Mese: luglio 2017

Athens and the Struggle for a Mobile Commons

Originally posted on Refugee Hosts:
In this piece, Tahir Zaman reflects on how new models of citizenship are up-ending the myopia of state-centric responses to displacement. In Athens, a ‘mobile commons’ is opening up, defined by sharing, solidarity and resistance to a state whose priorities reflect more the interests of international capital than the needs…

Dobbiamo prepararci per una epoca senza petrolio

Di Abdulrahman Al-Rashed,  Asharq al-Awsat (29-07-2017). Il Bahrain era una volta un ricco mercato del commercio di perle. Un giorno le cose sono cambiate in quanto i giapponesi hanno scoperto alternative industriali più economiche e produttive. Il commercio principale del Bahrain è crollato, le barche da pesca si sono fermate e la regione del Golfo […]

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Italiani a Farah: assistere o combattere?

In seguito alla minaccia di un possibile attentato talebano al governatorato di Farah, soldati italiani e americani si sono spostati nella provincia centroccidentale afgana che ricade sotto la responsabilità militare italiana del Regional Command West della missione Nato Resolute Support. I solerti PIO (Public Information Offfice), distaccati nei “teatri” dove è impegnato l’esercito italiano, solitamente pronti a informare di questa o quella visita e di quel corso di formazione, stavolta però la notizia non l’hanno trasmessa ai giornalisti del loro elenco. Resa nota dai media afgani, non c’è nemmeno nel sito della Difesa dove un’immagine di Gentiloni campeggia sull’approvazione della missione di sostegno alla guardia costiera libica. Bisogna dunque affidarsi alle fonti locali e al portavoce del governatore Nasir Mehri secondo cui americani e italiani sono arrivati aerotrasportati giovedi scorso nella capitale di provincia. Quanti sono non è dato sapere. Non è la prima volta che gli italiani sono a Farah da che la missione Isaf della Nato ha chiuso i battenti tramutandosi in Resolute Support, col compito di formare e assistere l’esercito afgano. Ma se dei bersaglieri dislocati a Farah all’interno di una forza di 200 uomini per lo più italiana qualche mese fa non si è saputo granché – anche allora la notizia era passata abbastanza inosservata – la differenza è che adesso il quadro è cambiato.

Gli americani hanno fatto sapere che una nuova strategia è allo studio del presidente e del Pentagono: più uomini e più missioni aeree e un nuovo approccio molto combattivo in cui Washington vuole concordare con Kabul più mano libera nelle operazioni speciali. La Difesa americana ha chiesto alla Nato di appoggiare questo nuovo “surge” ma l’Italia ha risposto picche, perlomeno per quel che riguarda l’aumento del nostro contingente che è di circa mille uomini, il secondo per numero dopo quello statunitense. Inoltre, la missione Resolute Support è una “non combat mission” ossia una presenza di mera assistenza tecnica all’esercito afgano che prevede formazione e sostegno ma senza l’uso delle armi. Preparasi a resistere a un attacco della guerriglia però è qualcos’altro anche perché l’arrivo dei militari, stando a informazioni locali, riguarda anche l’impiego di velivoli – droni, elicotteri o caccia – in linea con un massiccio impiego dell’aviazione sempre più utilizzata dal nostro più potente alleato.

Non è stato inutile, lottare per Charlie Gard

Va bene, alla fine Charlie Gard lo hanno soppresso – nel suo «best interest», naturalmente – come volevano fin dall’inizio, avendo impedito al suo babbo e alla sua mamma di fare tutto quello che potevano (e che non era irragionevole) per cercare una sia pur improbabilissima cura. Ma le cose non sono andate come volevano […]

Ordinaria barbarie sulle donne

Benazir Bhutto: la prima
 premier donna in Pakistan ma pochi
cambiamenti nel Paese

Un caso di ordinaria barbarie ai danni di due donne, una delle quali minorenne, stuprate nella provincia pachistana del Punjab è stato ieri preso in carico dal Chief Justice del Pakistan, la più alta carica del sistema giudiziario del Paese dei puri. Accanto a una delle ricorrenti pessime notizie che accompagnano la violenza contro le donne ce n’è dunque almeno una positiva. Un caso che rischiava di restare confinato in ambito locale è stato assunto motu proprio da Mian Saqib Nisar, costituzionalista non certo noto per essere un progressista ma che ha deciso di voler andare a fondo in questa terribile storia avvenuta nel cuore del Punjab e che il capo della giustizia pachistana ha appreso dai giornali.

Comincia a metà luglio in un campo di fieno della zona di Muzzafarabad un sobborgo della città di Multan. Una ragazzina di 12-13 anni, che i giornali locali chiamano F, viene violentata da un uomo. Due giorni dopo si riunisce il panchayat, il consiglio degli anziani della zona, che individua il colpevole e stabilisce la pena. Occhio per occhio: il fratello di F si deve vendicare con uno sturo equivalente su N, sorella diciassettenne del colpevole. Pena eseguita e, stando alla stampa locale, addirittura in presenza del primo violentatore e dei suoi parenti. Non è purtroppo una novità e i consigli degli anziani sono spesso accusati di applicare le leggi consuetudinarie in barba alle più elementari norme che regolano il pur modesto apparato difensivo pachistano nei confronti delle donne. Ma questa volta qualcuno non ci sta e viene sporta denuncia dai membri delle due famiglie agli agenti i cui uffici si trovano a Multan, nel Centro contro la violenza sulle donne. A quel punto si muove la polizia e comincia a far scattare le manette: per ora sarebbero già in carcere venti persone mentre proseguono le ricerche sugli altri componenti del panchayat (una quarantina) e mentre il caso arriva agli uffici giudiziari di Islamabad. I due violentatori sarebbero però ancora uccel di bosco.

La difficoltà di essere donna. Nell’immagine
(Dfid Uk)FID  ragazze a scuola nel  Khyber Pakhtunkhwa

Il panchayat (assemblea) è un sistema antico diffuso nel subcontinente indiano che resiste da secoli. E’ una delle tante forme di amministrazione del consenso e della giustizia che spesso sfuggono non solo al dettato legislativo nazionale ma persino agli ordini del clero. Ne esistono forme diverse a seconda della tradizione. Nel Nordovest pachistano, area abitata da popolazioni afgane, la jirga assume lo stesso ruolo. Proprio qualche mese fa una di queste assemblee di anziani condannò a morte un ragazzo che era stato ripreso da un telefonino mentre ballava con delle giovanette. Le ragazze sparirono e non è ancora chiaro se, dopo che il caso aveva interessato la magistratura, quelle che erano riapparse fossero davvero le vittime dell’anatema. Si teme siano state uccise. Ma queste punizioni del codice d’onore non fanno parte solo delle popolazioni afgane della montagna, confinate nelle cosiddette aree tribali e strenue avvocate della tradizione: il Punjab è il cuore del Pakistan moderno e Multan è una città di quasi due milioni di abitanti.

Qandel Baloch; libera e provocatoria.
Suo fratello l’ha uccisa

Un caso famoso (e denunciato) fu quello di Asma Firdous, una donna di 28 anni a cui, nell’aprile del 2011, due uomini tagliarono sei dita, il naso e sfregiarono labbra e braccia. Alla base c’era una disputa col marito e la vendetta si scaricò sulla ragazza. Il rapporto sulla violenza femminile relativo al 2010 e redatto dalla Commissione diritti umani del Pakistan, diceva allora che almeno 800 donne erano state vittime di “delitto d’onore” e punite con la morte mentre altre 2900 erano state violentate, al ritmo di otto al giorno. Il Punjab deteneva il primato. Ancor più noto del caso di Asma è stato quello di Mukhtar Mai, una giovane ragazza punjabi di Muzaffargarh che nel 2002 era stata violentata da quattro uomini per il sospetto di una presunta relazione tra il fratello minore di lei, Shakoor, e una parente. In realtà, grazie alla determinazione della ragazza, che non si suicidò per il disonore e anzi denunciò gli stupratori, si scoprì che l’accusa a Shakoor doveva in realtà coprire la violenza subita dal ragazzo stesso da parte di altri membri del clan. Ne venne fuori un libro (In nome dell’onore), una scuola per ragazze finanziata da Mukhtar Mai e Thumbprint, un’opera teatrale di respiro internazionale. Un altro caso recente è quello di Fouzia Azeem, più nota al grande pubblico come Qandeel Baloch, una giovane ragazza di 26 anni diventata un idolo in Pakistan per le sue performance video, le interviste scioccanti, il modo di esporre il corpo e le continue provocazioni. Suo fratello Waseem, reo confesso, l’ha prima drogata e poi strangolata nel sonno nella casa dei
genitori l’anno scorso sempre a Multan.

Lentamente però anche in Pakistan le cose cambiano: in termini di dati (1000 morti nel 2016) la situazione sembra stabile o peggiore ma è anche vero che ora le donne – anziché uccidersi come vorrebbe la consuetudine – denunciano e la magistratura, come in questo caso, interviene; si lavora su leggi che evitino la scappatoia del delitto d’onore che, ufficialmente, dovrebbe essere considerato un omicidio tout court. Strada in salita e non solo in Asia: nella civile Italia l’abolizione del “delitto d’onore” e del “matrimonio riparatore” è solo del 1981 e le donne che vengono uccise, assai spesso dai loro mariti, conviventi o ex, muoiono al ritmo di una ogni 3 giorni. Quasi 7 milioni, secondo l’Istat, le italiane che nel corso della propria vita hanno subito abusi.

Cucina siriana: “polo”, bevanda di limone e menta

Nelle calde estati di Damasco, è una delle bevande più bevute in tutti i bar e ristoranti: fresco, dolce e facilissimo da preparare, oggi vi proponiamo questa bevanda, conosciuta più comunemente in Siria come “polo”! Ingredienti: 1 litro d’acqua il succo di 5 limoni 70g di zucchero 50g di foglie di menta fresca qualche goccia […]

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La richiesta di destituire Bashar Al-Assad è caduta: quali sono gli effetti a livello internazionale e regionale? 

Di Omar Raddad. Al-Ray al-Youm (24/07/2017). Traduzione e sintesi di Cristina Tardolini Dichiarazioni occidentali e arabe indicano che ci sarebbe stato un rovesciamento nelle posizioni degli attori internazionali e regionali circa il futuro del presidente siriano Bashar al-Assad e del mantenimento del suo ruolo. La fine del regime infatti era stata chiesta e posta come […]

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Viaggio all’Eden: venerdi 28 a Milano

Cosa fu davvero il Viaggio all’Eden? Cosa eravamo noi, protagonisti inconsapevoli di un’epopea in
cui ognuno faceva la sua strada e il suo trip, parola inglese che significa viaggio in senso lato: a piedi, in macchina o con qualche mezzo psicotropo? Cosa siamo stati veramente? Fuor di dubbio fummo un pezzo di quell’avanguardia giovanile che sconvolse il mondo tra gli anni Sessanta e Settanta. Fuor di dubbio di quell’avanguardia fummo la frangia più anarchica e libertaria. Ma, alla fine della fiera, fummo anche l’avanguardia del turismo di massa e – proprio noi che viaggiavamo con consapevolezza, anticipando di trent’anni il turismo sostenibile ecofriendly – fummo anche gli araldi di una globalizzazione della valigia nel frattempo divenuta trolley. Quel vasto movimento di arrivi e partenze è senz’altro una risorsa ineludibile per tanti Paesi, ma è stata ed è – come un po’ abbiamo raccontato – anche il segno della sua rovina, della fine di un sogno tropicale…

Venerdi 28 luglio alle ore 19 al Rob de matt di Milano Via Enrico Annibale Butti 18 (traversa di viale Jenner) letture di Carlina Torta da Viaggio all’Eden

Tahrir a Gerusalemme?

Via i metal detector. Via anche le telecamere. Via le strutture d’acciaio, sul tipo delle ‘americane’ che si usano in teatro. Nessuno si attendeva che la crisi di Al Aqsa, a Gerusalemme, potesse registrare in meno di due settimane un primo, fondamentale traguardo. La situazione, certo, è ancora delicatissima, ma i fatti concreti ci sono.Continua a leggere

Dai faraoni, una lezione sulla persecuzione delle minoranze religiose in Egitto

L’Egitto sprofonda lentamente nel buco nero dell’intolleranza e l’incapacità dello Stato di proteggere i copti, l’imprigionamento coatto di membri della Fratellanza Musulmana e la volontà di deportare gli uiguri in Cina ne sono le prove inconfutabili

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Jerusalem logo

Mi sono imbattuta in questa foto su Twitter. È la conferma lampante che la Cupola della Roccia è ormai l’unico logo di Gerusalemme. Un logo in absentia, per gli israeliani ebrei. Come se nascondesse il primo e il secondo Tempio. Per i membri delle associazioni radicali, addirittura il Terzo Tempio. Per chi ne vuole sapereContinua a leggere

Ancora minacce agli avanzamenti democratici in Tunisia

Monica Marks ricercatrice associata al programma WAFAW (When authoritarianism fails in the Arab World) del Consiglio Europeo per la ricerca, titolare di una borsa Rhodes. Tra il 2012 e il 2016 ha condotto 1200 interviste in Tunisia nel quadro delle sue ricerche. La settimana scorsa è stata molto pericolosa per la fragile democrazia tunisina. Nei prossimi giorni due progetti di […]

I cultori dello scarto, ma designato come compassione

mcc43 da La cultura dello scarto Non è la prima e purtroppo non sarà neppure l’ultima, ma certamente è una triste vicenda quella del piccolo Charlie Gard. Vicenda complessa in cui si sono sovrapposti aspetti di varia natura, da quello scientifico a quello affettivo, e forse proprio per questo emblematica di un tempo come il nostro […]

Il programma “arabista” del Festivaletteratura di Mantova 2017

La vostra blogger preferita (come chi? io, no?) si è spulciata per bene il programma del prossimo Festivaletteratura di Mantova (6-10 settembre 2017) alla ricerca degli incontri con gli autori arabi/di origine araba che sono stati invitati quest’anno, e di cui vi avevo parlato qui. Quindi eccolo qui di seguito*, giorno per giorno. Buona lettura! Mercoledì […]

Gerusalemme: raccontare per capire

Da qualche giorno, accendo la radio e si parla di Gerusalemme. Il telegiornale parla di Gerusalemme. I giornali raccontano Gerusalemme. I riflettori sono puntati sulla città santa e divisa, capitale di tutti o di nessuno. Monte del tempio, spianata delle… Continue Reading →

Il Vicolo cieco, Al Aqsa

mcc43 Questo articolo del blog L’altra Israele espone con grande chiarezza i fatti della crisi di Al Aqsa. Mi preme evidenziare l’incipit del racconto degli eventi: “Un paio di settimane fa un terzetto di arabi israeliani compie un attentato in prossimità della porta dei leoni, uno degli ingressi che porta alla spianata dove sorge la moschea […]

Strage senza fine

Dopo qualche settimana di apparente tranquillità la guerra afgana torna nella capitale con un’autobomba che il suo guidatore scaglia contro un autobus che sta portando al lavoro – sono le 6.45 del mattino – alcuni impiegati del ministero per le miniere e il petrolio. Non è una tecnica nuova e a farne le spese sono già stati lavoratori dei media o di altri ministeri. Ma non son certo gli alti papaveri dei dicasteri a perdere la vita in un attentato che avrebbe ucciso almeno 36 persone e ne avrebbe ferite altre quaranta anche se nel quartiere abita anche un alto dignitario del governo: Mohammad Mohaqiq, un mullah integralista che sta però dalla parte “giusta” della barricata. La responsabilità viene attribuita ai talebani che non sono comunque rimasti con le mani in mano nei giorni scorsi: la guerra in Afghanistan è pane quotidiano in tutto il Paese e non solo per la guerriglia. E’ di qualche giorno fa una polemica su “fuoco amico” americano che per errore avrebbe colpito militari afgani. Intanto c’è attesa sulla nuova strategia promessa da Trump che prevede un nuovo “surge” nel Paese dell’Hindukush. Ma il presidente fa melina tra indiscrezioni e speculazioni sul numero di soldati da inviare (4mila?) e se è vero che darà carta bianca anche a qualche società di contractor.

Dall’altra parte del confine intanto i talebani del Tehreek-i-Taliban Pakistan, i “cugini” pachistani della guerriglia afgana, hanno messo a segno l’ennesima strage a Lahore, città del Punjub, dove un attacco suicida che voleva colpire la polizia locale si è trasformato in una carneficina con almeno 26 vittime tra cui nove poliziotti.

In un caso e nell’altro – e così nella maggior parte delle azioni della guerra sui due fronti caldi – i civili continuano a pagare il prezzo più alto: in Afghanistan, secondo la missione Onu a Kabul, nei primi sei mesi del 2017 il numero di civili uccisi o feriti continua a rimanere elevato. Dal primo gennaio al 30 giugno ci sarebbero stati 1662 civili uccisi e 3581 feriti. I morti raccontano di un aumento del 2% rispetto allo stesso periodo nel 2016. Il 40% sarebbero imputabili alla guerriglia talebana o allo Stato islamico mentre si ricorda che il solo attacco a Kabul del 31 maggio (senza paternità) ha ucciso 92 civili e ne ha feriti 500 conquistando il primato dell’attacco più stragista dal 2001. I talebani hanno preso le distanze dai dati di Unama contestandone i numeri e le responsabilità: citando le azioni delle milizie di villaggio (Arbakis) o i raid dei droni i cui effetti sono coperti da segreto militare.

RAQQA: L’ALTRA FACCIA DELLA LIBERAZIONE

Fino a qualche tempo fa, gli attivisti di Raqqa Is Being Slaghtered Silently (RBSS) erano portati in palma di mano da molti organi mainstream, fino ad essere insigniti dell’International Press Freedom Award nel 2015. Le loro corrispondenze clandestine da Raqqa, in cui, a rischio della vita, denunciavano i crimini e gli orrori commessi dai tagliagole […]

Le mobilitazioni nel Rif e lo sciopero della fame nella storia del Marocco

Di Maati Monjib. Al-Quds al-Arabi (21-7-2017). Traduzione e sintesi a cura di Raffaele Massara. La scorsa settimana, l’attivista Rabii al-Ablaq è stato ricoverato a causa di un malore dovuto allo sciopero della fame: non è né il primo né l’ultimo caso. Come lui, anche Selima Ziani, ai più nota col soprannome di Sylia, ha annunciato tempo […]

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Non li abbiamo protetti, i nostri figli

Confesso un dolore, e una impotenza. In questa stagione di violenza, a Gerusalemme, gli agnelli sacrificali sono quasi sempre giovani. Ragazzi. E’ successo anche ieri. Tre ragazzi palestinesi ammazzati per mano israeliana, rispettivamente da un colono, la polizia di frontiera, l’esercito. Palestinese il ragazzo che ha ucciso tre coloni israeliani dentro un insediamento in Cisgiordania.Continua a leggere

Cucina sudanese: al-aswad, insalata di melanzane

La ricetta di oggi ci porta a scoprire un piatto sudanese (per la precisione, del Sudan del sud), il cui nome (al-aswad, “nero”) deriva dal fatto che il principale ingrediente sono le melanzane scure. Ecco come preparare questa deliziosa insalata! Ingredienti: 2 melanzane scure grandi 1 cipolla media 4 spicchi d’aglio 500ml d’acqua 2 cucchiai […]

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La linea rossa, a Gerusalemme

  Le immagini mostrano più delle parole, ormai da tempo. Mai, mai almeno negli ultimi 15 anni, Salaheddin Street è stata così simbolica. La strada commerciale di Gerusalemme est, la strada che conduce a una delle Porte della Città Vecchia meno conosciute ma più frequentate dalla popolazione palestinese. Salaheddin street, la strada che finisce, proprioContinua a leggere

Libya: A Controversy Around an Anti-Ibadi Fatwa

Libya has multiple governments and as such it has multiple poles of would-be official religious authority. One such body is the Supreme Committee for Issuing Fatwas (Al-Lajna al-‘Ulya li-l-Ifta’) connected to the Libyan Interim Government. That government is based in the northeastern city Al-Bayda and is associated with Khalifa Haftar, commander of the Libyan National Army.

Earlier this month, the Supreme Committee kicked off a tremendous controversy by issuing a fatwa (Arabic) that denounces the Ibadis, a non-Sunni, non-Shi’i Muslim sect prevalent in Oman and with a small but significant presence in parts of North and East Africa. The fatwa comes in response to a question about the permissibility of praying behind an Ibadi imam – effectively, a question about whether Ibadis should be considered genuine Muslims or not. The response reads, “Ibadism is a deviant, misguided sect. They are Kharijite Batinists. They hold infidel beliefs, such as their belief that the Qur’an is a created object, and their belief in denying that we will see [God in Paradise], so do not pray behind them and don’t esteem them.”

For context, “Kharijites” is a pejorative term that can refer to a specific early Islamic sect but that also can be used widely as a term of abuse. Describing the intricacies of the historical relationships between Ibadism and Kharijism is, I think, a task best left to specialists, so I won’t attempt it here. “Batinism,” meanwhile, is used here as a pejorative term meaning people who claim to see hidden messages in the Qur’an.

Turning back to the fatwa’s reception, negative reactions came immediately from Libyan Amazigh/Bergers, who saw the fatwa not just as a religious provocation but an ethnic one. Ibadism is sometimes associated with the Amazigh in Libya and vice versa. The Amazigh Supreme Council called the fatwa “a direct incitement for a genocide of the Amazigh people in Libya.” (Read a little background on the Ibadis in Libya here.)

Another negative reaction came from a rival governmental religious body, the Dar al-Ifta’ (House of Issuing Fatwas), whose legal status under the Government of National Accord is now somewhat unclear (it’s been reportedly shut down, but it’s still issuing statements). Although the Dar al-Ifta’ and Grand Mufti Sadiq al-Gharyani have a reputation in many quarters as divisive and even extremist, in this context the Dar al-Ifta’ presented itself as a non-sectarian force working for Libyan unity. In a statement (Arabic), Dar al-Ifta’ denounced the “sectarian chaos that simple-minded idiots and youngsters are trying to ignite among the Muslim citizenry.” (See also here.)

Other Libyan commentators have seen the fatwa as evidence of creeping Salafism/Wahhabism (Arabic) in Libya – for all that the eastern Libyan government and the forces of Haftar are often seen as anti-Islamist and even “secular,” there is a strong Salafi influence on those bodies.

Those are just a few of the reactions in an ongoing domestic controversy. It will be interesting to see whether the pressure and criticism elicit any changes on the part of the Supreme Committee or the eastern government.

La biblioteca di Amanullah

Risistemare la propria biblioteca è un lavoraccio ma anche un sistema piacevole per fare non solo ordine e polvere ma anche qualche piacevole scoperta. Vedi questo articolo  sull’Afghanistan a firma Erodoto II uscito su Noi e il mondo, magazine de La Tribuna, giornale  romano diretto da mio nonno Tullio Giordana.

Foto d’epoca tra cui re Amanullah e altro, con un invito all’Italia perché stringa rapporti con il re (ferocemente antibritannico).

La data è agosto 1925. Da notare l’artifico grafico “orientalista” della scritta Afghanistan nel titolo

Controversie culinarie. I segreti dei “mezze”

0x-mezzesinPetraJordan-110Hummus, falafel, mezze. Viaggio storico-culturale tra i piatti più caratteristici della cucina mediorientale in compagnia di artisti, blogger, cuochi e rifugiate, un cibo che è spazio di incontro e scambio in tutto il bacino del Mediterraneo nonostante i conflitti che attraversano la regione.

Viaggio all’Eden a Levico Terme

Venerdì 21 luglio, a Levico Terme (ore 21 a Villa Sissi, Grand Hotel Imperial) Massimo Libardi e Fernando Orlandi dialogano del Viaggio all’Eden e degli anni Settanta con Emanuele Giordana. Organizzazione La piccola libreria.

Era davvero il viaggio della vita, ha scritto Enrico Deaglio. Un viaggio iniziato dopo che i Beatles andarono a meditare con Maharishi Mahesh Yogi.
Impossibile dire quanti, dall’Italia, partirono e quanti arrivarono alla meta: migliaia sicuramente, forse di più. Non era come andare a Londra, a New York o a Marrakech. Era un viaggio di mesi, da cui si tornava smagriti, diversi, cambiati. Più lenti, in genere.
Erano altri tempi, più o meno mezzo secolo fa, nella seconda metà del Novecento. La meta era lontana: l’India, il Nepal, l’Afghanistan. Le condizioni del viaggio erano disagevoli: niente aerei, carte di credito, cellulari e bed and breakfast; piuttosto (pochi) traveler’s cheque, scassati uffici del telegrafo, fermo posta, ostelli e tutte le malattie gastrointestinali in agguato. Le utilitarie Fiat non erano attrezzate, i più fortunati viaggiavano sul pulmino Volkswagen, se no erano bus, treni, autostop, con tanto di appuntamenti in caravanserragli.
Fu davvero una grande migrazione, ricordata da un prezioso Baedeker di ricordi,

Viaggio all’Eden. Da Milano a Kathmandu di Emanuele Giordana; lui – oggi giornalista specializzato in Paesi asiatici – fu uno dei pionieri. Non era per lavoro, non era per cercare fortuna, cose che gli italiani avevano nel sangue da sempre. Non era neppure il Grand Tour che i poeti inglesi dell’Ottocento, specie se di deboli polmoni, compivano nell’Italia degli archi e delle rovine per meditare sull’effimera gioventù. Fu piuttosto un viaggio interiore, individuale
e collettivo, alla ricerca di spiritualità, meditazione, allargamento della conoscenza e, soprattutto, una reazione alla vita materialistica, competitiva e violenta, che si conduceva in occidente.
(dall’invito per la serata)

I nodi della cattiva Storia, a Gerusalemme

Chi ha vissuto a Gerusalemme sa che è proprio Gerusalemme la linea rossa da non superare. Quello che sta succedendo in Città Vecchia è una miccia già accesa. Ma la prudenza non c’è, di questi tempi. E la ‘guerra civile’, stavolta, rischia di scoppiare. Se i fatti sono simboli che narrano una storia più complessa,Continua a leggere

Supporting refugee livelihoods or host stability? The two sides of the coin

For many refugees, the humanitarian programmes focusing on “livelihoods” end up having merely an “accessory” role rather than generating sustainable labour.   Civil defence members and civilians put out fire at a camp for Syrian refugees near the town of Qab Elias, in Lebanon’s Bekaa Valley, July 2, 2017. Picture by HASSAN ABDALLAH/Reuters/PA Images. All […]

Egitto, con l’attacco di Hurghada un altro affronto al rilancio del turismo: il 2017 non è più l’anno della svolta

“Non voglio gli egiziani, non è voi che cerchiamo”. La frase che, secondo i testimoni oculari, sarebbe stata pronunciata dall’attentatore di Hurghada, suona come uno smacco, un affronto contro i piani del governo egiziano che sembrava aver scelto il 2017 come l’anno definitivo per il rilancio del turismo. Al momento non c’è ancora nessuna rivendicazione […]

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Holy (and cruel) basin – 2

Imagine a new paradigm for Israel/Palestine. Imagine today a new paradygm for Jerusalem. The Holy Places. How many hobstacles would you find? These are few lines I wrote some months ago, after my recent journey in the Middle East and my  visit to Jerusalem. I visited the Haram al Sharif, in November, and I metContinua a leggere

Holy (and cruel) basin

“any concession or abrogation of existing rights tended to become the thin end of a wedge before which other rights were apt to disintegrate. Chairs, they feared, would become wooden benches, wooden benches iron benches, iron benches fixed stone benches, with the corollary that covering from above against sun and rain and from the sideContinua a leggere

L’accordo sul fronte sud della Siria: quali possibilità?

Di Omar Raddad. Al-Ray al-Youm (12/07/2017). Traduzione e sintesi di Cristina Tardolini. L’accordo USA-Russia-Giordania sulla Siria è stato annunciato durante il vertice del G20 tra i presidenti Trump e Putin, subito dopo il fallimento del quinto ciclo di negoziati di Astana per discutere i dettagli della tregua nel sud del Paese. La conclusione degli accordi […]

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Gaza deve vivere per la vita di tutta la Palestina

gaza-110La vita della popolazione di Gaza è seriamente messa in pericolo e noi, cittadini/e del mondo, associazioni, gruppi, non credenti e credenti di fedi diverse, sentiamo la responsabilità di agire laddove le Risoluzioni hanno fallito, e porre allattenzione internazionale questo lento genocidio.

Venice in peril

Ho visitato la bellissima mostra di tappeti alla Ca’ d’Oro e mi sono fermata nel magnifico chiostro a pianterreno, coi  suoi pavimenti coperti di mosaici strabilianti, la vera da pozzo nel cortiletto in cui si affacciano bifore delicate; lontano dalla quotidianità di Venezia, dove i turisti ti sbattono addosso i loro zaini nei vaporetti, orde di … Continua la lettura di Venice in peril

Afghanistan. E se mettessimo un Viceré con esercito privato?

Lord Mountbatten,
ultimo Viceré in India

Sarà una nuova guerra, una guerra “speciale” e forse anche “privata”, con modalità già testate dall’Irak allo stesso Afghanistan. Ma se i contractor son sempre stati un riempitivo dei conflitti per la logistica e la sicurezza, davanti a caserme e ambasciate, la nuova strategia del Pentagono, non ancora ufficiale ma inesorabilmente annunciata dalle indiscrezioni, potrebbe prevedere che la guerra per procura affidata a mercenari diventi uno dei nodi della pianificazione del nuovo “surge” afgano. La notizia filtra sulla stampa americana mentre la ministra Pinotti si trova negli Stati Uniti per un incontro con il suo omologo James Mattis che – ha spiegato la ministra – oltre alle vicende siriane è servito per “rimodulare” il contributo italiano pari oggi a poco meno di mille soldati schierati a Herat, il secondo contingente straniero dopo quello statunitense. Le indiscrezioni fanno due nomi pesanti: Erik Prince, il fondatore della famigerata Blackwater e Stephen Feinberg, un miliardario proprietario della DynCorp International, “gigante” – scrive il New York Times – del comparto militare privato. Per ora saremmo solo a suggerimenti richiesti però da due spalle importanti di Trump: Steve Bannon, responsabile delle strategie del presidente e poco favorevole e all’invio di soldati in Afghanistan, e Jared Kushner, senior adviser di Trump e marito di Ivanka. Il piano ha comunque già un nome: “Laos Option”, richiamo alle operazioni segrete scatenate nel Paese confinante col Vietnam per mettere in difficoltà i vietcong.

Lord Aucklan, governatore del Raj
amministrato dalla Compagnia delle Indie.
Invase l’Afghanistan. Sotto: Mc Arthur

L’uso dei contractor potrebbe forse far rientrare i dubbi di Bannon e dei molti che temono una nuova
escalation e dunque nuovi morti tra i soldati a stellestrisce, ma non piace troppo né ai vertici militari in divisa né ai militari, come Mattis o McMaster – consigliere per la sicurezza nazionale –, che vestono adesso panni civili. Sono loro i sostenitori del nuovo impegno che dovrebbe coinvolgere 4 o 5mila soldati americani e qualche altro migliaio di militari Nato anche se per ora continuano a rinviare dichiarazioni ufficiali e numeri. Temono però, non solo i guai che i mercenari hanno combinato in passato, ma soprattutto la possibile erosione del controllo del Pentagono. Il piano, prevede infatti che i “privati” non si limitino a sicurezza e logistica ma anche a operazioni “speciali” ad alto rischio in stretta collaborazione con la Cia. Prince del resto non fa mistero delle sue idee: in maggio ha scritto sul Wall Street Journal che, in una guerra già costata agli Usa 828 miliardi, oltre 2mila soldati uccisi e 20mila feriti, serve un “modello Mc Arthur”, il generale americano che alla fine della seconda guerra mondiale governò il Giappone come un proconsole: esautorò l’Imperatore ma si servì però di soldati americani non certo di privati. Prince immagina invece un “viceré” forse sul modello dell’incarico affidato, dopo l’invasione dell’Irak, a Paul Bremer, il proconsole di Rumsfeld. Scegliere la  parola “viceré” fa pensare, più che a Louis Mountbatten, l’ultimo viceré dell’India britannica, ai governatori generali (o viceré) della Compagnia delle Indie, a tutti gli effetti una società commerciale che impiegava un esercito privato. L’idea del vicereame afgano sedurrà Trump?


Stando alle dichiarazioni di Pinotti, Trump avrebbe invece sedotto gli italiani solo in parte. E l’Italia si opporrebbe all’invio di nuovi soldati in Afghanistan, decisione che richiederebbe un passaggio parlamentare che probabilmente non andrebbe a buon fine. Non tanto forse per una attenta coscienza della guerra quanto perché si presterebbe a creare un ennesimo ostacolo sull’impervio cammino di Gentiloni. Per ora si parla solo di rimodulare e cambiare funzioni. Come si vedrà.

Gli autori arabi ospiti del Festivaletteratura di Mantova 2017

Al prossimo Festivaletteratura di Mantova (21° edizione, che quest’anno si svolge tra il 6 e il 10 settembre) sono diversi gli autori provenienti dal mondo arabo che saranno ospiti. Ancora non è uscito il programma, che verrà reso noto a fine luglio, ma intanto vi illustro chi sono i “nostri” autori e cosa verranno a […]

Fuoco e cenere, ma il Vesuvio non è il colpevole

mcc43 Il 5 luglio 2017 il Ministero degli Interni, Direzione regionale dei Vigili del Fuoco, ha inviato un fonogramma ai sindacati di categoria:  «Si comunica che la Regione Campania, più volte sollecitata, ha rappresentato la propria indisponibilità alla stipula di una convenzione che preveda il coinvolgimento dei Vigili del Fuoco nelle attività di lotta attiva […]

La dolorosa mutazione di Ennahda in Tunisia

Thierry Brésillon   Nel maggio 2016 Ennahda ratificava una riforma di fondamentale importanza, determinante sia per il proprio futuro che per l’evoluzione dell’islam politico in un nuovo contesto post-autoritario. Essenzialmente si trattava  della trasformazione di un movimento, nato a partire dagli anni ’70 come resistenza culturale alla modernizzazione all’occidentale voluta da Habib Bourghiba e passato all’azione politica negli anni ’80, in […]

La sera andavamo alla Martesana: l’idea e l’incipit di Viaggio all’Eden

Sempre che la cosa sia di un qualche interesse, l’idea del libro Viaggio all’Eden – che si richiama alla prima guida scritta sul volo magico dall’Italia al Nepal negli anni Settanta – ha preso forma a partire da un articolo uscito nell’agosto del 2007 per il manifesto in una serie estiva che si chiamava Rifugi della sinistra e che concordai con Angelo Mastrandrea. Scrissi quelle 100 righe provando il piacere immenso, per una volta, di poter sfuggire alla schiavitù delle notizie e dell’analisi perché ad andare a briglia sciolta era la memoria e, con lei, la scrittura. Incredibilmente, mentre nessuno si era mai filato le mie cronache, il pezzo suscitò un vespaio di reazioni tra le più diverse. Eccone una:

Mi è piaciuto l’articolo di Emanuele Giordana sul numero di giovedi 2 agosto. Ma sulla Martesana definita “fiumiciattolo maleodorante” non sono assolutamente d’accordo. Verde rigoglioso, canne, acqua abbastanza limpida con pesci e ricca vegetazione sommersa, gracidar di rane, gallinelle d’acqua, germani reali… questa è la Martesana, un pezzetto di natura quasi selvatica nei tristi quartieri Nord di Milano. Claudio Longo, 8/8/07 (lettera inviata al manifesto )

Poi, nell’estate 2013, decisi che quell’articolo poteva partorire una piccola serie rievocativa e proposi al giornale dieci puntate. Anche questa volta ci furono un mucchio di reazioni miste. Alcune davvero confortanti. Perché allora non farne un libro? Ripresi alcuni dei pezzi scritti per il Mani e gli feci acquistare dignità di capitolo ma faticavo a trovare un editore. Poi Laterza si è convinto, grazie anche al sostegno di Giovanni Carletti, la persona che poi ha seguito impianto, nuovo indice e nuova stesura. Se siete arrivati fin qui ecco allora il prologo del libro. Sperando ovviamente che poi corriate in libreria…Ce n’è giusto una all’angolo.

L’indice lo trovate qui

                                         

Lord, I was born a ramblin’ man,
Tryin’ to make a livin’ and doin’ the best I can.
And when it’s time for leavin’,
I hope you’ll understand,
That I was born a ramblin’ man
(The Allman Brothers Band,
Ramblin’ Man, Brothers and Sisters, 1973)
Prologo
Quarant’anni prima
Per noi che sognavamo di prendere il Direct Orient dalla Centrale di Milano, l’ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po’ torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano dalla stazione, dove pensionati comunisti e giovani fricchettoni pasteggiavano con ossobuco e barbera dell’Oltrepo per 500 lire. A qualche centinaio di metri, gli effluvi della cannabis condivano le serate all’Abanella, un cinema di terza visione – quando le sale, come i treni, avevano una gerarchia di classe – rilevato da un amante del genere sex, drug & rock’n roll e dove, oltre a Il laureatoe Woodstock, si proiettava anche Cavalieri selvaggicon Omar Sharif e Jack Palance. Quel grande film sull’Afghanistan di John Michael Frankenheimer, che i critici cinematografici avevano snobbato, alimentava l’epopea del Viaggio all’Eden, come era stata chiamata la prima guida per freaksulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. E non c’era molto altro come viatico letterario.


Sì, anche Allen Ginsberg, allora molto gettonato, era stato in India ma alla fine ci passavamo di mano soprattutto un altro classico dell’epoca, pura operazione furbescamente commerciale ma non priva di seduzione: quel raccontone letterariamente scadente ma altrettanto avvincente di Charles Duchaussois,
junkiefrancese che aveva fatto il giro del mondo con un ago infilato nel braccio. Il suo Flash. Katmandu il grande viaggiodescriveva l’Old Gulhane di Istanbul e raccontava di sordidi buchi del bazar di Bombay per fumatori d’oppio, di santoni, contrabbandieri, guru e ashramdove poter allargare la coscienza a colpi di mantra e di “manali”, l’hascisc nero e profumato delle valli del Nord dell’India. Insomma la partenza si preparava così: amuchina e antibiotici per i più paranoici, pile e lamette da barba per i previdenti, Sulla stradadi Kerouac o Siddhartadi Hesse per i più raffinati, Autobiografia di uno yogidi Paramhansa Yogananda per gli spiritualisti. Inseguiti dagli anatemi di quelli che «no compagni, non si può andar via e mollare la lotta di classe», ci rodeva – sotto la pergola della Bocciofila Martesana – il tarlo della strada e non ci scalfiva quel refrain di Giorgio Gaber che cantava di una generazione che scappava «in India e in Turchia»fingendo di essere sana. Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul, dove immigrati turchi accaldati di ritorno a casa esibivano i gilet e le coppole d’ordinanza mentre si attraversava la Iugoslavia di Tito fino alla Porta d’Oro aperta sull’Oriente.
La copertina di “Viaggio
all’Eden”, la prima mitica
guida al volo magico
(altro titolo dell’epoca)

Traversata la prima frontiera, i ritrovi all’occidentale cui eravamo abituati (dal piccolissimo bar Erika di zona Loreto al mitico Jamaica, già troppo caro all’epoca per le nostre tasche) finivano di colpo. C’era qualche locale a Belgrado dove potevi bere acquavite e un ultimo espresso ma già trionfava il caffè serbo, che in Grecia è caffè greco e in Turchia caffè finalmente turco. E quando ormai avevi passato anche l’ultimo confine alcolico bagnato di Retzina e Demestika ghiacciati, restava la birra turca ma si affacciava anche un primo stupore per quello splendido tè servito in bicchieri stretti stretti con la pancia sporgente e l’orlo striato da una collanina d’oro, trascinati su un vassoio rotondo di metallo martellato ai tavolini all’aperto di Sultan Ahmet. Sempre affannati a cercare il posto più economico – per mangiare e dormire, attività primigenie ed essenziali del genere umano – si finiva nei grandi stanzoni degli ostelli della Sublime Porta che, ai meno abbienti, offrivano i tetti, più per risparmiare qualche lira turca che per sfuggire all’afa distesa sul Bosforo. La mattina al Pudding Shop, luogo deputato allo scambio di informazioni sul prossimo pullman, era un’occasione per ingollare yogurt e pasticceria ottomana grassa e zuccherina, ammantata di miele e pinoli e di cui avevi già avuto qualche sentore nei Balcani. Ora il Pudding è un ritrovo alla moda con le foto degli Anni Settanta alle pareti, locale senz’anima affacciato sulla fluorescente rivisitazione modernista del grande parco di Sultan Ahmet e dei suoi gioielli architettonici.

L’Iran, ancora terra dello Scià, era un passaggio veloce. Una notte all’Amir Kabir per i più fortunati e sennò il campeggio di Mashhad prima del confine afgano. Ed era qualche chilometro più a Est, alla frontiera di Tayyebad, il vero inizio del viaggio. Era a Kabul, la città di cui avevamo distillato ogni sapore nei racconti degli amici, il luogo dove esplodeva l’epopea dei ruggenti Settanta on the road. I freak erano così numerosi che si era creata una vera e propria colonia il cui santuario era Chicken Street, che è oggi l’ombra di se stessa ancorché, per qualche anno, la municipalità cittadina l’avesse onorata dell’unica insegna turistica che ho visto in quella città sulla linea del fronte che la guerra ha inghiottito da decenni. Quelli con più soldi stavano al Peacee lo chiamavi così perché se dicevi “Peace Hotel” voleva dire che eri un novellino. La giornata rituale comprendeva la pipa ad acqua, un giro alla Posta, la pipa ad acqua, una visitina alla moschea, la pipa ad acqua e il ristorante. Se avevi soldi ci scappava anche una seduta al Marco Polo, locale di lusso dove la cucina serviva il solito kabili palau(che solo anni dopo capimmo che non significa riso di Kabul), ma anche un vino d’uva che forse non era granché ma poteva farti evocare le colline dell’astigiano o i poemi del persiano Omar Kayyam. Anche gli afgani, che sono di lingua iranica, conoscono bene la sua poesia mentre noi, lo ammetto, cercavamo il sapore di casa in quel liquido senza retrogusto e tratto da un frutto ottimo per l’uva sultanina ma difficile – a quelle latitudini – da vinificare (pur se la tradizione della vigna e del vino erano antichissime). Nel percorso verso la Posta, il luogo sacro per un vero viaggiatore prima dell’avvento degli Internetcafé, del roaming o di WhatsApp (ricevevi la corrispondenza al Poste Restante che sarebbe il P.O. Box inglese e il nostro Fermo Posta ma che ovunque si declinava in francese), c’era la possibilità di un frullato di mele o di carote, unica chance vitaminica in un Paese dominato da riso e montone e dove pomodori e insalata erano a tuo rischio e pericolo. Meloni quelli sì, quelli di Kunduz, dolci e bianchi, promessa di frescura nelle estati torride e polverose della capitale afgana. Eppoi, già, la pipa ad acqua, un marchingenio per proiettare la sintesi estrema dell’hascisc più rinomato del pianeta direttamente nel cervello se a farti “sballare” non aveva già provveduto quel paesaggio di fieri cavalieri avvolti – estate e inverno – in una leggerissima coperta di lana – il patu– sotto un turbante da cui parte una striscia di cotone svolazzante come una cometa di luce che ha anche il pregio di riparare la gola dalla polvere.
Sul passo Kyber avevi giusto il tempo di ragionare del fatto che tra l’Afghanistan e il Pakistan esisteva una sorta di terra di nessuno dove comandavano pastori barbuti col fucile in spalla e un cappelletto di lana rotondo che avremmo rivisto anni dopo sulla testa dei mujahedin. Riallacciando le immagini di quei viaggi al senno di poi, abbiamo capito in seguito cosa fossero e sono le aree tribali pachistane e perché i guerrieri di Allah – ieri come oggi – sparavano a Jalalabad ma dormivano a Peshawar e perché anche adesso quella frontiera porosa è attraversata senza passaporto dai pashtun – talebani e non – che oltre confine si chiamano pathan. A Peshawar, che era ancora un paesone marcato dall’urbanistica del Cantonment britannico – il cuore militar coloniale disegnato dagli architetti di Sua Maestà – e non la città disordinata e molto pashtun-patana di adesso, c’era il primo impatto con la geografia umana del subcontinente indiano perché, e lo capivi dopo, la spartizione dell’India del 1947 aveva diviso a metà la regione del Punjab e dunque, di qua e di là della frontiera indo-pachistana, la gente era più o meno la medesima. Comprese le mucche che pascolavano tra gli scoli dei bazar anche nell’islamico Pakistan, salvo che qui finivano in stufato, di là al tempio. A Peshawar potevi stare in un alberghetto famoso perché affacciato sull’acquitrino formato dai residui del cambio dell’olio di un’enorme officina meccanica per camion dipinti con colori sgargianti. Quel rumore assordante già alle prime luci del giorno era capace di spezzare ogni poesia ma non certo la litania imprecante di ogni meccanico che si rispetti quando una vite non gira. E c’era anche un antico e fatiscente palazzo moghul dove ai prezzi delle stanze corrispondeva anche l’ubicazione in elevazione della stanza. Ma al contrario: pagavi bene e stavi al primo piano, ombreggiato e ventilato. Meno rupie e salivi a quello superiore. E, infine, se quattrini non ne avevi proprio, passavi la giornata su un terrazzo liquefatto, in stanzette che erano bugigattoli in lamiera caldi come forni. Erano per lo più abitati da junkie all’ultimo stadio, dimenticati dalle ambasciate e inseguiti senza fortuna dai parenti, per i quali il futuro più prossimo era una sostanza grigiastra derivata dallo sbriciolamento di pastiglie di morfina della Merck, fabbrica tedesca di stupefacenti legali venduti spesso illegalmente. La vulgata raccontava che Peshawar fosse diventata, vai a sapere come, il deposito di infinite scorte di morfina a far data della seconda Guerra mondiale. Costavan nulla e quei ragazzi finivano il loro viaggio esotico cercandosi le vene nel caldo poco mansueto della terrazza del National. Che ne ricordava un’altra, qualche mille chilometri più a Est: quella del Crown Hotel.
Alla fine di Chandni Chowk, nella vecchia Delhi, il Crown aveva la stessa struttura verticale del National. E la stessa fauna. Viaggiatori scandinavi dalle gote rosse e i capelli biondo quasi bianco, junkie francesi che imitavano Duchaussois, sfilacciati britannici dall’aria spiritata che ti raccontavano di questo o quel guru, spacciatori napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurtae pijama(mediati dal costume locale) su cui, col calar dei primi freddi, esibivano maglioncini di cachemire (Made in England però, anche se la lana veniva dall’India). Nuova Delhi, come tutte le città meta di viaggiatori, aveva le sue gerarchie anche nella colonia dei viaggiatori dell’Eden e non era solo una questione di prezzo. Ancora qualche anno fa, dal mio alberghetto di Parganji mi sono avventurato per Chandni Chowk: è lontana dalla luccicante Connaught Place ed è maledettamente sporca come deve essere sempre stata. Ma camminare lungo quella strada, dal Forte Rosso sino alla moschea di Fatehpuri, era ed è un viaggio attraverso tutto l’immaginario indiano: ciabattini musulmani, mendicanti indù, un tempio sikh davanti a un grande fallo shivaita, ricche signore del centro con sari dorati in cerca di braccialetti di vetro, grassi punjabi con capelli unti di gel scarrozzati da paria ansimanti su risciò laccati di rosso, austeri santoni seminudi, vacche sacre accompagnate da topi forse meno nobili ma non meno a loro agio. Adesso, ovviamente, son spuntati anche negozi di high tech ben ingrassati dall’olio di friggitorie di finissimi puri o di polpette di patate. E’ una magia, se vi piace, che nemmeno la Shining Indiadel miracolo economico è riuscita a intaccare.
Ma l’appuntamento vero era a Kathmandu dove la colonizzazione hippy aveva ribattezzato una strada Freak Street, che ancora c’è. Oggi però è un buon posto per contattare e intervistare giovani maoisti ormai integrati nel primo Paese al mondo, dopo la Cina, dove un partito ispiratosi a Mao ha messo mano alla Costituzione. Allora era il ritrovo di giovani maoisti occidentali disintegrati che invece che nella Repubblica popolare cinese erano approdati nel regno dei sovrani Gyanendra del Nepal, conservatori e latifondisti. Lì finiva la grande epopea che si risolveva in un biglietto dell’Air India prepagato da casa. O in un ritorno con epatite, pidocchi e un corpo spaventosamente smagrito a dispetto di un’overdose di sensazioni che ti riempivano l’anima appena raffreddata dal gelo che intanto era sceso su Kabul, in Anatolia o lungo l’Autostrada degli studenticostruita da Tito. E’ che poi quel grande calore dell’anima andava di nuovo riscaldato. Alla Martesana e all’Abanella, sognando il prossimo viaggio. Chi non era ancora partito, abbeverandosi ai racconti che si facevano sogno e desiderio, risparmiava sull’aperitivo per comprare la prima tratta del viaggio all’Eden sino a Istanbul. L’estate prossima. Forse…
Quarant’anni dopo
Cosa ci muovesse allora alla volta dell’Eden non saprei dire: una specie di febbre il cui batterio originario veniva – covato sottopelle dall’epopea dei grandi viaggiatori – forse da lontano o era magari appena nato, si sarebbe detto allora, con i pidocchi che allignavano nelle nostre folte capigliature. Quella febbre era il sintomo di una malattia che attraversava tutta l’Europa e l’intero mondo occidentale che, dagli anni Sessanta in avanti, aveva cominciato a fremere, scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto ribellarsi (Ribellarsi è giusto!Aveva scritto il presidente Mao nel suo Libretto rosso) ci sembrava anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li chiamavamo allora marxianamente “sovrastrutture”) che potevano fermare il nostro desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: famiglia, matrimonio, fabbrica e sacrestia. Era il 1968 quando mi affacciai, forse ancora coi pantaloni corti, alla prima classe del ginnasio del Liceo Carducci di Milano. Ero un po’ tonto e ancora imbesuito dalle tradizioni della borghesia illuminata lombarda cui la mia famiglia apparteneva: le prime ragazze le avevo conosciute alle “lezioni di ballo”, appuntamenti che al sabato, sotto l’occhio vigile di mamme, sorelle e fratelli maggiori, consentivano il contatto furtivo con l’altra metà del cielo con avvicinamenti fisici impacciati e con debita distanza. Il resto era studiare e aspettare le vacanze oppure passeggiare per i negozi del centro aspirando a quel paio di mocassini o a quell’impermeabile. Il ‘68, esploso in tutta la sua potenza negli anni Settanta, fu uno schiaffo, salutare e poderoso, che mi spalancò, oltre all’universo della politica, tutto ciò che una famiglia protettiva ancorché progressista non avrebbe potuto rivelarmi né tanto meno consentirmi. Smisi di studiare, cominciai a guardare le ragazze con meno timore, iniziai a leggere i classici del marxismo e a “bigiare” le ore di lezione per andare al bar di fronte o al parco Lambro a parlare di politica. Ma la politica non era abbastanza. La liberazione che prometteva era la liberazione dalle catene della schiavitù operaia di cui noi avevamo solo la percezione. Nei primi anni Settanta però arrivavano anche altre suggestioni: le rivolte americane, i figli dei fiori, i provosolandesi, gli hippy e, naturalmente, le droghe i cui santoni spiegavano come fossero una via per allargare la coscienza, per guardarsi dentro: per liberare il mondo non solo dalle catene della fabbrica ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana. Perché ognuno potesse guardarsi dentro e, finalmente, liberarsi dal proprio ego. Contemporaneamente si faceva strada la grande suggestione delle filosofie indiane, cammini di liberazione che richiedevano un viaggio a Oriente. Il mio, il nostro Viaggio all’Eden, fu forse figlio di tutto ciò. Andiamo.
Decine di estati dopo è stato il mio lavoro a riportarmi su quella rotta. E la guerra è stata quasi sempre il motivo di frettolose partenze e di nuove meraviglie in un paesaggio Umano e geografico a volte rimasto immutato, altre completamente cambiato quando non stravolto o scomparso. Per ritrovare la strada, il filo che legasse i percorsi di allora a quelli attuali, ho messo dunque assieme gli appunti della mia memoria – e la fascinazione un po’ orientalistica e ingenua che avevamo allora – con gli obblighi del resoconto giornalistico che non dovrebbe cedere né a fascinazioni né a ingenuità. Mi sono aiutato con gli articoli scritti in questi anni ma soprattutto con un meticoloso libretto di viaggio – resuscitatosi un giorno per magia da un vecchio baule – in cui avevo annotato nomi, indirizzi, orari degli autobus e prezzi. Ne vien fuori un viaggio all’Eden contaminato dai ricordi di allora e dalla rivisitazione odierna cui ho aggiunto le code che portavano su altre rotte: Sri Lanka, l’Indonesia, quella che chiamavamo Indocina. A Occidente, il Marocco. E ancora più a Occidente (o più a Oriente se è vero che la geografia è solo un punto di vista) nelle Americhe. In alcuni di questi luoghi son stato da ventenne e da ultracinquantenne. In alcuni invece non ero mai stato. In altri ancora non sono più tornato. In altri, devo ancora andarci….
A differenza del mio primo Viaggio all’Eden, quelli che ne son seguiti, un po’ perché avevo cambiato città un po’ perché il mio lavoro mi aveva sprovincializzato, ho perso quel tratto di milanesità (ben raccontata nel documentario di Felice Pesoli Prima che la vita cambi noi) che forse il lettore di Bologna, di Enna o di Fermo troverà persino insopportabile. I milanesi avevano – e ancora hanno – alcuni tratti adorabili, altri insopportabili un po’ come tutti gli altri italiani per altro, figli orgogliosi delle loro tradizioni comunali che sono il tratto meraviglioso (se uno pensa alla cucina) e al contempo spaventoso (se uno pensa ai razzisti di casa) del nostro Paese. I milanesi sono gran gente (Milan l’è un gran Milan) ma vi guardano sempre il colletto della camicia e se le scarpe son lucide e di marca. Vicino alla città italiana europea per eccellenza, nella capitale morale – dove si sa rubare con maggior maestria che altrove – son tornato oltre quarant’anni dopo per approdare nella mia vecchia casa a Crema che si chiama Ca’ delle mosche, anche se persino le mosche son state uccise da eccesso di diserbanti. A Milano vado raramente e in effetti è il distacco della campagna che mi ha permesso di rimettere ordine nei miei ricordi e di farne un viaggio a ritroso, sospeso tra presente e passato, consapevolezza e incoscienza, stupore e curiosità, una qualità – o un difetto – che non ho perso.
Questi racconti – che in forma assai più ridotta e a puntate sono in parte usciti sul quotidiano il manifesto– sono un omaggio a tutti quelli che fecero quel viaggio, a quanti si limitarono a sognarlo, a chi non lo fece mai e a chi oggi ancora percorre quelle rotte. In altro modo, con altri mezzi. Si dice del resto che il Viaggio all’Eden degli anni Settanta non fosse che il viaggio a ritroso che gli australiani facevano dall’Oceania all’Europa in cerca delle proprie antiche radici. Noi lo facevamo cercando chissà cosa e sapendo, come hanno detto persino gli 883, che la meta di un viaggio è in realtà il viaggio in sé.
Le foto in questa pagina sono di Guido Corradi
Vorrei dedicare queste pagine anche al padrone di una piccola residenza di Kabul – l’Ahmadshai Hotel di Sharenaw – dove ho passato un mese di passione e di fasto con alcuni amici nel 1974. L’ho invano cercato nei miei tanti viaggi nell’Afghanistan stravolto dai talebani, dai mujahedin, dalla Nato, dalle nuove colonie occidentali che i capelli non li portano più a coda ma ben rasati sull’orlo di candidi colletti. Si chiamava Ali e aveva allora vent’anni o giù di lui. Mi spiegò che noi eravamo gli araldi di una «plastic life», destinata a favorire una sana contaminazione tra genti diverse. Non so se avesse ragione ma era una bella idea.
Io poi son tornato a casa. Lui, quarant’anni dopo, non so che fine abbia fatto. Che Allah il misericordioso si prenda cura di lui.

Neo-registi all’opera per l’International Film School Festival di Tetouan

I giovani registi del mondo sono chiamati a partecipare all’International Film School Festival di Tetouan (Marocco) che quest’anno si terrà dal 20 al 24 Novembre 2017. Il Festival Internazionale di Scuole di Cinema (FIDEC) ha come obiettivo principale la promozione di opere di studenti e giovani creativi provenienti da scuole di cinema, università e istituti […]

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Cucina turca: ayran, bevanda salata allo yogurt

Con la ricetta di oggi andiamo in Turchia, alla scoperta di un drink fresco e salato. Con il caldo estivo, abbiamo bisogno di rifornirci dei minerali persi e questa bevanda è un delizioso modo per ristorarci! Ecco come preparare l’ayran! Ingredienti: 500g di yogurt intero bianco 120ml di acqua fredda sale a piacere ghiaccio in […]

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Viaggio all’Eden a Qui Comincia

Stamattina a Qui Comincia (Radio3) è toccato a Viaggio all’Eden finire nelle mani di Attilio Scarpellini. La puntata era dunque dedicata al libro che racconta del mio vecchio viaggio dall’Italia a Kathmandu. Sono davvero contento di questo risveglio

Qui la pagina dei podcast per riascoltare le trasmissioni del programma

Qui Comincia si avvale della regia e della consulenza musicale di Federico Vizzaccaro. Attilio Scarpellini (nella foto) è il suo conduttore storico

Viaggio all’Eden: un libro a chilometro molti zeri

Un viaggiatore di lungo corso, per passione e per lavoro, ricorda la rotta degli anni Settanta per Kathmandu: il Grande Viaggio in India fatto allora da ragazzo e ripercorso poi come giornalista a otto lustri di distanza. Il libro, un lungo racconto del percorso che portava migliaia di giovani a Kabul, Benares, Goa fino ai templi della valle di Kathmandu, si destreggia tra gli appunti presi allora su un quadernetto riemerso dalla polvere, esercizi di memoria e il confronto con le inevitabili trasformazioni di quei Paesi che, terminata l’epoca della Guerra fredda, sono stati attraversati da conflitti e anche da una nuova orda di invasori: i turisti che, dopo il Viaggio all’Eden dei frikkettoni, seguirono quella pista preferendogli però alberghi lussuosi e viaggi organizzati con tutto il bene e il male che ciò comporta.
Il registro narrativo è doppio: c’è il ricordo tratteggiato con leggerezza e ironia tra droghe, sesso libero e scoperta di nuovi paesaggi e una zona d’ombra più riflessiva su cosa vuole dire “viaggiare” e sulla guerra. Libro godibile da chi aveva vent’anni allora, chi quel viaggio non ha mai fatto e chi ancora vorrebbe farlo.  


VIAGGIO ALL’EDEN
Il volo magico sino a Kathmandu nei ruggenti Settanta e quarant’anni dopo
Emanuele Giordana
Laterza
pp 115
euro 16.00
Uscita 6 Luglio 2017

The Palestine Expo: il più grande evento europeo sulla Palestina

(Baraka Bits). Si inaugura domani a Londra l’evento Palestine Expo, definito il più grande evento sociale e culturale sulla Palestina realizzato in Europa. Segnando i 100 anni dalla Dichiarazione Balfour, dopo 50 anni di occupazione palestinese e a 10 anni dall’inizio dell’assedio di Gaza, la Palestine Expo esprime in maniera simbolica le potenzialità della Palestina. L’evento […]

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A Napoli la tappa conclusiva di “Mediterraneo: fotografie tra terre e mare”

È stata inaugurata a Napoli, al Castel dell’Ovo il 28 giugno alle ore 17, la tappa conclusiva della rassegna “Mediterraneo: fotografie tra terre e mare” edizione 2017, realizzata in collaborazione con l’Assessorato al Turismo e alla Cultura del Comune di Napoli. Nella cornice del Castel dell’Ovo, fino al 17 luglio alla Sala delle Terrazze, saranno in […]

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Una guerra molto speciale

Forze speciali. E’ questa la parola chiave che d’ora in poi si dovrà tenere a mente pensando

all’Afghanistan: una nuova fase della guerra affidata appunto a soldati “speciali”, coadiuvati da raid aerei per operazioni mirate. Gli operativi delle forze speciali – afgane, americane, britanniche o italiane – sono già attivi in Afghanistan e presto saranno in buona compagnia. Stando a quanto ha appena dichiarato il segretario generale della Nato a Bruxelles, promettendo l’impegno di “migliaia” di nuovi soldati dell’Alleanza con gli “stivali sul terreno”, il nuovo mantra sarà forze speciali per operazioni speciali. Di che tipo?

Una luce recente l’ha gettata il britannico Sunday Times che per ora smentite non ne ha ricevute. Secondo il giornale domenicale un’unità dello Special Air Service (Servizio Aereo Speciale), noto anche come Sas – il principale corpo speciale dell’esercito britannico – avrebbe ucciso afgani civili – innocenti e disarmati – nascondendo poi i dettagli dell’operazione per evitare una possibile accusa di crimini contro l’umanità. Sotto la lente di ingrandimento della Polizia militare britannica, che sta indagando oltre una cinquantina di casi, ci sarebbe in particolare un episodio del 2011 nel quale, durante un raid notturno, le forze speciali avrebbero ammanettato e incappucciato i membri di una famiglia dell’Helmand ritenuta talebana prima di sparare. Sparare per uccidere. L’indiscrezione, confermata poi da altri giornali del Regno unito, riferisce di un capitolo nelle carte dell’Operation Northmoor: creata nel 2014, ha il compito di redarre un rapporto classificato preparato dagli investigatori della Royal Military Police che inizialmente avrebbe iniziato a indagare su episodi controversi accaduti tra il 2010 e il 2013 anche se pare che l’indagine avrà comunque un seguito sino al 2021, pur se la maggior parte del lavoro dovrebbe essere completo entro l’estate. Grave tanto quanto la strage sarebbe proprio il fatto che le Sas avrebbero poi nascosto o artefatto lo scenario del killeraggio per farlo apparire in carico ai colleghi afgani. Un esempio perfetto di collaborazione interforze. I raid notturni furono tra l’altro tra i grandi contenziosi tra le forze occupanti e l’amministrazione Karzai.


Nella Gran Bretagna di Theresa May, che ha già promesso l’invio di nuove truppe sul terreno con la Nato, Jeremy Corbyn ha detto di tenere in “seria considerazione” la notizia augurandosi che si faccia piena luce in un caso sul quale chiede anche una commissione indipendente. Dobbiamo temere che la cosa si possa ripetere. Qualche giorno fa, a fine giugno, il segretario generale della Nato Stoltenberg – in occasione di un summit dell’Alleanza – ha confermato che Bruxelles manderà sul terreno “migliaia” di nuovi soldati. Numeri non ne ha fatti ma in compenso ha spiegato che “La Nato ha concluso le operazioni combat” ma che i suoi soldati “continueranno ad aiutare i colleghi afgani”. Come? “Rafforzando le forze speciali afgane”.

Incursori del Col Moschin.
Sopra, i badge di riconocimento Usa e GB

A metà luglio il Pentagono dirà quanto soldati manderà in Afghanistan (da 3 a 5mila). Un numero “esiguo” se paragonato ai 130mila (60mila erano Nato di cui 4mila italiani) che persero la guerra prima di ritirarsi nel 2014. E’ dunque probabile se non certo che la nuova sarà una strategia molto mirata: raid aerei – di cui è stato un assaggio anche l’ormai famosa “Madre di tutte le bombe” – e operazioni speciali con forze speciali non solo afgane. Inoltre, la nuova strategia prevede carta bianca al Pentagono e maggior autonomia dalla catena di comando nazionale afgana. Per quella data anche il governo italiano dovrà dire se e quanti uomini vuole mandare. Lo chiederà come dovrebbe al parlamento? Chiederà al Paese se siamo disposti ad “aiutare” i colleghi afgani e americani? O conterà sulla pausa estiva? E le forze speciali? Quelle italiane già ci sono da tempo e vanno per conto loro. Sono così speciali che vengono temute anche dai colleghi “ordinari”. Che, quando passano gli speciali, si devono fare da parte senza fare domande.

Meno uno

VIAGGIO ALL’EDENTra oggi e domani in libreriaLaterza edizioniDettagli a seguire…..

Non c’è accanimento ove non c’è terapia: Charlie Gard

mcc43 Chi ha per primo lanciato il “basta con l’accanimento terapeutico” forse non sapeva che perché esista un troppo, deve prima esserci qualcosa. Per la malattia di Charlie Gard: sindrome da deplezione del DNA mitocondriale encefalomiopatica (MDDS) non c’erano e non ci sono terapie che i medici del Great Ormond Street Hospital for Children abbiano […]

T-shirt e scarpe dell’altro mondo

Non sempre la filiera tra i grandi marchi della moda e i Paesi poveri è così diretta. Un maglietta made in Bangladesh può essere tessuta con cotone uzbeco. E il cuoio di una scarpa prodotta in Cambogia può arrivare da Dacca. Viaggio nella catena nascosta di un’industria che nasconde bene anche il dolore

Il “palazzo rosa” simbolo del potere del Nawab di Dacca
Oggi è un museo. Poco più a Nord i quartieri produttivi
di Kamrangirchar e  Hazaribagh. Sversano nel Buriganga

Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile. C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del “nababbo” (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno porta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta. Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o adAshulia, distretti suburbani industriali. Ma in pieno centro c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta. A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che «la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie…». Dice Deborah Lucchetti della campagna “Abiti Puliti”: «Le nostre inchieste mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, può portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica».



Mercato globale

Il paradosso è che la materia prima – cotone o cuoio – non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo. E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino. Uno dei grandi produttori mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. E’ una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale. Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia. Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan.

Cotone uzbeco

Un rapporto di Human Rights Watch mette sotto accusa svariati milioni di dollari concessi dalla Banca Mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiutare lo sviluppo. Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier “We Can’t Refuse to Pick Cotton” Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno). Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione – oltre 300 milioni di dollari – nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran. In quelle zone, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca Mondiale lo sa perché un gruppo misto – Uzbek-German Forum for Human Rights – glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, BM li ha allargati. Per la verità anche la Banca sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare. Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano “progressi”. Ma gli attivisti di Hrw fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre) ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che «…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande”.

Secondo Hrw la Banca Mondiale e Ifc (International Finance Corporation, un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato.

Scarpe e tessuti in Cambogia

Passiamo alla Cambogi. Qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la Ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation. Solo nell’ultimo anno più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore. I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico.

Reggiombrelli

Questa foto è stata scattata alla Fonderia Abruzzo, la due giorni all’Abbazia di Sulmona organizzata dal governatore Luciano D’Alfonso “per dare una programmazione alle idee per lo sviluppo dell’Abruzzo”, dice il quotidiano Il Centro. Tavola rotonda finale. Tutti uomini. Tavolo monogenere. Nessuno avrebbe notato l’assenza di una donna, competente come ne esistono tante. I tavoli monogenere, tuttiContinua a leggere

Jerusalem Without God is out!

  I am glad to share with you the news that my book on Jerusalem is available in the North American bookstores. A first-hand account on the city’s political, social, human, urban situation, Jerusalem Without God highlights the political need by the international community to face the facts on the ground and change the paradigm.Continua a leggere

Cucina iraniana: bastani, gelato allo zafferano, acqua di rose e pistacchi

L’estate è ormai scoppiata e con questo caldo cosa c’è di meglio di un bel gelato? Ecco una ricetta che viene dalla Persia, dove nel 400 a.C. alcuni ingegneri inventarono una bibita rinfrescante – la sharbat – che è diventata la base di quello che oggi conosciamo come ‘gelato’. Oggi, vi proponiamo una delle ricette più […]

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