune del Sahara, il bianco accecante delle case dei vicoli di Tangeri, il verde delle foreste sulle montagne dell’Atlas, i mille colori dei suq. Immagini di una terra, il Marocco, che Toni Maraini ci racconta in questa sua antologia che, sebbene pubblicata alcuni anni fa, […]

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“Ultimo tè a Marrakesh” di Toni Maraini

Il blu del mare di Casablanca, il giallo ocra delle dune del Sahara, il bianco accecante delle case dei vicoli di Tangeri, il verde delle foreste sulle montagne dell’Atlas, i mille colori dei suq. Immagini di una terra, il Marocco, che Toni Maraini ci racconta in questa sua antologia che, sebbene pubblicata alcuni anni fa, […]

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Asia: il continente più nucleare

Un paio di anni fa l’artista giapponese Isao Hashimoto ha fatto una mappatura visuale delle 2053 esplosioni nucleari avvenute tra il 1945 e il 1998, di quella che comunemente chiamiamo “corsa agli armamenti”, in questo caso “tecnologicamente avanzati”. Fino al 1949 sono solo gli americani poi cominciano i sovietici. Nel 1952 arriva il Regno Unito. Nel 1960 entra in campo Parigi mentre Londra ha già testato 21 esplosioni, l’Urss 83 e gli Stati Uniti 196. Solo 4 anni dopo, nel gennaio del 1964, il punteggio è: Francia 9, GB 23, Urss 221, Usa 349. Ma nel 1964 si registra anche il primo test cinese. Nel 1974 il primo indiano. Nel 1998 arriva anche il Pakistan. L’esperimento visuale di Hashimoto si conclude con questo bilancio: Stati Uniti 1032; Russia (rimasta al palo dopo la caduta del muro) 715; Francia 210; GB e Cina 45; India 4; Pakistan 2 (in realtà nel 1998 furono ben di più i test dei due Paesi asiatici). L’artista si ferma qui. I bombaroli no (il grafico visuale su può vedere su Youtube: lo riproduco qui sotto).

Continente atomico

Non solo gran parte delle esplosioni avvengono in Asia ma l’Asia è anche il continente che ospita il maggior numero di Paesi con l’arma nucleare. Se si escludono Usa, Gran Bretagna e Francia, nel Consiglio di sicurezza siedono gli altri due Paesi con la bomba “ufficiale”: Cina, che è Asia a tutti gli effetti, e Russia, la cui gran parte del territorio sta nel continente asiatico. Tutti gli altri Paesi con la bomba, più o meno nascosta, sono asiatici. Da Ovest a Est: Israele, Pakistan, India, Corea del Nord (pur se sul suo arsenale c’è un punto interrogativo). Anche molte velleità nucleari stanno in Asia, sebbene non si siano mai trasformate in una bomba: dall’Iran all’Arabia saudita. Se si escludono il Sudafrica, l’Egitto, la Libia o il Brasile in cui è serpeggiato il desiderio di aver l’arma nucleare – e se si escludono le velleità non dichiarate che devono aver attraversato un po’ tutti i Paesi – si può affermare a buon diritto che l’Asia è il continente più nucleare. Con che rischi?


Giochi pericolosi sulla Radcliffe Line

Il visconte di Radcliffe. Uno degli
architetti della
Partition

Lasciando da parte l’interrogativo nordcoreano, la zona forse più a rischio è quella tra India e Pakistan che corre lungo la frontiera artificiale tracciata dal righello di sir Cyril Radcliffe, uno dei legulei che il Raj aveva messo a capo delle Border Commissions col compito di tracciare le linee di demarcazione della “Partition” che, nell’agosto del 1947, doveva dar luogo alla nascita di India e Pakistan. In effetti Radcliffe rese pubblico il suo lavoro proprio nel giorno dell’indipendenza – il 17 – dando luogo al più grande esodo della storia e a un massacro dal bilancio spaventoso. La Radcliffe Line è di fatto ancora oggi la frontiera tra India e Pakistan a Ovest e tra India e Bangladesh a Est ed è anche un po’ il simbolo (come la Durand Line nell’annoso contenzioso tra Pakistan e Afghanistan) di una discordia mai sanata tra i due Paesi gemelli. L’India fu la prima, come abbiamo visto, a dotarsi della bomba. E ovviamente Islamabad non voleva essere da meno. Fin che la Guerra Fredda dominava la scena, le cose erano tutto sommato sotto controllo, ma nel 2006 il presidente Bush firma il via libera all’accordo di cooperazione sul nucleare civile tra Stati Uniti e India che doveva soffiare su un fuoco mai spento. L’accordo consente al governo indiano di acquistare reattori e combustibile nucleare e di adoperare know how americano in fatto di tecnologie avanzate. E’ una capitolo centrale della politica asiatica in tema di armamento atomico in un continente dove il nucleare “illegale”, ossia fuori dal Trattato di non proliferazione nucleare (Npt), conta almeno quattro Paesi (India, Pakistan, Corea del Nord e Israele). A differenza di Israele, che le sue bombe le nasconde, e della Corea del Nord, che vanta forse più di quel che ha, per India e Pakistan la bomba è una realtà ammessa e dichiarata. Anzi, rivendicata: in un equilibrio precario che, dopo l’accordo tra Delhi e Washington, è diventato ancora più fragile.

Tensioni mai sopite

Le tensioni tra i due Paesi, al di là delle guerre (1947-1965-1971) o degli “incidenti” (Kargil 1999) sono pane quotidiano. Nel 1998, sui due fronti, si assiste a una dimostrazione di forza: il 6 aprile parte il primo test pachistano e in maggio l’India risponde con cinque esplosioni nucleari, seguite da altrettante nel Paese dei puri. Il confronto fortunatamente rientrerà, scongiurando una guerra tra i due colossi nucleari. Ma i rapporti tornano tesissimi nel 2001, con l’attacco al parlamento indiano, e nel 2008, dopo gli attentati nel cuore di Mumbay: torna ad agitarsi, per fortuna senza conseguenze, lo spettro dell’uso di testate atomiche (circa un centinaio a testa). Nel 2001 la possibilità di un conflitto e dunque l’uso di missili nucleari diventerà una possibilità reale per mesi e sarà la diplomazia internazionale a raffreddare la tensione. Una tensione che non si è mai allentata mentre il processo di riconciliazione tra i due Paesi continua a restare solo all’orizzonte. Fermo.

Progetto Kahuta

Se gli indiani hanno iniziato presto, il programma nucleare pachistano comincia nel 1972 con Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir. E’ un civile modernista e di idee socialiste, ma teme la supremazia militare del cugino indiano che è grande quattro volte più e il cui programma nucleare è iniziato nel 1967. L’incarico viene affidato a Munir Ahmad Khan, a capo della Pakistan Atomic Energy Commission dal 1972 al 1991. Bhutto vorrebbe la bomba entro quattro anni, ma in realtà si dovrà aspettare Abdul Qadeer Khan – il padre del Progetto Kahuta e dell’atomica pachistana. Corrono gli anni Ottanta anche se, ufficialmente, il Pakistan diventa un Paese con la bomba nel 1998 quando fa il suo primo test. Per il possesso dell’atomica è molto corteggiato, soprattutto da Riad, anche perché è l’unico Paese islamico a possedere la bomba. E quando l’anno scorso il Pakistan si è rifiutato di mandare le sue forze armate nello Yemen o quando Islamabad si è dimostrata fredda all’appello di Riad nicchiando sulla sua partecipazione alla grande coalizione contro il terrorismo nata con evidenti intenzioni anti-iraniane, per i sauditi si è trattato di uno schiaffo che ha turbato le tradizionalmente solide relazioni tra Islamabad e Riad: la presenza del Pakistan a fianco dei Saud significa infatti poter contare anche sul deterrente nucleare.

La playlist dell’estate 2016

A selezionare la top list dell’estate 2016 ci pensa Anghami, il primo social network di streaming musicale dedicato alla musica araba. Ecco le top-10 (pop) più ascoltate nel mondo arabo. Buon ascolto! 1- Bi Rabbek, Nassif Zeytoun 2- Aakh Qalbi, Majed Al Mohandes 3- Maliket El Ehsas, Elissa 4- Omri Ebtada, Tamer Hosni 5- Ana Machi […]

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Speciale Marocco: cuscus tfaya

Continua il nostro viaggio nei meandri delle delizie culinarie del Marocco. Oggi vi proponiamo una variante del cuscus, uno dei piatti più diffusi nella cucina maghrebina: il cuscus tfaya, con cipolle caramellate! Ingredienti: 1kg di cuscus fino 1kg di carne di agnello 1kg di cipolle 3 uova sode 2 cucchiai di acqua di fiori d’arancio 1 […]

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Il nuovo governo in Tunisia sarà in grado di affrontare le questioni spinose?

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (09/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Cassata. Dopo la caduta del governo di Habib Essid e l’incarico al ministro degli Affari Interni e leader di Nidaa al Tounes, Yusuf al-Shahid, di formare un nuovo governo, ci si chiede se il nuovo primo ministro sarà in grado di affrontare le questioni spinose […]

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Fate spazio alle nuove Queens tunisine

di Emma Djilali. Middle East Eye (12/08/2016). Traduzione e sintesi di Silvia Di Cesare Boutheina El Alouadi entra in un caffè presso il Centro Culturale Neapolis a Nabeul. Dopo aver ricevuto un caloroso benvenuto da quasi tutto ill palazzo, spiega che il centro culturale è a pochi passi dalla sua casa d’infanzia. Quando El Alouadi, Medusa […]

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Consiglio di lettura: “2084” di Boualem Sansal

George Orwell sarebbe fiero di sapere che il sequel del suo famoso “1984” ha attraversato il Mediterraneo ed è sbarcato sulla sua sponda meridionale, dove uno scrittore così dotato come Boualem Sansal l’ha saputo concretizzare. L’autore algerino ha vinto più volte premi e riconoscimenti per le sue opere scritte in francese, ma censurate in Algeria […]

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Consiglio di lettura: “2084” di Boualem Sansal

George Orwell sarebbe fiero di sapere che il sequel del suo famoso “1984” ha attraversato il Mediterraneo ed è sbarcato sulla sua sponda meridionale, dove uno scrittore così dotato come Boualem Sansal l’ha saputo concretizzare. L’autore algerino ha vinto più volte premi e riconoscimenti per le sue opere scritte in francese, ma censurate in Algeria […]

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George Orwell sarebbe fiero di sapere che il sequel del suo famoso “1984” ha attraversato il Mediterraneo ed è sbarcato sulla sua sponda meridionale, dove uno scrittore così dotato come Boualem Sansal l’ha saputo concretizzare. L’autore algerino ha vinto più volte premi e riconoscimenti per le sue opere scritte in francese, ma censurate in Algeria […]

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Etnografismo orientalista in traduzione: il caso della traduzione inglese di “Elogio dell’odio” di Khaled Khalifa

Questo articolo a firma di Ina Kosova è apparso in inglese su Arablit lo scorso 12 luglio. La traduzione in italiano per editoriaraba è a cura di Filippo Maria Ragusa, insieme al quale abbiamo pensato che sarebbe stato interessante per i lettori italiani sapere come all’estero (in questo caso: nel mondo anglofono) i romanzi arabi … Continua a leggere Etnografismo orientalista in traduzione: il caso della traduzione inglese di “Elogio dell’odio” di Khaled Khalifa

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Questo articolo a firma di Ina Kosova è apparso in inglese su Arablit lo scorso 12 luglio. La traduzione in italiano per editoriaraba è a cura di Filippo Maria Ragusa, insieme al quale abbiamo pensato che sarebbe stato interessante per i lettori italiani sapere come all’estero (in questo caso: nel mondo anglofono) i romanzi arabi … Continua a leggere Etnografismo orientalista in traduzione: il caso della traduzione inglese di “Elogio dell’odio” di Khaled Khalifa

Regeni, Barani recidivo ai media egiziani: “Il governo Al Sisi è vittima del caso”

Qualcuno lo ricorderà per aver mimato un rapporto orale durante un dibattito al Senato, oppure per aver messo a punto un piano – mai attuato – per trafugare la salma del defunto Bettino Craxi da Hammamet. Ma da alcuni giorni Lucio Barani, senatore verdianino di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), è il volto della riappacificazione tra Roma e […]

L’articolo Regeni, Barani recidivo ai media egiziani: “Il governo Al Sisi è vittima del caso” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Qualcuno lo ricorderà per aver mimato un rapporto orale durante un dibattito al Senato, oppure per aver messo a punto un piano – mai attuato – per trafugare la salma del defunto Bettino Craxi da Hammamet. Ma da alcuni giorni Lucio Barani, senatore verdianino di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), è il volto della riappacificazione tra Roma e […]

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Qualcuno lo ricorderà per aver mimato un rapporto orale durante un dibattito al Senato, oppure per aver messo a punto un piano – mai attuato – per trafugare la salma del defunto Bettino Craxi da Hammamet. Ma da alcuni giorni Lucio Barani, senatore verdianino di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), è il volto della riappacificazione tra Roma e […]

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Qualcuno lo ricorderà per aver mimato un rapporto orale durante un dibattito al Senato, oppure per aver messo a punto un piano – mai attuato – per trafugare la salma del defunto Bettino Craxi da Hammamet. Ma da alcuni giorni Lucio Barani, senatore verdianino di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), è il volto della riappacificazione tra Roma e […]

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Qualcuno lo ricorderà per aver mimato un rapporto orale durante un dibattito al Senato, oppure per aver messo a punto un piano – mai attuato – per trafugare la salma del defunto Bettino Craxi da Hammamet. Ma da alcuni giorni Lucio Barani, senatore verdianino di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), è il volto della riappacificazione tra Roma e […]

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Aleppo e la fine dell’assedio

Di Fatima Yassine. Al-Arabi al-Jadeed (09/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. Nelle sue apparizioni televisive Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, continua a ribadire che Aleppo è in cima alle priorità del partito e, per conquistarla, ha radunato un gran numero di combattenti. Dalla città siriana arrivano immagini di bambini che bruciano copertoni, a […]

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Aleppo e la fine dell’assedio

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Libano, Beirut e turismo, alla ricerca dell’étoile perduta. Intervista al Dr. Georges Younis

Intervista di Katia Cerratti Conoscere il Libano significa amarlo, rimanerne affascinati per tutto quello che offre, dalle bellezze naturali a una storia che riporta ai Fenici, dalla fierezza di un popolo che ha sopportato il peso della guerra civile e non ha perso la gioia di vivere, a città suggestive e millenarie come Byblos, madre […]

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Lo Yemen dopo i negoziati del Kuwait

Di Nabel al-Bukiri. Al-Araby al-Jadeed (07/08/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Sono apparse più chiare oggi le ragioni del fallimento dei negoziati del Kuwait alla ricerca della pace in Yemen e di cui si è molto parlato. È noto ormai che noi yemeniti ci troviamo dinanzi ad una “banda” storica priva di qualsiasi valore […]

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L’Asia e lo sport. Una palla di cervo a 140 all’ora tra gioco e politica

Pazzi per la palla di cervo. Dopo il calcio
il gioco del cricket è lo sport più giocato al mondo


Da Sarajevo a Kabul. Da Lahore a Calcutta, la parabola del gioco e della politica visti da un osservatore che odia guardare qualsiasi  partita. Persino le Olimpiadi. Un raccontone scritto per il manifesto. Con qualche eccezione

Conclusi nel 1995 gli accordi di Dayton, che avevano decretato la fine della guerra in Bosnia, eravamo partiti per Sarajevo ancora un volta. L’occasione ghiotta era la partita di calcio allo stadio Koshevo che doveva sancire la ripresa della normalità nella capitale del Paese più devastato da quel conflitto alle porte di casa. Ricordo che la radiocronaca Rai era affidata nientemeno che a Bruno Pizzul – voce inconfondibile, piglio deciso, conoscenza dettagliatissima di squadre e giocatori – e i giornalisti erano tantissimi, assiepati con me alle spalle di Pizzul per far la cronaca di quell’incontro che si giocava sul prato da poco ricostruito dello stadio. Io non avevo alcun interesse per la partita in sé: odio lo sport e il calcio in particolare da che quattordicenne, convinto da un manipolo di amici tifosi, ero andato controvoglia a San Siro per una partita Milan Verona conclusasi 2 a 0 ma soprattutto col furto del mio motorino nuovo di zecca. Se odiavo lo sport, in quell’occasione gliela avevo proprio giurata. Mi siedo dunque col fedele taccuino e comincio a chiedere ai colleghi più esperti la provenienza etnica dei calciatori: «… quello è un serbo che ha giocato là e quello forse un croato che faceva l’ala destra… ». Forse? Bene non sapevano: conoscevano la provenienza dalle varie squadre ma i miei colleghi, Pizzul in testa, sembravano ignorare che la forza di quella partita stava nel metter assieme serbi, croati e musulmani o, come li chiaman adesso, bosgnacchi. A loro importava poco l’etichetta politica: guardavano al dribbling, al contropiede, alle azioni in area di rigore. Ne venni a casa sconcertato e mentre scrivevo in albergo il mio pezzo, mi domandavo che razza di giornalisti fossero quelli sportivi. Ma forse avevano ragione. Quella partita era la normalità e forse era giusto passar sopra alle connotazioni etniche che avevano costituito il terreno prediletto dei nazionalisti e fatto da corollario alle stragi. E l’incontro era solo il segno che era finita una stagione e ne iniziava un’altra. Io rivangavo, loro ignoravano. Forse il torto era mio.

Lo sport però, come tutto nella vita, va oltre l’azione in sé. E’ divertimento, certo, e, per chi lo ama, grande passione. Ma è pur sempre parte di un contesto. In Asia, come nel resto del mondo. Sarajevo è in un certo senso la porta dell’Asia: ti accoglie con una sfilza di casermoni realsocialisti – ma di una certa raffinatezza architettonica – che ti conducono, lungo il fiume Miljacka, nella città asburgica e alla fine ti proiettano nella cittadella turca, Bascarsija, ornata di cupole e minareti, fontane e piccole botteghe. Respiri un’aria che troverai a Istanbul, la Sublime Porta, il vero ingresso del Continente al di là dei Dardanelli. Un viaggio in Asia è dunque anche un viaggio nei suoi sport. E il calcio non la fa sempre da padrone. Ci sono sport antichissimi e diffusi in un solo Paese, come il buzkashi afgano, e altri, come il cricket, che nonostante siano d’importazione, hanno in Asia il loro cuore pulsante: dall’Arabia Saudita al Pakistan, dall’India allo Sri Lanka per finire in Australia, il cricket è in termini numerici, il secondo sport più popolare del mondo. Si gioca in grandi spiazzi (ground) dove la partita può durare giorni o settimane; si vede in India su decine di canali televisivi e si gioca nei vicoli di Islamabad con tre birilli di legno, una palla gualcita e la classica mazza piatta. Con l’arrivo dei migranti è ritornato in Europa, sua terra d’origine, per sbarcare a Piazza Vittorio, dietro la Stazione Termini di Roma, o nei giardinetti di altre città: squadre che si allenano in club ben organizzati o semplicemente con team messi assieme la domenica nelle ore più fresche della giornata.

Da Sarajevo a Kabul

Dallo stadio Koshevo passo allo stadio Ghazi di Kabul. Qui di giochi se ne fanno tanti anche se una volta era l’arena prediletta dei talebani per punire gli apostati. Ora ci corrono per allenarsi i giocatori di khosti, un’afgana versione della lotta libera, chissà se imparentata con la yağlı güreş, la “lotta turca” sport nazionale della Turchia, o ancora colcoreano taekwondo, uno sport che ha fatto portare a casa agli afgani anche un bronzo olimpico nel 2012. Ci sono persino donne che si allenano: ci correva ad esempio Mahboba Ahadyar, velocista e unica femmina tra i quattro atleti afgani che nel 2008 erano in lista per le Olimpiadi di Pechino, sostituita all’ultimo momento (aveva chiesto asilo politico in Europa perché minacciata) da un’altra atleta di nome Robina Jalali, che aveva già rappresentato l’Afghanistan ad Atene nel 2004. Eccola la politica, o il contesto, rientrare di diritto nello sport. Il gioco nazionale comunque e il buzkashi, che si gioca nel vasto piazzale antistante lo stadio. E’ un gioco vecchio come il mondo, forse di origine mongolica: secondo la leggenda, quando i prigionieri catturati venivano gettati sul terreno davanti ai vincitori, se li portava a casa chi, a cavallo, se li caricava. Da gioco di guerra a gioco di squadre il buzkashi, nelle sue diverse versioni, funziona grosso modo così: in mezzo all’arena di terra battuta, c’è la carcassa di un animale con la testa mozzata e le zampe tagliate all’altezza del garretto. Un centinaio di cavalieri – i chapandaz – si lanciano verso la preda al centro del campo e il giocatore che per primo afferra il trofeo cerca di trascinarlo verso l’esterno dell’arena, in un punto che segna la vittoria finale. Inseguito dagli altri senza esclusione di colpi (bassi).

Gli occidentalisti impenitenti lo hanno definito un violento “polo senza regole” ma il buzkashi le sue regole le ha. Di più: Whitney Azoy, autore di Buzkashi: Game and Power in Afghanistan, sostiene che è il manifesto di questo Paese: «Il buzkashi – mi ha detto una volta – è il simbolo di una violenta competizione per il potere politico che è sempre pronta a esplodere». Una chiave che a suo dire permette di capire il potere dei signori della guerra, dei capi di clan e tribù. «Chiamarlo “sport nazionale” non ha senso – dice Azoy – perché l’Afghanistan non è mai stata, e non è, una nazione, nel senso di un rapporto di coerenza e responsabilità delle sue anime con l’autorità centrale. E infatti nel buzkashi si gioca in squadra ma ognuno corre per sé». Non so se Azoy abbia ragione ma ecco che di nuovo questo gioco non è solo uno sport anche perché, argomentava il saggista, dietro ogni cavaliere c’è sempre un padrone, un capo clan. Come dietro l’Inter o la Juve.

Dallo stadio di Ghazi potremmo passare al Margalla Ground di Islamabad o al Gymkhana Ground di Mumbai. Qui si gioca la versione moderna di un’invenzione sportiva nata nel Sud dell’Inghilterra tra il XIV e il XV secolo e diventata molto popolare in epoca vittoriana per poi trasferirsi, con grande fortuna, nelle colonie dell’Impero. Per Pakistan e India, fratelli coltelli dal giorno in cui il Raj Britannico li mise al mondo con un parto gemellare quanto sanguinoso, il cricket è diventato sia il simbolo di un orgoglio identitario durante i campionati internazionali, sia il modo più o meno ufficioso col quale tornare a parlarsi quando la diplomazia ha bisogno di altri canali per raffreddare gli animi.

Cricket diplomacy

Questi due colossi asiatici si guardano sempre in cagnesco per un motivo o per l’altro: dagli incidenti di frontiera agli attentati, al recente contenzioso sull’ingresso nel Nuclear Suppliers Group, un consesso di una cinquantina di Stati che trattano materia e tecnologia nucleare. Entrambi ci vorrebbero entrare e la diatriba è su chi sarà ammesso per primo. Lo sport che si gioca con una palla di pelle di cervo, che va bene a musulmani e indù, è diventato per questi due Paesi anche la metafora di una diplomazia indiretta: la “cricket diplomacy”. C’è tensione? Una partita potrebbe stemperarla. Dunque la politica c’entra eccome nello sport più diffuso nel mondo (2,5 miliardi di fan) dopo il calcio (3,5 miliardi) e del resto è un rapporto ineludibile se è vero quanto sostiene Cyril L. James, un intellettuale socialista e anticolonialista nato nelle Indie occidentali, che nel 1938 ha scritto The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution. Dice che il cricket può essere interpretato con le categorie della politica e viceversa e che, per gli abitanti delle colonie, fu la metafora dell’indipendenza: vincere nello sport della “madrepatria” imperiale, diventava per gli oppressi la possibile liberazione dalle proprie catene.

Se per qualcuno è il gioco più noioso del mondo e per altri una passione che non ha eguali, nei rapporti difficili tra India e Pakistan è invece il termometro di un dialogo non sempre lineare. Ed è diventato, da Londra a Sidney passando per Lahore e Calcutta, anche un modo di dire se qualcosa non è corretto o non va per il verso giusto: it’s not cricket”. Non so se i diplomatici dei due Paesi usino questa espressione quando la “cricket diplomacy” si arena, ma so che questa lettura può riconciliare con lo sport anche chi cordialmente lo detesta. E mi son sorpreso, in qualche alberghetto del Maharashtra o in qualche stanzetta di Sri Lanka, a guardare la partita. Senza capire gli applausi per l’azione ma affascinato da quella palla che può viaggiare a 140 km l’ora. Più veloce dei lenti e maldestri tentativi della politica o dei nostri tentativi di spiegarla.

L’Asia e lo sport. Una palla di cervo a 140 all’ora tra gioco e politica

Pazzi per la palla di cervo. Dopo il calcio
il gioco del cricket è lo sport più giocato al mondo


Da Sarajevo a Kabul. Da Lahore a Calcutta, la parabola del gioco e della politica visti da un osservatore che odia guardare qualsiasi  partita. Persino le Olimpiadi. Un raccontone scritto per il manifesto. Con qualche eccezione

Conclusi nel 1995 gli accordi di Dayton, che avevano decretato la fine della guerra in Bosnia, eravamo partiti per Sarajevo ancora un volta. L’occasione ghiotta era la partita di calcio allo stadio Koshevo che doveva sancire la ripresa della normalità nella capitale del Paese più devastato da quel conflitto alle porte di casa. Ricordo che la radiocronaca Rai era affidata nientemeno che a Bruno Pizzul – voce inconfondibile, piglio deciso, conoscenza dettagliatissima di squadre e giocatori – e i giornalisti erano tantissimi, assiepati con me alle spalle di Pizzul per far la cronaca di quell’incontro che si giocava sul prato da poco ricostruito dello stadio. Io non avevo alcun interesse per la partita in sé: odio lo sport e il calcio in particolare da che quattordicenne, convinto da un manipolo di amici tifosi, ero andato controvoglia a San Siro per una partita Milan Verona conclusasi 2 a 0 ma soprattutto col furto del mio motorino nuovo di zecca. Se odiavo lo sport, in quell’occasione gliela avevo proprio giurata. Mi siedo dunque col fedele taccuino e comincio a chiedere ai colleghi più esperti la provenienza etnica dei calciatori: «… quello è un serbo che ha giocato là e quello forse un croato che faceva l’ala destra… ». Forse? Bene non sapevano: conoscevano la provenienza dalle varie squadre ma i miei colleghi, Pizzul in testa, sembravano ignorare che la forza di quella partita stava nel metter assieme serbi, croati e musulmani o, come li chiaman adesso, bosgnacchi. A loro importava poco l’etichetta politica: guardavano al dribbling, al contropiede, alle azioni in area di rigore. Ne venni a casa sconcertato e mentre scrivevo in albergo il mio pezzo, mi domandavo che razza di giornalisti fossero quelli sportivi. Ma forse avevano ragione. Quella partita era la normalità e forse era giusto passar sopra alle connotazioni etniche che avevano costituito il terreno prediletto dei nazionalisti e fatto da corollario alle stragi. E l’incontro era solo il segno che era finita una stagione e ne iniziava un’altra. Io rivangavo, loro ignoravano. Forse il torto era mio.

Lo sport però, come tutto nella vita, va oltre l’azione in sé. E’ divertimento, certo, e, per chi lo ama, grande passione. Ma è pur sempre parte di un contesto. In Asia, come nel resto del mondo. Sarajevo è in un certo senso la porta dell’Asia: ti accoglie con una sfilza di casermoni realsocialisti – ma di una certa raffinatezza architettonica – che ti conducono, lungo il fiume Miljacka, nella città asburgica e alla fine ti proiettano nella cittadella turca, Bascarsija, ornata di cupole e minareti, fontane e piccole botteghe. Respiri un’aria che troverai a Istanbul, la Sublime Porta, il vero ingresso del Continente al di là dei Dardanelli. Un viaggio in Asia è dunque anche un viaggio nei suoi sport. E il calcio non la fa sempre da padrone. Ci sono sport antichissimi e diffusi in un solo Paese, come il buzkashi afgano, e altri, come il cricket, che nonostante siano d’importazione, hanno in Asia il loro cuore pulsante: dall’Arabia Saudita al Pakistan, dall’India allo Sri Lanka per finire in Australia, il cricket è in termini numerici, il secondo sport più popolare del mondo. Si gioca in grandi spiazzi (ground) dove la partita può durare giorni o settimane; si vede in India su decine di canali televisivi e si gioca nei vicoli di Islamabad con tre birilli di legno, una palla gualcita e la classica mazza piatta. Con l’arrivo dei migranti è ritornato in Europa, sua terra d’origine, per sbarcare a Piazza Vittorio, dietro la Stazione Termini di Roma, o nei giardinetti di altre città: squadre che si allenano in club ben organizzati o semplicemente con team messi assieme la domenica nelle ore più fresche della giornata.

Da Sarajevo a Kabul

Dallo stadio Koshevo passo allo stadio Ghazi di Kabul. Qui di giochi se ne fanno tanti anche se una volta era l’arena prediletta dei talebani per punire gli apostati. Ora ci corrono per allenarsi i giocatori di khosti, un’afgana versione della lotta libera, chissà se imparentata con la yağlı güreş, la “lotta turca” sport nazionale della Turchia, o ancora colcoreano taekwondo, uno sport che ha fatto portare a casa agli afgani anche un bronzo olimpico nel 2012. Ci sono persino donne che si allenano: ci correva ad esempio Mahboba Ahadyar, velocista e unica femmina tra i quattro atleti afgani che nel 2008 erano in lista per le Olimpiadi di Pechino, sostituita all’ultimo momento (aveva chiesto asilo politico in Europa perché minacciata) da un’altra atleta di nome Robina Jalali, che aveva già rappresentato l’Afghanistan ad Atene nel 2004. Eccola la politica, o il contesto, rientrare di diritto nello sport. Il gioco nazionale comunque e il buzkashi, che si gioca nel vasto piazzale antistante lo stadio. E’ un gioco vecchio come il mondo, forse di origine mongolica: secondo la leggenda, quando i prigionieri catturati venivano gettati sul terreno davanti ai vincitori, se li portava a casa chi, a cavallo, se li caricava. Da gioco di guerra a gioco di squadre il buzkashi, nelle sue diverse versioni, funziona grosso modo così: in mezzo all’arena di terra battuta, c’è la carcassa di un animale con la testa mozzata e le zampe tagliate all’altezza del garretto. Un centinaio di cavalieri – i chapandaz – si lanciano verso la preda al centro del campo e il giocatore che per primo afferra il trofeo cerca di trascinarlo verso l’esterno dell’arena, in un punto che segna la vittoria finale. Inseguito dagli altri senza esclusione di colpi (bassi).

Gli occidentalisti impenitenti lo hanno definito un violento “polo senza regole” ma il buzkashi le sue regole le ha. Di più: Whitney Azoy, autore di Buzkashi: Game and Power in Afghanistan, sostiene che è il manifesto di questo Paese: «Il buzkashi – mi ha detto una volta – è il simbolo di una violenta competizione per il potere politico che è sempre pronta a esplodere». Una chiave che a suo dire permette di capire il potere dei signori della guerra, dei capi di clan e tribù. «Chiamarlo “sport nazionale” non ha senso – dice Azoy – perché l’Afghanistan non è mai stata, e non è, una nazione, nel senso di un rapporto di coerenza e responsabilità delle sue anime con l’autorità centrale. E infatti nel buzkashi si gioca in squadra ma ognuno corre per sé». Non so se Azoy abbia ragione ma ecco che di nuovo questo gioco non è solo uno sport anche perché, argomentava il saggista, dietro ogni cavaliere c’è sempre un padrone, un capo clan. Come dietro l’Inter o la Juve.

Dallo stadio di Ghazi potremmo passare al Margalla Ground di Islamabad o al Gymkhana Ground di Mumbai. Qui si gioca la versione moderna di un’invenzione sportiva nata nel Sud dell’Inghilterra tra il XIV e il XV secolo e diventata molto popolare in epoca vittoriana per poi trasferirsi, con grande fortuna, nelle colonie dell’Impero. Per Pakistan e India, fratelli coltelli dal giorno in cui il Raj Britannico li mise al mondo con un parto gemellare quanto sanguinoso, il cricket è diventato sia il simbolo di un orgoglio identitario durante i campionati internazionali, sia il modo più o meno ufficioso col quale tornare a parlarsi quando la diplomazia ha bisogno di altri canali per raffreddare gli animi.

Cricket diplomacy

Questi due colossi asiatici si guardano sempre in cagnesco per un motivo o per l’altro: dagli incidenti di frontiera agli attentati, al recente contenzioso sull’ingresso nel Nuclear Suppliers Group, un consesso di una cinquantina di Stati che trattano materia e tecnologia nucleare. Entrambi ci vorrebbero entrare e la diatriba è su chi sarà ammesso per primo. Lo sport che si gioca con una palla di pelle di cervo, che va bene a musulmani e indù, è diventato per questi due Paesi anche la metafora di una diplomazia indiretta: la “cricket diplomacy”. C’è tensione? Una partita potrebbe stemperarla. Dunque la politica c’entra eccome nello sport più diffuso nel mondo (2,5 miliardi di fan) dopo il calcio (3,5 miliardi) e del resto è un rapporto ineludibile se è vero quanto sostiene Cyril L. James, un intellettuale socialista e anticolonialista nato nelle Indie occidentali, che nel 1938 ha scritto The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution. Dice che il cricket può essere interpretato con le categorie della politica e viceversa e che, per gli abitanti delle colonie, fu la metafora dell’indipendenza: vincere nello sport della “madrepatria” imperiale, diventava per gli oppressi la possibile liberazione dalle proprie catene.

Se per qualcuno è il gioco più noioso del mondo e per altri una passione che non ha eguali, nei rapporti difficili tra India e Pakistan è invece il termometro di un dialogo non sempre lineare. Ed è diventato, da Londra a Sidney passando per Lahore e Calcutta, anche un modo di dire se qualcosa non è corretto o non va per il verso giusto: it’s not cricket”. Non so se i diplomatici dei due Paesi usino questa espressione quando la “cricket diplomacy” si arena, ma so che questa lettura può riconciliare con lo sport anche chi cordialmente lo detesta. E mi son sorpreso, in qualche alberghetto del Maharashtra o in qualche stanzetta di Sri Lanka, a guardare la partita. Senza capire gli applausi per l’azione ma affascinato da quella palla che può viaggiare a 140 km l’ora. Più veloce dei lenti e maldestri tentativi della politica o dei nostri tentativi di spiegarla.

L’Asia e lo sport. Una palla di cervo a 140 all’ora tra gioco e politica

Pazzi per la palla di cervo. Dopo il calcio
il gioco del cricket è lo sport più giocato al mondo


Da Sarajevo a Kabul. Da Lahore a Calcutta, la parabola del gioco e della politica visti da un osservatore che odia guardare qualsiasi  partita. Persino le Olimpiadi. Un raccontone scritto per il manifesto. Con qualche eccezione

Conclusi nel 1995 gli accordi di Dayton, che avevano decretato la fine della guerra in Bosnia, eravamo partiti per Sarajevo ancora un volta. L’occasione ghiotta era la partita di calcio allo stadio Koshevo che doveva sancire la ripresa della normalità nella capitale del Paese più devastato da quel conflitto alle porte di casa. Ricordo che la radiocronaca Rai era affidata nientemeno che a Bruno Pizzul – voce inconfondibile, piglio deciso, conoscenza dettagliatissima di squadre e giocatori – e i giornalisti erano tantissimi, assiepati con me alle spalle di Pizzul per far la cronaca di quell’incontro che si giocava sul prato da poco ricostruito dello stadio. Io non avevo alcun interesse per la partita in sé: odio lo sport e il calcio in particolare da che quattordicenne, convinto da un manipolo di amici tifosi, ero andato controvoglia a San Siro per una partita Milan Verona conclusasi 2 a 0 ma soprattutto col furto del mio motorino nuovo di zecca. Se odiavo lo sport, in quell’occasione gliela avevo proprio giurata. Mi siedo dunque col fedele taccuino e comincio a chiedere ai colleghi più esperti la provenienza etnica dei calciatori: «… quello è un serbo che ha giocato là e quello forse un croato che faceva l’ala destra… ». Forse? Bene non sapevano: conoscevano la provenienza dalle varie squadre ma i miei colleghi, Pizzul in testa, sembravano ignorare che la forza di quella partita stava nel metter assieme serbi, croati e musulmani o, come li chiaman adesso, bosgnacchi. A loro importava poco l’etichetta politica: guardavano al dribbling, al contropiede, alle azioni in area di rigore. Ne venni a casa sconcertato e mentre scrivevo in albergo il mio pezzo, mi domandavo che razza di giornalisti fossero quelli sportivi. Ma forse avevano ragione. Quella partita era la normalità e forse era giusto passar sopra alle connotazioni etniche che avevano costituito il terreno prediletto dei nazionalisti e fatto da corollario alle stragi. E l’incontro era solo il segno che era finita una stagione e ne iniziava un’altra. Io rivangavo, loro ignoravano. Forse il torto era mio.

Lo sport però, come tutto nella vita, va oltre l’azione in sé. E’ divertimento, certo, e, per chi lo ama, grande passione. Ma è pur sempre parte di un contesto. In Asia, come nel resto del mondo. Sarajevo è in un certo senso la porta dell’Asia: ti accoglie con una sfilza di casermoni realsocialisti – ma di una certa raffinatezza architettonica – che ti conducono, lungo il fiume Miljacka, nella città asburgica e alla fine ti proiettano nella cittadella turca, Bascarsija, ornata di cupole e minareti, fontane e piccole botteghe. Respiri un’aria che troverai a Istanbul, la Sublime Porta, il vero ingresso del Continente al di là dei Dardanelli. Un viaggio in Asia è dunque anche un viaggio nei suoi sport. E il calcio non la fa sempre da padrone. Ci sono sport antichissimi e diffusi in un solo Paese, come il buzkashi afgano, e altri, come il cricket, che nonostante siano d’importazione, hanno in Asia il loro cuore pulsante: dall’Arabia Saudita al Pakistan, dall’India allo Sri Lanka per finire in Australia, il cricket è in termini numerici, il secondo sport più popolare del mondo. Si gioca in grandi spiazzi (ground) dove la partita può durare giorni o settimane; si vede in India su decine di canali televisivi e si gioca nei vicoli di Islamabad con tre birilli di legno, una palla gualcita e la classica mazza piatta. Con l’arrivo dei migranti è ritornato in Europa, sua terra d’origine, per sbarcare a Piazza Vittorio, dietro la Stazione Termini di Roma, o nei giardinetti di altre città: squadre che si allenano in club ben organizzati o semplicemente con team messi assieme la domenica nelle ore più fresche della giornata.

Da Sarajevo a Kabul

Dallo stadio Koshevo passo allo stadio Ghazi di Kabul. Qui di giochi se ne fanno tanti anche se una volta era l’arena prediletta dei talebani per punire gli apostati. Ora ci corrono per allenarsi i giocatori di khosti, un’afgana versione della lotta libera, chissà se imparentata con la yağlı güreş, la “lotta turca” sport nazionale della Turchia, o ancora colcoreano taekwondo, uno sport che ha fatto portare a casa agli afgani anche un bronzo olimpico nel 2012. Ci sono persino donne che si allenano: ci correva ad esempio Mahboba Ahadyar, velocista e unica femmina tra i quattro atleti afgani che nel 2008 erano in lista per le Olimpiadi di Pechino, sostituita all’ultimo momento (aveva chiesto asilo politico in Europa perché minacciata) da un’altra atleta di nome Robina Jalali, che aveva già rappresentato l’Afghanistan ad Atene nel 2004. Eccola la politica, o il contesto, rientrare di diritto nello sport. Il gioco nazionale comunque e il buzkashi, che si gioca nel vasto piazzale antistante lo stadio. E’ un gioco vecchio come il mondo, forse di origine mongolica: secondo la leggenda, quando i prigionieri catturati venivano gettati sul terreno davanti ai vincitori, se li portava a casa chi, a cavallo, se li caricava. Da gioco di guerra a gioco di squadre il buzkashi, nelle sue diverse versioni, funziona grosso modo così: in mezzo all’arena di terra battuta, c’è la carcassa di un animale con la testa mozzata e le zampe tagliate all’altezza del garretto. Un centinaio di cavalieri – i chapandaz – si lanciano verso la preda al centro del campo e il giocatore che per primo afferra il trofeo cerca di trascinarlo verso l’esterno dell’arena, in un punto che segna la vittoria finale. Inseguito dagli altri senza esclusione di colpi (bassi).

Gli occidentalisti impenitenti lo hanno definito un violento “polo senza regole” ma il buzkashi le sue regole le ha. Di più: Whitney Azoy, autore di Buzkashi: Game and Power in Afghanistan, sostiene che è il manifesto di questo Paese: «Il buzkashi – mi ha detto una volta – è il simbolo di una violenta competizione per il potere politico che è sempre pronta a esplodere». Una chiave che a suo dire permette di capire il potere dei signori della guerra, dei capi di clan e tribù. «Chiamarlo “sport nazionale” non ha senso – dice Azoy – perché l’Afghanistan non è mai stata, e non è, una nazione, nel senso di un rapporto di coerenza e responsabilità delle sue anime con l’autorità centrale. E infatti nel buzkashi si gioca in squadra ma ognuno corre per sé». Non so se Azoy abbia ragione ma ecco che di nuovo questo gioco non è solo uno sport anche perché, argomentava il saggista, dietro ogni cavaliere c’è sempre un padrone, un capo clan. Come dietro l’Inter o la Juve.

Dallo stadio di Ghazi potremmo passare al Margalla Ground di Islamabad o al Gymkhana Ground di Mumbai. Qui si gioca la versione moderna di un’invenzione sportiva nata nel Sud dell’Inghilterra tra il XIV e il XV secolo e diventata molto popolare in epoca vittoriana per poi trasferirsi, con grande fortuna, nelle colonie dell’Impero. Per Pakistan e India, fratelli coltelli dal giorno in cui il Raj Britannico li mise al mondo con un parto gemellare quanto sanguinoso, il cricket è diventato sia il simbolo di un orgoglio identitario durante i campionati internazionali, sia il modo più o meno ufficioso col quale tornare a parlarsi quando la diplomazia ha bisogno di altri canali per raffreddare gli animi.

Cricket diplomacy

Questi due colossi asiatici si guardano sempre in cagnesco per un motivo o per l’altro: dagli incidenti di frontiera agli attentati, al recente contenzioso sull’ingresso nel Nuclear Suppliers Group, un consesso di una cinquantina di Stati che trattano materia e tecnologia nucleare. Entrambi ci vorrebbero entrare e la diatriba è su chi sarà ammesso per primo. Lo sport che si gioca con una palla di pelle di cervo, che va bene a musulmani e indù, è diventato per questi due Paesi anche la metafora di una diplomazia indiretta: la “cricket diplomacy”. C’è tensione? Una partita potrebbe stemperarla. Dunque la politica c’entra eccome nello sport più diffuso nel mondo (2,5 miliardi di fan) dopo il calcio (3,5 miliardi) e del resto è un rapporto ineludibile se è vero quanto sostiene Cyril L. James, un intellettuale socialista e anticolonialista nato nelle Indie occidentali, che nel 1938 ha scritto The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution. Dice che il cricket può essere interpretato con le categorie della politica e viceversa e che, per gli abitanti delle colonie, fu la metafora dell’indipendenza: vincere nello sport della “madrepatria” imperiale, diventava per gli oppressi la possibile liberazione dalle proprie catene.

Se per qualcuno è il gioco più noioso del mondo e per altri una passione che non ha eguali, nei rapporti difficili tra India e Pakistan è invece il termometro di un dialogo non sempre lineare. Ed è diventato, da Londra a Sidney passando per Lahore e Calcutta, anche un modo di dire se qualcosa non è corretto o non va per il verso giusto: it’s not cricket”. Non so se i diplomatici dei due Paesi usino questa espressione quando la “cricket diplomacy” si arena, ma so che questa lettura può riconciliare con lo sport anche chi cordialmente lo detesta. E mi son sorpreso, in qualche alberghetto del Maharashtra o in qualche stanzetta di Sri Lanka, a guardare la partita. Senza capire gli applausi per l’azione ma affascinato da quella palla che può viaggiare a 140 km l’ora. Più veloce dei lenti e maldestri tentativi della politica o dei nostri tentativi di spiegarla.

La Palestina alle Olimpiadi

Di Sarah Aziza. Bustle (05/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Nonostante tutti i cliché che accompagnano le Olimpiadi, mi è sempre piaciuta la cerimonia di apertura: un evento in cui, per un momento, una parata di colori e sorrisi sembra eclissare il subbuglio della politica globale. E quest’anno, cerco una figura in particolare: una donna […]

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Speciale Marocco: msemen, pane sfogliato

Questo mese sarà interamente dedicato alla cucina del Marocco! Iniziamo con una pietanza presente in tutti i forni per le strade e sulle tavole di tutte le case marocchine: il msemen, pane sfogliato! Ingredienti: 400g di farina 150g di semola fine 100g di burro 50ml di olio 1 cucchiaino di sale ½ cucchiaino di lievito acqua tiepida […]

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Il mondo arabo sotto mandato: dalla politica all’economia al mondo militare

Di Talal Salman. As-Safir (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Laura Cassata. La grande patria araba si è piegata, da Nord a Sud, da Est a Ovest, a un mandato internazionale esercitato dagli Stati Uniti, dalla Russia, da Israele, ma anche da Germania, Francia e Gran Bretagna. Le basi militari non sono l’unica forma di controllo […]

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Al-Nusra e Al-Qaeda: sovversione interna o separazione?

Di Mohamad Mahmoud Mortada. As-Safir (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi. Dopo due incontri dal contenuto segreto, il capo di Jabhat al-Nusra (o Fronte al-Nusra, n.d.r.), Abu Muhammad al-Julani, si è palesato tramite una registrazione video per annunciare la separazione da Al-Qaeda e l’interruzione del proprio operato sotto il nome di al-Nusra e la nascita del […]

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Di Mohamad Mahmoud Mortada. As-Safir (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi. Dopo due incontri dal contenuto segreto, il capo di Jabhat al-Nusra (o Fronte al-Nusra, n.d.r.), Abu Muhammad al-Julani, si è palesato tramite una registrazione video per annunciare la separazione da Al-Qaeda e l’interruzione del proprio operato sotto il nome di al-Nusra e la nascita del […]

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Al-Nusra e Al-Qaeda: sovversione interna o separazione?

Di Mohamad Mahmoud Mortada. As-Safir (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi. Dopo due incontri dal contenuto segreto, il capo di Jabhat al-Nusra (o Fronte al-Nusra, n.d.r.), Abu Muhammad al-Julani, si è palesato tramite una registrazione video per annunciare la separazione da Al-Qaeda e l’interruzione del proprio operato sotto il nome di al-Nusra e la nascita del […]

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Passaggi: “Il vicolo del mortaio” di Naguib Mahfouz

Ormai più di un anno fa, uno dei miei primi articoli, era dedicato a questo genio, pietra miliare della letteratura araba, l’egiziano Naguib Mahfouz. Oggi vorrei far capire a quanti di voi non hanno ancora avuto il piacere di leggerlo, la reale potenza delle parole di questo autore. Per farlo ho scelto l’incipit di uno […]

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Passaggi: “Il vicolo del mortaio” di Naguib Mahfouz

Ormai più di un anno fa, uno dei miei primi articoli, era dedicato a questo genio, pietra miliare della letteratura araba, l’egiziano Naguib Mahfouz. Oggi vorrei far capire a quanti di voi non hanno ancora avuto il piacere di leggerlo, la reale potenza delle parole di questo autore. Per farlo ho scelto l’incipit di uno […]

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Ormai più di un anno fa, uno dei miei primi articoli, era dedicato a questo genio, pietra miliare della letteratura araba, l’egiziano Naguib Mahfouz. Oggi vorrei far capire a quanti di voi non hanno ancora avuto il piacere di leggerlo, la reale potenza delle parole di questo autore. Per farlo ho scelto l’incipit di uno […]

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I pubblicitari conoscono solamente gli uomini scemi?

mcc43 La pubblicità è uno strumento, è nata con l’industria e la sua necessità, ignorata dall’ artigianato, di entrare in contatto con gli acquirenti. Più che lecito, utile ad entrambe le parti, se c’è informazione corretta e buon gusto. Lo strumento, però, ha conquistato vita propria, è diventato esso pure industria e ha iniziato a vendere […]

Lo scontro di civiltà tra l’Occidente cristiano e la Turchia musulmana

Di Faisal al-Qasim. Al-Quds al-Arabi (30/07/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. Spesso sbagliamo ad analizzare le relazioni internazionali esclusivamente da una prospettiva marxista materiale, che considera i rapporti tra gli Stati costruiti su base puramente economica, dimenticando che ci sono altri fattori importanti che determinano le relazioni e le alleanze internazionali. È vero che l’Occidente sembra capire […]

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Lo scontro di civiltà tra l’Occidente cristiano e la Turchia musulmana

Di Faisal al-Qasim. Al-Quds al-Arabi (30/07/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. Spesso sbagliamo ad analizzare le relazioni internazionali esclusivamente da una prospettiva marxista materiale, che considera i rapporti tra gli Stati costruiti su base puramente economica, dimenticando che ci sono altri fattori importanti che determinano le relazioni e le alleanze internazionali. È vero che l’Occidente sembra capire […]

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Libia, Siria, Afghanistan: la saggezza dell’esperienza

Mentre i caccia americani volano sui cieli libici e quelli russi sui cieli siriani, qualcuno che di bombardamenti se ne intende commenta i raid che sull’Afghanistan non sono mai smessi. «Sbagliati – dice in un’intervista al britannico Guardian l’ex presidente Karzai – molto sbagliati. Chi chiede agli stranieri di bombardare l’Afghanistan non rappresenta il popolo e i suoi interessi». Furberia post presidenziale? No, il discorso è più articolato perché – dice – la presenza straniera è la negazione dell’autodeterminazione e «provoca frustrazione e rabbia che alimentano il conflitto… Se non possiamo combattere da soli, non possiamo chiedere agli stranieri di farlo per noi», dice l’ex presidente che, come ora Faraj, avallò la presenza straniera. Da sempre contrario ai raid, rincara la dose: «Ho detto al governo di non chiedere agli Usa nuovi raid. Usano prodotti chimici ogni giorno: uccidono i nostri campi e diffondono malattie senza por fine alla guerra». La Nato è stata qui per 14 anni, dice ancora, ma le forze straniere stanno combattendo per gli stessi distretti come quando c’erano 150mila soldati… «Stiamo meglio? C’è più sicurezza? No. Vuol dire che qualcosa non va». Per Karzai le forze straniere devono ritirarsi e semmai concentrarsi sui sostenitori stranieri dei talebani.

Libia, Siria, Afghanistan: la saggezza dell’esperienza

Mentre i caccia americani volano sui cieli libici e quelli russi sui cieli siriani, qualcuno che di bombardamenti se ne intende commenta i raid che sull’Afghanistan non sono mai smessi. «Sbagliati – dice in un’intervista al britannico Guardian l’ex presidente Karzai – molto sbagliati. Chi chiede agli stranieri di bombardare l’Afghanistan non rappresenta il popolo e i suoi interessi». Furberia post presidenziale? No, il discorso è più articolato perché – dice – la presenza straniera è la negazione dell’autodeterminazione e «provoca frustrazione e rabbia che alimentano il conflitto… Se non possiamo combattere da soli, non possiamo chiedere agli stranieri di farlo per noi», dice l’ex presidente che, come ora Faraj, avallò la presenza straniera. Da sempre contrario ai raid, rincara la dose: «Ho detto al governo di non chiedere agli Usa nuovi raid. Usano prodotti chimici ogni giorno: uccidono i nostri campi e diffondono malattie senza por fine alla guerra». La Nato è stata qui per 14 anni, dice ancora, ma le forze straniere stanno combattendo per gli stessi distretti come quando c’erano 150mila soldati… «Stiamo meglio? C’è più sicurezza? No. Vuol dire che qualcosa non va». Per Karzai le forze straniere devono ritirarsi e semmai concentrarsi sui sostenitori stranieri dei talebani.

Libia, Siria, Afghanistan: la saggezza dell’esperienza

Mentre i caccia americani volano sui cieli libici e quelli russi sui cieli siriani, qualcuno che di bombardamenti se ne intende commenta i raid che sull’Afghanistan non sono mai smessi. «Sbagliati – dice in un’intervista al britannico Guardian l’ex presidente Karzai – molto sbagliati. Chi chiede agli stranieri di bombardare l’Afghanistan non rappresenta il popolo e i suoi interessi». Furberia post presidenziale? No, il discorso è più articolato perché – dice – la presenza straniera è la negazione dell’autodeterminazione e «provoca frustrazione e rabbia che alimentano il conflitto… Se non possiamo combattere da soli, non possiamo chiedere agli stranieri di farlo per noi», dice l’ex presidente che, come ora Faraj, avallò la presenza straniera. Da sempre contrario ai raid, rincara la dose: «Ho detto al governo di non chiedere agli Usa nuovi raid. Usano prodotti chimici ogni giorno: uccidono i nostri campi e diffondono malattie senza por fine alla guerra». La Nato è stata qui per 14 anni, dice ancora, ma le forze straniere stanno combattendo per gli stessi distretti come quando c’erano 150mila soldati… «Stiamo meglio? C’è più sicurezza? No. Vuol dire che qualcosa non va». Per Karzai le forze straniere devono ritirarsi e semmai concentrarsi sui sostenitori stranieri dei talebani.

Festival Fotografico Castelnuovo

Castelnuovo-foto-110CDPZINE è il contest delle fanzine, auto-produzioni inedite di editoria fotografica, nato per dare l’opportunità di esporre il proprio lavoro ad un pubblico di appassionati e di esperti, nell’ambito di Castelnuovo Fotografia, il festival Fotografico ambientato nel borgo medievale di Castelnuovo di Porto (RM), e dedicato al paesaggio nelle innumerevoli relazioni tra fotografia, libri, arte e architettura.

Festival Fotografico Castelnuovo

Castelnuovo-foto-110CDPZINE è il contest delle fanzine, auto-produzioni inedite di editoria fotografica, nato per dare l’opportunità di esporre il proprio lavoro ad un pubblico di appassionati e di esperti, nell’ambito di Castelnuovo Fotografia, il festival Fotografico ambientato nel borgo medievale di Castelnuovo di Porto (RM), e dedicato al paesaggio nelle innumerevoli relazioni tra fotografia, libri, arte e architettura.

Lo scrittore Ahmed Naji resta in prigione

Court rejects novelist Ahmed Naji's appeal to suspend 2-year sentence | babelmed | mediterranean cultureUn tribunale del Cairo ha rigettato, il 16 luglio scorso, la richiesta di sospensione della pena presentata dallo scrittore trentenne Ahmed Naji, che ha già trascorso in carcere 6 mesi dei complessivi 2 anni di prigione a cui è stato condannato da un tribunale del distretto Cairo Nord per attentato alla morale pubblica a causa dal suo romanzo “Istikhdam al-Hayah” (Usare la vita), pubblicato sulla rivista letteraria governativa Akhbar al-Adab l’anno scorso. (Ebticar/Mada Masr)

Lo scrittore Ahmed Naji resta in prigione

Court rejects novelist Ahmed Naji's appeal to suspend 2-year sentence | babelmed | mediterranean cultureUn tribunale del Cairo ha rigettato, il 16 luglio scorso, la richiesta di sospensione della pena presentata dallo scrittore trentenne Ahmed Naji, che ha già trascorso in carcere 6 mesi dei complessivi 2 anni di prigione a cui è stato condannato da un tribunale del distretto Cairo Nord per attentato alla morale pubblica a causa dal suo romanzo “Istikhdam al-Hayah” (Usare la vita), pubblicato sulla rivista letteraria governativa Akhbar al-Adab l’anno scorso. (Ebticar/Mada Masr)

Lo scrittore Ahmed Naji resta in prigione

Court rejects novelist Ahmed Naji's appeal to suspend 2-year sentence | babelmed | mediterranean cultureUn tribunale del Cairo ha rigettato, il 16 luglio scorso, la richiesta di sospensione della pena presentata dallo scrittore trentenne Ahmed Naji, che ha già trascorso in carcere 6 mesi dei complessivi 2 anni di prigione a cui è stato condannato da un tribunale del distretto Cairo Nord per attentato alla morale pubblica a causa dal suo romanzo “Istikhdam al-Hayah” (Usare la vita), pubblicato sulla rivista letteraria governativa Akhbar al-Adab l’anno scorso. (Ebticar/Mada Masr)

Lo scrittore Ahmed Naji resta in prigione

Court rejects novelist Ahmed Naji's appeal to suspend 2-year sentence | babelmed | mediterranean cultureUn tribunale del Cairo ha rigettato, il 16 luglio scorso, la richiesta di sospensione della pena presentata dallo scrittore trentenne Ahmed Naji, che ha già trascorso in carcere 6 mesi dei complessivi 2 anni di prigione a cui è stato condannato da un tribunale del distretto Cairo Nord per attentato alla morale pubblica a causa dal suo romanzo “Istikhdam al-Hayah” (Usare la vita), pubblicato sulla rivista letteraria governativa Akhbar al-Adab l’anno scorso. (Ebticar/Mada Masr)

Andare oltre il termine “terrorismo”

Di Diana Moukalled. Al-Arabiya (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Recentemente, Le Monde e altri media francesi hanno deciso che non pubblicheranno più foto o biografie di terroristi, perché vogliono privare le organizzazioni terroristiche del potere della glorificazione. Questo significa che, in caso di attacchi come quelli a Nizza e Rouen, non verranno pubblicate le foto […]

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Andare oltre il termine “terrorismo”

Di Diana Moukalled. Al-Arabiya (03/08/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Recentemente, Le Monde e altri media francesi hanno deciso che non pubblicheranno più foto o biografie di terroristi, perché vogliono privare le organizzazioni terroristiche del potere della glorificazione. Questo significa che, in caso di attacchi come quelli a Nizza e Rouen, non verranno pubblicate le foto […]

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“Tuareg” di Barbara Fiore

Oggi con il nostro blog andiamo alla scoperta del misterioso mondo delle popolazioni Tuareg, che da secoli abitano le immense vastità del deserto del Sahara, in continuo movimento proprio come le dune di sabbia mosse incessantemente dal vento. L’etnologa e africanista Barbara Fiore ci racconta la sua affascinante esperienza vissuta con una grande famiglia di […]

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“Tuareg” di Barbara Fiore

Oggi con il nostro blog andiamo alla scoperta del misterioso mondo delle popolazioni Tuareg, che da secoli abitano le immense vastità del deserto del Sahara, in continuo movimento proprio come le dune di sabbia mosse incessantemente dal vento. L’etnologa e africanista Barbara Fiore ci racconta la sua affascinante esperienza vissuta con una grande famiglia di […]

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“Tuareg” di Barbara Fiore

Oggi con il nostro blog andiamo alla scoperta del misterioso mondo delle popolazioni Tuareg, che da secoli abitano le immense vastità del deserto del Sahara, in continuo movimento proprio come le dune di sabbia mosse incessantemente dal vento. L’etnologa e africanista Barbara Fiore ci racconta la sua affascinante esperienza vissuta con una grande famiglia di […]

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La società civile tunisina si mobilita contro impunità e corruzione

Thierry Brésillon Il percorso di transizione democratica avviato in Tunisia nel gennaio 2011 si trova probabilmente a un bivio decisivo. Nel torpore estivo la società civile si sforza di mobilitarsi per mettere in guardia sulla pericolosità di un progetto di legge, in discussione attualmente in parlamento, il cui obiettivo è “la riconciliazione economica” L’intenzione espressa nell’esposizione delle motivazioni di questa […]

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Thierry Brésillon Il percorso di transizione democratica avviato in Tunisia nel gennaio 2011 si trova probabilmente a un bivio decisivo. Nel torpore estivo la società civile si sforza di mobilitarsi per mettere in guardia sulla pericolosità di un progetto di legge, in discussione attualmente in parlamento, il cui obiettivo è “la riconciliazione economica” L’intenzione espressa nell’esposizione delle motivazioni di questa […]

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Thierry Brésillon Il percorso di transizione democratica avviato in Tunisia nel gennaio 2011 si trova probabilmente a un bivio decisivo. Nel torpore estivo la società civile si sforza di mobilitarsi per mettere in guardia sulla pericolosità di un progetto di legge, in discussione attualmente in parlamento, il cui obiettivo è “la riconciliazione economica” L’intenzione espressa nell’esposizione delle motivazioni di questa […]

La società civile tunisina si mobilita contro impunità e corruzione

Thierry Brésillon Il percorso di transizione democratica avviato in Tunisia nel gennaio 2011 si trova probabilmente a un bivio decisivo. Nel torpore estivo la società civile si sforza di mobilitarsi per mettere in guardia sulla pericolosità di un progetto di legge, in discussione attualmente in parlamento, il cui obiettivo è “la riconciliazione economica” L’intenzione espressa nell’esposizione delle motivazioni di questa […]

L’impossibile ricerca di una patria in Siria, Iraq e Libano

Di Nasri Sayegh. As-Safir (01/08/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Cascone. La terra è cambiata. Le guerre hanno modificato paesi ed entità, dividendo e disperdendo i popoli, e modificando le vecchie mappe. Le nuove, invece, sono affollate di trincee, gruppi, sette e corpi senza nome. Il Levante non è più la patria unita che era […]

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Di Nasri Sayegh. As-Safir (01/08/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Cascone. La terra è cambiata. Le guerre hanno modificato paesi ed entità, dividendo e disperdendo i popoli, e modificando le vecchie mappe. Le nuove, invece, sono affollate di trincee, gruppi, sette e corpi senza nome. Il Levante non è più la patria unita che era […]

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Di Nasri Sayegh. As-Safir (01/08/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Cascone. La terra è cambiata. Le guerre hanno modificato paesi ed entità, dividendo e disperdendo i popoli, e modificando le vecchie mappe. Le nuove, invece, sono affollate di trincee, gruppi, sette e corpi senza nome. Il Levante non è più la patria unita che era […]

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Il cimitero di Aleppo

Di Ilias Harfoush. Al-Hayat (31/07/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Nel suo ultimo discorso dinanzi al parlamento siriano, il presidente Bashar al-Assad ha messo in guardia il suo avversario turco, Recep Tayyep Erdoğan, circa il destino della città di Aleppo, ovvero quest’ultima “sarebbe divenuta il cimitero dei sogni infranti del suo progetto di fratellanza”. […]

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Il cimitero di Aleppo

Di Ilias Harfoush. Al-Hayat (31/07/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Nel suo ultimo discorso dinanzi al parlamento siriano, il presidente Bashar al-Assad ha messo in guardia il suo avversario turco, Recep Tayyep Erdoğan, circa il destino della città di Aleppo, ovvero quest’ultima “sarebbe divenuta il cimitero dei sogni infranti del suo progetto di fratellanza”. […]

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Finita una stagione. Purtroppo

Roberto Alajmo ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di direttore del Teatro Biondo di Palermo. A me dispiace molto, per Palermo e per la Sicilia. Sono certa che Roberto abbia ponderato una decisione che chiude tre anni a loro modo storici, anni che hanno segnato la storia di Palermo e della partecipazione dei palermitani all’offerta culturale.Read more

Finita una stagione. Purtroppo

Roberto Alajmo ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di direttore del Teatro Biondo di Palermo. A me dispiace molto, per Palermo e per la Sicilia. Sono certa che Roberto abbia ponderato una decisione che chiude tre anni a loro modo storici, anni che hanno segnato la storia di Palermo e della partecipazione dei palermitani all’offerta culturale.Read more

Finita una stagione. Purtroppo

Roberto Alajmo ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di direttore del Teatro Biondo di Palermo. A me dispiace molto, per Palermo e per la Sicilia. Sono certa che Roberto abbia ponderato una decisione che chiude tre anni a loro modo storici, anni che hanno segnato la storia di Palermo e della partecipazione dei palermitani all’offerta culturale.Read more

Finita una stagione. Purtroppo

Roberto Alajmo ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di direttore del Teatro Biondo di Palermo. A me dispiace molto, per Palermo e per la Sicilia. Sono certa che Roberto abbia ponderato una decisione che chiude tre anni a loro modo storici, anni che hanno segnato la storia di Palermo e della partecipazione dei palermitani all’offerta culturale.Read more

Anna Foa: a Santa Maria in Trastevere, musulmani e cristiani contro i fanatismi

La testimonianza e il messaggio di speranza di Anna Foa, docente di Storia Moderna presso l’Università la Sapienza di Roma, che ieri ha assistito a una messa celebrata nella basilica di Santa Maria in Trastevere per omaggiare Padre Jacques Hamel, il prete ucciso lo scorso 25 luglio nella chiesa francese di Saint-Etienne-du-Rouvray. Ieri mattina sono andata alla […]

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Anna Foa: a Santa Maria in Trastevere, musulmani e cristiani contro i fanatismi

La testimonianza e il messaggio di speranza di Anna Foa, docente di Storia Moderna presso l’Università la Sapienza di Roma, che ieri ha assistito a una messa celebrata nella basilica di Santa Maria in Trastevere per omaggiare Padre Jacques Hamel, il prete ucciso lo scorso 25 luglio nella chiesa francese di Saint-Etienne-du-Rouvray. Ieri mattina sono andata alla […]

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