UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza
Categoria: MENA sguardi e analisi
Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza
Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza
Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
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Difesa europea, esercito comune. Si può, si deve fare!
UE – Ormai inevitabile per gli Stati europei ripensare alla loro sicurezza
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
In Libia con la minaccia invisibile dell’uranio impoverito
Quali i rischi per la salute della popolazione civile e dei militari che andranno a operare in Libia? E quale il prezzo accettabile, in termini di vite umane, messo in conto dal governo italiano?
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
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Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
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Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
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Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Libia: difficile transizione, riserve per il futuro
di Claudio Bertolotti
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Rinunciare a libertà e privacy in nome della sicurezza?
di Claudio Bertolotti
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Quale il punto di giusto bilanciamento tra i diritti alla libertà e il diritto-dovere alla sicurezza?
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
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La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
Libia, Mediterraneo e interesse nazionale italiano
“Iniziativa di Difesa 5+5”
La sicurezza del Mediterraneo anche con lo strumento militare
ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
– See more at: http://www.lindro.it/isis-in-europa-quale-minaccia-diretta-per-litalia/#sthash.ZsFnsQlS.dpuf
ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
E il 13 novembre 2015
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
È trascorso meno di un anno dagli attacchi effettuati da una (sedicente) cellula di al-Qa’ida contro la redazione del giornale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi; era il 7 gennaio 2015 quando uno dei tanti simboli della libertà di espressione – condiviso o meno, più spesso criticato – veniva travolto dalla violenza di un terrorismo che si ‘auto-giustifica’ attraverso l’uso strumentale della religione. Una religione in nome della quale l’atto di uccidere diviene legittimo.
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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ISIS in Europa. Quale minaccia diretta per l’Italia?
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Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
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Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)
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Attentati di Parigi: potrebbe intervenire la Nato? (L’INDRO)
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Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
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Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
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Andiamo in Libia (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
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Andiamo in Libia (L’INDRO)
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Andiamo in Libia (L’INDRO)
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Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)
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Mediterraneo e Libia: quanto rende il traffico di esseri umani? (L’INDRO)
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di Claudio Bertolotti
Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea.
– See more at: http://www.lindro.it/tra-immigrazione-e-sicurezza-europea/#sthash.SkzmRACz.dpuf
Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea.
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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
È necessario definire e comprendere il quadro generale in cui si inseriscono il flusso migratorio e la reazione degli attori in gioco (Stati nazionali in primo luogo), e valutare la messa in opera di una soluzione di ampio respiro che vada oltre i tatticismi politici di opportunità e l’assenza di una concreta e univoca capacità di reazione europea.
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Tra immigrazione e sicurezza europea. Ovvero: tra terrorismo e common-borders (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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di Claudio Bertolotti
You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh
Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh
Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
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Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
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Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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di Claudio Bertolotti
You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh
Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
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di Claudio Bertolotti
You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh
Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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Libano: è colpa solo della spazzatura? (L’INDRO)
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di Claudio Bertolotti
You Stink, tu puzzi. Giorni di violente proteste in un Paese a rischio IS/Daesh
Agosto è stato il mese delle violente proteste di piazza di una Beirut le cui strade sono state per molti giorni inondate da immondizia: intervento della Polizia in tenuta anti-sommossa, utilizzo indiretto di armi da fuoco per disperdere la folla, centinaia i feriti, disordini preoccupanti, e il Primo Ministro Tammam Salam – tra le personalità politiche contestate con maggiore forza – minaccia le proprie dimissioni.
Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
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Gli scontri e le devastazioni del 22-23 agosto sono stati accompagnati dagli slogan dei giovani manifestanti inneggianti alla ‘rivoluzione’: e Beirut è stata teatro della più grave ondata di violenza degli ultimi anni, facendo temere che il Paese potesse precipitare nel caos.
Proteste che rientrano nella campagna soprannominata #YouStink (‘Tu puzzi’), e che
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Intervento militare in Libia, e poi? (L’INDRO)
di Claudio Bertolotti
Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia
L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà... vai all’articolo su L’INDRO
Intervento militare in Libia, e poi?
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di Claudio Bertolotti
Contro il Mediterraneo di Isis&CoI possibili sviluppi di un eventuale intervento militare in Libia
L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
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Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)
Tunisia: contro il nuovo terrorismo insurrezionale (L’INDRO)
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Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
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-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
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-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
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Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
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-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
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-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
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-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
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-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
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collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
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destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
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incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
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perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
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collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
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cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
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ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
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rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
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Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
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-
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-
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Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
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collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
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-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
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riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
-
destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
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insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
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riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Tunisia in guerra: stato di emergenza e cambio di appproccio concettuale
Il contributo dell’Italia al cambio di approccio concettuale e nel contrasto al “nuovo terrorismo insurrezionale
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destabilizzazione della Tunisia, e dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, come conseguenza del caos libico;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
rischio di infiltrazione jihadista – anche connessa ai flussi migratori;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria in connessione con il traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
– a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
– a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
– Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
– attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
– concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
– creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
11:47 -TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA”
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA
Esperto, terrorismo produce profughi, alimenta tratta
Intervento Bertolotti a convegno Migramed a Tunisi
(ANSAmed) – TUNISI, 17 GIU – C’è una stretta correlazione tra terrorismo e crimine organizzato. Produce profughi e alimenta il traffico di esseri umani, che non si fa scrupolo di usare qualunque mezzo a disposizione pur di trarre beneficio dalla tratta di migranti. Lo afferma l’esperto di geopolitica Claudio Bertolotti, intervenuto al meeting Migramed della Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo in corso a Tunisi fino a domani.
Tra i temi affrontati al meeting sul tema “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”, anche gli effetti delle Primavere Arabe sulle società europee e mediterranee, il ruolo delle Caritas nazionali nell’accoglienza dei migranti, quello della Chiesa nei Paesi del Mediterraneo e naturalmente quello del terrorismo. “C’è una forte porosità delle frontiere e la Libia è il cancello aperto attraverso il quale tutti i flussi migratori passano senza grossi controlli”, ha affermato Bertolotti, secondo cui “c’è il rischio di una politica inefficace contro questa minaccia che ha cambiato modalità e tattiche. Se dovessimo fallire nell’adozione di una strategia efficace la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante, con una destabilizzazione regionale che si può estendere dall’area medio-orientale a quella nord africana”.
“I flussi migratori, ha continuato l’esperto, sono una delle più importanti fonti di sostentamento del crimine organizzato transnazionale, che ha stretti legami con il nuovo terrorismo insurrezionale”. Poi, rispondendo ad una domanda: “Che ci siano terroristi sui barconi è una possibilità che rientra nel calcolo delle probabilità, non possiamo escluderlo a priori. Ci sono volontà individuali che possono decidere di colpire o meno, ma sicuramente ci sono mezzi molto più sicuri per arrivare in Europa. Piuttosto che fare un blocco navale conviene implementare le attività di intelligence alle frontiere, per consentire un flusso sicuro”.(ANSAmed).
11:47 – TERRORISMO: BERTOLOTTI (ESPERTO), “PRODUCE PROFUGHI E ALIMENTA LA TRATTA” (2)
Tunisi 14-16 giugno CEMRES 5+5 Defence Initiative
BORDERS SECURITYTERRORISMTRANSNATIONAL CRIMEAffronteranno le minacce alla sicurezza del Mediterraneo i dieci esperti internazionalidi Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Malta, Libia, Tunisia, Algeria, Mauritania e Marocco
Tunisi 14-16 giugno CEMRES 5+5 Defence Initiative
BORDERS SECURITYTERRORISMTRANSNATIONAL CRIMEAffronteranno le minacce alla sicurezza del Mediterraneo i dieci esperti internazionalidi Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Malta, Libia, Tunisia, Algeria, Mauritania e Marocco
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MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
13.00 – 14.30
|
Lunch at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
16.00 – 17.00
|
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
|
17.00 – 19.00
Seminar
|
Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
8.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
9.00 – 9.30
|
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
|
9.30 – 10.00
|
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
|
10.00 – 10.30
|
Coffee break
|
10.30 – 12.30
|
Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
|
12.30 – 13.00
|
Debate
|
13.00 – 14.30
|
Light lunch
|
15.00 – 17.30
|
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas Lhernould (Vicar General of Tunis)
|
17.30 – 18.00
|
Debate
|
08.00 – 09.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
09.00 – 13.00*
|
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
13.00 – 14.30
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Lunch at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
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16.00 – 17.00
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Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
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17.00 – 19.00
Seminar
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Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
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8.00
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Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
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9.00 – 9.30
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Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
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9.30 – 10.00
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Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
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10.00 – 10.30
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Coffee break
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Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
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12.30 – 13.00
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Debate
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Light lunch
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15.00 – 17.30
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas Lhernould (Vicar General of Tunis)
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17.30 – 18.00
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Debate
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EU agenda on migration
Towards a caritas common position
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George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
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Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
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17.00 – 19.00
Seminar
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Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
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8.00
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Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
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9.00 – 9.30
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Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
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9.30 – 10.00
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From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
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10.00 – 10.30
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Coffee break
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10.30 – 12.30
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Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
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12.30 – 13.00
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Debate
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13.00 – 14.30
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Light lunch
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15.00 – 17.30
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
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17.30 – 18.00
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Debate
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08.00 – 09.00
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09.00 – 13.00*
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EU agenda on migration
Towards a caritas common position
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George Joseph (Caritas Sweden)
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Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
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13.00 – 14.30
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Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
|
17.00 – 19.00
Seminar
|
Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
8.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
9.00 – 9.30
|
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
|
9.30 – 10.00
|
From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
|
10.00 – 10.30
|
Coffee break
|
10.30 – 12.30
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Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
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12.30 – 13.00
|
Debate
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13.00 – 14.30
|
Light lunch
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15.00 – 17.30
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas Lhernould (Vicar General of Tunis)
|
17.30 – 18.00
|
Debate
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08.00 – 09.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
09.00 – 13.00*
|
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
13.00 – 14.30
|
Lunch at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
16.00 – 17.00
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Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
|
17.00 – 19.00
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Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
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9.00 – 9.30
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Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
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9.30 – 10.00
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From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
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10.00 – 10.30
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Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
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12.30 – 13.00
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Debate
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
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17.30 – 18.00
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Debate
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09.00 – 13.00*
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EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
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MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
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Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
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and consequences on human mobility
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EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
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MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
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The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
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Cyrille De Billy (Secours Catholique)
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8.00
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17.30 – 18.00
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17.00 – 19.00
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From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
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10.00 – 10.30
|
Coffee break
|
10.30 – 12.30
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Round table: a dialogue between shores
Update about the crucial situation in the Mediterranean area
Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
(UNHCR)
Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Valerio Landri (Caritas di Agrigento)
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12.30 – 13.00
|
Debate
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13.00 – 14.30
|
Light lunch
|
15.00 – 17.30
|
Middle East, North Africa and Horn of Africa
The challenges of the Caritas Network
Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
Fr. Cesare Baldi (director Caritas Algeria)
moderator Fr. Nicolas Lhernould (Vicar General of Tunis)
|
17.30 – 18.00
|
Debate
|
08.00 – 09.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
09.00 – 13.00*
|
EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
Claire Loizides (Caritas Cyprus)
Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
MIGRAMED – Tunisi 15-18 giugno – Terrorismo, migrazione, islam, Occidente
13.00 – 14.30
|
Lunch at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
16.00 – 17.00
|
Official opening
Welcoming by Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
Francesco Soddu, director of Caritas Italiana
|
17.00 – 19.00
Seminar
|
Europe – Maghreb
The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
prof. Kmar Bendana (University of Tunis)
prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
prof. Jean Pierre Cassarino (Schumann Institute of Florence)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
|
8.00
|
Breakfast at the Golden Tulip Hotel (Restaurant El Mountazah)
|
9.00 – 9.30
|
Islam and Democracy, the Tunisian experience
A breathing space by
Prof. Abderrazak Sayaddi (University of Tunis, P.I.S.A.I. Rome, G.R.I.C.)
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9.30 – 10.00
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From terrorism to jihadism
Definition of the threat, tracks for shared solutions
and consequences on human mobility
Claudio Bertolotti (Senior Researcher – Indipendent Strategic Analyst
Italian researcher for “5+5 Defence Initiative” for the security in the west Mediterranean area) moderator don Marco Lai (Caritas Cagliari)
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Coffee break
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Oliviero Forti (Caritas Italiana)
(UNHCR)
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Firmin Mola Mbalo (Caritas Tunisia)
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Debate
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
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Soufia Naffa (Caritas Jordan)
Edouard Danjoy (director of Caritas Rabat-Morocco)
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Debate
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09.00 – 13.00*
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EU agenda on migration
Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
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Ilario Antoniazzi, bishop of Tunis
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Seminar
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The effect of the Arab spring on the European and Arab societies:
a social, historical overview
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prof. Maurizio Ambrosini (University of Milan)
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moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
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8.00
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Islam and Democracy, the Tunisian experience
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Middle East, North Africa and Horn of Africa
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Fr. Paul Karam (President of Caritas Lebanon)
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Towards a caritas common position
Shannon Pfhoman (Caritas Europa)
George Joseph (Caritas Sweden)
Christoph Klitsch-Ott (Caritas Germany)
Nikos Voutsinos (Caritas Greece)
Cyrille De Billy (Secours Catholique)
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Manuela De Marco (Caritas Italiana)
Maria Segurado (Caritas Spain)
moderator Oliviero Forti (Caritas Italiana)
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Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
Al-Qaeda vs ISIS & Co. A new critical phase for the Afghan war (CeMiSS Quarterly 1/2015)
by Claudio Bertolotti
– Self-claiming ISIS militants killed a Taliban commander during a clash in the Charkh province. The governor of northeastern Kunduz stated that there were about 70 ISIS militants in the province.
– Afghan treasury chief stated that the new Afghan finance minister discussed a plan with the International Monetary Fund to privatize the New Kabul Bank – formed after the original Kabul Bank collapsed in 2010 generating a financial crisis in the country – that has lost around $56 million in the last four years
March
– Afghan President Ashraf Ghani stated that ISIS views Afghanistan as a key component in its broader goal to establish a caliphate in the Middle East
– United States delays troops withdrawal from Afghanistan. The United States will keep the 9,800 troops currently in Afghanistan on the ground through the end of the year, rather than reducing the number to 5,500 as planned; the U.S. military bases in the cities of Kandahar and Jalalabad are likely to remain open beyond the end of 2015. US President pledged to continue to conduct targeted counterterrorism operations in Afghanistan.
– President Ghani visits the United States: Ghani declared a new phase in relations between Afghanistan and the United States, stressing his commitment to combating militancy and making Afghanistan a stable democracy.
April
– A group of Uzbeks in northern Afghanistan claiming to be from the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) pledged their allegiance to ISIS’s Abu Bakr al-Baghdadi.
– UN reports 6,500 foreign militants fighting in Afghanistan have links to Al-Qaeda and ISIS.
– At least 17 people were killed and about 40 were injured, including a prominent parliamentarian, on Thursday in a suicide bombing in Afghanistan’s Khost province.– Russian Foreign Affairs Minister Sergey Lavrov promised Russian support to Afghanistan during a visit by Afghan National Security Advisor Muhammad Hanif Atmar to Moscow. Lavrov stated that Russia is ready to help Afghanistan in stabilizing its current complex conditions, and to cooperate with Afghanistan’s allies in fighting against terrorism and counter narcotics. Previously Lavrov criticized the International Security Assistance Force in Afghanistan (ISAF) for being unable to provide security; moreover Lavrov stated that ISAF has failed to handle the set goals because terrorism in the country has not been unrooted and drug trafficking has increased.
As reaction to the expansion of the Islamic State (ISIS, also known as Daesh) in the Indian Subcontinent, on September 2014 al-Qaeda has announced the establishment of the jihadi new wing, called ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) – the Indian wing that would spread Islamic rule and raise the jihad across the subcontinent, as a glad tidings for Muslims in Burma, Bangladesh, Assam, Gujarat, Ahmedabad, and Kashmir. The group reports to the head of the Taliban in Afghanistan Mullah Omar and is led by a former commander of the Pakistani Taliban who is also in al-Qaeda’s wing in Pakistan. The mission of AQIS is to establish a global caliphate based on the Islamic law.
In line with this mission, months ago (September 2014) Al-Zawahiri released a video appointing Maulana Asim Umar as the Emir of AQIS; the appointment follows the extensive presence of al-Qaeda and associations with various jihadist groups in Pakistan.
Recently (March 2015) AQIS spokesman Usama Mehmood confirmed that nearly 50 of the group’s members have been killed in US drone strikes, including three senior leaders in separate strikes in January, one of them was the appointed Emir Maulana Asim Umar. The other two were named as the group’s Deputy Head Ustad Ahmad Farooq and Qari Imran the group’s central council member in charge of operations in Afghanistan.
Furtherly, AQIS commanders have been reported killed in a raid conducted in Karachi. According to ‘The Express Tribune’, on April 14, the Pakistan’s Counter-Terrorism Department conducted an operation in Karachi’s Orangi Town; as result, five militants have been killed including two AQIS commanders: Noorul Hassan, AQIS’ Karachi chapter chief, and Usman – alias Irfan or Abdullah –, AQIS deputy commander.
What is interesting to highlight, is the ‘professional’ profile of the appointed (and killed) Emir. Who was Asim Umar, the Head of al-Qaeda’s India unit?
He was considered to be a long-time propagandist of the militant group and earlier been associated with the Pakistan Taliban, Umar was expected to ensure that the relations with the Pakistani group were maintained. In other words, the appointment of Umar showed the importance of Pakistan jihadist groups to al-Qaeda Central Command, with Umar’s links to these groups as the key to foster close cooperation. In addition, Umar as ideologue could facilitate access to Pakistan’s youth as recruitment ground for al-Qaeda in contraposition with the ISIS presence in the area. His appointment was the continuation of a long standing relationship between al-Qaeda Central Command and the Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), whereby al-Qaeda is the ideological inspiration for the TTP, with the latter providing support and even reported safe havens for al-Qaeda militants.
It is clear that not the Afghan Taliban but leaders and members of AQIS had been the main target of US and Pakistani operations since the security forces have launched military operations in Pakistani North Waziristan in June 2014. Afghan Taliban still remain a secondary target because the real target is al-Qaeda, its affiliates and the radical competitors (such as ISIS).
Why not the Afghan Taliban?
– Firstly, the Afghan Taliban is a local movement, with strict relationship with al-Qaeda but without global or regional ambitions.
– Secondly, the US is attempting to break up the relationships between the Taliban and their external supporters (in order to break down a connection which represent a strength for both the actors).
– Thirdly, the Taliban are not included in the terrorist-list because their potential and desirable role in the future of Afghanistan.
– As a final point, neither the International Coalition forces nor the Afghan National Security Forces are able to defeat the Taliban.
Moreover, what is important to underline is that, in contrast with the AQIS, ISIS is moving to Afghanistan, creating affiliates groups, recruiting Afghan and foreign fighters and conducting operational activities.
Recently, ISIS militants were responsible for kidnapping dozens of Shiite men; the information was for the first time officially reported by the Afghan government: ISIS is now officially a threat. In detail, two former Taliban leaders, who switched to ISIS, were behind a mass abduction in February, in which ISIS militants seized 31 passengers from buses traveling from Zabul province to Kabul.
As reported by the ‘Washington Post’ and summarized by the ‘Foreign Policy – The South Asia Daily’, hundreds of foreign fighters are moving into Afghanistan from Pakistan bolstering the Taliban and increasing the level of violence in the conflict.
Afghan officials stated that in Badakhshan province the Taliban militants overran military positions in the province and beheaded 18 Afghan National Army soldiers; this event could be assessed as an effect of the influx of foreign and Pakistani fighters.
According to Afghan official statement who beheaded the soldiers were foreign fighters and not the local Taliban.
Besides, a recent report confirms the role of the foreign fighters and their influence. The United Nations stated that thousands of foreign fighters from about 100 countries are fighting for al-Qaeda, ISIS, or affiliated groups; of those fighters, an estimated 6,500 are operating in Afghanistan. The UN report was released after a group of Uzbek militants claiming to be members of the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) swore allegiance to ISIS.
General situation in brief
The situation is generally worsening.
The escalation of insurgency attacks comes as the traditional ‘spring fighting’ season is about to begin. The situation is worsening especially in southern and eastern provinces.
As confirmed by the United Nations Assistance Mission in Afghanistan, in the first quarter of 2015 the number of casualties caused by ground operations rose eight percent compared to the same time period in 2014; in contrast the overall number of civilian casualties declined by two percent but is reported a fifteen percent rise in women and children casualties.
Concerning the Afghan National Security Forces, the Afghan National Army (ANA) lost more than 20,000 members in 2014 due to desertions, discharges, and casualties in combat, according to the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). From January to November 2014, the ANA’s numbers declined by 11 percent, to 169,000 soldiers (the force is still the smallest it has been since the fall of 2011).
Moreover, the Afghan Counternarcotics Minister stated that the poppy cultivation had risen seven percent in the current season; according to the official report, poppy was grown on 224,000 hectares of land in 132 districts and 65 percent of the cultivation occurred in Helmand, Kandahar, Farah, and Nimroz provinces.
The new actors are imposing new dynamics whose consequences are not easily containable.
Analysis, assessments, forecasts
The Armed Opposition Groups activity and attacks are expected to rise with the coming of spring season when the weather gets warmer and snow begins to melt in Afghanistan; in line with the past years, the insurgency would get its momentum in a conflict that continues to hit Afghan security forces at an accelerated rate.
As consequence, it would be difficult for the Afghan government to push through its peace agenda that aims to find a political solution based on negotiate to the persistent crisis and instability.
Furthermore, many Taliban fighters have abandoned their original groups and have joined the so-called ISIS.
Considering the influx of foreign fighters in Afghanistan, this fighting season will be – one more time – the hardest fighting season. It is assessed that only part of the threat had migrated to Afghanistan from Pakistan as consequence of the Pakistan’s military operation in North Waziristan; but an important component of the foreign fighters presence in Afghanistan has to be considered, on the one hand, as the direct result of the ISIS policy to expand the “caliphate” influence into Indian subcontinent and, on the other hand, the AQIS’ effort to contrast it.
This fresh wave of foreign fighters has added a probable new dimension to the Afghan conflict, threatening more instability, more violence, more challenges to the International Community and to the weak Afghan government which is not able to contrast militarily the Armed Opposition Groups and to contain the growing conflictual dynamics boosted by old-actors and newcomers.
On the one hand, the Ghani-Abdullah policy is to improve the relations with Pakistan in order to gain its support in facilitating peace talks with the Taliban.
But, as possible consequence of the foreign fighters expansion in Afghanistan, negotiations with the few Taliban leaders could be more difficult and could drive to an unsuccessful result because many young Taliban fighters, in particular the most fanatic ones, are apparently switching their loyalty to ISIS. A trend that is supported by the large use of social media as recruiting technique both in Pakistan and Afghanistan. At the moment, the Taliban leadership has not showed any indication that it would agree to a peace negotiation with the Ghani-Abdullah government.
Moreover, the role and the regional ambitions of Iran are growing, possibly as consequence, on the one hand, of the ongoing US-Iranian nuclear dialogue and overture and, on the other hand, of the ISIS expansion and the Iran’s role to contrast ISIS in Syraq (and Afghanistan); as recently stated by the Iranian Interior Minister Abdolreza Rahmani Fazli, Iran offers joint counterterrorism operations with Pakistan and Afghanistan inside their territory”. This is an important dynamic that will open to a new phase of the Iranian’s role in the region.
Concluding, after Syraq and Lybia, ISIS is trying to extend its influence into Afghanistan. Considering the development of the phenomenon from the double perspective of “time” and “space”, we have to be aware of the need to contain, disrupt, degrade and defeat ISIS immediately wherever it exists and considering it a transnational, global and linked threat, and don’t committing the mistake to analyze the events and the attacks in MENA areas as disconnected dynamics: each single events, even if not coordinated, is a part of a large political plan based on revolutionary and disruptive ideological principles.
L’INDRO: Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre
Intervista di Francesca LANCINI
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Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)
Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1
Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre
Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. L’Iraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre. I Governi delle principali potenze occidentali tendono a spostare l’attenzione altrove. L’esperienza afgana non è stata positiva né dal punto di vista politico né da quello militare. Il Governo afgano ha un controllo limitatissimo sulle aree urbane, mentre le aree periferiche sono in mano ai gruppi d’opposizione armata. Non è in grado di dare risposte alle esigenze sociali, economiche e finanziarie della popolazione. Non riesce, per esempio, a raccogliere le tasse. Le sue uniche entrate lecite vengono dai donatori internazionali, che dopo il summit di Tokyo del 2012 si sono presi per almeno quattro anni l’impegno di versare nelle casse dello Stato afgano 4 miliardi di eurodollari.
Si può definire una guerra persa?
Sì, dal punto di vista politico. Dal punto di vista militare non è stata vinta. C’è una differenza tra le due cose. Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo. L’averla persa è conseguenza del non essere riusciti a vincerla, ossia sconfiggere il nemico sul campo, ma neanche i Taliban hanno sconfitto le forze militari straniere. La guerra, così come impostata, non poteva essere vinta.
Che cosa avrebbe significato vincerla?
Il fine ultimo della missione non è mai stato ben chiaro o, meglio, è cambiato nel corso del tempo. Si è insistito sul processo di costruzione, stabilizzazione e ricostruzione dello Stato, ma non si sono raggiunti risultati soddisfacenti. Lo Stato afgano non esiste. C’è una diarchia al potere che non rispetta i principi costituzionali. Il Presidente Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah (Capo Esecutivo del Governo: una nuova carica con poteri da Primo Ministro, ndr) agiscono secondo accordi di segreteria interna e occidentale. È l’Amministrazione statunitense ad aver messo d’accordo, almeno temporaneamente, i due soggetti, cui corrispondono due gruppi di potere.
Sul piano della sicurezza qual è la situazione?
I gruppi di opposizione armata non diminuiscono, ma aumentano i loro organici. Le sigle aumentano, evolvono. Si creano alleanze laddove prima c’era competizione e, viceversa, nascono conflittualità laddove prima esistevano realtà pseudo-monolitiche.
Lei utilizza l’espressione ‘gruppi di opposizione armata’, riferendosi a una realtà più variegata che non comprende solo i Taliban o Talebani.
Uso la sigla ‘gruppi di opposizione armata’ perché è la più neutra, mentre il termine ‘terroristi’ è ideologico e colloca gli altri dalla parte dei cattivi. I gruppi di opposizione armata sono coloro che combattono contro uno status quo. A fronte del luogo comune di un’opposizione armata monolitica, l’Afghanistan ha circa 60 gruppi d’opposizione armata differenti. I Taliban costituiscono il più importante, il più visibile, quello che riesce a vendere meglio la propria immagine sfruttando le tecnologie moderne. Hanno, infatti, un sito web ufficiale aggiornato quotidianamente: Al- Emarah (L’Emirato). Fra gli altri gruppi è molto importante Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, movimento storico che a periodi alterni è in guerra sia contro il Governo afgano che contro i Taliban, o dialoga con il Governo. Il mujaheddin Hekmatyar è sempre stato un personaggio poco chiaro fin dai tempi della guerra contro i sovietici.
L’analista Olivier Roy ci ha detto in una precedente intervista: “L’Afghanistan non è una questione di creazione di uno Stato Islamico. È in corso una guerra civile fra le genti del Nord e quelle del Sud, che ha assunto una piega ideologica con i Talebani. Problematica è l’interferenza straniera”. Che cosa ne pensa?
Senza dubbio l’Occidente in Afghanistan rappresenta un ulteriore elemento di destabilizzazione. Tuttavia, sulla contrapposizione Nord-Sud non sono del tutto d’accordo. La conflittualità fra Nord e Sud c’è sempre stata. Non è una questione geografica o etnica. Innanzitutto, ci sono tanti Nord e tanti Sud. Gli stessi gruppi che combattono contro il Sud combattono anche tra loro. In Afghanistan ci sono una quarantina di gruppi etnici diversi, che corrispondono ad altrettanti gruppi linguistici. Si tratta di culture diverse legate diversamente a realtà extra-afgane: i Tajiki al Tajikistan e all’Iran; gli Uzbeki all’Uzbekistan; i Turkmeni al Turkmenistan; gli Hazara all’Iran. Tutti in contrapposizione per la spartizione della torta, che consiste in aiuti economici esteri, ma anche in ricavati di un narcotraffico incontrollato.
Il narcotraffico non doveva essere contrastato?
Escluse le donazioni straniere, è la prima fonte economico-finanziaria del Paese. Le coltivazioni d’oppio garantiscono la sopravvivenza della gente comune. L’ 80 per cento della popolazione vive di agricoltura, in maniera diretta o indiretta. A fronte di un investimento ingente per la coltivazione di qualcosa di diverso (grano e zafferano), l’oppio garantisce introiti decisamente superiori con pochi investimenti, con poco lavoro sul campo e con la certezza della vendita. Così sopravvivono intere comunità rurali e periferiche nel Sud, nel Sud-Est, ma anche a Nord. Un esempio a noi molto vicino è quello di Bala Murghab, di cui l’Italia fino a due anni fa era responsabile. Lì transitano, tuttora, traffici di oppiacei verso il Turkmenistan, la Russia e l’Europa.
Quindi, la Coalizione occidentale ha fallito in questo obiettivo?
Formalmente la NATO aveva affidato agli inglesi il compito di contrastare il narcotraffico. Ma, dopo vari tentativi, ci si è resi conto che non era possibile. Si sarebbe destabilizzato un sistema micro-economico, generando un ulteriore sostegno ai gruppi d’opposizione armata, i quali anch’essi sopravvivono grazie al narcotraffico. La produzione di oppio, la lavorazione dello stesso e l’esportazione di eroina sono causa e conseguenza dello stato di conflittualità persistente. Più oppio si produce, più fucili possono essere comprati per garantire la sicurezza dei campi. Quei pochi momenti in cui la produzione di oppio è diminuita non vanno attribuiti alla capacità di contrasto delle forze della Coalizione e delle Forze di Sicurezza locali, bensì alla scelta razionale dei gruppi d’opposizione armata e della criminalità legata al narcotraffico di ridurre la produzione per causare un innalzamento dei prezzi.
E lo zafferano, promosso dall’Italia, come eventuale sostituto dell’oppio?
Inadatto per almeno due ragioni. Costa di più perché richiede più risorse umane nella produzione, un costante controllo, l’uso di insetticidi anti-muffa e di manodopera specializzata in quanto molto delicato. Inoltre, seconda ragione, una volta saturato il mercato locale, non è stata garantita l’immissione nel mercato straniero; e anche se si fosse riusciti in questa impresa non sarebbe stato di qualità buona come quello iraniano o abruzzese.
Tornando ai gruppi di opposizione armata, che si finanziano attraverso il narcotraffico, lei ha evidenziato la loro natura extra-afgana.
I confini dell’Afghanistan sono estremamente porosi, inconsistenti. Se ci spostiamo a Sud-Est, verso il Pakistan, vediamo che i locali non si sentono né afgani né pachistani, ma appartenenti al gruppo etnico-linguistico principale dei pashtun, forse il 30 per cento della popolazione afgana. Ma non lo sappiamo con certezza, perché l’ultimo censimento risale agli anni Settanta. Intere famiglie pashtun (o paktun) vivono al di qua e al di là di quella linea teorica che dividerebbe Afghanistan e Pakistan. In queste aree si creano alleanze e si decide con chi andare in guerra o quale gruppo sostenere. Lungo la cosiddetta frontiera ci sono anche i campi profughi ereditati da 40 anni di guerra civile, che sono diventati ormai villaggi stabili. Soprattutto le Aree ad Amministrazione Tribale del Nord, laddove lo Stato pachistano è assente, costituiscono basi di reclutamento di combattenti che si muovono al di qua o al di là del confine.
Oggi la conflittualità si è allargata. Perché?
Elementi esterni hanno influito sulle dinamiche interne delle aree tribali. Il conflitto si è esteso al Pakistan, contro il Governo pachistano e rischia di trasformarsi presto in guerra civile. Fra questi elementi esterni ci sono quelli riconducibili ad Al Qaeda, che hanno spostato qui la loro base di sostegno o condotta per la jihad globale. Essi si sono sovrapposti a forme di conflittualità pre-esistenti creando una realtà nuova, tipicamente pachistana. In queste zone c’è anche l’IMU, Islamic Movement of Uzbekistan che, cacciato da Uzbekistan e Afghanistan, ha trovato rifugio sicuro in queste regioni fuori controllo. I gruppi di opposizione armata godono anche dell’appoggio della popolazione locale, della quale sono divenuti parte integrante, attraverso matrimoni, alleanze e collaborazione sul campo di battaglia. Al Qaeda e IMU hanno portato elementi innovatori: la prima nell’ideologia, il secondo nel campo tecnico-tattico, poiché i suoi elementi storici provengono dall’Armata Rossa.
E i Taliban?
Siamo abituati a pensarli che combattono in Afghanistan, ma in realtà si è sviluppato un loro ramo pachistano, il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP). Esso da una parte sostiene logisticamente i Taliban afgani, dando loro delle basi in cui dormire, riposarsi e addestrarsi; dall’altra colpisce il Governo pachistano che ritiene corrotto, poco musulmano, aperto all’Occidente, tentando gradualmente di prendere il potere con attacchi così spettacolari da essere diffusi dai media locali e stranieri, al fine di mostrare quanto sia debole il suo obiettivo. Adesso, però, il TTP si è spaccato in due. Prima era alleato con Al Qaeda e con i Taliban pachistani, ma nell’autunno scorso il portavoce del TTP ha annunciato di essersi alleato con lo Stato Islamico o Islamic State (IS). Immediata è arrivata la smentita del capo del TTP, con esclusione del portavoce dal gruppo. In seguito, altri sei comandanti del TTP hanno confermato la loro alleanza con l’IS. Dunque, metà TTP è rimasto con Al Qaeda e i Taliban, e l’altra metà è passata – almeno formalmente – con l’IS.
Lo Stato Islamico, dunque, è arrivato in Afghanistan e Pakistan. Come?
L’IS ha sfruttato un vuoto lasciato da Al Qaeda nell’area del Subcontinente Indiano, avviando una propaganda tra le comunità musulmane dell’India, e in Pakistan. Si è mosso sul web, ma anche fra sostenitori locali che avevano avuto esperienza operativa in Syraq (Siria e Iraq, ndr.). Indiani e pachistani che avevano combattuto in Syraq sono stati rispediti nei loro Paesi per formare gruppi d’opposizione che si dichiarino fedeli all’ IS. Stessa cosa è accaduta in Libia e in Tunisia, ma in India e Pakistan sono anche comparsi i primi gadget, magliette, spille, adesivi, scritte, murales. Ciò ha fatto drizzare le antenne delle intelligence locali, ma ha anche spinto Al Qaeda, che è in competizione con l’IS, a fondare una nuova ala operativa specifica per il Subcontinente Indiano (AQIS). La annunciò Al Zawahiri lo scorso ottobre. Ora la competizione si è spostata sul campo di battaglia, attraverso un numero di attacchi spettacolari che ottengano l’attenzione mediatica per imporre il proprio ‘brand’. Se in India ci si è limitati per ora alla competizione mediatica, in Pakistan il TTP, che ha giurato fedeltà all’IS, ha condotto operazioni militari.
Successivamente lo Stato Islamico ha innalzato la sua bandiera nera in Afghanistan.
Sì. Alla fine del 2014 il mullah Rauf Khadim – mujaheddin di epoca sovietica e poi comandante dei Taliban – che era stato rilasciato da Guantanamo, ha creato un gruppo di una quarantina di uomini che da bianco è divenuto nero. Da fonti indirette pare, però, che i Taliban lo abbiano giustiziato. Intanto, il 18 aprile 2015, un commando-suicida, portabandiera dell’IS, ha ucciso 34 persone e ne ha ferite altre 125 a Jalalabad. Ma non possiamo dire che l’IS abbia delle truppe in Afghanistan, perché la guerra 3.0 si è spostata su un altro piano.
Quale?
Si fa condurre un’azione con pochi uomini, se ne assume la responsabilità ‘di successo’ e si innalza la bandiera nera come punto di riferimento per altri gruppi intenzionati a muoversi in quella direzione. I Taliban, per la prima volta in 15 anni, si trovano in difficoltà; non tanto per le Forze di Sicurezza afgane, ma perché molti dei più giovani e più radicali guardano al ‘new-comer’ come a un soggetto vincente: l’IS. Tutto ciò che è nuovo tende a piacere. Inoltre, a supporto di questa policy, è stata fatta circolare la voce che il Mullah Omar fosse morto: non avrebbe più senso combattere per chi non c’è più e per chi ormai opera lontano dall’Afghanistan, cioè dal Pakistan. È la guerra mediatica.
Khadim rilasciato dal carcere di Guantanamo, dove furono mandati i ‘terroristi’, crea un gruppo affiliato allo Stato Islamico. Paradossale?
La prigione di Guantanamo è una stranezza al di fuori del territorio statunitense e di qualsiasi giurisdizione internazionale. È un caso di a-legalità. Non è stata chiusa, ma si è cominciato a distribuire i detenuti in giro per il mondo o a rilasciarli, come è avvenuto per Khadim.Finché il primo attacco suicida dello Stato Islamico ha riacceso i riflettori sull’Afghanistan.
Non a caso Renzi ha incontrato un Obama al tramonto, che gli avrebbe chiesto di prolungare l’impegno nel Paese asiatico dei militari italiani.
Ma l’impegno è cambiato. Quanti sono i militari italiani in Afghanistan e cosa stanno facendo?
I militari italiani arrivano fino a un massimo di 800, dei quali la maggior parte a Herat (almeno 700) e una cinquantina a Kabul. Tali resteranno per tutto il 2015. ISAF ed Enduring Freedom formalmente sono finite. In pratica, la missione NATO è diversa, ma continua. Se prima doveva stabilizzare il Paese, ora addestra, consiglia e assiste le Forze di Sicurezza afgane. I nostri militari, dunque, non operano al fianco dei soldati afgani, ma al livello superiore del corpo di armata. Questo consente di non avere morti, che in passato sono stati causati in parte da attacchi interni, compiuti da soldati afgani contro i loro istruttori (‘green on blue’, ‘insider attack’). E di non attirare l’attenzione mediatica, spingendo l’opinione pubblica verso il ritiro delle truppe.
Tutti gli attori in campo cercano di influenzare chirurgicamente i media per indirizzare l’opinione pubblica. E perché restare di più?
Lo Strategic Partnership Agreement, firmato da Stati Uniti, Afghanistan e SOFA (Status of Forces Agreement), stabilisce che fino al 2024 possiamo usare le basi in Afghanistan e altre nuove ed eventuali. Fino a poco tempo fa i media riportavano la notizia, disseminata ad arte da Pentagono e Casa Bianca, che le truppe sarebbero diminuite significativamente: non più di 10mila militari statunitensi e di 6mila NATO. E a questi andavano aggiunti i contractors. Ora, invece, Enduring Freedom è stata sostituita da Freedom Sentinel, che fa le stesse cose della prima ma con organici ridotti. Ovvero, azioni di anti-terrorismo contro Al Qaeda e i suoi ‘affiliati’, termine generico che può comprendere chiunque. Al momento, per esempio, non si riferisce ai Taliban, perché si sta cercando un accordo con loro (‘power sharing’). Tuttavia, l’Afghanistan è totalmente fuori controllo, come spiegavo all’inizio. E il Presidente Ghani ha chiesto di riconsiderare la tempistica del ritiro solamente perché indotto dall’Amministrazione statunitense. Lasciare l’Afghanistan significherebbe consegnarlo assieme al Pakistan a una guerra civile transnazionale e transfrontaliera, con elementi che andrebbero a colpire entrambi i Governi. In aggiunta, il quadro si farebbe più temibile, dal momento che il Pakistan detiene armi nucleari.
Soluzioni possibili a questo eventuale scenario apocalittico?
La NATO, gradualmente, si deve disimpegnare ma, se la situazione sul terreno non è gestibile dalle Forze di Sicurezza afgane, bisogna trovare una soluzione di compromesso. Gli attori che potrebbero sostituire la NATO e che si sono dati disponibili sono molti. Un attore estremamente importante, anche se confina con l’Afghanistan solamente per 66 chilometri, è la Cina. Essa ha acquisito i diritti di estrazione per l’80/90 percento del sottosuolo afgano (pozzi petroliferi, miniere di rame, miniere di minerali rari) e ha quindi l’interesse maggiore a garantire la stabilità del Paese. Personalmente, non escluderei una presenza militare cinese in Afghanistan, che finora non c’è mai stata. Di fatto, Pechino sta spingendo per inviare delle unità di sicurezza, nonostante non si sappia se militari o contractors, e ha avviato colloqui informali con i Taliban. L’idea è la stessa che ebbero gli USA per il gasdotto Tapi, che non si poteva realizzare senza il consenso di chi detiene il potere nei territori attraversati (Afghanistan, Turkmenistan, Pakistan e India). Si pagano royalties ai Governi, ai signori della guerra, ai gruppi di opposizione armata, in cambio della sicurezza nelle attività di estrazione.
La Cina ha ottenuto il controllo di quasi tutto il sottosuolo afgano, mentre i soldati della Coalizione morivano sul campo di battaglia. Per quali ragioni, dunque, l’Amministrazione USA ha intrapreso questa guerra?
Le risorse non sono la ragione primaria. Gli Stati Uniti volevano controllare un’ampia zona dell’Asia centrale e meridionale, a partire dalle basi afgane, e attuare una politica di contenimento anti-cinese.
E la reazione agli attentati dell’11 settembre 2001?
C’era una minaccia e fu fatta una scelta legittima. Si richiese formalmente al Governo Taliban, non riconosciuto, di consegnare Osama Bin Laden (designato responsabile degli attentati), ma quest’ultimo fu invece incaricato dal Mullah Omar (politico afghano, guida spirituale dei Taliban afgani, ndr.) di riorganizzare le Forze di Sicurezza afgane talebane. Si poteva considerare Bin Laden un Ministro di Difesa dell’Afghanistan. Il diritto internazionale dice che se un membro di un Governo si rende responsabile di un attacco contro un altro Stato, quest’ultimo può reagire.
Quindi, non si potevano prendere altre strade?
L’opinione pubblica globale spingeva per un intervento. Una risposta andava data. Fu una scelta politica razionale e passionale al tempo stesso. E’ stato unito l’utile all’opportuno.
Ovvero, l’11 settembre 2001 è stata un’occasione?
O meglio, E’ stata anche un’occasione. Ma gli statunitensi non potevano fare nulla di diverso, come per Pearl Harbour. Serviva un ‘casus belli’ ed è arrivato. Tuttavia, escludo le teorie complottiste. All’ultimo posto delle ragioni di guerra, c’era la possibilità di sfruttare il territorio afgano per il transito delle risorse energetiche. L’interesse maggiore – ripeto – era quello geo-strategico di mettere un piede in Asia Meridionale, in funzione di contenimento anti-cinese e in un momento in cui l’Iran faceva ancora parte dell’ ‘Asse del Male’. Da lì la scelta di allestire basi permanenti e semi-permanenti che rimarranno in parte in Afghanistan. La lotta al terrorismo fu più un modo per rispondere all’opinione pubblica, la quale ha sempre bisogno di spiegazioni semplici.
Ricorda la campagna statunitense per liberare le donne dal burqa? Nel quadro geopolitico e militare, i diritti umani quale collocazione hanno?
Ininfluente. Triste dirlo, ma la contropartita per un accordo con i Taliban potrebbe essere una rinuncia parziale ai diritti formalmente acquisiti – sebbene nella sostanza spesso disattesi – in particolare quelli delle donne.
Esistono delle stime attendibili sulle vittime?
Sì, un recente report ONU conferma l’aumento del 24% di morti civili nei primi sei mesi del 2014 rispetto al 2013.
E poi, oltre alla Cina, ci sono altri attori in gioco, come l’Iran.
L’Iran, dopo l’apertura USA sul nucleare, ha garantito un supporto alle attività di contro-terrorismo in Afghanistan. L’Iran è sempre stato interessato a questo Paese confinante per motivi culturali e per un’ambizione egemonica regionale. Ha sempre finanziato il Governo di Karzai e i governatori delle province confinanti. Vuole contrastare il narcotraffico che si muove verso il suo territorio e collabora con l’India per le questioni afgane.
Il Pakistan, invece, ha ottime relazioni con la Cina.
Assomiglia a una provincia cinese. Fondi e tecnologie cinesi hanno consentito la ricostruzione del suo impianto industriale, dei porti, la ristrutturazione delle sue centrali nucleari, l’agevolazione degli impianti che portano energia in Pakistan, come il Tapi stesso o l’Ipi.
Gli USA, dunque, dovrebbero fare un passo indietro, permettendo agli attori regionali di contrastare il terrorismo?
Sì. Prevedo che ci sarà un progressivo disimpegno NATO da qui al 2024, mentre gli USA rimarranno con qualche base strategica in funzione di contenimento soprattutto anti-cinese. I gruppi di opposizione armata, Taliban in testa ai quali gli USA già si stanno aprendo, e altri gruppi di potere si spartiranno il controllo del Paese. E un ruolo d’influenza primaria avranno gli attori regionali: Cina, Iran, Repubbliche Centroasiatiche, India, Pakistan. Vedremo un Afghanistan diviso in due: la parte Sud sotto influenza pachistana e il Nord sotto tutti gli altri.Intanto, in Pakistan continua la guerra dei droni, con cui si bombardano le zone dei gruppi di opposizione armata. Un’inchiesta di ‘Foreign Affairs’ del 2013 diceva che a breve termine i droni sono efficaci nell’eliminare gli insorti, mentre a lungo termine ne producono molti di più.
È vero. Nel 2010 feci una ricerca sugli attentatori suicidi che avevano fallito l’attacco. Risultò che una gran parte avevano scelto di diventare martiri perché avevano perso i famigliari a seguito di un bombardamento aereo o con drone. Eppure i droni, d’ora in poi, con meno truppe sul terreno, saranno sempre più utilizzati.
Giovanni Lo Porto è stato ucciso a gennaio in Pakistan in un attacco con un drone. Perché si è saputo solo ora?
L’opportunità detta le priorità. Mi sento di condividere il pensiero di V. E. Parsi pubblicato su ‘Il Sole 24 Ore’: «Obama (e la sua Amministrazione) potrebbe aver deciso di posticipare l’annuncio al Primo Ministro Renzi così da ‘agevolare’ il prolungamento dell’impegno italiano in Afghanistan (6 mesi? O qualcosa di più…). Il cinismo condisce tutto il piatto servito dagli Usa all’Italia, che – non stupisce – ne ha aggiunto di suo (di cinismo). […] Il perché ci sia stato questo ritardo nella comunicazione direi che centra poco con le ‘indagini necessarie’ a verificare l’identità dei cadaveri, ma più con l’opportunità e le priorità della Casa Bianca».
Nella seconda parte di questa intervista Claudio Bertolotti analizzerà la situazione mediorientale e nordafricana, dall’Iraq alla Libia.
Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)
Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1
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Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (vai all’articolo originle su L’Indro)
Intervista a C. Bertolotti “Afghanistan, missione incompiuta” (L’Indro)
Geopolitica 3.0 dall’India all’Africa/1
Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (vai all’articolo originle su L’Indro)
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Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
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La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre… (vai all’articolo originle su L’Indro)
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Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
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Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro–intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico ‘completamente fuori controllo‘ da cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché.
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CONFERENZA MILANO 28 MAGGIO: Un equilibrio precario? Le sfide del Grande Medio Oriente
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CONFERENZA MILANO 28 MAGGIO: Un equilibrio precario? Le sfide del Grande Medio Oriente
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS – OSS 2/2015)
disponibile anche in formato epub.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal “Free Syrian Army” – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.
[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
15 maggio BIELLA CONFERENZA e DIBATTITO: ISIS prospettive geopolitiche e diritti umani
dettagli evento
Data: venerdì 15 maggio 2015 h.21:00
Luogo: Salone Biverbanca, via Carso 15 Biella
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SUICIDE ATTACKS: STRATEGIC PERSPECTIVE AND AFGHAN WAR
by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti
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by Andrea Beccaro, Claudio Bertolotti
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L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
-
destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
-
allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
-
incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
-
perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
-
collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
-
cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
-
ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
-
aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
-
insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
-
riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
@cbertolotti1
L’Italia contro l’ISIS: fondamentale il ruolo della Tunisia e un cambio di approccio concettuale
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
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destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
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allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
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incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
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perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
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collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
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cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
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aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
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insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
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riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
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Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
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Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
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Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
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In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
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cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
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ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
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insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
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Sebbene la “teoria del domino” si sia rivelata errata durante la guerra fredda, l’analisi delle attuali dinamiche ne dimostrerebbe invece una preoccupante validità. Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
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Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS
Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
Gen. D. Nicola Gelao
Vice Direttore Responsabile
C.V. Vincenzo Paratore
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 Roma
Te l . 0646913204 Fax 066870779
e-mail: [email protected]
Autori
Claudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Lorena Di Placido, Stefano Felician Beccari, Lucio Martino, Marco Massoni, Nunziante Mastrolia, Nicola Pedde, Alessandro Politi, Paolo Quercia.
Coordinamento Scientifico “Parte I. Prospettiva Generale 2015”
Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi
Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS
Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
Gen. D. Nicola Gelao
Vice Direttore Responsabile
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Autori
Claudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Lorena Di Placido, Stefano Felician Beccari, Lucio Martino, Marco Massoni, Nunziante Mastrolia, Nicola Pedde, Alessandro Politi, Paolo Quercia.
Coordinamento Scientifico “Parte I. Prospettiva Generale 2015”
Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi
Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS
Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
Gen. D. Nicola Gelao
Vice Direttore Responsabile
C.V. Vincenzo Paratore
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 Roma
Te l . 0646913204 Fax 066870779
e-mail: [email protected]
Autori
Claudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Lorena Di Placido, Stefano Felician Beccari, Lucio Martino, Marco Massoni, Nunziante Mastrolia, Nicola Pedde, Alessandro Politi, Paolo Quercia.
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Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi
Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS
Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
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Prospettive 2015: è disponibile la pubblicazione analitica e predittiva del CeMiSS
Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
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Nel solco di un appuntamento annuale che ormai può dirsi aver assunto carattere di regolarità, si è provveduto anche quest’anno alla elaborazione del volume “Prospettive 2015” del CeMiSS.
Quest’anno, in un continuo sforzo evolutivo, abbiamo particolarmente messo a fuoco il carattere predittivo delle Prospettive, concentrando le indicazioni più im portanti negli executive summary e combinando l’analisi specialistica delle sezioni tematiche, con la visione generale della parte dedicata all’ analisi globale.
L’indicazione operativa che scaturisce dall’insieme dell’opera si può tentare di riassumere nei seguenti punti:
– il quadro globale è contrassegnato da fattori d’instabilità finanziaria, energetica, cyber e climatica che condizioneranno i vari scacchieri in modo più o meno incisivo;
– i teatri in cui operano le nostre differenti missioni internazionali (tra cui Afghanistan, Libano, Balcani, Mare Arabico, Oceano Indiano ecc..) rischiano di essere condizionati o da crescenti instabilità o da attori regionali in cerca di spazi strategici da consolidare o ampliare;
– Il ruolo guida degli Stati Uniti è ancora visibilmente contestato, ma si esplica in configurazioni differenti rispetto al passato e con modalità più sfumate di prima, frenate anche dai nuovi equilibri interni postelettorali;
– Cina e India si preparano a ridefinire i propri ruoli internazionali con effetti già avvertibili a livello regionale e nel Mediterraneo;
– L’Italia e i suoi partner saranno impegnati a gestire un vasto arco di crisi e di insicurezza che vanno dall’Ucraina alla Mauritania in cui le dinamiche del jihadismo e delle entità politiche de factosono conseguenza anche del collasso di almeno quattro stati nell’area, possibilmente seguito da serie turbolenze negli stati produttori petroliferi ed influenzato dalle ripercussioni di diverse crisi in Africa;
– La Russia punterà a consolidare la situazione in Ucraina , nonostante una serie di difficoltà economiche indeboliscano il proprio monopolio energetico regionale.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
Gen. D. Nicola Gelao
Vice Direttore Responsabile
C.V. Vincenzo Paratore
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 Roma
Te l . 0646913204 Fax 066870779
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Autori
Claudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Lorena Di Placido, Stefano Felician Beccari, Lucio Martino, Marco Massoni, Nunziante Mastrolia, Nicola Pedde, Alessandro Politi, Paolo Quercia.
Coordinamento Scientifico “Parte I. Prospettiva Generale 2015”
Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
ISIS & Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia
Come dimostrato dagli attacchi terroristici di Parigi del 7-9 gennaio 2015, la minaccia del fondamentalismo jihadista che si diffonde dal Medio Oriente verso il Nord Africa deve preoccupare l’Europa, e l’Italia in particolare, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: entrambe le minacce sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dello Stato islamico in combinazione con le spinte autonomiste locali…
“Contrasto del jihadismo” e “sicurezza energetica” sono, dunque, due fattori dinamici tra di loro strettamente collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
Un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista, è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente “prudente”…
Dal futuro della Libia discende quello italiano; quali ipotetici scenari potrebbero realizzarsi? E quali ipotesi di risposta da parte dell’Italia?
Attacco jihadista (a Charlie Hebdo): terrorismo di successo o fallimentare? Elementi di analisi
di Claudio Bertolotti
A supporto di una successiva e approfondita analisi, si vogliono qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno (in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado di influire sugli sviluppo socio-politici e sulle procedura di sicurezza in atto e in fase di implementazione.
Pesa, nel complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica, l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive, tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la decisione del governo francese di limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie frontiere, in deroga al trattato di Shengen).
Le opportunità del terrorismo jihadista sono conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della riorganizzazione strutturale.
Il contesto operativo è il “domestic urban warfare” (ambito urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso profilo operativo.
Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base “molecolare ”, rafforzata dall’attivazione di cellule/nuclei/individui dormienti (c.d. “zombie”) già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “transumanza jihadista”).
Sul piano tattico e operativo:
– eliminazione degli obiettivi (dal forte valore simbolico);
– capacità di tenere impegnate 88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia), distraendole dai normali compiti di routine;
– blocco della capitale di una delle più importanti nazioni a livello mondiale;
– dimostrazione dei limiti dello strumento intelligence e di sicurezza.
Sul piano strategico e politico:
– diffusione e amplificazione massmediatica del messaggio jihadista;
– dimostrazione dell’imprevedibilità della minaccia;
– generale consapevolezza di vulnerabilità (forte impatto psicologico);
– terrore diffuso immediato e paura collettiva persistente;
– scelta da parte degli attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria comunità;
– induzione alla polarizzazione “identitaria”;
– fomento degli impulsi populisti e radicali;
– mobilitazione della Comunità internazionale;
– avvio del processo di revisione dei protocolli di sicurezza;
– sospensione degli accordi di Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy, mobilità).
In estrema sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico, psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile – anche in Italia – indipendentemente dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in veste di attori protagonisti o di semplici comparse.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
Islamic State: a threat to South East Asia (Afghanistan, Pakistan, India) and to Nato-Resolute Support Mission?
A possible confirmation of the results obtained by the Jihadi-group linked to the IS could be confirmed by the 4th of October declaration of allegiance of a part of the Pakistani Taliban (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP) to the group and its chief, Abu Bakr al-Baghdadi (the self-appointed Caliph Abu Bakr al-Baghdadi Qureshi al Hussaini). The TTP is still formally allied with al Qaeda, and operates mainly in Pakistan’s northwestern tribal areas near the border with Afghanistan.
It is reported that Shahidullah Shahid, the TTP’ spokesman, and five senior members and important regional leaders of the movement vowed allegiance to the IS; in particular the leaders who declared their support to the IS are the regional heads in the northwestern cities of Peshawar, Hangu, the Orakzai, Kurram and Khyber tribal areas (in total is assessed the amount of the defecting groups could involve 700/1000 fighters).
This event, which could underscores divisions among Islamist Armed Opposition Groups as the IS rises, marked the first instance of a major contingent of Taliban figures signaling, on the one hand, a renouncement of fealty to the Afghan Taliban’s leader, Mullah Mohammad Omar; on the other hand, this shift in loyalties could, firstly, weaken the Afghan Taliban and, secondly, create more vulnerabilities to the Pakistan and Afghanistan states because of the violence and the aggressive policy largely used by the IS in Iraq and Syria.
But, what is important to underline is that, even if these commanders could remain part of the Pakistani Taliban’s organization, they will probably represent IS in Pakistan.
There are signs that the IS could gain grip in South East Asian countries, in particular in Pakistan, thanks to propaganda and recruitment activities. In October, a manifesto was distributed in Peshawar areas, inviting people to join the group in order to establish a Muslim caliphate; at the same time stickers and wall drawings have been spotted, as well as sporting IS t-shirts have been distributed within Indian Muslim areas.
In addition, open sources reported that some Pakistanis and Afghanis are operating in Syria and Iraq fighting under the IS flag, as well as some Indians joined IS.
As response, Al-Qaeda is actively reacting to IS initiatives. One example is represented by the video message released by the Al Qaeda head, Ayman al-Zawahiri, announcing the establishment of a new group named “Qaedat al-Jihad in the Indian subcontinent”. This initiative, after a long-silence period, could be read as a sign that al-Qaeda is reacting to the IS pressure and “successes” in the Middle East and the attempt to penetrate South East Asia.
In the message, Zawahiri discussed “differences and discord” among jihadists – with possible reference to IS – and called Jihadi fighters to unite, invoking Osama bin Laden, insisting on the concepts of artificial borders (to be deleted) and the “Tawhid” (monotheism).
Simultaneously, the competition is conducted on the “virtual” front through social media campaigns on “Twitter”, “Facebook”, “Youtube”, “Instagram”; in this case IS is winning the competition thanks to an aggressive, effective and successful communication strategy based on western approach and methods.
It is clear that these simultaneous efforts aimed to recruiting fighters and supporters are signs that both the groups are in competition for the dominance in the region, with al Qaeda in trouble seeking to reassert its supremacy as a bursting IS raises in attractiveness.
On the one hand, the sum and the connections of the dynamics deriving from the entry of a new group in the area of Afghanistan, Pakistan and India, could drive to more violence; as consequence tensions will rise increasing divisions among the groups, in particular involving more communities and armed opposition groups, religious minorities in Pakistan, India and Afghanistan, as well as non-Sunni Muslims, and those Jihadists consider as heretics. It is assessed that overall violence in the region is likely to rise because if a group is conducting a more aggressive campaign, the other groups will also escalate their activities and initiatives. This could be a direct threat to the stability of Afghanistan and to the US and Nato’s role in the country.
On the other hand, as consequence of the changed equilibrium, Al Qaeda and the IS have significantly stepped up their recruiting efforts in Pakistan and in other South East Asian countries; it changed the regional dynamics: a change which must stimulate analysts and governments to pay attention to the competition between the two groups to enlist radicalized fighters. Fighters that, in particular, could be involved in local conflicts as well as in the global jihad carried out by the IS supporters and leaders.
On the “market” of the regional Jihad there are now two different and contending brands: the traditional “Al-Qaeda style” and the modern and fashionable Islamic State. The second one continues to gain followers.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)
di Claudio Bertolotti
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
– in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
– in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano”: un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a “differenze e discordia” tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1. manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2. mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3. non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
– Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
– Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L’IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell’Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale[1]. E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L’IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento[2].
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l’IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell’Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l’Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l’IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in “alcuni paesi africani”.
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto[3].
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
CAMERA DEI DEPUTATI 9 dicembre 2014: War Games – suggerimenti per il “Libro Bianco della Difesa”
competenza di numerosi e qualificati esperti del settore e del necessario contributo di autorevoli esponenti delle istituzioni parlamentari preposte e di altrettanto stimati osservatori internazionali […]
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CAMERA DEI DEPUTATI 9 dicembre 2014: War Games – suggerimenti per il “Libro Bianco della Difesa”
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Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare
di Claudio Bertolotti
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Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale
di Claudio Bertolotti
- affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
- adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
- indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
- avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
- collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
- disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.
Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale
di Claudio Bertolotti
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- adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
- indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
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- collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
- disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.
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- adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
- indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
- avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
- collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
- disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.
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- adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
- indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
- avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
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- disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.
L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo
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LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas
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Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.
Delicate dinamiche politiche
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].
Hezbollah
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.
La componente sunnita del Libano
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine.
Profughi e rifugiati
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.
Gruppi di opposizione armata jihadisti
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.
Il ruolo della missione UNIFIL
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.
Breve analisi conclusiva
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].
Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.
Delicate dinamiche politiche
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].
Hezbollah
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.
La componente sunnita del Libano
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine.
Profughi e rifugiati
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.
Gruppi di opposizione armata jihadisti
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.
Il ruolo della missione UNIFIL
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.
Breve analisi conclusiva
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].
Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.
Delicate dinamiche politiche
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].
Hezbollah
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.
La componente sunnita del Libano
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine.
Profughi e rifugiati
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.
Gruppi di opposizione armata jihadisti
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.
Il ruolo della missione UNIFIL
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.
Breve analisi conclusiva
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].
Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.
Delicate dinamiche politiche
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].
Hezbollah
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.
La componente sunnita del Libano
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine.
Profughi e rifugiati
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.
Gruppi di opposizione armata jihadisti
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.
Il ruolo della missione UNIFIL
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.
Breve analisi conclusiva
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].
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