Categoria: MENA sguardi e analisi

Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!

di Claudio Bertolotti

UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza

 
 
 Necessità di un esercito e una difesa comuni per l’Europa? Questo il tema della conferenza (video a cura di ‘Radio Radicale’) tenuta a Torino lo scorso 12 febbraio organizzato dall’Associazione Radicale “Adelaide Aglietta” e dall’Alleanza Liberal-Democratica per l’Europa (ALDE) a cui hanno preso parte Silvia Manzi (coordinatrice dell’Associazione Radicale ‘Adelaide Aglietta’ di Torino), Carmelo Palma (direttore responsabile di ‘Strade’) nel magistrale ruolo di moderatore, Claudio Bertolotti (analista strategico indipendente), Alessandro Politi (direttore del NATO Defense College Foundation), Marco Marazzi (coordinatore nazionale ALDE Party Membri Individuali Italia), Simone Fissolo (presidente Gioventù Federalista Europea), Olivier Dupuis (giornalista, già parlamentare europeo).“Non è un caso che nella prima capitale federatrice d’Italia si parli di un tema federatore per l’Europa”, ha detto Alessandro Politi, “sappiamo che in tempi di crisi seria può sembrare un falso scopo, ma la questione di uno spazio di sicurezza comune è vera e se ne infischia delle microtattiche politiche raso zolla. Pensiamo e parliamo invece di una nuova stagione dove gli steccati artificiosi tra UE e NATO stanno per cadere e dove i governi europei devono pensare nella sola dimensione reale: un continente nel mondo”.
– See more at: http://www.lindro.it/difesa-europea-esercito-comune-si-puo-si-deve-fare/#sthash.xVjs5jl5.dpuf

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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!

di Claudio Bertolotti

UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza

 
 
 Necessità di un esercito e una difesa comuni per l’Europa? Questo il tema della conferenza (video a cura di ‘Radio Radicale’) tenuta a Torino lo scorso 12 febbraio organizzato dall’Associazione Radicale “Adelaide Aglietta” e dall’Alleanza Liberal-Democratica per l’Europa (ALDE) a cui hanno preso parte Silvia Manzi (coordinatrice dell’Associazione Radicale ‘Adelaide Aglietta’ di Torino), Carmelo Palma (direttore responsabile di ‘Strade’) nel magistrale ruolo di moderatore, Claudio Bertolotti (analista strategico indipendente), Alessandro Politi (direttore del NATO Defense College Foundation), Marco Marazzi (coordinatore nazionale ALDE Party Membri Individuali Italia), Simone Fissolo (presidente Gioventù Federalista Europea), Olivier Dupuis (giornalista, già parlamentare europeo).“Non è un caso che nella prima capitale federatrice d’Italia si parli di un tema federatore per l’Europa”, ha detto Alessandro Politi, “sappiamo che in tempi di crisi seria può sembrare un falso scopo, ma la questione di uno spazio di sicurezza comune è vera e se ne infischia delle microtattiche politiche raso zolla. Pensiamo e parliamo invece di una nuova stagione dove gli steccati artificiosi tra UE e NATO stanno per cadere e dove i governi europei devono pensare nella sola dimensione reale: un continente nel mondo”.
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In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito

di Giovanni Drogo 
Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito

di Giovanni Drogo 
Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito

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Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

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Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

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di Giovanni Drogo 
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di Giovanni Drogo 
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Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

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Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

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Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

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di Giovanni Drogo 
Quali minacce per ambiente, popolazione civile e militari impegnati sul campo?

Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1
 
Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1
 
Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

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di Claudio Bertolotti

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Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

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di Claudio Bertolotti

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Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

@cbertolotti1
 
Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

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Libia, diagnosi di una crisi /3
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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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Libia, diagnosi di una crisi /3
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La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Libia: difficile transizione, riserve per il futuro

di Claudio Bertolotti

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Libia, diagnosi di una crisi /3
Quale transizione politica per un Paese frammentato? Missione in Libia: analisi dei pro e i contro

La Libia è prossima al collasso, lo Stato Islamico (IS/Daesh) è pronto ad approfittarne, mentre la debole capacità politica dei due governi, Tobruk e Tripoli, impedisce una stabilizzazione del Paese. In tutto questo l’ipotesi di una Coalizione internazionale (ancora sulla carta) potrebbe aprire a un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite per quanto, al momento, l’iniziativa sia limitata alle mosse – scarsamente coordinate – dei singoli Stati, spinti a tutelare i propri interessi nazionali; tra questi, ovviamente, anche un’Italia che – legittimamente, ma con un atteggiamento altalenante – è alla ricerca di un ruolo di primo piano, e una Francia che, unilateralmente, il 13 gennaio ha condotto alcuni raid aerei colpendo obiettivi di IS/Daesh nell’area nord-est di Sirte, con ciò ripetendo quanto fatto nel 2011 – causa dell’attuale disastro libico – nel più genuino disinteresse per gli sviluppi di una soluzione condivisa e multilaterale… (vai all’articolo completo su L’Indro).

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

da L’Indro, 30 dicembre 2015 

Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza? 

  

Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

da L’Indro, 30 dicembre 2015 

Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza? 

  

Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

di Claudio Bertolotti
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da L’Indro, 30 dicembre 2015 

Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza? 

  

Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

di Claudio Bertolotti
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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza? 

  

Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

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Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?

di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza? 

  

Dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre si rende opportuno stimolare un dibattito pubblico  -impresa ardua in Italia-  sul giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà (di informazione, di espressione, di movimento, di finanza, ecc..), alla privacy (tutela delle informazioni e dei dati personali, monitoraggio individuale sui social-network, transazioni bancarie, ecc..) e il diritto-dovere alla sicurezza (diritto dei cittadini di essere protetti e dovere dello Stato di proteggere i propri cittadini oltreché sé stesso). 
Ciò che emerge, osservando i contenuti dei dibattiti, è la tendenza da parte degli Stati in genere  -lo abbiamo visto in Francia ora, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e, di riflesso, anche in Italia-  ad approfittare, spesso attraverso scarsa informazione e strumentalizzazione, della minaccia di un generico terrorismo al fine di modificare i poteri di governance… (vai all’articolo completo su L’Indro)

Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 

“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 

“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 

“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 

“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano

di Claudio Bertolotti
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“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare

Lo scorso 10 dicembre il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi, ha partecipato, in rappresentanza del Ministro Roberta Pinotti, alla riunione ministeriale a Tunisi nell’ambito dell’iniziativa di difesa ‘5+5’.
Si è trattato di un evento che non ha particolarmente interessato i media nazionali ma che rappresenta un fatto significativo nei rapporti e nelle dinamiche intra-mediterranee poiché, al contrario degli anni precedenti in cui gli incontri si limitavano a cerimonie formali, quest’anno la discussione è stata la premessa di un impegno di sostanza in prospettiva futura già nel breve-brevissimo periodo. In particolare, temi quali la centralità del Mediterraneo e la sua sicurezza sono stati riconosciuti come fattori fondamentali per la stabilità dell’intera regione mediterranea e dei Paesi che vi si affacciano e la compongono… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 
Come contrastare la violenza?
Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
– See more at: http://www.lindro.it/isis-in-europa-quale-minaccia-diretta-per-litalia/#sthash.ZsFnsQlS.dpuf

ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 
Come contrastare la violenza?
Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?

di Claudio Bertolotti
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Come contrastare la violenza?
Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
– See more at: http://www.lindro.it/isis-in-europa-quale-minaccia-diretta-per-litalia/#sthash.ZsFnsQlS.dpuf

ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 
Come contrastare la violenza?
Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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di Claudio Bertolotti
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Come contrastare la violenza?
Luoghi di culto e spazi pubblici dal valore simbolico: a rischio Roma, Milano, Torino e Bologna 
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015… (vai all’articolo su L’INDRO)
L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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L’Europa è nel mirino del sedicente Stato Islamico, questo è un fatto. Ma al di là della propaganda e della retorica fondamentalista dell’ISIS, il pericolo è concreto? E quali strategie siamo pronti ad adottare per contrastare la violenza del fondamentalismo e i suoi effetti pratici?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

Syraq: NATO contro IS/Daesh
L’azione del 13 novembre è il potenziale casus belli che può legittimare un intervento militare NATO contro IS
Parigi, venerdì 13 novembre: 129 morti, 350 feriti  -almeno cento in modo grave-, 8 i terroristi jihadisti caduti portando a compimento con successo un’operazione coordinata e complessa. Una tecnica nuova per l’Europa, che deriva direttamente dalle esperienze maturate nei teatri di guerra contemporanei: da Kabul a Damasco, a Baghdad. E oggi Parigi. Si tratta della tecnica delcommando suicida’, ampiamente utilizzata e affinata nel tempo, che ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 2007-2008 sul fronte afghano e di cui si è trattato nel libro ‘Shahid. Analisi del terrorismo suicida‘ e in altri studi successivi, anticipando gli sviluppi a cui oggi assistiamo… (Vai all’articolo su L’INDRO)

Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Syraq: NATO contro IS/Daesh
L’azione del 13 novembre è il potenziale casus belli che può legittimare un intervento militare NATO contro IS
Parigi, venerdì 13 novembre: 129 morti, 350 feriti  -almeno cento in modo grave-, 8 i terroristi jihadisti caduti portando a compimento con successo un’operazione coordinata e complessa. Una tecnica nuova per l’Europa, che deriva direttamente dalle esperienze maturate nei teatri di guerra contemporanei: da Kabul a Damasco, a Baghdad. E oggi Parigi. Si tratta della tecnica delcommando suicida’, ampiamente utilizzata e affinata nel tempo, che ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 2007-2008 sul fronte afghano e di cui si è trattato nel libro ‘Shahid. Analisi del terrorismo suicida‘ e in altri studi successivi, anticipando gli sviluppi a cui oggi assistiamo… (Vai all’articolo su L’INDRO)

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Parigi, venerdì 13 novembre: 129 morti, 350 feriti  -almeno cento in modo grave-, 8 i terroristi jihadisti caduti portando a compimento con successo un’operazione coordinata e complessa. Una tecnica nuova per l’Europa, che deriva direttamente dalle esperienze maturate nei teatri di guerra contemporanei: da Kabul a Damasco, a Baghdad. E oggi Parigi. Si tratta della tecnica delcommando suicida’, ampiamente utilizzata e affinata nel tempo, che ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 2007-2008 sul fronte afghano e di cui si è trattato nel libro ‘Shahid. Analisi del terrorismo suicida‘ e in altri studi successivi, anticipando gli sviluppi a cui oggi assistiamo… (Vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

 
Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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@cbertolotti1

 
Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

 
Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia
Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Andiamo in Libia (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
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Si sta preparando un intervento militare complesso, l’Italia si troverà in piena guerra.
Come anticipato su ‘L’Indro‘ ad agosto, e più recentemente annunciato dal capo del Governo, Matteo Renzi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia si prepara a guidare una missione militare in Libia sostenuta dalla Comunità internazionale. Restano da concludere gli aspetti formali a premessa di un intervento legittimo: l’accordo tra le parti in conflitto e la conseguente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Le tempistiche, nonostante alcune resistenze, sono state rispettate, e la comunicazione strategica ha seguito il suo corso attraverso una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica, non priva di apparenti scivoloni, come quello che venne fatto a febbraio quando i Ministri Paolo Gentiloni (Affari Esteri) e Roberta Pinotti (Difesa) annunciarono, il primo, la necessità, di un intervento militare in Libia, e, la seconda, la disponibilità immediata di un significativo quantitativo di truppe pronte a partire (5.000 militari)… (vai all’articolo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

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I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’analisi del fenomeno

Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani?

I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti


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I punti nodali di una situazione ormai degenerata e che va chiarita
L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti


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L’uccisione avvenuta a Tripoli il 25 settembre di Salah Al-Maskhout, capo dell’organizzazione criminale transnazionale dedita al traffico di esseri umani attraverso la Libia, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Un’attenzione che si è concentrata per lo più sulle dinamiche e sulla paternità dell’operazione che ha portato all’eliminazione di un importante elemento criminale – spostando la discussione su quali servizi segreti e forze speciali ne fossero responsabili: italiani, francesi? britannici?… – ma non sul fenomeno in sé e sulle dinamiche strategiche che regolano e alimentano un fenomeno in espansione e i relativi vantaggi economici che si celano dietro a un dramma di ampia portata: quello migratorio. Si tratta di un’ondata migratoria senza precedenti che nel caos dell’area del ‘Grande-Medioriente’, dall’Afghanistan alla Libia, ha trovato un fattore in grado di dinamizzarne l’entità e la portata e che, nel solo 2015, ha registrato un dato impressionante di almeno 300.000 migranti… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti


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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’imponente flusso migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una minaccia per l’Europa?Vi è correlazione tra fenomeno migratorio e terrorismo? Sono le domande che in questi giorni corrono sui media di mezzo mondo e che preoccupano le cancellerie non solo occidentali.

È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

L’imponente flusso migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una minaccia per l’Europa? Vi è correlazione tra fenomeno migratorio e terrorismo? Sono le domande che in questi giorni corrono sui media di mezzo mondo e che preoccupano le cancellerie non solo occidentali.
È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea.
– See more at: http://www.lindro.it/tra-immigrazione-e-sicurezza-europea/#sthash.SkzmRACz.dpuf

Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’imponente flusso migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una minaccia per l’Europa?Vi è correlazione tra fenomeno migratorio e terrorismo? Sono le domande che in questi giorni corrono sui media di mezzo mondo e che preoccupano le cancellerie non solo occidentali.

È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

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È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

L’imponente flusso migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una minaccia per l’Europa? Vi è correlazione tra fenomeno migratorio e terrorismo? Sono le domande che in questi giorni corrono sui media di mezzo mondo e che preoccupano le cancellerie non solo occidentali.
È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea.
– See more at: http://www.lindro.it/tra-immigrazione-e-sicurezza-europea/#sthash.SkzmRACz.dpuf

Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


L’imponente flusso migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una minaccia per l’Europa?Vi è correlazione tra fenomeno migratorio e terrorismo? Sono le domande che in questi giorni corrono sui media di mezzo mondo e che preoccupano le cancellerie non solo occidentali.

È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti


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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)

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È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
– See more at: http://www.lindro.it/libano-e-colpa-solo-della-spazzatura/#sthash.OgFlXnzD.dpuf

di Claudio Bertolotti 

Giovani in rivolta

You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh 

– See more at: http://www.lindro.it/libano-e-colpa-solo-della-spazzatura/#sthash.Ms1NLjEc.dpuf

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.

Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.

Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che… (vai all’articolo su L’INDRO)

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)

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Giovani in rivolta

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Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)

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di Claudio Bertolotti 

Giovani in rivolta

You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh 

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Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.

Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che… (vai all’articolo su L’INDRO)

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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di Claudio Bertolotti 

Giovani in rivolta

You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh 

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Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.

Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.

Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che… (vai all’articolo su L’INDRO)

Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam  – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza –  minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti allarivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Intervento militare in Libia, e poi? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti

Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà..
. vai all’articolo su L’INDRO

Contro il Mediterraneo di Isis&Co

Intervento militare in Libia, e poi?

I possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

– See more at: http://www.lindro.it/intervento-militare-in-libia-e-poi/#sthash.VWqwdNeD.dpuf

Intervento militare in Libia, e poi? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti

Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà..
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Contro il Mediterraneo di Isis&Co

Intervento militare in Libia, e poi?

I possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

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Intervento militare in Libia, e poi? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti

Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà..
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Contro il Mediterraneo di Isis&Co

Intervento militare in Libia, e poi?

I possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

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di Claudio Bertolotti

Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà..
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Intervento militare in Libia, e poi?

I possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

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Intervento militare in Libia, e poi? (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti

Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia

L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà..
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L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

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di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

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Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
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di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)

di Claudio Bertolotti
 
Una nuova narrativa: tra terrorismo, stato di emergenza e cambio di approccio concettuale
 
Il 4 luglio scorso, il Presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza nazionale in risposta agli attacchi condotti e rivendicati dall’ISIS in Tunisia anche contro obiettivi stranieri; una decisione che nella sostanza ha portato alla chiusura di oltre ottanta moschee (e a conseguenti scontri con le forze dell’ordine), al richiamo di una parte dei militari in congedo, all’arresto di oltre cento sospettati… (vai all’articolo completo su L’INDRO).

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
http://www.itstime.it/w/tunisia-in-guerra-dichiarato-lo-stato-di-emergenza-by-claudio-bertolotti/

 

Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale

di Claudio Bertolotti
 
articolo pubblicato su ITSTIME
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale

“Noi non abbiamo la cultura del terrorismo, è un problema regionale”: queste le parole usate dal presidente tunisino Beji Caid Essebsi nel proclamare, il 4 luglio, lo stato di emergenza nazionale in risposta all’avanzata dell’ISIS in Tunisia; parole perfettamente in linea con il contributo di pensiero e analisi prodotto dall’Italia[1] e contenuto nel documento su “terrorismo, sicurezza delle frontiere e criminalità transnazionale” che ha visto impegnati gli esperti della “5+5 Defense iniziative 2015”, attività coordinata dal CEMRES di Tunisi – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies, per conto dei ministri della Difesa dell’area “5+5” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Libia e Tunisia).
 
Il governo tunisino ha sinora affrontato la minaccia con un limite non indifferente che ne frenava le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i precedenti comunicati stampa istituzionali – imponevano di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistevano nel collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia). Oggi la Tunisia ha cambiato metodo, dimostrando di aver recepito le raccomandazioni italiane in merito al cambio di approccio concettuale: “La Tunisia, ormai da tempo minacciata dal fenomeno dell’ISIS, deve cambiare approccio culturale nei confronti delle dinamiche conflittuali che ne mettono in pericolo la stabilità, imparando a distinguere il classico «terrorismo» nazionale dall’attuale minaccia, che terrorismo tout court non è. Una nuova ed efficace forma di violenza transnazionale che impone un cambio concettuale nel processo di definizione della strategia di contrasto; non più, dunque, minaccia interna agli stati nazionali ai quali è demandato l’onere della repressione del fenomeno, bensì un pericolo comune contro cui è necessaria una strategia condivisa a livello regionale”: questa è la sintesi dell’analisi, pubblicata nel mese di febbraio per l’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (ITSTIME), e sostenuta da chi scrive – unico ricercatore italiano alla “5+5 Defense iniziative 2015” – in occasione della prima riunione del gruppo di lavoro di Tunisi del 18-19 febbraio.
Dopo poche settimane dal primo tavolo dei lavori, il 18 marzo, veniva portato a termine l’attacco contro il museo del “Bardo” a Tunisi; in quell’occasione persero la vita ventiquattro persone (quattro italiane), per mano di un commando i cui legami operativi e ideologici si estendevano ben al di là dei confini tunisini. Un evento che rappresenta il momento di svolta formale nel processo di espansione e nella condotta dell’offensiva del fondamentalismo jihadista dell’ISIS in Tunisia; benché il governo tunisino, e con esso i media e la comunità internazionale, abbiano erroneamente perseverato nel mantenere l’iniziale approccio, semplificato e parziale, orientato a una “minaccia terroristica interna”.
La seconda riunione del gruppo di lavoro della “5+5 Defense iniziative 2015” si è tenuta il successivo 15 giugno – pochi giorni prima della strage di Sousse del 26 giugno in cui hanno perso la vita 38 persone (la maggior parte europee); in tale occasione, a cui ha preso parte anche la delegazione libica (assente al primo incontro di febbraio), l’Italia è riuscita a far approvare unanimemente l’inserimento nel documento condiviso del nuovo concetto di minaccia contemporanea: il “nuovo terrorismo insurrezionale” (NIT – New Insurrectional Terrorism).
Un concetto chiave che, in estrema sintesi, definisce un fenomeno – basato su vecchie e nuove dinamiche transnazionali – connesso con altri fenomeni insurrezionali, criminali e di opposizione locali e regionali. Un fenomeno il cui fine non è la semplice destabilizzazione di un governo o un paese all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, bensì la rimozione di interi complessi governativi, istituzionali, delle frontiere, senza alcuna considerazione per il diritto e le convenzioni riconosciute sul piano delle relazioni internazionali.
Per queste ragioni, è opinione di chi scrive che si debba procedere a una revisione complessiva dell’approccio concettuale; un approccio che deve basarsi sulla consapevolezza delle dinamiche complesse che influiscono su un fenomeno che è, in primis, denazionalizzato – e composto da soggetti a loro volta denazionalizzati, ovvero che si riconoscono come appartenenti alla nuova realtà statale, il califfato, la ummah – e influenzato da dinamiche locali, regionali e globali di ampio spettro.
Dunque, è opportuno prendere atto che una categorizzazione del fenomeno come dinamica di natura nazionale e limitata all’interno di formali confini statali è ormai anacronistica e potrebbe indurre a un confronto inefficace con la minaccia e alla conseguente improduttiva strategia di contrasto.
 
Conclusioni e raccomandazioni
Perché il cambio di approccio concettuale della Tunisia è così importante? Lo è perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino, in cooperazione con i partner africani ed europei, si delineerà il futuro prossimo della Tunisia, dell’Africa e dell’Italia. Se anche la Tunisia – politicamente fragile, economicamente e socialmente a rischio di destabilizzazione – non sarà in grado di reggere all’avanzata dell’ISIS, il rischio è il collasso e l’insorgenza di una guerra aperta: questa sarebbe una minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Dunque, una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
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Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti
ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa’ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
ISBN 978-88-99468-06-04

TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”

(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.

TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

(SIR) 11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”

(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

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“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

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“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

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“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

(SIR) 11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”

(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

(SIR) 11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”

(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

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“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

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TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA

(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.

Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.

“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed). 

(SIR) 11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”

(dall’inviata Sir a Tunisi) – “C’è una stretta correlazione tra il nuovo fenomeno del terrorismo insurrezionale ed il crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il mercato di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta”. Lo ha spiegato stamattina ai 130 delegati delle Caritas europee e della sponda sud del Mediterraneo Claudio Bertolotti, esperto di questioni geopolitiche legate a conflitti e terrorismo, durante la seconda giornata di lavori del Migramed meeting organizzato da Caritas italiana, dedicata ad un approfondimento sul fenomeno del “nuovo terrorismo insurrezionale” nei Paesi islamici, come l’Isis, che ha un suo territorio, risorse e capacità politiche. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli – ha detto -. C’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”. (segue)

11:47TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)

“I flussi migratori – ha proseguito Bertolotti – sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”. http://spondasud.it/2015/06/il-terrorismo-produce-profughi-e-alimenta-la-tratta-di-esseri-umani-9141

MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente


                                              
http://www.caritasitaliana.it/home_page/area_stampa/00005883_Migramed_2015___Meeting_internazionale_Caritas_del_Mediterraneo.html
CARITAS ITALIANA – CARITAS EUROPA
  
TUNIS
15th – 18th June 2015
Golden Tulip Hotel, Rue de la Republique, Marsa 2078, Tunisia
 
Monday, 15thJune
13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente


                                              
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Monday, 15thJune
13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

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13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
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George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
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Manuela De Marco (Caritas Italiana)
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Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
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Tuesday, 16th June
8.00
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9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
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9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
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Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
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Light lunch
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
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17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
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09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
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Cyrille De Billy (Secours Catholique)
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16.00 – 17.00 
Official opening
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Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
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Tuesday, 16th June
8.00
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9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
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From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
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12.30 – 13.00
Debate
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Light lunch
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17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
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Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
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Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
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Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
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17.30 – 18.00
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Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
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Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
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8.00
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10.00 – 10.30
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A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente


                                              
http://www.caritasitaliana.it/home_page/area_stampa/00005883_Migramed_2015___Meeting_internazionale_Caritas_del_Mediterraneo.html
CARITAS ITALIANA – CARITAS EUROPA
  
TUNIS
15th – 18th June 2015
Golden Tulip Hotel, Rue de la Republique, Marsa 2078, Tunisia
 
Monday, 15thJune
13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente


                                              
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TUNIS
15th – 18th June 2015
Golden Tulip Hotel, Rue de la Republique, Marsa 2078, Tunisia
 
Monday, 15thJune
13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
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Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

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13.00 – 14.30
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16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
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Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

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16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
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09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
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Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

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16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
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17.30 – 18.00
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Wednesday, 17th June
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09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
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Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
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17.00 – 19.00 
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The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
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Tuesday, 16th June
8.00
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9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
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9.30 – 10.00
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and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
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12.30 – 13.00
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13.00 – 14.30
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
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Manuela De Marco (Caritas Italiana)
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The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
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Tuesday, 16th June
8.00
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Islam and Democracy, the Tunisian experience
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9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
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and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
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10.00 – 10.30
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10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
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12.30 – 13.00
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15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
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Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

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Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente


                                              
http://www.caritasitaliana.it/home_page/area_stampa/00005883_Migramed_2015___Meeting_internazionale_Caritas_del_Mediterraneo.html
CARITAS ITALIANA – CARITAS EUROPA
  
TUNIS
15th – 18th June 2015
Golden Tulip Hotel, Rue de la Republique, Marsa 2078, Tunisia
 
Monday, 15thJune
13.00 – 14.30
Lunch at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
16.00 – 17.00 
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
17.00 – 19.00 
Seminar
Europe –  Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)

Tuesday, 16th June
8.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
9.00 – 9.30    
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
9.30 – 10.00
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area)
moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
10.00 – 10.30
Coffee break
10.30 – 12.30
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
             (UNHCR)
             (UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
12.30 – 13.00
Debate
13.00 – 14.30
Light lunch
15.00 – 17.30  
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Bishop Giorgio Bertin (Bishop of Djibouti and Apostolic Administrator of Mogadishu)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas  Lhernould (Vicar General of Tunis)
17.30 – 18.00
Debate


Wednesday, 17th June
08.00 – 09.00
Breakfast at the Golden Tulip Hotel  (Restaurant El Mountazah)
09.00 – 13.00*
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
Salvare la vita dei migranti e gestire la sicurezza delle comuni frontiere europee a livelo europeo. A sostegno dell'iniziativa #commonborders http://www.commonborders.eu/ Marco Marazzi,

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)

by Claudio Bertolotti 
 

Recent events
 February
–    Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
–    Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
–    Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
–    United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
–    President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
–    A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
–    UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
–    At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.
–    Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that  Russia  is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
 
AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir.  The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
–    Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
–    Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
–    Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
–    As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
ISIS is moving to Afghanistan
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS. 

General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015  the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent  but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable. 

Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time –  the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because  many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.

 

L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

http://www.lindro.it/0-politica/2015-05-29/179083-guerre-lepoca-miope/

Intervista di Francesca LANCINI

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

Di seguito la seconda parte sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo.

Bertolotti parla di Siria come proxy-war, guerra per procura; delle responsabilità dei Paesi del Golfo che al momento galoppano in popolarità (spesso positiva) in Occidente, e della Turchia; del Pulitzer Seymour Hersh che aveva ragione (vedremo poi perché); di come si finanzia nel dettaglio Isis; dei venti di guerra che spirano verso la Libia, e del male ancora troppo radicato in Italia della xenofobia e del razzismo; della propaganda della paura diffusa da tanti media nostrani e, in particolare, dalla Lega Nord attraverso soprattutto Matteo Salvini, che si aggiungerebbe – sempre secondo Bertolotti – a una cattiva gestione delle questioni umanitarie, nonché politiche: tatticismi, senza strategia.

Dall’inizio del Nuovo Millennio, la razionalità sembra si sia persa in una una selva di menzogne, errori, propagande, non detti, con troppi capri espiatori come vittime.

Dopo Afghanistan, Pakistan e India, ripartiamo dalla Siria: dopo quattro anni di guerra a che punto siamo?

Le fasi della guerra siriana sono tre: protesta, guerra civile e proxy-war. Sul piano temporale le prime due quasi si sovrappongono e sono entrambe di brevissima durata (2011) e hanno anticipato il successivo sviluppo del conflitto, che ha portato dapprima alla destabilizzazione della Siria e, conseguentemente, a quella dell’Iraq. Oggi, infatti, si è imposto il termine ‘Syraq’ per indicare l’area in cui si combatte. Siamo nella fase avanzata della ‘proxy-war’ che, ancora lontana dal vedere una fine, vede contrapporsi sul campo di battaglia l’Esercito governativo siriano, sostenuto (o meglio, subordinato) al libanese Hezbollah, dall’Iran e dalla Russia, e la variegata quanto indefinita galassia di gruppi di opposizione armata: i cosiddetti moderati, i jihadisti fondamentalisti, gli islamisti radicali sostenuti in primis da Turchia e Arabia Saudita nel più generale disinteresse di un’opinione pubblica occidentale, pericolosamente distratta da una crisi economico-finanziaria senza precedenti.

Perché questa guerra ci riguarda?

Questo è il punto: quella siriana non è, non è più, una guerra civile che vede confrontarsi sul campo di battaglia diversi attori siriani. Al contrario, la Siria è divenuta teatro di scontro di rilevanti interessi regionali e globali. Una guerra alimentata dall’esterno, su entrambi i fronti, dove i siriani sono divenuti passivi attori non protagonisti. Le cause scatenanti vanno ricercate nel tentativo di spostare gli equilibri interni alla politica di Damasco. In particolare, la spinta islamista avviata dagli ambienti clericali siriani, a loro volta sostenuti e stimolati da quegli attori esterni in cerca di spazio, geografico e ideologico, da sfruttare a proprio vantaggio; tutto ciò alimentato dalla speranza di una ‘primavera siriana’, sull’onda di quelle arabe, che in quasi tutti i casi si sono concluse in modo non certamente positivo.

Sulle violenze estreme a cui assistiamo quotidianamente – e le cui conseguenze dobbiamo affrontare anche noi in Italia (come i flussi migratori) – hanno dunque responsabilità diretta attori esterni alla Siria?

Certamente sì. I Paesi del Golfo in primis, e la Turchia al loro fianco. Non è un segreto che il regime di Damasco sia tuttora da ostacolo al tentativo turco di imporre una propria politica a livello regionale, così come un limite al modello fondamentalista sunnita wahabita dei Sauditi e del Qatar (i più importanti sponsor del jihadismo destabilizzante contemporaneo).

Come a ‘L’Indro’ ha detto la filosofa ungherese Ágnes Heller: assistiamo a un nuovo ‘internazionalismo’. Non si tratta più di guerre fra Nazioni, come avvenne dopo Pace di Westfalia del 1648.

Ora, quello che ci si pone innanzi è uno scenario di guerra combattuta, con tutte le efferatezze della guerra, e sarebbe ingenuo oggi richiamare le parti al rispetto delle cosiddette, quanto anacronistiche regole di guerra. Dico anacronistiche, perché le regole di guerra a cui noi facciamo riferimento risalgono al secolo scorso dove i conflitti vedevano contrapporsi Eserciti regolari, con alle spalle Governi e Stati. Oggi, piaccia o meno, è cambiato tutto: sono le dinamiche della ‘guerra asimmetrica’ a dettare i ritmi; è la percezione di un evento e non l’evento in sé a condizionare le opinioni pubbliche, e la propaganda ideologica viaggia alla velocità del Web.

Il futuro della Siria?

Tragico, ma quel che più mi spaventa in questo momento è l’idea che al termine del conflitto si commetta l’errore di proporre in tempi brevi libere elezioni che, anziché legittimare democraticamente una nuova leadership porterebbero all’instaurazione di un regime islamista avallato dal mero esercizio elettorale. Siamo ancora lontani dalla fine della guerra siriana, ma è necessario cominciare a lavorare per un processo di transizione di medio periodo, che non vada a intaccare gli equilibri garantiti dall’attuale regime siriano. Bashar al-Assad deve lasciare la Presidenza, questo è un fatto inevitabile, ma lo Stato siriano – con tutta la sua burocrazia – deve rimanere al suo posto, non escludendo una Costituzione sul modello libanese, capace di garantire l’accesso al potere a tutti i gruppi confessionali. Tutto ciò deve avvenire sotto gli auspici di un patto di riconciliazione nazionale legittimato dall’ONU. Infine, non commettiamo l’errore di insistere per una soluzione orientata a un modello di democrazia occidentale; non è il momento e mancano tutte le condizioni politiche, sociali, economiche e di sicurezza. Avremo il coraggio di affermare tale principio? Da tale coraggio dipenderà la stabilizzazione della Siria del dopoguerra, almeno di quello che ne rimarrà.

Si può fare chiarezza sulle famigerate armi chimiche? Aveva ragione il pulitzer statunitense Seymour Hersh, nell’ inchiesta sul 21 agosto 2013 secondo la quale l’attacco con armi chimiche che colpì Ghouta, fu ordito dai ribelli e dalla Turchia così da scatenare la reazione USA contro il regime siriano? Hersh nelle ultime settimane è attaccato in patria anche per aver scritto che Osama Bin Laden è stato consegnato dai pachistani e che la versione sull’operazione dei Navy Seals assomiglia a una favola. 

Sull’attacco con armi chimiche a Damasco nel 2013 le mie considerazioni sono in linea con quelle fatte da Hersh nell’aprile del 2014; valutazioni critiche e controcorrente che io anticipai nell’agosto del 2013. La mia opinione, allora come oggi, è che manchi un approccio critico da parte dei principali media occidentali. Al contrario, si impone un comodo allineamento – voluto o meno – a quelle che sono le linee di pensiero delle cancellerie politiche, un approccio ‘radical-chic’ all’informazione e alla presa di posizione di una parte di un’opinione pubblica impreparata ma arrogante al tempo stesso.

Ricapitoliamo, chi ha usato le armi chimiche?

Nella sostanza, l’uso delle armi chimiche sarebbe stato un atto illogico, irrazionale e controproducente per le forze siriane. Ciò dovrebbe bastare a spiegare perché dietro a quell’azione non ci fu il Governo di al-Assad, bensì i gruppi islamisti (da al-Nusrah all’Isis), sostenuti da quei terzi attori di cui ho fatto cenno. E che i fondamentalisti, sostenuti da Turchia e alcuni Paesi del Golfo, abbiano usato le armi chimiche non deve stupire; io almeno non sono rimasto sorpreso da quell’evento poiché tutto lasciava intendere la volontà di un’escalation di violenza e brutalità nella condotta della guerra e la ricerca di un casus belli – da parte di Turchia e Arabia Saudita che oggi continuano ad appoggiare gli stessi gruppi jihadisti – che portasse la Comunità Internazionale e gli Usa a intervenire militarmente; e i fatti più recenti lo confermano.

Come?

La Siria – come tutto il Medio Oriente – così come l’abbiamo conosciuta non esisterà più dal punto di vista politico e geografico; ma anche sul piano sociale quella Siria non esiste più. Qualcosa di nuovo la sostituirà, difficile dire cosa, ma quelle minoranze che sino ad ora erano tutelate dal regime degli al-Assad pagheranno un caro prezzo.

A colpire le minoranze c’è Isis o Is (Stato Islamico) dal 2014. Può spiegarci meglio chi lo finanzia e chi lo favorisce?

Le origini dell’Isis affondano le radici nella Seconda Guerra del Golfo, con l’invasione statunitense, e nel fallimento della gestione dell’Iraq post-Saddam. Ma ciò che è importante è non cadere nell’errore di considerare l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, come unici responsabili di quanto sta avvenendo. Se è vero che gli Stati Uniti hanno dato il via a un processo di destabilizzazione regionale a partire dal 2003 (con forti e diretti effetti globali), è altresì vero che a incrementare il livello di conflittualità hanno contribuito le ambizioni dei Paesi del Golfo e la competizione di questi con l’Iran: la somma di queste dinamiche è all’origine della destabilizzazione dell’intera area del Grande Medio-Oriente. Solamente errori, nessun successo.

Quindi, la guerra ‘sbagliata’ in Iraq, senza presenza di armi chimiche come denunciò per primo l’ex ambasciatore Joseph Charles Wilson, si è unita agli interessi dei Paesi del Golfo, avviando la disintegrazione del Medio Oriente.

Una destabilizzazione regionale dagli effetti globali che è stata favorita, inizialmente, dall’incapacità attiva di un Occidente e, successivamente, dall’inattività dello stesso Occidente, non in grado di assumersi le responsabilità degli errori commessi negli ultimi quindici anni, dalla guerra in Afghanistan, all’Iraq, alla Libia e al contempo incapace di limitare l’influenza dei Paesi del Golfo (e della Turchia) su un conflitto in fase di inarrestabile espansione.

Torniamo a cos’è Isis nello specifico.

L’Isis si presenta a noi oggi come Stato Islamico propriamente detto, in combinazione con alcune forti spinte autonomiste locali. È un proto-Stato teocratico sunnita de facto che detiene il monopolio della violenza, gestisce una propria economia legata al petrolio (con introiti giornalieri da uno a quattro milioni di dollari), amministra la ‘giustizia’, riscuote le tasse, offre servizi pubblici a una popolazione stimata di sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria, e riesce, attraverso la tecnica del franchising, a estendere la propria presenza all’interno del ‘Grande Medio Oriente’ (dal Subcontinente Indiano al Nord Africa), in un rapporto di reciproca legittimazione con gruppi jihadisti locali e in contrapposizione/competizione con al-Qa’ida.

Dunque Isis è terrorismo?

Meglio definirlo ‘State-sponsored terrorist group’, o meglio ancora ‘jihadismo insurrezionale’, o meglio ancora ‘nuovo terrorismo insurrezionale’ il cui fine ultimo è di natura politica: l’istituzione di un Califfato Islamico così come fu in passato. Dov’è l’Isis oggi? Tre gli sviluppi dell’Isis: uno sul piano reale, in Syraq e oltre (fenomeno regionale, transnazionale e anti-nazionale); uno sul piano virtuale (una realtà puntiforme del Grande Medio Oriente e Africa Sub-sahariana); infine, uno sul piano della percezione: l’Isis è ovunque, minaccia globale. Quali capacità ha? Politiche: gestione minimale di un territorio di 250mila kmq, popolazioni, economia. Militari: buona capacità offensiva, discreta capacità difensiva, limitata capacità logistica. E’ in grado di gestire due fronti convenzionali (uno contro i peshmerga curdi e l’altro contro Hezbollah), e fronti non convenzionali (Al-Qa’ida/al-Nusra, e i ribelli cosiddetti ‘moderati’). Comunicative: ripete gli schemi comunicativi occidentali attraverso i social network.

Come si finanzia?

Oggi l’Isis ha entrate stimate da uno a tre milioni di dollari al giorno garantite dalla vendita di petrolio e gas, attraverso i pozzi nel Syraq. Estrae circa 20mila barili al giorno per entrate stimate di 250mila dollari quotidiani (erano 80mila barili giornalieri pari a un milione di dollari prima dell’intervento della Coalizione, nel giugno 2014). Il petrolio viene trasportato da Mosul (Iraq) ad Azmar (Siria) per la raffinazione, anche se una parte ritorna da Azmar a Mosul al fine di soddisfare i bisogni di una popolazione di 2milioni di abitanti. Il restante è esportato illegalmente in Turchia dalla Siria attraverso 500 micro-oleodotti. Altra fonte di finanziamento è la finanza islamica a cui si sommano gli enti caritatevoli e le istituzioni religiose, per un totale di 40 milioni in donazioni (prevalentemente da Qatar – quello che sta facendo incetta di immobili in Italia – Arabia Saudita e Kuwait). Segue un’altra fonte di finanziamento che è rappresentata dal contrabbando di reperti archeologici: 4mila i siti sotto il controllo dell’Isis, un terzo delle aree archeologiche dell’Iraq, con danni irreversibili a beni Patrimonio dell’Umanità. Infine, contribuiscono alle entrate dello Stato Islamico le estorsioni e i rapimenti (locali e stranieri, per un ammontare di circa 125 milioni di dollari) e il traffico di esseri umani anche attraverso il Mediterraneo. In tale spiacevole dinamica l’Italia ha ‘involontariamente’ contribuito ad alimentare il mercato di esseri umani attraverso l’Operazione Mare Nostrum e, ancora, con Frontex.

Gli operatori umanitari ritengono che Mare Nostrum non fosse sufficiente, ma che abbia salvato più vite di Frontex. Molti di loro chiedono un corridoio umanitario.

E’ difficile che si realizzi e, comunque, solamente alla fine di un processo lungo.

Quale? Si può ancora sperare in una gestione pacifica e diplomatica della situazione libica? Qual è la reale posizione del governo italiano? Sembra esserci una gran confusione.

Sperare è bene, ma non basta. È necessario agire, con fermezza, consapevolezza e responsabilità, ma al momento mancano tutte queste caratteristiche. Di certo il Governo Renzi, al di là delle belle ed efficaci parole, non ha fatto nulla, poiché difetta in capacità di comprensione delle dinamiche di un fenomeno complesso, che viene affrontato agendo sui sintomi anziché sulle cause. Il problema non è la Libia, ma il Medio Oriente allargato, la diffusione del fenomeno ‘glocale’ dell’Isis&Co. Ovvero, lo sviluppo evolutivo dell’Isis in Syraq, che va a sovrapporsi a conflittualità locali, tribali. La crisi in Libia è locale, ma alimentata da dinamiche transnazionali che coinvolgono la Tunisia, l’Algeria, il Syraq, ecc. Anche in Libia, come in Siria prima, è in corso una trasformazione del conflitto, da guerra civile a ‘proxy-war’. E dal futuro della Libia discende quello italiano.

Quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi e quali ipotetiche risposte da parte dell’Italia?

Un primo scenario potrebbe prevedere un accordo tra le due principali parti, i Governi di Tobruk (riconosciuto dalla Comunità Internazionale) e Tripoli, ammesso che l’eterogeneità delle fazioni lo consenta, e un percorso negoziale finalizzato a nuove elezioni politiche. Ma senza senza l’intervento di un attore terzo è un’ipotesi improbabile. Un secondo scenario potrebbe essere di scontro aperto tra le parti, conseguente guerra civile e vittoria del competitor più forte, con correlato rischio di ‘guerra per procura’ di lungo termine: ipotesi possibile. Infine, un terzo scenario potrebbe prevedere l’intervento diretto della Comunità Internazionale, avallato dall’ONU, con previo accordo di massima tra le due principali fazioni e l’avvio di un’operazione di peacekeeping/enforcement (mantenimento della pace e uso della forza, ndr.) le cui conseguenze contemplerebbero il rischio di richiamo del jihadismo globale: ipotesi probabile, più verosimile, con un impegno di medio-lungo periodo.

Lei, da analista, quale scenario auspicherebbe?

Io suggerirei, previa approvazione delle Nazioni Unite e delle due parti libiche, che si limiti al peacekeeping, ma non escludo che si evolverà nell’enforcement. L’Italia ha già la capacità di intervenire militarmente, nel contesto di un’ampia alleanza, in un quadro così legittimato. La decisione fu presa quando Pinotti fece l’annuncio.

Cioè si procede verso una nuova guerra?

L’Italia è oggi di fronte a un bivio, fra un approccio attendista e uno attivo. Un atteggiamento attendista potrebbe comportare la perdita dell’accesso privilegiato alle risorse energetiche della Libia, e imporrebbe l’assunzione di un ruolo passivo e subordinato sul piano politico-strategico; l’accettazione di un’agenda politica esterna; una condizione di vulnerabilità sui piani energetico, politico (settore Mediterraneo), della sicurezza nazionale. In alternativa, l’Italia potrebbe accettare un ruolo attivo nel processo di stabilizzazione che le riserverebbe un ruolo (politico, economico e militare) di leadership/co-leadership; le consentirebbe di avviare relazioni privilegiate con gli attori mediterranei; renderebbe opportuna una presenza e un ruolo di comando e controllo in Libia attraverso l’istituzione di ‘basi umanitarie’ o Paesi limitrofi e ‘strategiche’ sotto la bandiera dell’ONU. Queste ultime sarebbero accettabili per l’opinione pubblica attraverso una narrativa positiva incentrata sul duplice messaggio di ‘prevenzione delle tragedie in mare’ e di ‘lotta al terrorismo’. Inoltre, potrebbero agevolare il contrasto alla tratta di esseri umani attraverso il Mediterraneo; il controllo delle frontiere, in coordinamento con Frontex; una limitazione nell’afflusso del jihadismo di ritorno/migrante; il rafforzamento delle forze di sicurezza locali; la sicurezza degli interessi strategici nazionali.

Riassumendo, lei quale soluzione propone?

La soluzione non è tentare di risolvere la questione libica in sé, bensì avviare un graduale processo di stabilizzazione regionale, che definisca un livello di conflittualità gestibile e accettabile, e che tolga al fenomeno fondamentalista lo spazio di manovra vitale. Un primo passo deve condurre alla definizione di una strategia di ‘stabilizzazione indiretta’ della Libia, attraverso un’ampia iniziativa politico-diplomatica ed economico-sociale in funzione anti-Isis, pur con il complementare (e non principale) ricorso allo strumento militare. Il secondo passo deve portare all’unione degli sforzi in Libia con la lotta anti-jihadista nel Sahel, attraverso la cooperazione dei soggetti regionali interessati alla stabilizzazione e al mantenimento dei legami con l’Occidente. Ciò richiede una capacità di adattamento alla flessibilità delle attuali dinamiche socio-politiche. Nel concreto è opportuno non escludere l’accoglimento di quelle istanze autonomiste che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione: l’intera area MENA (Medio Oriente e Nord Africa) è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini.

Torniamo all’aspetto umano e umanitario. Quasi ovunque sui media e nei talk show generalisti italiani si allarmano lettori e spettatori parlando di «invasione di migranti», «bombardamenti ai barconi», e altre affermazioni non realistiche, sbagliate o razziste. Cosa si rischia in realtà?

Sul fenomeno migratorio va fatto un opportuno quanto necessario distinguo fra richiedenti asilo politico e immigrazione illegale. I primi devono essere aiutati sulla base di un condiviso sforzo europeo; la seconda deve essere regolamentata, sia a livello nazionale sia a livello europeo, e basata su ingressi controllati e pianificati. E’ un dato di fatto che noi italiani siamo incapaci, sul piano politico quanto su quello giuridico, di gestire un fenomeno di tale portata. Lo dimostra il fatto che gli ‘immigrati irregolari’ vengano forniti di foglio di via e lasciati liberi di muoversi all’interno del territorio nazionale e, dunque dell’Europa. Le norme nazionali devono essere riviste. Altra questione è il legame migrazione-terrorismo, che non può essere escluso a priori sulla base di approcci ideologici alimentati da pressapochismo, incompetenza e irrazionalità. È sufficiente guardare ai fatti più recenti: l’intelligence britannica ha confermato che gli jihadisti in uscita dall’Europa utilizzano l’Italia per unirsi allo Stato islamico; per evitare i controlli negli aeroporti i volontari del jihad, passano la Manica via traghetto in Francia, poi attraversano l’Italia e raggiungono in nave prima la Tunisia per poi passare via terra in Libia, loro meta finale. Di fatto, percorrono la rotta inversa a quella dei migranti in fuga dalle coste del Nord Africa, tra i quali noi oggi non possiamo escludere la presenza di jihadisti, al di là della solita retorica dell’accoglienza per tutti e a tutti i costi – da un lato – e dell’allarmismo xenofobo leghista – dall’altro.

Come si può rendere nuovamente il Mediterraneo un’area di convivenza e non più una vergogna, un cimitero?

Per prima cosa accettando che ciò richiederà un tempo medio-lungo, inutile illudersi nell’idea di un Mediterraneo stabile nel breve periodo: l’apice dell’instabilità deve ancora arrivare e noi saremo impreparati. Come operare dunque? Sono convinto che la soluzione debba passare – come dicevo prima – attraverso una soluzione politico-diplomatica che preveda l’uso dello strumento militare a difesa dell’interesse nazionale, dei traffici commerciali, dell’accesso alle risorse energetiche di cui l’Italia necessita, del controllo delle frontiere esterne dell’Europa. L’Italia dovrebbe stare in prima linea, ma non fa nulla di concreto perché c’è il rischio di impopolarità, il ché si traduce in minori voti alle elezioni. Siamo dei tattici senza strategia, o con una strategia fluida, e il nuovo Libro Bianco della Difesa lo confermerebbe (linea strategica del ministero della difesa, firmato dal Ministro Pinotti e con prefazione del Premier Renzi, presentato ufficialmente ma non ancora reso pubblico).

Intanto in Italia l’ignoranza, su ciò che sta realmente accadendo nel Mediterraneo, regna sovrana insieme con la xenofobia. Solo per citare qualche esempio, alcune persone non prendono la metropolitana per paura di attentati Isis, come ai tempi dell’11 settembre 2001. Altri si lamentano per i bambini stranieri nelle scuole.

Quando sono a Milano prendo sempre la metropolitana, così a Roma e a Torino; e continuerò a farlo, pur nella consapevolezza che a fronte di limitate probabilità non si possa escludere la possibilità di qualche azione terroristica. In fondo, l’obiettivo ricercato dal terrorismo consiste nell’instillare paura, terrore appunto. In questo il fenomeno transnazionale di Isis&Co. – un premium brand in franchising che unisce differenti sigle, correnti, gruppi – è riuscito nel suo scopo. È tanto, ma non abbastanza; infatti l’Isis vuole di più, sempre di più. È una questione di tempo e anche l’Italia sarà oggetto di attacchi, azioni tipiche del terrorismo contemporaneo. Non servono i battaglioni di miliziani che sbarcano sulle coste italiane; sono sufficienti i lone-wolf, jihadisti della porta accanto capaci di colpire in ogni momento, animati da entusiastico fervore religioso e ubriacati dall’idea di un Islam purificatore. Spesso, non sempre, dei disadattati, emarginati sociali, frustrati. È un problema di integrazione o mancata integrazione? Non è solo questo. Un interessante studio presentato qualche mese fa al CASD-CeMiSS (Centro Alti Studi per la Difesa-Centro Militare di Studi Strategici) analizza i numeri del cosiddetto jihadismo di ritorno (quello dei volontari che rientrano in Europa dopo aver combattuto in Syraq) e mette in evidenza come in termini percentuali siano proprio i Paesi ad aver adottato una politica per l’integrazione, che viene considerata come la più favorevole, ad aver fornito il maggior numero di jihadisti in rapporto al numero di musulmani per abitanti totali. Ad esempio, la Danimarca ha agevolato il rientro degli stessi jihadisti fondamentalisti – quei seviziatori e tagliatori di teste che abbiamo visto su youtube e youreporter – attraverso una politica di reinserimento sociale che da più parti è stato etichettato come jihad-friendly. Con quali risultati di disincentivazione? Con quali garanzie? Dunque, non è a quel modello che dobbiamo guardare, bensì a una soluzione razionale e responsabile.

Quale?

La vera integrazione, questo è il mio pensiero, è un processo a medio-lungo termine, che può dare frutti solamente inserendo soggetti stranieri in un contesto culturale favorevole e omogeneo. In questo modo si consente quel reciproco scambio – e dunque arricchimento – culturale; in caso contrario è impoverimento, da cui nasce emarginazione, conflitto. L’approccio buonista di breve periodo non tiene conto degli sviluppi e delle dinamiche sociali sul medio e lungo termine. Il numero di stranieri per classe è un fattore da considerare, ma solamente perché è importante che le nuove generazioni si sentano italiane e non frutto di un ‘mix culturale’ confuso. Gli stranieri vanno integrati tra italiani e non tra stranieri. Ritengo che l’integrazione positiva e non la multiculturalità garantiscano lo sviluppo di una società che rispetta e ama sé stessa: dunque non senegalesi, marocchini, peruviani come gruppi a sé stanti, ma italiani di origine senegalese, marocchina e peruviana.

Non ghetti culturali?

Esattamente.

Il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, appare come il politico più ospitato in televisione da alcuni mesi. Diversi media alimentano la paura, diffondendo anche notizie sbagliate. I migranti sono il capro espiatorio del nostro tempo, come gli ebrei a fine Ottocento e nella prima metà del Novecento?

Matteo Salvini ha gioco facile in questo momento, dove – come sempre avvenuto – le ragioni della crisi (economica, sociale) vengono attribuite a soggetti diversi/stranieri, il capro espiatorio, così come avvenuto nel Secolo scorso, per esempio, con gli ebrei. Salvini sfrutta le paure collettive e la crescente rabbia sociale, non propone soluzioni concrete, bensì esalta il problema, amplificandone gli effetti, spostando l’attenzione altrove. Ci sono momenti della storia in cui, a fronte di problemi concreti, la società si lascia attrarre dalle voci estremiste, che sempre portano a soluzioni più fallimentari di quelle che le hanno generate. E’ solo dopo il fallimento di queste – spesso al termine di un processo autodistruttivo e violento – che la società va alla ricerca delle posizioni moderate, quelle stesse che aveva emarginato, lasciando spazio di manovra. In questo momento valuto come pessimo il ruolo dei media nostrani che, per ragioni di audience, garantiscono spazio e voce a uomini mediocri come Salvini, che esaltano principi xenofobi, violenti, autodistruttivi. E i media, con poche eccezioni, precipitano in quella stessa mediocrità trascinando parte di quell’opinione pubblica, che possiamo definire passiva, in quello che lentamente si trasforma in una sorta di fondamentalismo e isteria collettiva.

L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

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Intervista di Francesca LANCINI

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

Di seguito la seconda parte sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo.

Bertolotti parla di Siria come proxy-war, guerra per procura… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

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Intervista di Francesca LANCINI

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

Di seguito la seconda parte sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo.

Bertolotti parla di Siria come proxy-war, guerra per procura… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

http://www.lindro.it/0-politica/2015-05-29/179083-guerre-lepoca-miope/

Intervista di Francesca LANCINI

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Bertolotti parla di Siria come proxy-war, guerra per procura… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

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Intervista di Francesca LANCINI

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale. Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo – quella che state per leggere), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.

Come analista strategico indipendente per il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche il ricercatore senior dell’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi. E’ stato, inoltre, per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan.

Di seguito la seconda parte sul MENA, Medio-Oriente e Mediterraneo.

Bertolotti parla di Siria come proxy-war, guerra per procura… (vai all’articolo completo su L’INDRO)

Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)

L'Indro 

di Francesca Lancini

Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1

Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 

Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre. I Governi delle principali potenze occidentali tendono a spostare l’attenzione altrove. L’esperienza afgana non è stata positiva né dal punto di vista politico né da quello militare. Il Governo afgano ha un controllo limitatissimo sulle aree urbane, mentre le aree periferiche sono in mano ai gruppi d’opposizione armata. Non è in grado di dare risposte alle esigenze sociali, economiche e finanziarie della popolazione. Non riesce, per esempio, a raccogliere le tasse. Le sue uniche entrate lecite vengono dai donatori internazionali, che dopo il summit di Tokyo del 2012 si sono presi per almeno quattro anni l’impegno di versare nelle casse dello Stato afgano 4 miliardi di eurodollari.
 
Si può definire una guerra persa?
Sì, dal punto di vista politico. Dal punto di vista militare non è stata vinta. C’è una differenza tra le due cose. Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo. L’averla persa è conseguenza del non essere riusciti a vincerla, ossia sconfiggere il nemico sul campo, ma neanche i Taliban hanno sconfitto le forze militari straniere. La guerra, così come impostata, non poteva essere vinta.
 
Che cosa avrebbe significato vincerla?
Il fine ultimo della missione non è mai stato ben chiaro o, meglio, è cambiato nel corso del tempo. Si è insistito sul processo di costruzione, stabilizzazione e ricostruzione dello Stato, ma non si sono raggiunti risultati soddisfacenti. Lo Stato afgano non esiste. C’è una diarchia al potere che non rispetta i principi costituzionali. Il Presidente Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah (Capo Esecutivo del Governo: una nuova carica con poteri da Primo Ministro, ndr) agiscono secondo accordi di segreteria interna e occidentale. È l’Amministrazione statunitense ad aver messo d’accordo, almeno temporaneamente, i due soggetti, cui corrispondono due gruppi di potere.
 
Sul piano della sicurezza qual è la situazione?
I gruppi di opposizione armata non diminuiscono, ma aumentano i loro organici. Le sigle aumentano, evolvono. Si creano alleanze laddove prima c’era competizione e, viceversa, nascono conflittualità laddove prima esistevano realtà pseudo-monolitiche.
 
Lei utilizza l’espressione ‘gruppi di opposizione armata’, riferendosi a una realtà più variegata che non comprende solo i Taliban o Talebani.
Uso la sigla ‘gruppi di opposizione armata’ perché è la più neutra, mentre il termine ‘terroristi’ è ideologico e colloca gli altri dalla parte dei cattivi. I gruppi di opposizione armata sono coloro che combattono contro uno status quo. A fronte del luogo comune di un’opposizione armata monolitica, l’Afghanistan ha circa 60 gruppi d’opposizione armata differenti. I Taliban costituiscono il più importante, il più visibile, quello che riesce a vendere meglio la propria immagine sfruttando le tecnologie moderne. Hanno, infatti, un sito web ufficiale aggiornato quotidianamente: Al- Emarah (L’Emirato). Fra gli altri gruppi è molto importante Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, movimento storico che a periodi alterni è in guerra sia contro il Governo afgano che contro i Taliban, o dialoga con il Governo. Il mujaheddin Hekmatyar è sempre stato un personaggio poco chiaro fin dai tempi della guerra contro i sovietici.
 
L’analista Olivier Roy ci ha detto in una precedente intervistaL’Afghanistan non è una questione di creazione di uno Stato Islamico. È in corso una guerra civile fra le genti del Nord e quelle del Sud, che ha assunto una piega ideologica con i Talebani. Problematica è l’interferenza straniera”. Che cosa ne pensa?
Senza dubbio l’Occidente in Afghanistan rappresenta un ulteriore elemento di destabilizzazione. Tuttavia, sulla contrapposizione Nord-Sud non sono del tutto d’accordo. La conflittualità fra Nord e Sud c’è sempre stata. Non è una questione geografica o etnica. Innanzitutto, ci sono tanti Nord e tanti Sud. Gli stessi gruppi che combattono contro il Sud combattono anche tra loro. In Afghanistan ci sono una quarantina di gruppi etnici diversi, che corrispondono ad altrettanti gruppi linguistici. Si tratta di culture diverse legate diversamente a realtà extra-afgane: i Tajiki al Tajikistan e all’Iran; gli Uzbeki all’Uzbekistan; i Turkmeni al Turkmenistan; gli Hazara all’Iran. Tutti in contrapposizione per la spartizione della torta, che consiste in aiuti economici esteri, ma anche in ricavati di un narcotraffico incontrollato.
 
Il narcotraffico non doveva essere contrastato?
Escluse le donazioni straniere, è la prima fonte economico-finanziaria del Paese. Le coltivazioni d’oppio garantiscono la sopravvivenza della gente comune. L’ 80 per cento della popolazione vive di agricoltura, in maniera diretta o indiretta. A fronte di un investimento ingente per la coltivazione di qualcosa di diverso (grano e zafferano), l’oppio garantisce introiti decisamente superiori con pochi investimenti, con poco lavoro sul campo e con la certezza della vendita. Così sopravvivono intere comunità rurali e periferiche nel Sud, nel Sud-Est, ma anche a Nord. Un esempio a noi molto vicino è quello di Bala Murghab, di cui l’Italia fino a due anni fa era responsabile. Lì transitano, tuttora, traffici di oppiacei verso il Turkmenistan, la Russia e l’Europa.
 
Quindi, la Coalizione occidentale ha fallito in questo obiettivo?
Formalmente la NATO aveva affidato agli inglesi il compito di contrastare il narcotraffico. Ma, dopo vari tentativi, ci si è resi conto che non era possibile. Si sarebbe destabilizzato un sistema micro-economico, generando un ulteriore sostegno ai gruppi d’opposizione armata, i quali anch’essi sopravvivono grazie al narcotraffico. La produzione di oppio, la lavorazione dello stesso e l’esportazione di eroina sono causa e conseguenza dello stato di conflittualità persistente. Più oppio si produce, più fucili possono essere comprati per garantire la sicurezza dei campi. Quei pochi momenti in cui la produzione di oppio è diminuita non vanno attribuiti alla capacità di contrasto delle forze della Coalizione e delle Forze di Sicurezza locali, bensì alla scelta razionale dei gruppi d’opposizione armata e della criminalità legata al narcotraffico di ridurre la produzione per causare un innalzamento dei prezzi.
 
E lo zafferano, promosso dall’Italia, come eventuale sostituto dell’oppio?
Inadatto per almeno due ragioni. Costa di più perché richiede più risorse umane nella produzione, un costante controllo, l’uso di insetticidi anti-muffa e di manodopera specializzata in quanto molto delicato. Inoltre, seconda ragione, una volta saturato il mercato locale, non è stata garantita l’immissione nel mercato straniero; e anche se si fosse riusciti in questa impresa non sarebbe stato di qualità buona come quello iraniano o abruzzese.
 
Tornando ai gruppi di opposizione armata, che si finanziano attraverso il narcotraffico, lei ha evidenziato la loro natura extra-afgana.
I confini dell’Afghanistan sono estremamente porosi, inconsistenti. Se ci spostiamo a Sud-Est, verso il Pakistan, vediamo che i locali non si sentono né afgani né pachistani, ma appartenenti al gruppo etnico-linguistico principale dei pashtun, forse il 30 per cento della popolazione afgana. Ma non lo sappiamo con certezza, perché l’ultimo censimento risale agli anni Settanta. Intere famiglie pashtun (o paktun) vivono al di qua e al di là di quella linea teorica che dividerebbe Afghanistan e Pakistan. In queste aree si creano alleanze e si decide con chi andare in guerra o quale gruppo sostenere. Lungo la cosiddetta frontiera ci sono anche i campi profughi ereditati da 40 anni di guerra civile, che sono diventati ormai villaggi stabili. Soprattutto le Aree ad Amministrazione Tribale del Nord, laddove lo Stato pachistano è assente, costituiscono basi di reclutamento di combattenti che si muovono al di qua o al di là del confine.
 
Oggi la conflittualità si è allargata. Perché?
Elementi esterni hanno influito sulle dinamiche interne delle aree tribali. Il conflitto si è esteso al Pakistan, contro il Governo pachistano e rischia di trasformarsi presto in guerra civile. Fra questi elementi esterni ci sono quelli riconducibili ad Al Qaeda, che hanno spostato qui la loro base di sostegno o condotta per la jihad globale. Essi si sono sovrapposti a forme di conflittualità pre-esistenti creando una realtà nuova, tipicamente pachistana. In queste zone c’è anche l’IMU, Islamic Movement of Uzbekistan che, cacciato da Uzbekistan e Afghanistan, ha trovato rifugio sicuro in queste regioni fuori controllo. I gruppi di opposizione armata godono anche dell’appoggio della popolazione locale, della quale sono divenuti parte integrante, attraverso matrimoni, alleanze e collaborazione sul campo di battaglia. Al Qaeda e IMU hanno portato elementi innovatori: la prima nell’ideologia, il secondo nel campo tecnico-tattico, poiché i suoi elementi storici provengono dall’Armata Rossa.
 
E i Taliban?
Siamo abituati a pensarli che combattono in Afghanistan, ma in realtà si è sviluppato un loro ramo pachistano, il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP). Esso da una parte sostiene logisticamente i Taliban afgani, dando loro delle basi in cui dormire, riposarsi e addestrarsi; dall’altra colpisce il Governo pachistano che ritiene corrotto, poco musulmano, aperto all’Occidente, tentando gradualmente di prendere il potere con attacchi così spettacolari da essere diffusi dai media locali e stranieri, al fine di mostrare quanto sia debole il suo obiettivo. Adesso, però, il TTP si è spaccato in due. Prima era alleato con Al Qaeda e con i Taliban pachistani, ma nell’autunno scorso il portavoce del TTP ha annunciato di essersi alleato con lo Stato Islamico o Islamic State (IS). Immediata è arrivata la smentita del capo del TTP, con esclusione del portavoce dal gruppo. In seguito, altri sei comandanti del TTP hanno confermato la loro alleanza con l’IS. Dunque, metà TTP è rimasto con Al Qaeda e i Taliban, e l’altra metà è passata – almeno formalmente – con l’IS.
 
Lo Stato Islamico, dunque, è arrivato in Afghanistan e Pakistan. Come?
L’IS ha sfruttato un vuoto lasciato da Al Qaeda nell’area del Subcontinente Indiano, avviando una propaganda tra le comunità musulmane dell’India, e in Pakistan. Si è mosso sul web, ma anche fra sostenitori locali che avevano avuto esperienza operativa in Syraq (Siria e Iraq, ndr.). Indiani e pachistani che avevano combattuto in Syraq sono stati rispediti nei loro Paesi per formare gruppi d’opposizione che si dichiarino fedeli all’ IS. Stessa cosa è accaduta in Libia e in Tunisia, ma in India e Pakistan sono anche comparsi i primi gadget, magliette, spille, adesivi, scritte, murales. Ciò ha fatto drizzare le antenne delle intelligence locali, ma ha anche spinto Al Qaeda, che è in competizione con l’IS, a fondare una nuova ala operativa specifica per il Subcontinente Indiano (AQIS). La annunciò Al Zawahiri lo scorso ottobre. Ora la competizione si è spostata sul campo di battaglia, attraverso un numero di attacchi spettacolari che ottengano l’attenzione mediatica per imporre il proprio ‘brand’. Se in India ci si è limitati per ora alla competizione mediatica, in Pakistan il TTP, che ha giurato fedeltà all’IS, ha condotto operazioni militari.
 
Successivamente lo Stato Islamico ha innalzato la sua bandiera nera in Afghanistan.
Sì. Alla fine del 2014 il mullah Rauf Khadim – mujaheddin di epoca sovietica e poi comandante dei Taliban – che era stato rilasciato da Guantanamo, ha creato un gruppo di una quarantina di uomini che da bianco è divenuto nero. Da fonti indirette pare, però, che i Taliban lo abbiano giustiziato. Intanto, il 18 aprile 2015, un commando-suicida, portabandiera dell’IS, ha ucciso 34 persone e ne ha ferite altre 125 a Jalalabad. Ma non possiamo dire che l’IS abbia delle truppe in Afghanistan, perché la guerra 3.0 si è spostata su un altro piano.
 
Quale?
Si fa condurre un’azione con pochi uomini, se ne assume la responsabilità ‘di successo’ e si innalza la bandiera nera come punto di riferimento per altri gruppi intenzionati a muoversi in quella direzione. I Taliban, per la prima volta in 15 anni, si trovano in difficoltà; non tanto per le Forze di Sicurezza afgane, ma perché molti dei più giovani e più radicali guardano al ‘new-comer’ come a un soggetto vincente: l’IS. Tutto ciò che è nuovo tende a piacere. Inoltre, a supporto di questa policy, è stata fatta circolare la voce che il Mullah Omar fosse morto: non avrebbe più senso combattere per chi non c’è più e per chi ormai opera lontano dall’Afghanistan, cioè dal Pakistan. È la guerra mediatica.
 
Khadim rilasciato dal carcere di Guantanamo, dove furono mandati i ‘terroristi’, crea un gruppo affiliato allo Stato Islamico. Paradossale?
La prigione di Guantanamo è una stranezza al di fuori del territorio statunitense e di qualsiasi giurisdizione internazionale. È un caso di a-legalità. Non è stata chiusa, ma si è cominciato a distribuire i detenuti in giro per il mondo o a rilasciarli, come è avvenuto per Khadim.
Finché il primo attacco suicida dello Stato Islamico ha riacceso i riflettori sull’Afghanistan.
Non a caso Renzi ha incontrato un Obama al tramonto, che gli avrebbe chiesto di prolungare l’impegno nel Paese asiatico dei militari italiani.
 
Ma l’impegno è cambiato. Quanti sono i militari italiani in Afghanistan e cosa stanno facendo?
I militari italiani arrivano fino a un massimo di 800, dei quali la maggior parte a Herat (almeno 700) e una cinquantina a Kabul. Tali resteranno per tutto il 2015. ISAF ed Enduring Freedom formalmente sono finite. In pratica, la missione NATO è diversa, ma continua. Se prima doveva stabilizzare il Paese, ora addestra, consiglia e assiste le Forze di Sicurezza afgane. I nostri militari, dunque, non operano al fianco dei soldati afgani, ma al livello superiore del corpo di armata. Questo consente di non avere morti, che in passato sono stati causati in parte da attacchi interni, compiuti da soldati afgani contro i loro istruttori (‘green on blue’, ‘insider attack’). E di non attirare l’attenzione mediatica, spingendo l’opinione pubblica verso il ritiro delle truppe.
 
Tutti gli attori in campo cercano di influenzare chirurgicamente i media per indirizzare l’opinione pubblica. E perché restare di più?
Lo Strategic Partnership Agreement, firmato da Stati Uniti, Afghanistan e SOFA (Status of Forces Agreement), stabilisce che fino al 2024 possiamo usare le basi in Afghanistan e altre nuove ed eventuali. Fino a poco tempo fa i media riportavano la notizia, disseminata ad arte da Pentagono e Casa Bianca, che le truppe sarebbero diminuite significativamente: non più di 10mila militari statunitensi e di 6mila NATO. E a questi andavano aggiunti i contractors. Ora, invece, Enduring Freedom è stata sostituita da Freedom Sentinel, che fa le stesse cose della prima ma con organici ridotti. Ovvero, azioni di anti-terrorismo contro Al Qaeda e i suoi ‘affiliati’, termine generico che può comprendere chiunque. Al momento, per esempio, non si riferisce ai Taliban, perché si sta cercando un accordo con loro (‘power sharing’). Tuttavia, l’Afghanistan è totalmente fuori controllo, come spiegavo all’inizio. E il Presidente Ghani ha chiesto di riconsiderare la tempistica del ritiro solamente perché indotto dall’Amministrazione statunitense. Lasciare l’Afghanistan significherebbe consegnarlo assieme al Pakistan a una guerra civile transnazionale e transfrontaliera, con elementi che andrebbero a colpire entrambi i Governi. In aggiunta, il quadro si farebbe più temibile, dal momento che il Pakistan detiene armi nucleari.
 
Soluzioni possibili a questo eventuale scenario apocalittico?
La NATO, gradualmente, si deve disimpegnare ma, se la situazione sul terreno non è gestibile dalle Forze di Sicurezza afgane, bisogna trovare una soluzione di compromesso. Gli attori che potrebbero sostituire la NATO e che si sono dati disponibili sono molti. Un attore estremamente importante, anche se confina con l’Afghanistan solamente per 66 chilometri, è la Cina. Essa ha acquisito i diritti di estrazione per l’80/90 percento del sottosuolo afgano (pozzi petroliferi, miniere di rame, miniere di minerali rari) e ha quindi l’interesse maggiore a garantire la stabilità del Paese. Personalmente, non escluderei una presenza militare cinese in Afghanistan, che finora non c’è mai stata. Di fatto, Pechino sta spingendo per inviare delle unità di sicurezza, nonostante non si sappia se militari o contractors, e ha avviato colloqui informali con i Taliban. L’idea è la stessa che ebbero gli USA per il gasdotto Tapi, che non si poteva realizzare senza il consenso di chi detiene il potere nei territori attraversati (Afghanistan, Turkmenistan, Pakistan e India). Si pagano royalties ai Governi, ai signori della guerra, ai gruppi di opposizione armata, in cambio della sicurezza nelle attività di estrazione.
 
La Cina ha ottenuto il controllo di quasi tutto il sottosuolo afgano, mentre i soldati della Coalizione morivano sul campo di battaglia. Per quali ragioni, dunque, l’Amministrazione USA ha intrapreso questa guerra?
Le risorse non sono la ragione primaria. Gli Stati Uniti volevano controllare un’ampia zona dell’Asia centrale e meridionale, a partire dalle basi afgane, e attuare una politica di contenimento anti-cinese.
 
E la reazione agli attentati dell’11 settembre 2001?
C’era una minaccia e fu fatta una scelta legittima. Si richiese formalmente al Governo Taliban, non riconosciuto, di consegnare Osama Bin Laden (designato responsabile degli attentati), ma quest’ultimo fu invece incaricato dal Mullah Omar (politico afghano, guida spirituale dei Taliban afgani, ndr.) di riorganizzare le Forze di Sicurezza afgane talebane. Si poteva considerare Bin Laden un Ministro di Difesa dell’Afghanistan. Il diritto internazionale dice che se un membro di un Governo si rende responsabile di un attacco contro un altro Stato, quest’ultimo può reagire.
 
Quindi, non si potevano prendere altre strade?
L’opinione pubblica globale spingeva per un intervento. Una risposta andava data. Fu una scelta politica razionale e passionale al tempo stesso. E’ stato unito l’utile all’opportuno.
 
Ovvero, l’11 settembre 2001 è stata un’occasione?
O meglio, E’ stata anche un’occasione. Ma gli statunitensi non potevano fare nulla di diverso, come per Pearl Harbour. Serviva un ‘casus belli’ ed è arrivato. Tuttavia, escludo le teorie complottiste. All’ultimo posto delle ragioni di guerra, c’era la possibilità di sfruttare il territorio afgano per il transito delle risorse energetiche. L’interesse maggiore – ripeto – era quello geo-strategico di mettere un piede in Asia Meridionale, in funzione di contenimento anti-cinese e in un momento in cui l’Iran faceva ancora parte dell’ ‘Asse del Male’. Da lì la scelta di allestire basi permanenti e semi-permanenti che rimarranno in parte in Afghanistan. La lotta al terrorismo fu più un modo per rispondere all’opinione pubblica, la quale ha sempre bisogno di spiegazioni semplici.
 
Ricorda la campagna statunitense per liberare le donne dal burqa? Nel quadro geopolitico e militare, i diritti umani quale collocazione hanno?
Ininfluente. Triste dirlo, ma la contropartita per un accordo con i Taliban potrebbe essere una rinuncia parziale ai diritti formalmente acquisiti – sebbene nella sostanza spesso disattesi – in particolare quelli delle donne.
 
Esistono delle stime attendibili sulle vittime?
Sì, un recente report ONU conferma l’aumento del 24% di morti civili nei primi sei mesi del 2014 rispetto al 2013.
 
E poi, oltre alla Cina, ci sono altri attori in gioco, come l’Iran.
L’Iran, dopo l’apertura USA sul nucleare, ha garantito un supporto alle attività di contro-terrorismo in Afghanistan. L’Iran è sempre stato interessato a questo Paese confinante per motivi culturali e per un’ambizione egemonica regionale. Ha sempre finanziato il Governo di Karzai e i governatori delle province confinanti. Vuole contrastare il narcotraffico che si muove verso il suo territorio e collabora con l’India per le questioni afgane.
 
Il Pakistan, invece, ha ottime relazioni con la Cina.
Assomiglia a una provincia cinese. Fondi e tecnologie cinesi hanno consentito la ricostruzione del suo impianto industriale, dei porti, la ristrutturazione delle sue centrali nucleari, l’agevolazione degli impianti che portano energia in Pakistan, come il Tapi stesso o l’Ipi.
 
Gli USA, dunque, dovrebbero fare un passo indietro, permettendo agli attori regionali di contrastare il terrorismo?
Sì. Prevedo che ci sarà un progressivo disimpegno NATO da qui al 2024, mentre gli USA rimarranno con qualche base strategica in funzione di contenimento soprattutto anti-cinese. I gruppi di opposizione armata, Taliban in testa ai quali gli USA già si stanno aprendo, e altri gruppi di potere si spartiranno il controllo del Paese. E un ruolo d’influenza primaria avranno gli attori regionali: Cina, Iran, Repubbliche Centroasiatiche, India, Pakistan. Vedremo un Afghanistan diviso in due: la parte Sud sotto influenza pachistana e il Nord sotto tutti gli altri.
Intanto, in Pakistan continua la guerra dei droni, con cui si bombardano le zone dei gruppi di opposizione armata. Un’inchiesta di ‘Foreign Affairs’ del 2013 diceva che a breve termine i droni sono efficaci nell’eliminare gli insorti, mentre a lungo termine ne producono molti di più.
È vero. Nel 2010 feci una ricerca sugli attentatori suicidi che avevano fallito l’attacco. Risultò che una gran parte avevano scelto di diventare martiri perché avevano perso i famigliari a seguito di un bombardamento aereo o con drone. Eppure i droni, d’ora in poi, con meno truppe sul terreno, saranno sempre più utilizzati.
 
Giovanni Lo Porto è stato ucciso a gennaio in Pakistan in un attacco con un drone. Perché si è saputo solo ora?
L’opportunità detta le priorità. Mi sento di condividere il pensiero di V. E. Parsi pubblicato su ‘Il Sole 24 Ore’: «Obama (e la sua Amministrazione) potrebbe aver deciso di posticipare l’annuncio al Primo Ministro Renzi così da ‘agevolare’ il prolungamento dell’impegno italiano in Afghanistan (6 mesi? O qualcosa di più…). Il cinismo condisce tutto il piatto servito dagli Usa all’Italia, che – non stupisce – ne ha aggiunto di suo (di cinismo). […] Il perché ci sia stato questo ritardo nella comunicazione direi che centra poco con le ‘indagini necessarie’ a verificare l’identità dei cadaveri, ma più con l’opportunità e le priorità della Casa Bianca».


Nella seconda parte di questa intervista Claudio Bertolotti analizzerà la situazione mediorientale e nordafricana, dall’Iraq alla Libia.

Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)

L'Indro 

di Francesca Lancini

Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1

Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
vai all’articolo originle su L’Indro)

Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)

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Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1

Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
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Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
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Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
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Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
vai all’articolo originle su L’Indro)

Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)

L'Indro 

di Francesca Lancini

Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1

Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
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La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
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La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre

 
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione controintelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (
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Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 
 
 
 
 
 
  
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.
 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti


 

 
 
 
 
 
Summary/Sintesi
“In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL”.
 
“In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL”.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L’AVANZATA DELL’ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.

 disponibile anche in formato epub.

 

15 maggio BIELLA CONFERENZA e DIBATTITO: ISIS prospettive geopolitiche e diritti umani

dettagli evento

Associazione: Amnesty International Sez. Biella e Caritas Diocesana
Data: venerdì 15 maggio 2015 h.21:00
Luogo: Salone Biverbanca, via Carso 15 Biella
ISIS. Prospettive geopolitiche e diritti umani
Il gruppo di Biella di Amnesty International e Caritas Diocesana Biella, con il Patrocinio del Comune di Biella, organizzano un dibattito dal titolo “ISIS. Prospettive geopolitiche e diritti umani”, che si terrà venerdì 15 maggio, alle ore 21, presso il salone di Biverbanca in via Carso 15 (Biella). La serata sarà dedicata all’approfondimento della storia, il contesto geopolitico e la situazione di sopruso dei diritti umani in cui vivono troppe persone, l’espansione dell’ISIS e la presenza territoriale in Siraq (Siria/Iraq), le cause di migrazioni massicce del popolo siriano.
Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).

15 maggio BIELLA CONFERENZA e DIBATTITO: ISIS prospettive geopolitiche e diritti umani

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Il gruppo di Biella di Amnesty International e Caritas Diocesana Biella, con il Patrocinio del Comune di Biella, organizzano un dibattito dal titolo “ISIS. Prospettive geopolitiche e diritti umani”, che si terrà venerdì 15 maggio, alle ore 21, presso il salone di Biverbanca in via Carso 15 (Biella). La serata sarà dedicata all’approfondimento della storia, il contesto geopolitico e la situazione di sopruso dei diritti umani in cui vivono troppe persone, l’espansione dell’ISIS e la presenza territoriale in Siraq (Siria/Iraq), le cause di migrazioni massicce del popolo siriano.
Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).

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Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).

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Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).

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Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).

SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR

by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti

http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/suicide-attacks-strategy-perspective-and-afghan-war-13002
Abstract
Suicide-attacks are one of the most important aspects of modern conflicts. According to Tosini between December 1981 (date of the first suicide-attack) and December 2010 date of the end of the scholar’s research there have been 2.713 suicide-attacks worldwide, which have caused about 28.000 deaths. Afghanistan and Iraq play the biggest role: between March 2003 and May 2010 there have been 1321 attacks of this kind in Iraq which have caused more than 13.000 deaths. Since 1981 Afghanistan and Iraq have been reaching 68% of all suicide-bombings and 55% of all casualties together. These figures show how big an impact the suicide tactics had during the Iraq war, in addition suicide tactics continues to have a main role in Islamic State warfare: for example in January 2015 alone we can count 35 suicide-attacks in Iraq. Moreover, suicide-attacks played an important role in other conflicts such as the ones in Lebanon, Israel, Sri Lanka, Kashmir, Turkey, Afghanistan, and worldwide attacks can be linked to the global organization of al-Qaeda. Objectives, political and war situations are very different in these countries, thus the various features of suicide bombings make finding a single explanation for this phenomenon difficult.
Andrea Beccaro, Ph.D, is DAAD Fellow at Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Universität in Berlin. 
Claudio Bertolotti, Ph.D, is Senior Research fellow at the Italian Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS).

SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR

by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti

http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/suicide-attacks-strategy-perspective-and-afghan-war-13002
Abstract
Suicide-attacks are one of the most important aspects of modern conflicts. According to Tosini between December 1981 (date of the first suicide-attack) and December 2010 date of the end of the scholar’s research there have been 2.713 suicide-attacks worldwide, which have caused about 28.000 deaths. Afghanistan and Iraq play the biggest role: between March 2003 and May 2010 there have been 1321 attacks of this kind in Iraq which have caused more than 13.000 deaths. Since 1981 Afghanistan and Iraq have been reaching 68% of all suicide-bombings and 55% of all casualties together. These figures show how big an impact the suicide tactics had during the Iraq war, in addition suicide tactics continues to have a main role in Islamic State warfare: for example in January 2015 alone we can count 35 suicide-attacks in Iraq. Moreover, suicide-attacks played an important role in other conflicts such as the ones in Lebanon, Israel, Sri Lanka, Kashmir, Turkey, Afghanistan, and worldwide attacks can be linked to the global organization of al-Qaeda. Objectives, political and war situations are very different in these countries, thus the various features of suicide bombings make finding a single explanation for this phenomenon difficult.
Andrea Beccaro, Ph.D, is DAAD Fellow at Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Universität in Berlin. 
Claudio Bertolotti, Ph.D, is Senior Research fellow at the Italian Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS).

SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR

by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti

http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/suicide-attacks-strategy-perspective-and-afghan-war-13002
Abstract
Suicide-attacks are one of the most important aspects of modern conflicts. According to Tosini between December 1981 (date of the first suicide-attack) and December 2010 date of the end of the scholar’s research there have been 2.713 suicide-attacks worldwide, which have caused about 28.000 deaths. Afghanistan and Iraq play the biggest role: between March 2003 and May 2010 there have been 1321 attacks of this kind in Iraq which have caused more than 13.000 deaths. Since 1981 Afghanistan and Iraq have been reaching 68% of all suicide-bombings and 55% of all casualties together. These figures show how big an impact the suicide tactics had during the Iraq war, in addition suicide tactics continues to have a main role in Islamic State warfare: for example in January 2015 alone we can count 35 suicide-attacks in Iraq. Moreover, suicide-attacks played an important role in other conflicts such as the ones in Lebanon, Israel, Sri Lanka, Kashmir, Turkey, Afghanistan, and worldwide attacks can be linked to the global organization of al-Qaeda. Objectives, political and war situations are very different in these countries, thus the various features of suicide bombings make finding a single explanation for this phenomenon difficult.
Andrea Beccaro, Ph.D, is DAAD Fellow at Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Universität in Berlin. 
Claudio Bertolotti, Ph.D, is Senior Research fellow at the Italian Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS).

SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR

by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti

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Abstract
Suicide-attacks are one of the most important aspects of modern conflicts. According to Tosini between December 1981 (date of the first suicide-attack) and December 2010 date of the end of the scholar’s research there have been 2.713 suicide-attacks worldwide, which have caused about 28.000 deaths. Afghanistan and Iraq play the biggest role: between March 2003 and May 2010 there have been 1321 attacks of this kind in Iraq which have caused more than 13.000 deaths. Since 1981 Afghanistan and Iraq have been reaching 68% of all suicide-bombings and 55% of all casualties together. These figures show how big an impact the suicide tactics had during the Iraq war, in addition suicide tactics continues to have a main role in Islamic State warfare: for example in January 2015 alone we can count 35 suicide-attacks in Iraq. Moreover, suicide-attacks played an important role in other conflicts such as the ones in Lebanon, Israel, Sri Lanka, Kashmir, Turkey, Afghanistan, and worldwide attacks can be linked to the global organization of al-Qaeda. Objectives, political and war situations are very different in these countries, thus the various features of suicide bombings make finding a single explanation for this phenomenon difficult.
Andrea Beccaro, Ph.D, is DAAD Fellow at Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Universität in Berlin. 
Claudio Bertolotti, Ph.D, is Senior Research fellow at the Italian Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS).

SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR

by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti

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Abstract
Suicide-attacks are one of the most important aspects of modern conflicts. According to Tosini between December 1981 (date of the first suicide-attack) and December 2010 date of the end of the scholar’s research there have been 2.713 suicide-attacks worldwide, which have caused about 28.000 deaths. Afghanistan and Iraq play the biggest role: between March 2003 and May 2010 there have been 1321 attacks of this kind in Iraq which have caused more than 13.000 deaths. Since 1981 Afghanistan and Iraq have been reaching 68% of all suicide-bombings and 55% of all casualties together. These figures show how big an impact the suicide tactics had during the Iraq war, in addition suicide tactics continues to have a main role in Islamic State warfare: for example in January 2015 alone we can count 35 suicide-attacks in Iraq. Moreover, suicide-attacks played an important role in other conflicts such as the ones in Lebanon, Israel, Sri Lanka, Kashmir, Turkey, Afghanistan, and worldwide attacks can be linked to the global organization of al-Qaeda. Objectives, political and war situations are very different in these countries, thus the various features of suicide bombings make finding a single explanation for this phenomenon difficult.
Andrea Beccaro, Ph.D, is DAAD Fellow at Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Universität in Berlin. 
Claudio Bertolotti, Ph.D, is Senior Research fellow at the Italian Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS).

L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
 
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 
Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
 
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
 
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale.
Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
 

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
@cbertolotti1

L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale. 

Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale. 

Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
@cbertolotti1

L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale. 

Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
@cbertolotti1

L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale. 

Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
@cbertolotti1

L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRESEuro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
 Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari  dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
  • destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
  • allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
  • incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
  • perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
  • collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
  • cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
  • ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
  • aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
  • insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
  • riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale. 

Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.

Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS

http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Documents/OsservatorioStrategico/2015/Osservatorio_Strategico_Prospettive_2015.pdf

Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.

Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.

Il lettore è quindi libero di combinare gli input generali con quelli specialistici e viceversa, fruendo di un’adeguata diversità d’approcci e contributi. Sappiamo che l’analisi predittiva degli eventi è particolarmente rischiosa e che errare è un rischio presente, ma riteniamo che seguire questa strada, nella convinzione che non si può subappaltare del tutto all’esterno la propria analisi e percezione strategica, non possa che essere fruttuoso per migliorare un dibattito talvolta generico e vago, contribuendo con un concreto apporto allo studio delle dinamiche globali e regionali.

L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.

Osservatorio strategico Prospettive 2015
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore
Gen. D. Nicola Gelao
Vice Direttore Responsabile
C.V. Vincenzo Paratore
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 Roma
Te l . 0646913204 Fax 066870779
e-mail: [email protected]

Autori
Claudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Lorena Di Placido, Stefano Felician Beccari, Lucio Martino, Marco Massoni, Nunziante Mastrolia, Nicola Pedde, Alessandro Politi, Paolo Quercia.

Coordinamento Scientifico “Parte I. Prospettiva Generale 2015”
Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi

 
http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Documents/OsservatorioStrategico/2015/Osservatorio_Strategico_Prospettive_2015.pdf
 

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– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.

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– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
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Il lettore è quindi libero di combinare gli input generali con quelli specialistici e viceversa, fruendo di un’adeguata diversità d’approcci e contributi. Sappiamo che l’analisi predittiva degli eventi è particolarmente rischiosa e che errare è un rischio presente, ma riteniamo che seguire questa strada, nella convinzione che non si può subappaltare del tutto all’esterno la propria analisi e percezione strategica, non possa che essere fruttuoso per migliorare un dibattito talvolta generico e vago, contribuendo con un concreto apporto allo studio delle dinamiche globali e regionali.

L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
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Il lettore è quindi libero di combinare gli input generali con quelli specialistici e viceversa, fruendo di un’adeguata diversità d’approcci e contributi. Sappiamo che l’analisi predittiva degli eventi è particolarmente rischiosa e che errare è un rischio presente, ma riteniamo che seguire questa strada, nella convinzione che non si può subappaltare del tutto all’esterno la propria analisi e percezione strategica, non possa che essere fruttuoso per migliorare un dibattito talvolta generico e vago, contribuendo con un concreto apporto allo studio delle dinamiche globali e regionali.

L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.

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Il lettore è quindi libero di combinare gli input generali con quelli specialistici e viceversa, fruendo di un’adeguata diversità d’approcci e contributi. Sappiamo che l’analisi predittiva degli eventi è particolarmente rischiosa e che errare è un rischio presente, ma riteniamo che seguire questa strada, nella convinzione che non si può subappaltare del tutto all’esterno la propria analisi e percezione strategica, non possa che essere fruttuoso per migliorare un dibattito talvolta generico e vago, contribuendo con un concreto apporto allo studio delle dinamiche globali e regionali.

L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
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ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Le mia valutazioni su come agire… ora:
http://www.nododigordio.org/
 

ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Le mia valutazioni su come agire… ora:
http://www.nododigordio.org/
 

ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Le mia valutazioni su come agire… ora:
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ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Le mia valutazioni su come agire… ora:
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ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Le mia valutazioni su come agire… ora:
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ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia

di Claudio Bertolotti
 
Priorità strategiche dell’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
Alla necessità di difendersi dall’offensiva jihadista, si unisce un altro elemento di vitale importanza per l’Italia: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti. In particolare, la dipendenza dell’Italia dalle forniture di idrocarburi nordafricani impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Geografia: un punto di forza dell’Italia
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Quali le opportunità per l’Italia? Quali le vulnerabilità? Quale la strategia di contrasto alla minaccia degli interessi nazionali?… e ancora,
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
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http://www.nododigordio.org/
 

Attacco jihadista (a Charlie Hebdo): terrorismo di successo o fallimentare? Elementi di analisi

di Claudio Bertolotti

http://www.itstime.it/w/attacco-jihadista-a-charlie-hebdo-terrorismo-di-successo-o-fallimentare-elementi-di-analisi-by-claudio-bertolotti/
Parigi, 8-9 gennaio 2014: 20 morti (17 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.

A supporto di una successiva e approfondita analisi, si vogliono qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno (in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado di influire sugli sviluppo socio-politici e sulle procedura di sicurezza in atto e in fase di implementazione.
 
In primo luogo,  i punti di forza del terrorismo jihadista si concretizzano nelle adeguate capacità informativa, organizzativa e di movimento a cui si uniscono la forte motivazione e l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei” che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali soggetti sono in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si accompagna alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero (nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia sono in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e non organizzati: i lone wolf  (o terroristi autoctoni).
 
Agli elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo jihadista. In primis, sul piano operativo, la marginale capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sviluppano le conflittualità tra i differenti brand del jihad, in particolare Al-Qa’ida vs l’ISIS (quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima in fase di declino, ma con una struttura organizzativa consolidata, l’altra in piena fase espansiva, ma con una limitata esperienza operativa al di fuori del campo di battaglia convenzionale: una competizione che potrebbe portare a un’intensificazione delle azioni violente).
 
Ai fattori di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità degli stati occidentali. I più recenti eventi, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica. Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che differisce  dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni, dinamiche, sviluppi e organizzazione).
Pesa, nel complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica, l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive, tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la decisione del governo francese di limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie frontiere, in deroga al trattato di Shengen).
 
Significative le opportunità potenziali, su entrambi i fronti.
Le opportunità del terrorismo jihadista sono conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della riorganizzazione strutturale.
Il contesto operativo è il “domestic urban warfare” (ambito urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso profilo operativo.
Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base “molecolare ”, rafforzata dall’attivazione di cellule/nuclei/individui dormienti (c.d. “zombie”)  già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “transumanza jihadista”).
 
Le  opportunità che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate, in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo “diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un  maggiore coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro all’ISIS e in un coerente ed equilibrato controllo delle frontiere lungo l’arco mediterraneo.
 
A fronte delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione che seguirà e dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio, l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio, che nei giorni scorsi ha pubblicato alcune vignette di Charlie Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del “terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte altamente probabile o certa.
 
Infine, le scelte alternative (trade-off). Sul piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione virale di quei video-web postumi dei terroristi  che possono alimentare le dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare Al-Qa’ida e ISIS, che in tale contesto muovono verso un’accelerata recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando un’escalation nell’intensità delle future azioni su suolo europeo e, dunque, anche italiano).
 
Fatte queste necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale) degli effetti derivanti da una singola azione portata a compimento da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione condotta da un singolo terrorista).
Sul piano tattico e operativo:
–    eliminazione degli obiettivi (dal forte valore simbolico);
–    capacità di tenere impegnate 88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia), distraendole dai normali compiti di routine;
–    blocco della capitale di una delle più importanti nazioni a livello mondiale;
–    dimostrazione dei limiti dello strumento intelligence e di sicurezza.

Sul piano strategico e politico:
–    diffusione e amplificazione massmediatica del messaggio jihadista;
–    dimostrazione dell’imprevedibilità della minaccia;
–    generale consapevolezza di vulnerabilità (forte impatto psicologico);
–    terrore diffuso immediato e paura collettiva persistente;
–  scelta da parte degli attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria comunità;
–    induzione alla polarizzazione “identitaria”;
–    fomento degli impulsi populisti e radicali;
–    mobilitazione della Comunità internazionale;
–    avvio del processo di revisione dei protocolli di sicurezza;
–    sospensione degli accordi di Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy, mobilità).

In estrema sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico, psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile – anche in Italia – indipendentemente dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in veste di attori protagonisti o di semplici comparse.


[1] Le due azioni perpetrate a Parigi sono state attribuite una ad Al-Qa’ida e l’altra all’ISIS.
[2]Definizione introdotta da M. Minniti, sottosegretario con delega ai servizi, intervista a Il Corriere della Sera dell’8 gennaio 2014.
[3] Si rimanda al contributo di M. Lombardi, Dopo Charlie Hebdo solo Zombie: il nuovo terrorismo ibrido, in www.itstime.it.
[4] Video diffuso via web il giorno dopo l’uccisione di Amedy Coulibaly, responsabile dell’uccisione di una poliziotta e dell’assalto a un negozio ebraico.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?

by Claudio Bertolotti
The Islamic State of Iraq and Levant (ISIL, ISIS, or more simply IS) is attempting to expand its influence from the Middle East to Asia, in particular to Pakistan, India and Afghanistan.
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
 
IS, Al-Qaeda and Jihadi propaganda in Pakistan, Afghanistan and India: weakness and strengths.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
 
Brief Analysis
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving  more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti

I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
–  in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
–  in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).

Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.

Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali

Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.

IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
–  Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
–  Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.

Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.


[1] A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre 2014, pp. 18-23.
[2] Ibidem.
[3] C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali – Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.

CAMERA DEI DEPUTATI 9 dicembre 2014: War Games – suggerimenti per il “Libro Bianco della Difesa”

Contributo di Claudio Bertolotti: “Difesa e Sicurezza Europea: il ruolo guida dell’Italia nell’area strategica mediterranea”
Lo staff de “Il Nodo di Gordio” è orgoglioso e lieto di invitare tutti i lettori, gli utenti che ci seguono online e gli appassionati di geopolitica alla presentazione ufficiale del n°6 della nostra rivista War Games – Giochi di Guerra, Speciale Libro Bianco della Difesa, che si svolgerà martedì 9 dicembre dalle 15 alle 17 alla Camera dei Deputati (Sala del Cenacolo, Palazzo Valdina).

NODO DI GORDIO
Alcuni mesi fa, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva rivolto un invito aperto ad esperti, cittadini ed addetti ai lavori a fornire suggerimenti ed indicazioni utili alla stesura del “Libro Bianco della Difesa” che dovrebbe vedere la luce il prossimo dicembre. Il think tank “Il Nodo di Gordio” ha accolto di buon grado l’invito del Ministro, presentando in questo numero uno Speciale interamente dedicato all’evoluzione delle Forze Armate italiane, al futuro dei rapporti e delle dinamiche all’interno dell’Alleanza atlantica ed alle proiezioni strategiche in campo militare e geopolitico del nostro Paese nel mutevole e complesso contesto internazionale. Lo abbiamo fatto avvalendoci della preziosa
competenza di numerosi e qualificati esperti del settore e del necessario contributo di autorevoli esponenti delle istituzioni parlamentari preposte e di altrettanto stimati osservatori internazionali […]

CAMERA DEI DEPUTATI 9 dicembre 2014: War Games – suggerimenti per il “Libro Bianco della Difesa”

Contributo di Claudio Bertolotti: “Difesa e Sicurezza Europea: il ruolo guida dell’Italia nell’area strategica mediterranea”
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NODO DI GORDIO
Alcuni mesi fa, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva rivolto un invito aperto ad esperti, cittadini ed addetti ai lavori a fornire suggerimenti ed indicazioni utili alla stesura del “Libro Bianco della Difesa” che dovrebbe vedere la luce il prossimo dicembre. Il think tank “Il Nodo di Gordio” ha accolto di buon grado l’invito del Ministro, presentando in questo numero uno Speciale interamente dedicato all’evoluzione delle Forze Armate italiane, al futuro dei rapporti e delle dinamiche all’interno dell’Alleanza atlantica ed alle proiezioni strategiche in campo militare e geopolitico del nostro Paese nel mutevole e complesso contesto internazionale. Lo abbiamo fatto avvalendoci della preziosa
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Alcuni mesi fa, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva rivolto un invito aperto ad esperti, cittadini ed addetti ai lavori a fornire suggerimenti ed indicazioni utili alla stesura del “Libro Bianco della Difesa” che dovrebbe vedere la luce il prossimo dicembre. Il think tank “Il Nodo di Gordio” ha accolto di buon grado l’invito del Ministro, presentando in questo numero uno Speciale interamente dedicato all’evoluzione delle Forze Armate italiane, al futuro dei rapporti e delle dinamiche all’interno dell’Alleanza atlantica ed alle proiezioni strategiche in campo militare e geopolitico del nostro Paese nel mutevole e complesso contesto internazionale. Lo abbiamo fatto avvalendoci della preziosa
competenza di numerosi e qualificati esperti del settore e del necessario contributo di autorevoli esponenti delle istituzioni parlamentari preposte e di altrettanto stimati osservatori internazionali […]

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NODO DI GORDIO
Alcuni mesi fa, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva rivolto un invito aperto ad esperti, cittadini ed addetti ai lavori a fornire suggerimenti ed indicazioni utili alla stesura del “Libro Bianco della Difesa” che dovrebbe vedere la luce il prossimo dicembre. Il think tank “Il Nodo di Gordio” ha accolto di buon grado l’invito del Ministro, presentando in questo numero uno Speciale interamente dedicato all’evoluzione delle Forze Armate italiane, al futuro dei rapporti e delle dinamiche all’interno dell’Alleanza atlantica ed alle proiezioni strategiche in campo militare e geopolitico del nostro Paese nel mutevole e complesso contesto internazionale. Lo abbiamo fatto avvalendoci della preziosa
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Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]



[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: verso le elezioni presidenziali


di Claudio Bertolotti


Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.

Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria

Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.

Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.

Libano: verso le elezioni presidenziali


di Claudio Bertolotti


Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.

Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria

Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.

Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.

Libano: verso le elezioni presidenziali


di Claudio Bertolotti


Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.

Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria

Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.

Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.