Mese: aprile 2014

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Roma 10 maggio – L’AFGHANISTAN IN TRANSIZIONE

L’AFGHANISTAN IN TRANSIZIONE

CONVERSAZIONI SULL’EURASIA (E OLTRE)

ROMA sabato 10 maggio 2014 ore 18.00 (sala Musica)

La Civiltà Cattolica, via di Porta Pinciana 1, Roma

IntervengonoFEDERICO DE RENZI turcologoCLAUDIO BERTOLOTTI Analista …

Roma 10 maggio – L’AFGHANISTAN IN TRANSIZIONE

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ROMA sabato 10 maggio 2014 ore 18.00 (sala Musica)

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Roma 10 maggio – L’AFGHANISTAN IN TRANSIZIONE

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Syria: when representational violence is as ruthless as political violence (by Estella Carpi, April 2014)

(Photo by http://www.theguardian.com) http://www.opendemocracy.net/arab-awakening/estella-carpi/syria-when-representational-violence-is-as-ruthless-as-political-violen Syria: when representational violence is as ruthless as political violence ESTELLA CARPI 23 April 2014 Our representations of what happens in Syria contribute to the ongoing violence. The rhetoric allows the self-nominated international community to rationalise an ongoing structure of suffering, done with the best of intentions. The way violence in Syria […]

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Siria, il terrorismo celato

Terroristi in Siria? Se si parla di Siria si parla di terrorismo, ma guarda caso dei gruppi qui citati non si parla mai. Qualcuno sa capire perché?

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Algeria, niente di insolito: elezioni farsa come sempre

Sono passati solo due giorni dall’annuncio dei risultati delle elezioni-farsa in Algeria e già il paese sembra pensare a tutt’altro. La polizia scioglie con la forza nuda e cruda una manifestazione pacifica di commemorazione della primavera berbera del…

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Algeria, niente di insolito: elezioni farsa come sempre


Algeria, niente di insolito: elezioni farsa come sempre

Sono passati solo due giorni dall’annuncio dei risultati delle elezioni-farsa in Algeria e già il paese sembra pensare a tutt’altro. La polizia scioglie con la forza nuda e cruda una manifestazione pacifica di commemorazione della primavera berbera del 1980 a Tizi Ouzou. Mentre nelle montagne del Giurgiura, a poche decine di chilometri da lì, l’esercito subiva un duro attacco dai gruppi islamici armati. Lo scenario resta sempre lo stesso: quando la mafia al potere è in difficoltà lo spettro della violenza plana sul paese.

Il 18 aprile 2014 resterà nella storia come una delle tante pagine nere della storia recente del paese nordafricano. Alle 16 circa inizia la conferenza stampa durante la quale, al termine di una lunga allocuzione farcita di retorica patriottica da pochi soldi, il ministro degli interni, Tayeb Belaïz, annuncia un tasso di partecipazione pari a 51% e la vittoria schiacciante di Bouteflika con ben 81,53%! Il presidente quasi del tutto infermo schiaccia tutti senza aver fatto campagna.

Siccome è dal 1962 che gli algerini considerano i risultati elettorali materia magica competenza degli stregoni del ministero degli interni, nessuno si chiede se il risultato è veritiero o meno. Ma tutti si rendono conto che il tasso di partecipazione annunciato è una esagerazione pazzesca. I seggi erano vuoti in tutto il paese secondo molti osservatori. Tutto quello che rimane dell’opposizione algerina ha chiamato al boicott. Il popolo sapeva i risultati della partita da tempo e quindi non ci ha dato nessuna importanza… Quindi chi è andato a votare? Ma siccome si sa che da noi votano anche i morti, nessuno si è veramente stupito.

Anche se il signor Ramdane Aboudjazr, membro della misteriosa Rete Internazionale per il Diritto allo Sviluppo (GNRD) che ha fatto da capo del gruppo di osservatori internazionali, ha dichiarato che “Le presidenziali algerine 2014 si sono svolte in conformità agli standard internazionali” e non ha registrato nessuna pratica fraudolenta suscettibile di rimettere in causa la legittimità di queste elezioni. Non so chi sono questi osservatori. Ma so, conoscendo la tradizionale generosità del nostro governo verso i suoi sostenitori internazionali, che hanno probabilmente fatto un ottimo affare passando ad Algeri questo piacevole fine settimana di primavera. Bisogna dire a difesa di questi illustri ignoti che hanno monitorato le elezioni, che quando a monitorare le elezioni algerine erano l’OCSE, l’ONU e la Lega Araba, la miopia degli osservatori era allo stesso livello. L’odore dei petrodollari, sembra, fa molto male alla vista dei funzionari degli organismi internazionali.

I giochi sono ormai fatti. In verità erano fatti da tempo. L’unica incognita era di capire chi dei due candidati della cosca al potere faceva da lepre per l’altro. Era Boutef che correva per far vincere e dare un sembianza di legittimità a Benflis? O era Benflis a correre per dare un po’ di piccante a una gara cucita su misura per un presidente segnato dall’età e dalla malattia? Una corsa senza rivali veri. Tutti i partiti dell’opposizione si sono astenuti dal presentare un candidato. Un po’ perché dell’opposizione resta ben poco. Un po’ perché c’era poco da sperare da queste elezioni.

Solo la solita eterna portavoce del solito partito trotzkista da salotto, Louisa Hannoun, ha considerato che la faccia l’ha persa ormai da tempo e che non ha più niente da perdere e tutto da guadagnare restando sul carro del vecchio presidente. Gesto ricompensato con ben 1,37 % dei voti dai maghi del ministero. Un abisso inspiegabile di differenza con le circa 20 poltrone in parlamento che le vengono assegnate ad ogni legislativa. Ma un risultato, bisogna dirlo, molto vicino alla reale popolarità della passionaria di servizio sulla scena pubblica algerina.

Oggi, 2 giorni dopo la fine della non-elezione presidenziale il paese si risveglia faccia faccia con i suoi vecchi problemi. 17 soldati morti nell’alta Cabilia. I manifestanti per la commemorazione della primavera berbera a Tizi Ouzou sono dispersi con l’uso della forza, mentre a Bejaia sfilano tranquillamente per tutta la città poi rientrano a casa senza incidenti. L’espressione del più assoluto arbitrio di un potere arrogante e disprezzante che dice chiaramente, attraverso la gestione delle elezioni prefabbricate e della piazza pubblica che può fare quello che vuole, come vuole, quando vuole e dove vuole.

Algeria, niente di insolito: elezioni farsa come sempre


Algeria, niente di insolito: elezioni farsa come sempre

Sono passati solo due giorni dall’annuncio dei risultati delle elezioni-farsa in Algeria e già il paese sembra pensare a tutt’altro. La polizia scioglie con la forza nuda e cruda una manifestazione pacifica di commemorazione della primavera berbera del 1980 a Tizi Ouzou. Mentre nelle montagne del Giurgiura, a poche decine di chilometri da lì, l’esercito subiva un duro attacco dai gruppi islamici armati. Lo scenario resta sempre lo stesso: quando la mafia al potere è in difficoltà lo spettro della violenza plana sul paese.

Il 18 aprile 2014 resterà nella storia come una delle tante pagine nere della storia recente del paese nordafricano. Alle 16 circa inizia la conferenza stampa durante la quale, al termine di una lunga allocuzione farcita di retorica patriottica da pochi soldi, il ministro degli interni, Tayeb Belaïz, annuncia un tasso di partecipazione pari a 51% e la vittoria schiacciante di Bouteflika con ben 81,53%! Il presidente quasi del tutto infermo schiaccia tutti senza aver fatto campagna.

Siccome è dal 1962 che gli algerini considerano i risultati elettorali materia magica competenza degli stregoni del ministero degli interni, nessuno si chiede se il risultato è veritiero o meno. Ma tutti si rendono conto che il tasso di partecipazione annunciato è una esagerazione pazzesca. I seggi erano vuoti in tutto il paese secondo molti osservatori. Tutto quello che rimane dell’opposizione algerina ha chiamato al boicott. Il popolo sapeva i risultati della partita da tempo e quindi non ci ha dato nessuna importanza… Quindi chi è andato a votare? Ma siccome si sa che da noi votano anche i morti, nessuno si è veramente stupito.

Anche se il signor Ramdane Aboudjazr, membro della misteriosa Rete Internazionale per il Diritto allo Sviluppo (GNRD) che ha fatto da capo del gruppo di osservatori internazionali, ha dichiarato che “Le presidenziali algerine 2014 si sono svolte in conformità agli standard internazionali” e non ha registrato nessuna pratica fraudolenta suscettibile di rimettere in causa la legittimità di queste elezioni. Non so chi sono questi osservatori. Ma so, conoscendo la tradizionale generosità del nostro governo verso i suoi sostenitori internazionali, che hanno probabilmente fatto un ottimo affare passando ad Algeri questo piacevole fine settimana di primavera. Bisogna dire a difesa di questi illustri ignoti che hanno monitorato le elezioni, che quando a monitorare le elezioni algerine erano l’OCSE, l’ONU e la Lega Araba, la miopia degli osservatori era allo stesso livello. L’odore dei petrodollari, sembra, fa molto male alla vista dei funzionari degli organismi internazionali.

I giochi sono ormai fatti. In verità erano fatti da tempo. L’unica incognita era di capire chi dei due candidati della cosca al potere faceva da lepre per l’altro. Era Boutef che correva per far vincere e dare un sembianza di legittimità a Benflis? O era Benflis a correre per dare un po’ di piccante a una gara cucita su misura per un presidente segnato dall’età e dalla malattia? Una corsa senza rivali veri. Tutti i partiti dell’opposizione si sono astenuti dal presentare un candidato. Un po’ perché dell’opposizione resta ben poco. Un po’ perché c’era poco da sperare da queste elezioni.

Solo la solita eterna portavoce del solito partito trotzkista da salotto, Louisa Hannoun, ha considerato che la faccia l’ha persa ormai da tempo e che non ha più niente da perdere e tutto da guadagnare restando sul carro del vecchio presidente. Gesto ricompensato con ben 1,37 % dei voti dai maghi del ministero. Un abisso inspiegabile di differenza con le circa 20 poltrone in parlamento che le vengono assegnate ad ogni legislativa. Ma un risultato, bisogna dirlo, molto vicino alla reale popolarità della passionaria di servizio sulla scena pubblica algerina.

Oggi, 2 giorni dopo la fine della non-elezione presidenziale il paese si risveglia faccia faccia con i suoi vecchi problemi. 17 soldati morti nell’alta Cabilia. I manifestanti per la commemorazione della primavera berbera a Tizi Ouzou sono dispersi con l’uso della forza, mentre a Bejaia sfilano tranquillamente per tutta la città poi rientrano a casa senza incidenti. L’espressione del più assoluto arbitrio di un potere arrogante e disprezzante che dice chiaramente, attraverso la gestione delle elezioni prefabbricate e della piazza pubblica che può fare quello che vuole, come vuole, quando vuole e dove vuole.

Ciò che al-Qaida non è più

[questo pezzo è uscito su pagina99 qualche tempo fa, un po’ tagliato. Lo metto qui anche per questioni di appuntistica mie proprie: oggi vado a parlare a Viterbo, mi serve come riferimento :D] Il 23 febbraio scorso una delle più…

Forum economico UE-Africa – L’UE all’opera per il settore privato africano

Forum economico UE-Africa - L'UE all'opera per il settore privato africano

Perché l’UE concentra la cooperazione allo sviluppo sul settore privato

Creare opportunità di crescita e di lavoro in Africa è cruciale perché in questo continente, come in altre regioni in via di sviluppo, mancano opportunità di lavoro e di reddito, e si assiste ad rapida espansione di una popolazione giovane.

In molti paesi in via di sviluppo l’espansione del settore privato, in particolare nella componente delle microimprese e delle piccole e medie imprese, rappresenta la principale fonte di occupazione e un motore potente di crescita economica. Concentrando circa il 90% dei posti di lavoro esistenti nei paesi in via di sviluppo, il settore privato è un partner essenziale nella lotta contro la povertà.

Eppure, rispetto ai concorrenti di altri mercati emergenti, il settore privato africano si trova a dover affrontare una serie impressionante di ostacoli: informalità diffusa e crescente, “vuoto mediano” nelle dimensioni delle imprese e scarsa mobilità verticale, legami tenui tra le imprese, scarsa competitività all’esportazione, scarsa capacità di innovazione, complessità delle procedure di registrazione e di tassazione delle imprese, carenze infrastrutturali, intermittenze nell’approvvigionamento di corrente elettrica, accesso limitato ai finanziamenti e corruzione.

Come l’UE sostiene l’evoluzione del settore privato

L’UE offre al settore privato un’assistenza variegata, sotto forma, ad esempio, di sostegno all’instaurazione di un contesto propizio all’imprenditorialità, perché considera che un miglioramento in questo senso, aiutando a promuovere l’efficienza degli investimenti nazionali, attrarre gli investimenti esteri diretti e aumentare la produttività, permetta di innalzare il reddito e migliorare le possibilità di occupazione.

È prestata assistenza per la riduzione degli ostacoli amministrativi e normativi all’imprenditoria, per un sostegno ai competenti ministeri negli scambi commerciali e per la revisione della normativa e delle politiche vigenti. A questo si aggiunge il sostegno ai servizi di sviluppo dell’imprenditoria (quali formazione, consulenza e informazione) con l’obiettivo di migliorare le competenze tecniche e gestionali e incoraggiare il trasferimento di conoscenze specialistiche e tecnologie. I progetti e programmi dell’UE comprendono altresì il sostegno agli enti professionali, come le camere di commercio, alle associazioni di settore o alle federazioni di PMI, nonché la promozione di enti finanziari locali affidabili.

Altre tipologie di sostegno si esplicano nella promozione degli investimenti e delle iniziative di cooperazione tra imprese e nell’agevolazione dell’accesso ai mercati finanziari. Un altro aspetto importante è il sostegno alle attività di microcredito e di finanza inclusiva. Il continente africano è destinatario del 50% circa del sostegno diretto complessivo prestato dall’UE all’evoluzione del settore privato nei paesi in via di sviluppo: tra il 2004 e il 2010 è stato assegnato all’Africa (Nordafrica e Africa subsahariana) un importo totale di 1,2 miliardi di euro.

Collaborazione con i partner

Nel concreto l’UE presta sostegno al settore privato in collaborazione con organizzazioni internazionali (Banca europea per gli investimenti (BEI), agenzie dell’ONU, ecc.), enti pubblici dei paesi partner (ad es., ministeri), imprese private (società di consulenza, ecc.), organizzazioni della società civile (tra cui associazioni professionali, camere di commercio, organismi di settore), Stati membri dell’UE stessa con le relative agenzie per lo sviluppo e università e istituti di ricerca.

Il settore privato africano ha inoltre beneficiato di un volume ingente di finanziamenti sotto forma di prestiti privilegiati, linee di credito e investimenti azionari (circa 3,5 miliardi di euro dal 2003) erogati tramite lo strumento per gli investimenti ACP, fondo rotativo gestito dalla Banca europea per gli investimenti.

L’UE all’opera per l’aiuto al commercio

Assieme ai suoi Stati membri l’UE è il maggior erogatore di aiuto per il commercio (AfT) del mondo e un prestatore di lunga data di assistenza allo sviluppo finalizzata a favorire l’intensificazione degli scambi sul piano mondiale e regionale.Si dirige verso l’Africa la quota più consistente dell’AfT erogato dall’UE e dai suoi Stati membri: secondo le ultime stime, gli impegni si sono aggirati su 4,7 miliardi di euro, pari al 43% dell’AfT complessivo, nel 2012, anno che, con gli oltre 11 miliardi di euro erogati nel mondo, ha segnato il primato assoluto nell’aiuto per il commercio dell’UE e degli Stati membri. È aumentato considerevolmente il volume di aiuto destinato all’Africa subsahariana, regione che distacca di gran lunga le altre quanto a AfT ricevuto dall’UE. Per molti paesi africani l’UE resta il più importante mercato d’esportazione.

Settore privato e energia

Per espandersi le imprese hanno bisogno di energia. Per questo la Commissione europea indirizza il sostegno verso iniziative che permettano di colmare le lacune nell’infrastruttura energetica e di realizzare soluzioni scollegate alla rete, in modo da poter offrire alla popolazione servizi energetici sostenibili.

Grazie a soluzioni di finanziamento innovative e attività di microcredito l’UE è pioniera nel mondo in via di sviluppo quanto all’incanalamento degli investimenti del settore privato nel comparto energetico. Il settore privato svolge quindi un ruolo fondamentale in quest’approccio olistico; l’UE e gli Stati membri vaglieranno l’ipotesi di mobilitare ulteriori aiuti, per un importo che può arrivare a diverse centinaia di milioni di euro, per sostenere nuovi investimenti effettivi nell’energia sostenibile per i paesi in via di sviluppo, agendo in collaborazione con le istituzioni finanziarie e il settore privato per ottenere un effetto leva che permetta la moltiplicazione esponenziale dell’importo mobilitato.

Settore privato e agricoltura

Lo sviluppo di un comparto agricolo dinamico e economicamente sostenibile in Africa offre uno sbocco di mercato importante per le imprese, soprattutto per i piccoli coltivatori o le aziende familiari che, nel continente, costituiscono i maggiori investitori privati. Integrandosi maggiormente nell’economia agricola, le famiglie che, nelle zone rurali così come in quelle urbane, vivono di agricoltura e le aziende agricole in genere possono guadagnarsi da vivere, con conseguente aumento del benessere e della prosperità.

Secondo le stime della Banca mondiale, nel 2030 il volume totale dell’agricoltura e dell’imprenditoria agricola ammonterà a 1 000 miliardi di USD, a fronte dei 313 miliardi del 2010. Se i paesi e le regioni africane riusciranno a costruire un’imprenditoria competitiva nel settore, il comparto agricolo potrà incidere profondamente sulla trasformazione economica del continente creando occupazione e dando reddito alla popolazione, prevalentemente nelle zone rurali ma anche in quelle urbane.

Azione combinata

Una delle principali modalità con cui l’UE collabora con il settore privato è l’azione combinata (blending), associando le sue sovvenzioni ad altre risorse del settore pubblico e di quello privato, quali prestiti e partecipazioni in capitale, per stimolare finanziamenti supplementari in forme diverse dalle sovvenzioni.

Dal 2007 la Commissione europea ha varato, insieme agli Stati membri, otto meccanismi regionali di azione combinata a copertura dell’intera zona interessata dalla cooperazione esterna dell’UE. Oltre 200 operazioni dei meccanismi di azione combinata dell’UE hanno beneficiato di sovvenzioni per 1,6 miliardi di euro attinte al bilancio dell’UE, al Fondo europeo di sviluppo (FES) e ai bilanci degli Stati membri. I contributi erogati dall’UE ai singoli progetti sotto forma di sovvenzioni sono stati all’origine della concessione di prestiti per oltre 16 miliardi di euro da parte delle istituzioni finanziarie ammissibili, liberando per il finanziamento dei progetti fondi per almeno 42 miliardi di euro in linea con gli obiettivi ricercati dalle politiche dell’Unione.

Esempi di progetti di cooperazione dell’UE a sostegno della crescita economica e del commercio

Sostegno ai mercati agricoli in Somalia

La produzione e la produttività dell’agricoltura somala si scontrano a una serie di problemi che spazia dall’insicurezza generalizzata all’aridità del clima, dalla debolezza dei servizi di supporto all’agricoltura alla carenza dei materiali necessari (sementi e fertilizzanti, ad esempio), cui si sommano gli ostacoli costituiti dalla mancanza di accesso ai mercati (locale e internazionale) e dalla scarsità di informazioni sulla commercializzazione. A causa dell’aiuto alimentare e della distribuzione su vasta scala di cibo, la produzione locale è sempre rimasta molto esigua e di rilevanza marginale.

Nel 2011 l’UE ha finanziato la prima fase di un programma di sostegno dei mercati agricoli in Somalia, che ha permesso ai coltivatori locali, per la prima volta, di produrre, immagazzinare, selezionare e vendere granturco di buona qualità al Programma alimentare mondiale (PAM). La seconda fase del programma partirà nel luglio 2014, con un sostegno dell’UE pari a 3 milioni di euro. Mentre la prima fase del programma aveva visto la partecipazione di 10 cooperative o associazioni di coltivatori, la prossima si rivolgerà a un numero di agricoltori che potrebbe toccare il migliaio.

Sostegno al “sistema qualità” nell’Africa occidentale

Nella regione dell’Africa occidentale è stato varato un programma inerente a un “sistema qualità” per sostenere la competitività delle imprese e assicurare la conformità alle norme e ai regolamenti tecnici e commerciali internazionali. Finanziato dall’Unione europea con un importo complessivo di 16,5 milioni di euro, il programma, che ha interessato i 16 Stati membri dell’ECOWAS più la Mauritania, è sfociato nell’adozione di misure su qualità, norme, valutazione della conformità e accreditamento per 17 laboratori e nella certificazione delle norme private di 17 imprese.

Il programma ha inoltre contribuito alla creazione di un’infrastruttura nazionale per la qualità nella maggior parte dei paesi e ha promosso un’autentica “cultura della qualità” in soggetti che vanno dai governi alle associazioni di consumatori, dai laboratori alle imprese.

Accesso sostenibile alle materie prime

Il tema delle materie prime è il fulcro delle discussioni che coinvolgeranno il Vicepresidente Tajani nel corso del vertice. Un accesso e una gestione sostenibili delle materie prime rivestono importanza fondamentale nella trasformazione della ricchezza rappresentata dalle risorse minerarie in una crescita economica inclusiva e in un sostegno allo sviluppo. In questo contesto la Commissione ha adottato recentemente un regolamento che prevede un sistema volontario di certificazione per le imprese che importano determinati minerali da zone di conflitto e mira a promuovere il buongoverno e la trasparenza nell’attività mineraria, che costituisce uno dei capisaldi del primo pilastro dell’iniziativa sulle materie prime. Le discussioni toccheranno anche i temi delle infrastrutture ad alta capacità, del potenziamento delle conoscenze e competenze e della gestione delle materie prime ricavate dai rifiuti.

Cooperazione Africa-UE nel settore spaziale

Nell’intento di assicurare una crescita sostenibile sul piano mondiale, l’UE appoggia varie iniziative nuove di cooperazione e sviluppo tecnologico nel settore spaziale.

Le tecnologie, le infrastrutture e i servizi dello spazio sono potenzialmente in grado di svolgere un ruolo positivo nel mondo in via di sviluppo agevolando lo sviluppo e la crescita sostenibili, favorendo una gestione oculata delle risorse e contribuendo all’attuazione delle politiche in svariati settori, quali sicurezza alimentare, sanità e istruzione, senza dimenticarne la potenziale importanza per la gestione delle calamità e l’adattamento ai cambiamenti climatici.

Il settore privato svolge un ruolo essenziale nella definizione delle soluzioni tecniche integrate nei programmi spaziali europei, compresi i portabandiera Galileo (sistema europeo di navigazione satellitare) e Copernicus (programma europeo di monitoraggio della terra). Questi programmi sono aperti, a determinate condizioni, alla partecipazione dei paesi extra UE, compresi i paesi in via di sviluppo, ad esempio dell’Africa.

Il settore privato è associato anche a vari progetti di ricerca spaziale finanziati dal PQ7 (programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico), ai quali partecipano anche paesi in via di sviluppo, ad esempio dell’Africa e dell’America latina. Questo ruolo importante del settore privato è confermato dal programma che subentrerà al PQ7, ossia il programma spaziale di Orizzonte 2020 che, aperto in via di principio alla cooperazione internazionale, è anzi, per il settore privato, di accesso persino più facile del predecessore, perché sono state semplificate le regole sulla partecipazione.

Monitoraggio della terra – Copernicus

Per il programma COPERNICUSè stata decisa una politica aperta e libera in materia di dati che consente agli utenti specializzati, ma anche al settore pubblico e al settore privato così come alla popolazione in genere, di accedere ai prodotti dei dati e dei servizi satellitari. È possibile personalizzare vari servizi a valore aggiunto in funzione delle specifiche esigenze pubbliche o commerciali. La Commissione incoraggia in questo contesto nuovi sbocchi commerciali per il settore privato nei paesi in via di sviluppo.

Navigazione satellitare

La navigazione satellitare è un’altra sfera di cooperazione atta a sviluppare l’economia africana. Muovendo dal successo del programma europeo EGNOS(servizio europeo di copertura per la navigazione geostazionaria), la Commissione europea e i partner africani stanno vagliando le possibili modalità di finanziamento e di governance per estendere al continente africano la prestazione di servizi di navigazione satellitare.

Vantaggi dell’uso della navigazione satellitare in Africa

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    Ottimizzazione dei trasporti grazie alla guida satellitare (trasporto aereo, marittimo, terrestre, su idrovie, per ferrovia).

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    Miglioramento della sicurezza dei cieli africani grazie alla capacità di dirigere in sicurezza gli aerei verso gli aeroporti lungo le rotte regionali e internazionali. Si stima che i benefici associati a questa maggiore sicurezza in Africa ammontino a oltre 1 100 milioni di euro.

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    I servizi satellitari (telerilevamento e localizzazione precisa) si rivelano altresì strumenti efficaci per la gestione delle risorse naturali presenti in abbondanza nel continente africano: prodotti agricoli, petrolio, minerali, ecc.

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    La gestione del territorio aiuterebbe lo sviluppo di servizi catastali, con efficacia molto maggiore rispetto ai metodi tradizionali e capacità di evitare i conflitti.

Fonte: www.europe.eu

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    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


     

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


     

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


     

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


     

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

    Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


     

    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

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    Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

    Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

    (Foto Jacopo Granci)

     


    La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

    A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

    L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

    Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

    Poi si ferma.

    I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

    Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

     

    Qualcosa che stona

    Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

    Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

    L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

    Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

    E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

    Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

     

    Lo zafferano non basta

    I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

    “Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

    Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

    Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

    Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

    Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

    Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

     

    Il governo fa promesse..

    Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

    In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

    Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

    “Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

    Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

    Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

    “In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

    Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

     

    Gli intermediari

    L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

    “Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

    E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

    Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

     

    L’emarginazione aumenta l’impotenza

    Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

    Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

    A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

    A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

    Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

    Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

    Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

    Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

    L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

    “Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

     

    (Foto Jacopo Granci)

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    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

    “Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

    “Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

    Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

    Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

    Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

    Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

    Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



    Marocco

    La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

    Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

    Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

    Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

    E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



    Algeria

    Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

    Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

    “Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

    Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

    Tunisia e Libia

    Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

    Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

    Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

    Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



    La terra e le sue risorse

    Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

    Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

    “Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

    Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

    Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

    Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

    Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

    “Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

    Democrazia amazigh?

    “Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

    “La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

    La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

    Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

    E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

    Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

    Bandiera berbera

    La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

    “Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

    “Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

    Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

    Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

    Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

    Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

    Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



    Marocco

    La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

    Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

    Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

    Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

    E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



    Algeria

    Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

    Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

    “Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

    Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

    Tunisia e Libia

    Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

    Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

    Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

    Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



    La terra e le sue risorse

    Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

    Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

    “Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

    Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

    Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

    Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

    Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

    “Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

    Democrazia amazigh?

    “Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

    “La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

    La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

    Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

    E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

    Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

    Bandiera berbera

    La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

    “Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

    “Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

    Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

    Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

    Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

    Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

    Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



    Marocco

    La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

    Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

    Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

    Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

    E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



    Algeria

    Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

    Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

    “Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

    Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

    Tunisia e Libia

    Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

    Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

    Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

    Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



    La terra e le sue risorse

    Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

    Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

    “Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

    Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

    Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

    Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

    Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

    “Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

    Democrazia amazigh?

    “Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

    “La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

    La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

    Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

    E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

    Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

    Bandiera berbera

    La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

     

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

    Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
     

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

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    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

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    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

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    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

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    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

     

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    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

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    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

     

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

    Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
     

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

     

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

    Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
     

    Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

    Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

    (Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

     

    [Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

    E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

    “Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

     

    “Mai più piangerò in silenzio”

    “Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

    Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    Algeria: Bouteflika Barakat!

    Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

     

     

    (traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

    Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

    Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

    La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

     

    A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

    Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

     

    Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

    Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

     

    Cosa significa esattamente Barakat?

    Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

     

    Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

    Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

    Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

    Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

     

    Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

    Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

     

    Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

    Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

    Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

     

    Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

    Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

    Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

    Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

    Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

     

    La natura del regime

    “Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

    Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

    “La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

    Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

    La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

    “E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

    Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

    E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

    L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

    Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

    Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

     

    La “tregua”

    La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

    Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

    Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

    Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

    I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

    La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

    Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

    I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

    Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

    Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

     

    La contestazione

    Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

    Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

    Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

    Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

    Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

    Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

    Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

    Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

    La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

     

    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

    Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

     

    E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

    I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

    Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

    “Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

    Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

    Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

    Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

    E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

    Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

    Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

    Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

    “Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

    Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

    Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

    Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

    Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

    Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

    Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

    “In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


    (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
     

    Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

    Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

    (Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

     

    Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

    “Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

    Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

    La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

    Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

    Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

    I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

    Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

    (Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)