Mese: febbraio 2014

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

 

 

 

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

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Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

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L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

L’altra foto di Yarmuk

La fotografia di una folla infinita che si accalca per ricevere gli aiuti alimentari forniti dalla UNRWA nel campo dei profughi palestinesi di Yarmuk ha fatto il giro del mondo.Il campo è lì, a pochi chilometri dal centro di Damasco, dal …

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Egitto, premier annuncia in tv le dimissioni del governo: “Missione compiuta”

L’annuncio è arrivato oggi dal Primo Ministro, Hazem Beblawy, alla tv di stato. Il governo egiziano ha presentato le dimissioni al presidente Adly Mansour. La decisione è arrivata dopo una riunione del gabinetto questa mattina durata appena 15 minuti. “Presentiamo le nostre dimissioni perché la prima fase della transizione democratica dopo la deposizione di Morsi […]

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Orientalismo recursivo

Nella foto, scattata in Libia e reperita su Facebook, un “tuareg” mostra di “riconoscersi” in una Volkswagen Touareg.Siamo al centro di un incontro di immaginari di cui a molti sfuggirà il contorno.Una casa automobilistica tedesca intitola una s…

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Corso di arabo avanzato

I nostri corsi prevedono ora un livello in più! Il corso di arabo avanzato è strutturato sulle esigenze dei singoli partecipanti. Gli interessati possono avere un colloquio gratuito con l’insegnante per valutare insieme le diverse conoscenze: alla fine sarà  elaborato un programma che tiene conto della preparazione di ogni singolo studente, senza tralasciare nulla: grammatica, […]

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MARCO ALLONI – Renzismo e matteologia

Tutto si può dire degli italiani tranne che non abbiano una chiara propensione alla teologia. Dopo un ineffabile “unto del Signore” siamo oggi alla “matteologia”. Non che le affinità attengano al solo aspetto teologale, ma questo la dice lunga su quanto l’attesa messianica sia ancora e sempre un passo avanti alla politica.
Come per ogni […]

MARCO ALLONI – Renzismo e matteologia

Tutto si può dire degli italiani tranne che non abbiano una chiara propensione alla teologia. Dopo un ineffabile “unto del Signore” siamo oggi alla “matteologia”. Non che le affinità attengano al solo aspetto teologale, ma questo la dice lunga su quanto l’attesa messianica sia ancora e sempre un passo avanti alla politica.
Come per ogni […]

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Tutto si può dire degli italiani tranne che non abbiano una chiara propensione alla teologia. Dopo un ineffabile “unto del Signore” siamo oggi alla “matteologia”. Non che le affinità attengano al solo aspetto teologale, ma questo la dice lunga su quanto l’attesa messianica sia ancora e sempre un passo avanti alla politica.
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Marocco. L’oro rosso non fa la felicità.

Marocco. L'oro rosso non fa la felicità.

Jacopo Granci, per OsservatorioIraq ha realizzato un reportage sulle vie dello zafferano in Marocco.

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale. Reportage.

La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lozaʻfrān (termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

QUALCOSA CHE STONA

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

LO ZAFFERANO NON BASTA

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un anticomarabut (santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrānha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

IL GOVERNO FA PROMESSE..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrān era sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

GLI INTERMEDIARI

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’EMARGINAZIONE AUMENTA L’IMPOTENZA

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

Il nostro viaggio sulle tracce dello zafferano marocchino prosegue… clicca qui per vedere la fotogallery.

 

14 Febbraio 2014

di: 

Jacopo Granci (testo e foto) da Rabat

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    Egitto, torna violenza contro i turisti stranieri. Ma i tour operator sono ottimisti

    L’opinione degli analisti sulla bomba esplosa in un autobus di turisti questo pomeriggio a Taba sembra unanime: si tratta di un punto di svolta per le azioni terroristiche che stanno colpendo l’Egitto dalla deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi, avvenuta lo scorso 3 luglio. Infatti, dall’inizio della repressione da parte dei militari contro i Fratelli […]

    L’articolo Egitto, torna violenza contro i turisti stranieri. Ma i tour operator sono ottimisti proviene da Il Fatto Quotidiano.

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    Poesie contro l’oblio. Letture poetiche per Mahmoud Darwish

    Il 13 marzo in 11 città italiane si svolgerà un reading collettivo delle poesie del poeta palestinese Mahmoud Darwish per sensibilizzare il pubblico italiano sulla “scomparsa” dei libri di poesie di Darwish dagli scaffali delle librerie italiane (ma per fortuna non da quelli delle biblioteche) da quando la principale casa editrice che li pubblicava, la […]

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    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    Tunisia : uno Stato impoverito dal Fondo Monetario Internazionale.

     Il blog giornalistico ” Essawt ” torna, dopo quasi un anno di innatività, a riportare notizie riguardanti la situazione politico-economico sociale della Tunisia post primavera araba. 

    Mehdi Joma’a, primo ministro tunisino

    In seguito alle dimissioni del premier islamista Ali Laryaedh, il presidente della repubblica tunisina Moncef Marzouki incarica l’ex ministro dell’industria Mehdi Joma’a di formare un governo tecnico non eletto dal popolo. E mentre le emittenti tunisine festeggiano la nuova costituzione tunisina e il nuovo governo tecnico, il governatore della banca centrale della Tunisia, Chadli Ayari, annuncia che il Fondo monetario internazionale ha appena sbloccato 506 milioni di dollari di prestiti al paese magrebino attraversato da una grave crisi politico-finanziaria. Ma vediamo qual’è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale nella politica economica del piccolo paese nordafricano. Vi riportiamo un articolo dell’economista canadese Michel Chossudovsky. 

    Michel Chossudovsky

    Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore. 
    Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.

    Ma Ben Ali non era un “dittatore”.  I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
    L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. 

    Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.  
    Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
    Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
    Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
    La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.

    Il movimento di protesta.

    Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
    Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
    Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
    La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
    Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

    Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
    Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

    Cenni storici.

    I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
    La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

    Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
    «Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)

    In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
    L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
    Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
    Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.

    Chi è il dittatore?

    Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
    A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.

    L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

    Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
    «Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
    http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

    Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.

    «I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
    Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

    La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
    Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
    La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
    I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
    Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
    http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

    Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

    Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

    «I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
    Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

    Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.

    Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

    Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
    Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):

    «La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
    L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani». (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)

    Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
    Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

    La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
    Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

    Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria»

     Di Michel Chossudovsky

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    MARCO ALLONI – La grande moschea di Milano e l’insidia del pensiero univoco

    Permettere ai Fratelli musulmani di contribuire alla nascita di una grande moschea a Milano è pura scelleratezza. Ciò che la giunta Pisapia confonde con un atto libertario è infatti la negazione di quel principio di relativismo che contraddistingue la sinistra europea dal suo nascere. È sul crinale fra tolleranza e intransigenza che si fonda lo […]

    Modello di sviluppo e dinamica di riorganizzazione delle imprese italiane nella Tunisia post-Ben Ali

    Modello di sviluppo e dinamica di riorganizzazione delle imprese italiane nella Tunisia post-Ben Ali

     

    L’Istituto di ricerca sul Maghreb contemporaneo (IRMC) è un centro di ricerca di scienze sociali con sede a Tunisi. Recentemente ha pubblicato uno studio sui modelli di sviluppo e di riposizionamento delle imprese italiane in Tunisia. Seguono tre quesiti che chiariscono meglio la situazione socio-economica attuale.

     

     

    Perchè la Tunisia è attraente per gli investitori italiani ?

     

     

    La presenza di imprenditori italiani in Tunisia risale agli anni 1980. La legge 72 supporta l’apertura del paese verso l’investimento straniero favorendo in modo particolare le imprese off-shore che possono beneficiare di un esonero dalle imposizioni fiscali per 10 anni.

     

    La presenza di piccole e medie imprese locali del settore tessile e dell’abbigliamento da più di 30 anni fa della Tunisia un paese attrattivo con una manodopera a basso costo.

     

    Le imprese italiane del tessile scelgono le loro sedi secondo una logica di prossimità (logistica: hangar, aeroporto, porto, rete stradale efficiente) e la qualità della vita (cioè vivere secondo uno standard occidentale). Queste aziende sono localizzate sulla costa (Grand Tunis e Sfax) come gli impianti dell’industria tunisina con una concentrazione rilevante a Monastir, per la presenza storica di Benetton e nel Cap Bon per la presenza di un ricco tessuto di imprese del settore (Lainati, 2002).

     

    La piattaforma produttiva è tra i sistemi i sistemi industriali il più diffuso nel settore tessile. Si tratta di una forma di organizzazione produttiva che struttura la produzione in rete. Le differenti fasi della produzione sono condivise tra più imprese esterne. Questa rete è dinamica grazie alla presenza di subappaltanti flessibili selezionati in basa a: specializzazione tecnica, il tipo di comanda, il periodo di produzione (periodo di calo e di pieno) e la fiducia stabilita nel tempo.

     

     

     

    In cosa la rivoluzione ha influenzato la strategia imprenditoriale italiana del settore tessile-abbigliamento?

     

     

    Il14 gennaio 2011 è stato un momento di rottura, ma le grandi imprese italiane restano in Tunisia perchè il paese continua ad offrire, per il momento, dei vantaggi nella produzione : manodopera a basso costo e agevolazioni fiscali. Inoltre le grandi marche del tessile possono contare su altri siti di produzione, ad esempio il Marocco dove possono orientare le comande nel caso di problemi con le imprese tunisine.

     

    La situazione delle piccole e medie imprese è varia. Alcuni continuano la loro produzione in Tunisia, restando comunque vigilanti sulle condizioni locali e mondiali; altri sono rientrati in Italia per riorganizzare la loro attività produttiva in altri paesi come la Romania, la Serbia e la Macedonia. Altri ancora sono falliti o hanno chiuso la loro attività per beneficiare nuovamente dei 10 anni di esonero dalle imposte. Nonostante alcuni problemi iniziali la situazione si è stabilizzata qualche mese dopo la Rivoluzione.

     

    I cambiamenti più importanti si sono rilevati a livello di relazioni di lavoro all’interno della azienda, con un aumento di rivendicazioni da parte degli operai che ha messo in crisi la posizione di potere incondizionato dell’imprenditore straniero. Ovunque si sono verificati degli scioperi, vietati prima della Rivoluzione. Queste rivendicazioni hanno portato ad un aumento dei salari, domande di titolarizzazione ed ad una accrescimento della stabilità di lavoro in azienda.

     

    Il potere degli imprenditori verso gli operari è ugualmente diminuito per la diminuzione della manodopera. Questa penuria è dovuta all’emigrazione dei giovani all’estero o nelle grandi città. Questo implica un forte turn-over e il “furto” degli operai specializzati da parte di altri imprenditori.

     

    A livello di relazioni tra le differenti imprese vi è anche una crescente precarietà e dei ritardi nei pagamenti. Queste difficoltà hanno indebolito le relazioni di fiducia tra imprenditori che hanno reagito diversificando la loro produzione, aprendo più filiere alla volta e accettando anche piccole comande che prima preferivano rifiutare. E’ una strategia per diminuire il rischio di insolvenza nei pagamenti. Queste reazioni hanno permesso l’ispessimento della rete locale perché la prossimità garantisce una migliore possibilità di controllo sul lavoro degli altri.

     

     

     

    « Made in Italy » o « Made in Europe ? »

     

     

    Con l’ingresso della Romania nell’UE nel 2008 e l’aumento dei costi di produzione, il flusso di produzione tessile italiano, sviluppato lungo la frontiera europea (Scroccaro, 2012), si dirige verso la riva Sud del Mediterraneo (Alaimo, Pasquato, 2008). Queste reti e il flusso tra le rive Nord e Sud del Mediterraneo fanno emergere spazi economici circolari (Tarrius, 1993 ; Peraldi, 2005).

     

    Questi spazi circolari sono alimentati dalle reti e dai flussi transmediterranei di materie prime e di prodotti, di capitali, di tecnologie, di competenze e di risorse umane (circolazione e trasferimento di tecnici). L’emergere di queste reti trans mediterranee e dunque di spazi circolari può essere ben illustrato dall’impresa Modin che abbiamo incontrato a Cap Bon e la cui produzione è divisa tra Italia,Tunisia e Romania.

     

    Questa “triangolazione” della produzione fa ormai emergere delle piattaforme produttive e logistiche che collegano l’ovest dell’Europa, i PECO (Paesi dell’Europa Centro-Orientale) e il Maghreb. Queste nuove reti trans mediterranee di produzione rispondono ai cambiamenti dell’economia mondiale, dei modi di produzione (dalla concezione del prodotto alla logistica) e del consumo (sempre più stagionale e “just in time”).

     

    La produzione « made in Italy » è allora esplosa ed è stata reinventata dalla rottura del legame diretto tra prodotto e luogo di produzione, perché ormai si passerà finalmente dal « Made in Italy » al « Made in Europe », come sottolineava l’imprenditore di Modin per indicare l’importanza di produrre in uno spazio di prossimità con l’UE.

     

     

     

    Traduzione dal francese di Valentina Arnò

    Fonte: Angela Alaimo, Michele Coletto, Alessandra Scroccaro, « Modèle de développement et dynamique de redéploiement des entreprises italiennes dans la Tunisie post-Ben Ali », Le Carnet de l’IRMC,  http://irmc.hypotheses.org/1368

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      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco. La filosofia scende in piazza

      Giovani, studenti, ma non solo. Sono i protagonisti di un’iniziativa inedita nel regno, “L-filsafa f-zanqa”, che fa appello al “risveglio della coscienza e al consolidamento del pensiero libero”.

       


      Ogni settimana, dall’agosto scorso, ragazzi e ragazze della capitale si danno appuntamento in centro per discutere e confrontarsi su autori, opere e concetti di natura filosofica. O più semplicemente per leggere e scambiare impressioni.

      Ecco allora che Dostoevskij e Nietzsche sono il punto di partenza con cui affrontare la “moralità dell’uomo”, per poi passare ad altre tematiche quali la natura dello Stato, il sistema politico, la religione, la laicità, il libero arbitrio..è L-filsafa f-zanqa, “la filosofia in strada”, un’iniziativa nata da alcuni studenti di Rabat che hanno sentito la necessità di aprire uno “spazio di espressione libera dove la parola è accessibile a tutti”.

      Seduti in cerchio nei prati della ville nouvelle, spesso circondati da passanti incuriositi, ascoltano le parole del moderatore che introduce la seduta e poi dichiara aperta l’agora.

      L’idea, ammettono gli organizzatori, riprende il modello già sperimentato in Francia dell’università popolare di filosofia, lanciato dall’umanista Michel Onfray per far uscire una materia ritenuta elitaria dalla rigidità del contesto accademico.

      In Marocco l’iniziativa è mossa da un’esigenza ancora più forte, dal momento che l’insegnamento umanistico era praticamente scomparso dalle facoltà – su decisione del vecchio re Hassan II – e solo negli ultimi anni sembra aver fatto un timido ritorno.

      E’ per sopperire alle lacune dell’apparato scolastico che l’Uecse – l’Union des étudiants pour le changement du système éducatif, movimento universitario nato dalle ceneri del “20 febbraio” e della “primavera marocchina” – ha deciso di prendere in mano la situazione e di aggirare l’ostacolo, portando la filosofia (più in generale l’arte e la cultura) direttamente in piazza, alla portata di tutti. Con risultati sorprendenti.

      In pochi mesi, infatti, L-filsafa f-zanqa è uscita dal circolo ristretto della capitale ed è diventata un appuntamento nazionale. Raduni e incontri pubblici si moltiplicano in tutto il territorio, da Casablanca a Marrakech, da Ouarzazate a Tangeri, fino alle lontane Tiznit e Al Hoceima.

      A rompere il ghiaccio sono quasi sempre studenti universitari, membri dell’Uecse, ma le adesioni ai gruppi di discussione si fanno via via più diversificate. Alunni delle superiori, professori, impiegati e perfino disoccupati sono sempre più interessati all’iniziativa. Una conferma che “la filosofia riguarda tutte le fasce sociali, è alla base del vivere comune e della formazione di una coscienza critica, cosa di cui c’è estremo bisogno nel paese”, afferma Nabil Belkabir, uno degli iniziatori.

      Se la risposta “popolare” comincia a farsi sentire, non si è fatta attendere quella delle autorità, che non sembrano molto apprezzare la libertà di parola e di pensiero – o almeno la loro esibizione pubblica, su temi spesso considerati tabù – praticata dai giovani filosofi.

      Intimidazioni e sgomberi hanno accompagnato gli studenti fin dai primi appuntamenti. “In un’occasione, a Ouarzazate, un funzionario di governo si è avvicinato ad una ragazza dicendole: « piuttosto che a leggere, pensa a sposarti! »”, racconta Hamza Mahfoud. “A volte gli agenti ci costringono a partire, sotto la minaccia dell’arresto, perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura. E questo nonostante la costituzione garantisca il diritto di riunione..”.

      Non c’è paura nei loro sguardi o nelle loro parole. Nessuna intenzione di cedere. Anzi, il movimento universitario – che si dichiara indipendente da influenze partitiche o ideologiche – ha deciso di rilanciare, promuovendo nuove azioni di “disobbedienza culturale”. Sulla stessa linea di L-filsafa f-zanqa le iniziative “un’ora di lettura” e “la lettura per tutti”: decine di ragazzi, un libro in mano, occupano silenziosamente alcuni degli spazi urbani più frequentati (come place des Nations Unies a Casablanca), oppure improvvisano flashmob di fronte alle sedi istituzionali e nei vagoni del tram. Apertura mentale e conoscenza le parole d’ordine.

      La vitalità del movimento studentesco fa da contrappeso ad un sistema di istruzione globalmente in agonia. Il rapporto mondiale sull’educazione, pubblicato dall’Unesco pochi giorni fa, è un duro atto d’accusa in questo senso.

      Il documento posiziona il Marocco agli ultimi posti della classifica (143° su 164 paesi) e traccia un quadro preoccupante della situazione: il tasso di scolarizzazione è fermo al 58%, quello di pre-scolarizzazione e di alfabetizzazione adulta sotto i livelli minimi. Non meno critica la valutazione sulla qualità dell’insegnamento offerto, già sottolineato da un precedente rapporto della Banca Mondiale, che punta il dito sulle carenze registrate in ambito linguistico e scientifico dagli alunni del regno.

      Tra le raccomandazioni dell’Unesco a Rabat, quella di destinare un maggiore investimento pubblico all’istruzione (5,4% del Pil, contro il 10,9 della media europea), un invito che sarà probabilmente disatteso a causa dei tagli nel settore annunciati dall’esecutivo, alle prese con una sensibile aumento del debito.

      “Impossibile, e forse irrealistico, pensare ad un confronto aperto con il governo o con il ministero. Fino a pochi giorni fa l’Uecse non aveva nemmeno un riconoscimento formale”, è il commento di Nabil Belkabir. “Fondamentale, dal nostro punto di vista, è che gli studenti acquisiscano consapevolezza del sistema in cui si trovano inseriti. Delle sue mancanze e degli strumenti a loro disposizione per tentare di porvi rimedio. L’filsafa f-zanqa o le altre iniziative parascolastiche sono un primo passo per cercare di smuovere le coscienze e cambiare la mentalità”.

       

      Qualche domanda a..

      Ghassan Wali, giornalista, tra i fondatori del gruppo universitario Conscience estudiantine.

       

      Ghassan, oltre ad avere un notevole esperienza quanto ad attivismo studentesco, hai partecipato ad alcune delle ultime agora del collettivo L-filsafa f-zanqa. Raccontaci un po’ come si svolgono gli incontri..

      Prima dell’evento, il movimento Uecse avvia una campagna informativa via web e all’interno dei licei e delle facoltà. Di solito la seduta inizia con un moderatore che presenta il tema del giorno e poi lo spazio è lasciato ai singoli interventi dei partecipanti, che apportano la loro visione, i loro dubbi, le loro perplessità.

      A volte capita che non ci sia molta conoscenza pregressa e solo una parte dei presenti riesce ad arricchire il dibattito con riferimenti bibliografici. Ma forse il bello è anche questo. Da un lato dimostra le enormi lacune del nostro sistema di istruzione, dall’altro permette a tutti di poter intervenire e prendere parte agli incontri senza “timori reverenziali”.

      In fondo si tratta di uno spazio aperto di riflessione. Una sorta di educazione civica autorganizzata, non un confronto sui massimi sistemi.

       

      Da dove nasce il bisogno di portare in piazza la filosofia?

      Dall’esigenza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di costruire un proprio bagaglio culturale. Gli studenti hanno capito che è arrivato il momento di prendersi da soli quello che la scuola e l’università non possono – o non vogliono – offrire. C’è la necessità di definire concetti, ad esempio la laicità, comunemente ed erroneamente assimilata all’ateismo nella nostra società.

      Io ho studiato alla facoltà di Economia e non ho mai avuto un corso di filosofia. Eppure sappiamo tutti le interconnessioni che vi sono tra la sfera del pensiero economico e quello filosofico.

       

      La filosofia in particolare ha una storia travagliata nelle università marocchine..

      Ad inizio anni ottanta il Ministero dell’Istruzione, quindi il regime di Hassan II, ha eliminato i dipartimenti di filosofia, sociologia e psicologia dalle università. Le Scienze Umane sono scomparse e al loro posto hanno trovato spazio i corsi di Studi Islamici. Si è trattato di una manovra politica, che ha minato la formazione dei cittadini per decenni.

      All’epoca, i movimenti di sinistra e sindacali erano forti e ben radicati nell’università. Eliminare la filosofia per far posto al pensiero islamico significava erodere terreno alla contestazione, agli oppositori. Allo stesso tempo il movimento islamico si è rafforzato e ha preso lentamente il posto dei marxisti e dei trozkisti, soprattutto nelle facoltà di Lettere e nei campus annessi, storicamente bastioni della sinistra. E’ stato come imporre il culto dell’obbedienza al posto del libero pensiero, della riflessione critica.

      Gli insegnamenti umanistici sono poi riapparsi una decina di anni fa con la riforma dell’insegnamento superiore. Ma sono superficiali, al massimo offrono nozioni, e ormai hanno perso attrazione perché non garantiscono sbocchi lavorativi.

       

      Che cosa rappresenta l’Uecse nel panorama della contestazione sociale e politica del paese?

      E’ una risposta alla mancanza di una vera rappresentanza studentesca, legittima e riconosciuta, in seno alle università e nella società. Lo storico sindacato degli studenti, l’Unem (Union nationale des étudiants marocains, nda), è formalmente vietato dagli anni settanta, più o meno per la stessa ragione per cui furono vietati gli insegnamenti umanistici. Del resto erano gli “anni di piombo”..

      Nei campus si è lottato per anni per affermare una supremazia ideologica tra islamisti e studenti di sinistra, a tutto vantaggio del regime che è riuscito ad annientare una potenziale categoria contestataria. L’esperienza del 2011, il “20 febbraio”, ha reso evidente il bisogno di ricucire, o almeno di aggirare, le divisioni interne che hanno frenato a lungo il peso e la voce degli studenti.

      L’eredità del “20 febbraio” è evidente nel sistema di democrazia interna e di rappresentatività orizzontale con cui è organizzato il movimento. Perfino nella scelta strategica della disobbedienza civile pacifica e dell’utilizzo della cultura come contro-potere o come alternativa al blocco imposto dalle autorità.

       

      Come hanno sottolineato i recenti rapporti dell’Unesco e della Banca Mondiale, non è solo la disciplina delle scienze umane ma tutto il sistema di insegnamento ad essere messo in discussione. Quali sono, secondo te, i problemi più gravi?

      La riforma dell’insegnamento avviata a fine anni ’90 è stata fatta, almeno sulla carta, per adeguare l’offerta formativa al mercato del lavoro. Questo l’alibi con cui sono proliferate scuole, istituti, corsi professionalizzanti di breve durata, sovvenzionati dallo Stato anche nel caso dei privati, prevalentemente incentrati su marketing e commercio.

      Non è istruzione, questa, ma una fabbrica di automi che sognano di creare aziende – perché questo gli viene detto a lezione – e si ritrovano, nel migliore dei casi, a fare part time nei call center. Non a caso il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, è rimasto invariato nell’ultimo decennio.

      Ma il problema, oltre alla ristrettezza di una simile offerta, sta a monte. Non c’è la volontà di adeguare l’istruzione alla crescita e ai bisogni dell’individuo. La qualità dell’insegnamento è bassa, mancano mezzi, laboratori, risorse.

      Il costo degli studi superiori è eccessivo, soprattutto visto il blocco dell’ascensore sociale: gli studi non garantiscono più un posto di lavoro e un livello di vita adeguato ai sacrifici fatti, e molti finiscono per abbandonare o rinunciare. Chi può permetterselo, invece, va all’estero o studia nelle scuole francesi ancora presenti nel paese. E il fossato che si scava tra le classi si fa sempre più ampio.

       

      Tra gli aspetti evidenziati dai rapporti degli organismi internazionali c’è l’assenza di attività parascolari, fondamentali per incentivare interesse e curiosità soprattutto durante la scuola dell’obbligo. Parlaci un po’ della tua esperienza..

      Ho constatato un fatto. Anche nelle migliori filiere formative, ad esempio quella di ingegneria, le persone escono dal loro percorso e non conoscono altro che il loro mestiere. Si ritrovano disconnessi dalla realtà. Personalmente credo che oltre al saper fare, un individuo debba essere fornito del “saper essere”, il sapersi collocare nella società, nel mondo.

      Il rapporto dell’Unesco non sbaglia. Attività come musica, teatro, disegno sono praticamente assenti. Ricordo che alle elementari avevamo un piccolo corso di educazione artistica. Quello che ci hanno imparato è saper disegnare un musulmano in maniera differente da un miscredente, oppure saper riprodurre delle miniature di citazioni coraniche. Questa non è educazione artistica, ma lobotomia.

      Qualcosa sta cambiando, lo vedo con le mie sorelle più piccole. Ma in generale l’incentivo alla conoscenza, all’arricchimento culturale non vengono prese in considerazione, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi in qualche maestro o insegnante appassionato e considerato dagli altri “poco ortodosso”.

       

      (articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Marocco, abolito il “matrimonio riparatore”. Un passo nella giusta direzione, ma..

      Il 22 gennaio scorso la camera bassa del regno alawita, dopo l’avallo dei Conseillers e del governo, ha votato per l’abrogazione del comma 2 dell’art. 475 del codice penale. Secondo l’articolo in questione, l’autore di violenza su una minore rischiava fino a cinque anni di prigione, ma poteva evitare la condanna sposando la sua vittima.

       

      Come successo alla giovane Amina Filali, sedicenne, che nel marzo del 2012 si è tolta la vita a causa del calvario quotidiano impostole dal “matrimonio riparatore” (una misura che l’ordinamento marocchino ha recepito dai vecchi codici francesi e non dalla tradizione giuridica islamica, contrariamente a quanto affermato dalla stampa occidentale).

      Il caso di Amina, sopraggiunto in momento di forti contestazioni sociali e politiche nel paese, aveva suscitato enorme scalpore e aveva dato vita ad un movimento di protesta guidato dalle associazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti umani.

      Manifestazioni e sit-in di fronte al Parlamento a cadenza regolare si sono protratte per mesi per chiedere la revisione di un codice penale ritenuto arcaico e altamente discriminatorio nei confronti della donna.

      Anche il panorama della cultura dissidente si era mosso per “denunciare l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che dietro a una facciata tollerante e egualitaria (come il codice della famiglia – Moudawwana– e alcuni articoli della nuova costituzione, tra cui il 19 che consacra formalmente “l’uguaglianza di diritti tra sessi”, nda) continua a veicolare e a cauzionare sul piano giuridico una mentalità patriarcale e dogmatica”.

      Questo l’intento del film 475. Quando il matrimonio diventa un castigo (in basso la versione integrale sottotitolata in francese), realizzato dal collettivo di cineasti Guerrilla Cinema, che si ispira proprio alla vicenda di Amina, divenuta un simbolo nella lotta per la parità. Sulla stessa linea il documentario 475. Break the silence, dell’anglo-marocchina Hind Bensari.

      Senza la pressione costante sul governo da parte della società civile, probabilmente, non si sarebbe mai arrivati ad un simile epilogo. Una constatazione che non ha impedito ai deputati e all’esecutivo di celebrare la revisione dell’art. 475 come una “vittoria istituzionale”.

      Meno entusiaste e moderatamente soddisfatte, invece, le organizzazioni femministe e per i diritti umani, che chiedevano una riforma radicale dell’impianto legislativo. “Possiamo considerarlo un buon inizio, ma non è abbastanza. Il Parlamento non deve aspettare che la violenza si produca nel modo più tragico per agire. Dovrebbe piuttosto prevenire, per evitare che si verifichino situazioni drammatiche”, è il commento di Zohra Chaoui, avvocato e presidente dell’associazione per la lotta contro la violenza sulle donne.

      Le fa eco un’altra nota attivista femminista, Najat Razi, secondo cui le rivendicazioni del movimento per l’uguaglianza sono state “solo parzialmente soddisfatte. La nostra battaglia non si limita ad un singolo articolo”.

      Anche la ong Amnesty International, con un comunicato, considera l’emendamento all’art. 475 “un passo importante nella giusta direzione”, ma non nasconde la necessità – per il Marocco – di una “strategia esaustiva per la protezione delle donne e delle ragazze dagli abusi di cui sono frequentemente vittime”.

      “C’è ancora molto da fare”, sottolinea Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice aggiunta per l’area MENA dell’organizzazione. Il codice penale, spiega l’attivista, prevede pene minori se la vittima di uno stupro non è vergine, rimanendo “ancorato a concetti come l’onore o la decenza piuttosto che al diritto alla protezione e alla giustizia. Ma i diritti delle donne non possono essere definiti in funzione della verginità o della situazione familiare”.

      Altro grave ostacolo sulla strada dell’uguaglianza, gli articoli 490 e 491, che criminalizzano le relazioni sessuali fuori dal matrimonio. Questi provvedimenti, riferisce Amnesty, “dissuadono le vittime dal denunciare i loro aggressori, poiché temono di essere a loro volta perseguite in tribunale”. Emblematico, a questo proposito, il caso del deputato Hassan Arif e della funzionaria Malika Slimani, passata da querelante (con un figlio nato a seguito della violenza subita) a imputata per decisione della corte di Rabat.

      Le lacune della legislazione non si fermano qui, poiché il codice non ammette che l’abuso sessuale possa avvenire in circostanze che non implichino necessariamente l’utilizzo della forza finisca, o che lo stupro possa avvenire all’interno del matrimonio.

      Eppure i numeri parlano chiaro. La stessa ministra della famiglia Bassima Hakkaoui, a fine 2012, ha affermato pubblicamente che più di sei milioni di donne marocchine – su una popolazione totale di 33 milioni – hanno subito violenze, di cui oltre la metà all’interno delle mura domestiche.

      A riassumere la situazione ci pensa Nadir Bouhmouch, tra gli autori di 475. Quando il matrimonio diventa un castigo. “Siamo contenti, certo, ma il lavoro che ci spetta – come popolo e come istituzioni – è ancora tanto. La donna in Marocco è ben lontana dall’essere libera”, ha commentato il giovane regista, dalla sua pagina facebook, poco dopo la votazione in Parlamento.

      “Come spieghiamo nel nostro film, l’abolizione dell’articolo risolve solo in parte il problema. Non è corretto affermare che adesso le ragazze marocchine non saranno più costrette a sposare i loro stupratori. La stragrande maggioranza di questi casi, infatti, avviene al di fuori della legge, con matrimoni combinati tra le due famiglie coinvolte. Solo se c’è disaccordo, come per Amina, si ricorre ad un giudice e quindi alla legislazione”.

      “Dunque – continua Nadir – ci sarebbe bisogno di una legge che vieti esplicitamente i matrimoni combinati, orfi. Non basta la cancellazione del comma 2 al 475 per dire che in futuro non ci troveremo di fronte ad altre Amina Filali. Più in generale, c’è bisogno di un programma di educazione e sensibilizzazione nazionale alle questioni di genere, alla vita coniugale e alla sessualità per poter intervenire, a monte, sulla mentalità. Ma tutto questo implica una reale volontà politica e la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare..”.

       

      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      I tre anni di Willis from Tunis

      Nadia Khiari è una disegnatrice e pittrice tunisina, insegnante all’Istituto di Belle Arti di Tunisi e direttrice di una galleria artistica. Il suo personaggio, il gatto Willis from Tunis, è nato il 13 gennaio 2011, durante l’ultimo discorso tenuto dall’ex presidente Ben Ali poco prima della fuga. “Ci prometteva di concedere la libertà di espressione fino ad allora negata, ma sapevamo tutti che la sua fine era inevitabile”.
       

       

      Da quel momento Willis ha raccontato sui social network gli eventi politici e sociali che hanno accompagnato la transizione tunisina, divenendo una celebrità. A tre anni dalla sua creazione, la matita di Nadia Khiari continua a tratteggiare tavole impregnate di humour e pungente ironia.

      “Disegnare è un mezzo per buttare fuori le mie angosce, per condividere timori e speranze e per trovare la forza di riderci sopra. Ho deciso di continuare anche dopo la rivoluzione perché ormai si era creato un feeling speciale tra me e i seguaci di Willis. Una solidarietà nel segno dell’ironia”, spiega Nadia ai colleghi di Jol Press.

      L’essere donna non è risultato di ostacolo né nella caricatura, un divertissement, né nel suo lavoro, conferma la disegnatrice. “La caricatura è un bisogno, una sorta di catarsi. Per molto tempo mi hanno scambiato per un uomo, ma quando è diventato chiaro a tutti che ero una donna non è cambiato niente. Nessun ostacolo al mio bisogno di libertà”.

       

      La creatrice di Willis afferma di non porsi mai limiti, matita in mano, di fronte alla tavola bianca. “Mi prendo gioco di tutti, del governo e dell’opposizione, degli uomini e delle donne, perfino di me stessa”.

      “Certo, alcuni disegni possono risultare scomodi, far arrabbiare. Mi capita di ricevere messaggi o commenti piuttosto aspri. Ma fa parte del ‘gioco’. Tutti si esprimono e non tutti la pensano allo stesso modo. Ma quando disegno non faccio calcoli, non mi metto a pensare ‘questo piacerà?’, ‘questo mi attirerà delle critiche?’. Prendo la matita in mano e alea jacta est“.

      Nonostante la libertà di espressione non sia ancora una garanzia nella Tunisia post-rivoluzione, Nadia – che collabora con la rivista Siné Mensuel– ammette che la “primavera” è servita alla stampa per liberarsi della censura o almeno “per provare ad essere libera”.

      L’aver ottenuto il riconoscimento dell’ong internazionale Cartooning for peace è stata poi “un’immensa sorpresa”. “Mi consideravo semplicemente una che disegna gatti su facebook, non avevo riflettuto sulla portata di queste tavole. Caartoning for peace mi offre la possibilità di incontrare caricaturisti di tutto il mondo, di scoprire le loro difficoltà e i loro talenti. E’ anche un mezzo per abbattere frontiere e riconciliarsi attraverso l’arte e l’humour”.

       

       


      Intervista alla disegnatrice Nadia Khiari in occasione dei tre anni dalla rivoluzione tunisina. Traduzione dall’articolo di JOL Press.




      A tre anni di distanza dalla sollevazione popolare, quali sono i risultati della rivoluzione?

      Dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi, ce ne sono state altre 186. Questo ci fa capire che le cose non si sono affatto sistemate. Inoltre, il fatto che Marzouki, Ben Jaafar e il primo ministro non si siano recati a Sidi Bouzid per la commemorazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, è la testimonianza del loro fallimento.

      Omicidi politici, imboscate contro l’esercito, minacce terroriste, non è quanto ci aspettavamo dalla rivoluzione. Senza parlare del costo della vita che diventa ogni giorno più caro.

      Dal 2010 in Tunisia si sono succeduti quattro presidenti della Repubblica, sei governi, quattro primi ministri..in che modo il paese può risollevarsi da questa grave crisi politica?

      Forse bisognerebbe fare un passo indietro e ricordarsi degli obiettivi per i quali il 23 ottobre 2011 siamo andati a votare: un governo provvisorio e una costituzione, per poi tornare alle urne su nuove basi democratiche. Ma in tutta questa attesa, le nomine all’interno delle istituzioni e delle amministrazioni sono esclusivamente politiche, i partiti al potere si sono comodamente insediati quando avrebbero dovuto essere solo di passaggio. Un’amministrazione tutt’altro che neutra non è un buon segno per la trasparenza delle future consultazioni.

      Con la fuga di Ben Alì è stato rotto il muro della censura. Ma oggi, la libertà di espressione è garantita?

      No, è ancora minacciata. Parlare apertamente e puntare il dito dove fa male non è certo ben visto dalle autorità. Senza parlare del caso di Jabeur Mejri, che si è visto condannare a sette anni e mezzo di carcere per una condivisione su facebook. Il presidente Marzouki ha la possibilità di liberarlo, ma non lo fa. Perché? E il ministro dei Diritti Umani dovrebbe capire che sono i diritti di tutti i tunisini che deve difendere!

      Il rapper Weld El 15, di recente, è stato condannato a quattro mesi di carcere prima di essere liberato in appello. Si è trattato di un caso isolato?

      Weld El 15 è servito da esempio, per mettere paura e far tacere i giovani. Ma il suo caso è stato subito strumentalizzato a fini elettorali. Oggi quasi tutti gli artisti rischiano di diventare degli strumenti in mano ai politici, quelli che li minacciano e quelli che li difendono.

      In una petizione on-line in sostegno al rapper, gli autori hanno denunciato certe pratiche del governo, ritenute simili a quelle dell’era Ben Alì. Quali sono i più gravi scivoloni, in tema di rispetto delle libertà, commessi dal potere in carica nel post-rivoluzione?

      La creazione dell’Agence Technique des Télécommunications, con il pretesto della lotta alla cybercriminalità. Quelli che osteggiano questo tipo di sorveglianza, che ricorda le vecchie pratiche, sono dunque tutti dei criminali, come le autorità vorrebbero far credere? E questi sorveglianti, chi li finanzia? Chi li sorveglia?

      Tre anni dopo, cosa è cambiato per la popolazione? Quali sono le preoccupazioni e le speranze dei tunisini?

      Non conosco le preoccupazioni di tutti i tunisini. Ma spesso, discutendo per strada, sento nascere quasi un rimpianto per Ben Alì. Questo mi fa impazzire. La gente è arrivata a rimpiangere la dittatura. Sicurezza, carovita, disoccupazione..è quasi una psicosi ed è un segnale allarmante.

      Tra i tuoi disegni, ce ne sono alcuni che sottolineano il fossato esistente tra la classe politica e i giovani, principali attori della sollevazione. Oggi sono ancora loro le prime vittime di questa crisi sociale e politica?

      I ragazzi che incontro sono infuriati. Non si riconoscono in questa classe politica post-rivoluzione. Non fanno altro che dire: “come possono capirmi tutti questi capelli bianchi? Non hanno nessuna idea dei nostri problemi, non conoscono nemmeno il nostro linguaggio”.

      Molti non hanno già più voglia di votare, nessun candidato – dicono – corrisponde alle loro aspettative. Ma questi giovani possiedono un’energia straordinaria, una sete di vivere, dei sogni e tanta creatività. Quando li incontro mi danno la carica e, nonostante tutto, riesco ad essere ottimista.

       

      (Articolo e traduzione sono stati pubblicati su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Saghru Band, la canzone di protesta amazigh tra oasi e deserto

      Il giovane leader del gruppo, Nba, è scomparso prematuramente tre anni fa. Ma la sua voce e il suo esempio resistono, immortali, tra i villaggi del Sud-est marocchino.

      Nba

       


      Mbark Oularbi, meglio conosciuto con lo pseudonimo Nba, è un laureato in Giurisprudenza e disoccupato quando – nel 2005 – muove i primi passi sul cammino di una nuova esperienza musicale, fondando il gruppo Saghru Band.

      Assieme ad altri artisti della stessa regione, la band si afferma rapidamente come punto di riferimento dell’Amun Style: un genere melodico basato sulla fusione tra ritmi berberi popolari e sonorità moderne (chitarra, batteria..), cantato quasi sempre in lingua amazigh, che cerca di mantenere viva l’antica tradizione dei poeti trovatori (imdyazen) che vagavano di villaggio in villaggio per recitare versi impegnati sul’attualità politica e la situazione sociale.

      Cantante, chitarrista e sassofonista, Nba diventa portavoce dei tanti Muha (nome diffusissimo nella regione e titolo del primo album) che popolano il Sud-est marocchino, una zona compresa tra le vette dell’Alto Atlante, le oasi pedemontane della celebre “vallata delle kasbah” (Tinghir, Kelaat..) e l’inizio del deserto al confine con l’Algeria.

      Nei testi dei Saghru Band Muha è il simbolo di intere generazioni, prese nella morsa del sottosviluppo e dell’abbandono dello Stato:

      “Povero Muha/che vaghi tra i sentieri/Miserabile/Muha è un disoccupato/divenuto straniero nella terra dei suoi avi/I suoi giorni trascorrono amari/Cammina a piedi nudi/e non ha mai sognato di diventare ministro…”.

      Generazioni imprigionate tra il passato eroico della resistenza alla colonizzazione, la paura della repressione – sperimentata a più riprese dopo l’indipendenza -, la mancanza di lavoro e prospettive e la voglia di riscatto.

      “Muha è schiacciato dal commissario/Muha svegliati!/Questo Stato ti opprime da sempre/[…]/Per loro [le autorità] Muha è un sempliciotto/Lo hanno incoraggiato a fare la guerra contro i francesi/Ingenuo, Muha si è unito alla resistenza/mentre i figli dei borghesi partivano per Parigi/per istruirsi nelle migliori scuole/e prepararsi a prendere il potere”.

      Il linguaggio di Nba è semplice e diretto, il suo carisma è tale che centinaia di ragazzi lo seguono di oasi in oasi, di concerto in concerto, nonostante gli eventi che lo ospitano non siano ben visti dai prefetti locali.

      Le parole delle sue canzoni parlano alla coscienza della gente, che ogni giorno vive i frutti dell’emarginazione sulla propria pelle, e suscitano entusiasmo. Le tematiche affrontate fanno leva sull’importanza di tenere viva la memoria. Sotto questo aspetto, il nome scelto per il gruppo è in sé evocativo: Saghru è il nome del massiccio – che sorge a pochi km da Mellab, il villaggio dove è nato il cantautore – su cui si combatté l’ultima battaglia tra le tribù berbere degli Ait Atta e le truppe coloniali.

      “Queste montagne sono un monito del coraggio e della fierezza della nostra gente. Un sacrificio che sembra essere stato vano. Abbiamo scelto di chiamarci Saghru per rendere omaggio all’anima di quei resistenti e per incitare i vivi a seguire il loro cammino”, spiegava Nba prima della morte, avvenuta  il 9 gennaio del 2011.

      La sua scomparsa, dovuta ad una malattia incurabile, ha rappresentato uno choc profondo per tutta la regione. Allo stesso tempo ha contribuito a farne un simbolo, un’icona per gli altri musicisti e per i giovani in cerca di un modello, che non esitano a paragonarlo a Lounes Matoub. Come nel caso del folksinger cabilo, le sue foto sono impresse all’interno dei caffè e degli esercizi commerciali e le sue canzoni, recitate a memoria, riecheggiano al posto delle suonerie dei cellulari.

      “Nba era molto di più che un semplice artista – confida il poeta e musicista Mallal – era un amico colto e generoso, un esempio di quello che il talento e la passione possono fare malgrado le difficoltà e i mezzi ristretti. La sua morte, paradossalmente, è stata un detonatore per la scena locale, come se le altre band avessero sentito il bisogno di continuare la sua opera”.

      Oggi, nel Sud-est marocchino, si contano decine di gruppi legati al fenomeno “Amun Style” – Tagrawla (“la rivoluzione”), Tawargit(“il sogno”), Imal(“l’avvenire”), Iylaln(“le ali”), Amnay (“il cavaliere”) – e tutti, nel loro repertorio, propongono almeno un pezzo in tributo al giovane artista scomparso. Saghru Band intanto continua la sua avventura musicale, nonostante l’ostruzionismo delle autorità, grazie all’impegno del fratello Khalid.

      L’anniversario della morte di Nba, invece, è stato trasformato in un giorno di celebrazione collettiva. Centinaia di persone rendono visita ogni anno alla famiglia del cantante, nel piccolo villaggio di Mellab, ormai quasi una meta di pellegrinaggio.

      Per l’occasione vengono organizzati concerti, mostre e carovane di solidarietà dirette verso le borgate dei dintorni (che durante l’inverno soffrono ancora di più l’isolamento e la mancanza di beni di prima necessità). Un modo per perpetuare il messaggio e lo spirito dell’artista defunto. Che sopravvive, proprio come gli eroi del monte Saghru cantati nei suoi versi.

       

       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. Una battaglia fratricida, aspettando le urne

      Tra scoop, purghe e processi, è finita l’alleanza tra Erdogan e “l’imam della Pennsylvania”. L’appoggio del movimento Gulen all’AKP aveva dato solidità al partito di governo, che ora si confronterà con il biennio elettorale.

       

       


      (Traduzione dell’articolo di Samim Akgonul per Orient XXI)

      L’atmosfera in Turchia è tesa e sembra degradarsi ogni giorno di più dalle proteste di Gezi del giugno scorso. La coalizione che riuniva il governo al movimento Gulen si sta sfaldando, a danno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

      Ma quale coalizione? Si tratta in ogni caso di un accostamento ineguale. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) è una formazione politica vera e propria, nata da un movimento ideologico che si rifà all’islam politico, al potere dal 2002 e vincitrice di tre successive elezioni.

      Il “Movimento Hizmet (servizio)”, questo il nome dei gulenisti, è una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gulen. Questo vecchio imam dello Stato turco ha sviluppato un pensiero moralista pur ancorato alla modernità, fondato sulla sintesi turco-islamica in voga dagli anni ’80.

      L’ossatura, il nucleo di reclutamento dei simpatizzanti fa affidamento sulla rete delle scuole Dershane, istituti privati di sostegno e preparazione. Si tratta di un sistema educativo parallelo che prepara alunni e studenti a differenti concorsi, primi fra tutti quelli di accesso all’università.

      Questa coalizione atipica era nata in nome dell’opposizione al neo-kemalismo propagato con la forza dall’esercito in occasione dei ripetuti colpi di stato vissuti nei decenni scorsi dal paese.

      Così il movimento Gulen ha sostenuto l’AKP al momento del voto, tramite i suoi organi di stampa (alcuni dei giornali più diffusi sono controllati dal movimento), e in cambio l’AKP al potere ha favorito i simpatizzanti di Hizmet nella nomina dei funzionari statali.

      Ma, come dice un proverbio turco, “morta la vacca, finita la società”. In effetti, dal momento in cui il nemico comune – l’establishment – è venuto meno, la coalizione ha iniziato ad incrinarsi.

      Erdogan non sembra più sopportare alcuna altra autorità eccetto la sua all’interno dello Stato, così “l’emiro della Pennsylvania” (dove Gulen vive dal 1999, quando in patria era iniziato un processo a suo carico) è diventato il nuovo avversario da abbattere. Per il Primo ministro ogni tentativo di limitare l’estensione del suo potere è automaticamente una cospirazione, e così è vissuta ormai anche la presenza degli uomini di Gulen.

       

      Dissotterrata l’ascia di guerra

      La situazione è conforme all’analisi di Serge Moscovici in Psicologia delle minoranze attive (Bollati Boringhieri 1981). Due gruppi che si sentono oppressi collaborano fino a che uno dei due ottiene legittimità. Quando uno dei due gruppi si libera dall’oppressione si rivolta violentemente contro l’ex alleato, che lo minaccia nella sua nuova posizione.

      I segni di un voltafaccia erano già apparsi il 7 febbraio 2012 quando un procuratore, ritenuto molto vicino ai gulenisti, aveva chiesto la deposizione del Segretario generale dei servizi segreti, in stretto contatto con il Primo ministro, nel quadro del processo contro il KCK, braccio politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

      Erdogan aveva vissuto l’iniziativa come una manovra contro la sua leadership, un tentativo per accusarlo di alto tradimento in vista del processo di pace (i gulenisti, come i kemalisti, adottano una politica anticurda).

      Da allora, i ponti dell’alleanza sono stati distrutti uno per uno. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento Gulen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo.

      Accuse che avevano provocato la reazione dura della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, una struttura consensualmente ritenuta nelle mani della rete Gulen.

      L’ascia di guerra è stata ufficialmente dissotterrata in seguito allo scoop del quotidiano Taraf il 28 novembre scorso. Secondo questo giornale (in mano ai gulenisti come molti altri periodici, tra cui il titolo più venduto nel paese Zaman) nel 2004, due anni dopo l’arrivo al potere dell’AKP, il Consiglio di sicurezza dello Stato – composto da militari e da membri del governo – aveva istituito un piano d’azione contro il movimento Gulen.

      Stando a Taraf i burocrati, funzionari e militari reputati vicino al predicatore sarebbero stati schedati e progressivamente allontanati dai posti chiave. Dopo quest’affondo Erdogan, fedele alla sua reputazione, ha preferito l’attacco alla difesa suscitando nuove polemiche con la proposta di chiudere definitivamente le scuole Dershane, il vivaio gulenista.

       

      La separazione dei poteri in pericolo?

      Ultimo episodio in data, alcuni procuratori “dell’area Gulen” hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti, in alcuni casi persino i figli.

      La risposta dell’AKP è stata un rimaneggiamento di governo (sono cambiati 10 ministri), di certo tardiva, ma anche l’avvio di purghe degne del maccartismo, senza precedenti, tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia (da registrare il siluramento di ben 350 poliziotti, i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir, e il vicecapo della pubblica sicurezza nazionale. In tutto sono 1700 i funzionari trasferiti o dimessi. NdT).

      Da questo regolamento di conti in piena regola emergono due constatazioni lampanti. Primo, il principio di separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario è un’illusione in Turchia e l’esecutivo, nella persona di Erdogan, sta cercando di tenere tutto sotto controllo (ad esempio: mentre l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle pressioni politiche esercitate sui magistrati che indagano sul governo, l’Akp ha già depositato in Parlamento un progetto di legge per limitare i poteri di questa istituzione. Ndt).

      Secondo, la giustizia e la polizia sembrano rette da una rete informale che obbedisce più a motivazioni di potere che a dei principi professionali, creando una sorta di Stato nello Stato. Così, l’insieme dei grandi processi di questi ultimi anni – specie quelli contro l’apparato militare (Ergenekon, Balyoz) e contro il KCK – appaiono sospetti ed è ormai innegabile che una parte dei condannati o degli interpellati sia stata vittima della violazione dei propri diritti fondamentali.

      La Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale nel corso del quale si succederanno gli scrutini municipali (marzo 2014), quello presidenziale (probabilmente il prossimo agosto) e le elezioni legislative. Queste ultime, previste per giugno 2015, potrebbero essere anticipate a quest’anno. E’ molto probabile che l’attuale Primo ministro sarà candidato alle presidenziali, senza che l’AKP pertanto sia riuscito a far approvare una nuova costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale.

      Quale sarà il peso del movimento Gulen nei prossimi appuntamenti elettorali?

      La domanda è d’obbligo. Secondo alcuni sondaggi, il movimento condiziona tra il 4 e il 7% dell’elettorato. La sua attitudine sarà quindi di estrema importanza quando il prossimo agosto il presidente del paese sarà eletto per la prima volta a suffragio universale.

      Da un lato, questo lungo periodo di campagna elettorale sarà propizio a nuove rivelazioni sulla corruzione, ormai endemica, che regge l’apparato AKP. Dall’altro è un momento favorevole per un ritorno alla politica, nel senso nobile del termine.

      Altrimenti, le vittime di questi eterni giochi di potere rischiano di essere le stesse di sempre: curdi, aleviti e le minoranze di tutti i generi. Insomma, i gruppi oppressi fin dalla fondazione della repubblica turca.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Turchia. L’eredità politica di Gezi, aspettando le elezioni del 2014

      Sirri Sureyya Onder, deputato e cineasta di successo, è una delle figure di spicco del movimento Occupy Gezi. Di recente ha aderito ad una nuova formazione politica sostenuta dalla sinistra e dai curdi. Eccone un breve ritratto.

      (Foto Francesca Pacini)

       

      (Traduzione dell’articolo di Samim Agkonul per Orient XXI)

      Si chiama Onder, che in turco significa “leader”. Un predestinato? Forse. In ogni caso Sirri Sureyya Onder ha fatto tremare non pochi pretendenti dichiarando che si sarebbe candidato a sindaco alle elezioni municipali del 2014, nella capitale, prima di precisare che stava facendo dell’ironia.

      Se decidesse di presentarsi per davvero, tuttavia, questo personaggio sui generis di grande popolarità – è deputato, giornalista, scrittore, musicista e regista nello stesso tempo – potrebbe sconvolgere la scena politica. Per il momento è uno tra i volti più noti della nuova formazione politica – il Partito democratico popolare (HDP), nato sulla scia delle proteste dello scorso giugno – che raggruppa parte della sinistra turca e i curdi.

      Il HDP si propone come rappresentante del movimento “Occupy Gezi”, come struttura capace di convogliare il malcontento espresso sei mesi fa contro la figura del premier Erdogan e della politica affarista e autoritaria che simboleggia. Ad inquietarsi a seguito della sua comparsa sulla scena, tra gli altri, è stata la principale forza di opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), kemalista – che spera di sottrarre la poltrona di sindaco di Istanbul all’attuale formazione al potere, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Fu proprio il municipio della città sul Bosforo a segnare l’ascesa degli islamisti, nel 1994, con la vittoria di Recep Tayyip Erdogan, allora presidente dell’AKP.

      Un eroe per i manifestanti

      Anche il partito laicista CHP vorrebbe mettere le mani sull’eredità politica di Gezi, cavalcando l’onda della contestazione contro il governo. Ma sa benissimo che la maggior parte dei manifestanti scesi a Taksim e poi in tutto il paese non può essere propriamente definita kemalista.

      Non è un caso se fin dai primi giorni della protesta è questo personaggio fuori dal comune, Sirri Sureyya Onder, ad essere diventato un simbolo e un eroe per i dimostranti, levandosi davanti alle ruspe arrivate a sradicare gli alberi di Gezi.

      Il percorso di quest’uomo dai molteplici talenti – vicino ai curdi, agli ambienti intellettuali e gradito alle nuove generazioni – è quantomeno singolare.

      Nato nel 1962 ad Adiyaman, nel sud-est della Turchia in una provincia a maggioranza curda, Onder è cresciuto in una famiglia turca, o meglio “turkmena” come lui stesso ama precisare. A suo dire, fin dalla tenera età ha subito un “processo di assimilazione inversa”: mentre i curdi di Turchia sono stati costretti ad un assorbimento forzato della “turchità” – soprattutto attraverso la lingua – Sureyya ha maturato una forte sensibilità per la questione curda, grazie alla vicinanza sociale e geografica.

      Ma grazie anche alla vicinanza ideologica del contesto in cui è cresciuto. Onder proviene da una famiglia modesta e molto politicizzata. Il padre, barbiere, negli anni sessanta era un militante del Partito operaio turco (TIP, formazione di matrice socialista e sindacale, da non confondere con il più recente Partito operaio, vicino all’area nazionalista) che si ritrovò coinvolto nella repressione contro i curdi e la sinistra (il TIP evocava apertamente la questione curda, allora tabù. Fu questa una delle cause della sua messa al bando).

      Onder, fin da ragazzo, inizia a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia, dal momento che il padre muore nel 1970. E’ proprio in quanto apprendista del fotografo del villaggio che maturerà la passione per quest’arte, da cui poi proseguirà il cammino verso il cinema.

      Un’educazione politica di sinistra

      Sirri Sureyya Onder fa la prima esperienza del carcere nel 1978, all’età di sedici anni. Viene arrestato durante una manifestazione di protesta contro il pogrom di Maras, in cui furono uccisi centocinquanta aleviti e vennero bruciate centinaia delle loro case.

      Uscito di prigione, prosegue gli studi in Scienze politiche nella prestigiosa università di Ankara, dove si afferma come una delle figure di spicco della gioventù socialista. Dopo il colpo di stato militare del 1980 viene di nuovo arrestato e imprigionato dalla giunta, senza poter terminare i corsi.

      Condannato a dodici anni di carcere per “attività illegali”, ne sconta sette in diverse galere turche, facendosi conoscere per i numerosi scioperi della fame e una condotta insubordinata ai parametri penitenziari. All’uscita di prigione si trasferisce ad Istanbul, dove svolge diversi mestieri per sopravvivere – dall’operaio edile all’autista di camion -, continua la sua militanza nei movimenti rivoluzionari e inizia a scrivere.

      Da quel momento farà proprio l’aforisma di una musicista, udito durante un’esibizione di saz (liuto tradizionale) nei bassifondi della città: “se non guarda verso di te, mettiti in una posizione in cui lui possa vederti, così capirà quello che hai da dirgli”. E’ così che Onder spiega il suo impegno nell’arte e nel giornalismo: il bisogno di avere un eco, di poter veicolare idee e riflessioni e farsi ascoltare. Inizia a scrivere per Bir Gun, un quotidiano vicino all’area socialista anti-capitalista, e poi per Radikal, arena della sinistra negli anni 2000, e infine per Ozgur Gundem, quotidiano di riferimento del movimento curdo scritto in lingua turca.

      Parallelamente, Onder inizia a farsi conoscere in ambito cinematografico. Raccogliendo lo stesso successo. Nel 2006 incontra il grande pubblico con l’opera prima L’internazionale (Beynelmilel), di cui firma la regia e la sceneggiatura (avviata quattro anni prima).

      Il film, che racconta in “modo agrodolce” le avventure di una banda musicale di provincia all’indomani del colpo di stato del 1980, porta a casa numerosi premi sia a livello nazionale che in occasione di festival internazionali. La pellicola, di fatto, introduce il suo autore nei circoli intellettuali di Istanbul e ne fa una figura di riferimento per il panorama democratico del paese. Le sue interviste e le sue apparizioni mediatiche, dove Onder non manca mai di criticare la repressione di Stato contro i curdi, faranno scalpore.

      La vita del cineasta cambia di nuovo nel 2011, quando entra in politica. In quell’anno ci sono le elezioni e il Partito della pace e della democrazia (BDP), pro-curdo, decide di sostenere candidati indipendenti nell’ovest del paese, per poter aggirare la soglia di sbarramento del 10% stabilita all’epoca della giunta militare in modo da impedire ai rappresentanti della minoranza di accedere all’Assemblea nazionale.

      Onder è uno di questi candidati. Viene eletto ad Istanbul con i voti curdi e di un fronte di sinistra creato ad hoc. In seguito raggiungerà ufficialmente i ranghi del partito BDP.

      Negoziatore con il leader del PKK nel carcere di Imrali

      Qualcuno avrebbe potuto prevedere una noiosa esistenza da parlamentare per il nuovo Onder, lontano dalla vita trepidante dell’artista e dai piaceri della scrittura. Ma non è così. Poco dopo le elezioni, infatti, cominciano i negoziati tra il governo e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) rinchiuso nella prigione di Imrali, piccola isola nel mare di Marmara.

      Onder si ritrova a far parte della delegazione inviata al cospetto del leader, su richiesta di quest’ultimo. Il deputato-regista inizia a fare la navetta tra Ankara-Imrali-Kandil, base dei militanti del PKK nel Kurdistan iracheno. Una vita alla James Bond, in un Medio Oriente in piena ebollizione, tra battelli e 4×4 (dato che ha paura dell’aereo). Qualcuno ha già preso a chiamarlo SSO, facendo il verso alla sigla del noto agente segreto.

      In tutto questo, la recente adesione di Sirri Sureyya Onder al nuovo partito HDP costituisce la naturale evoluzione del processo di unione e sinergia tra militanti di sinistra e curdi.

      Così, mentre i negoziati tra governo e PKK sono entrati in una fase “meno dinamica”, il BDP ha formalizzato la sua strategia in vista delle elezioni municipali e locali fissate per marzo 2014: nell’ovest del paese, là dove i curdi sono minoritari, e nelle grandi città, il HDP farà da ombrello sotto a cui dovranno raccogliersi attivisti, rappresentanti della minoranza e delle diverse correnti che popolano il panorama di sinistra (socialisti, verdi..).

      Lo stesso Ocalan, oltre al BDP, ha dato il proprio avallo all’operazione. E’ con il loro consenso, del resto, che Onder ha raggiunto le fila del Partito democratico popolare. I suoi detrattori lo accusano di voler sabotare le fondamenta della repubblica turca e di cedere a compromessi in nome della carriera. Difficile crederlo, data la linearità del suo percorso. Ad ogni modo, Sirri Sureyya Order sembra ben posizionato per rimanere sul davanti della scena politica e artistica del paese ancora per molto tempo.

      Con lui ci tornerà anche lo spirito e l’intraprendenza che sei mesi fa aveva animato Gezi Park?

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Migranti. “Messaggeri di un’epoca senza più dignità”

      In anteprima a Rabat, il film “Les Messagers”riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E’ nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.

       

      (Foto Laetitia Tura)

      

      “Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente”. Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell’attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, (“I Messaggeri”) documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

      Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all’Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant’scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall’avvio dei lavori, il progetto – nato dall’incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) – è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l’ha sostenuto.

      Il risultato è un’opera dura, violenta nell’asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno – lungo e complesso – come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

      “In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E’ in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva”, spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. “L’arrivo al confine europeo è solo l’ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico”.

      “Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia”.  

      Chi sono? Dove sono i corpi?

      Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo’ di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

      A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

      Le immagini – in alcuni passaggi – mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall’indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

      I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: “cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l’abbiamo fatta”.

      E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: “il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?”.

      Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell’osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

      Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l’esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

      Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

      Chi sono allora i “messaggeri”? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.

       

      Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

      Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

      Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un’autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l’attrezzatura al seguito.

      Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l’attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

      Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E’ una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

      Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l’Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

      Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

      Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all’interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l’Europa. C’è un’uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l’UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l’esempio estremo, quello della fossa comune. L’abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.


      (Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)


       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

       

      Egitto: esercito vs eletti

      L’Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l’esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

      (Immagine Francesco La Pia)

      Traduzione dell’articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

      “C’è un’unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace”.

      Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

      Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l’idea e i suoi sostenitori.

      Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell’America Latina o dell’Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l’esatto contrario.

      La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l’avvio di una “tendenza regionale”, la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

      L’Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell’area, favorendo l’instaurazione delle “repubbliche dei generali”: Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

      Le “rivoluzioni arabe” hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan “pane, libertà, dignità e giustizia” è così entrato – direttamente e indirettamente – in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall’altra parte, l’idea di un “controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente” era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura – secondo la loro interpretazione – da una “mancanza di spirito patriottico” e costituiva un “tradimento” del paese.

      Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani – che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti – creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all’esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

      Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa – mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili – il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L’episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.

       

      Repubbliche popolari o di generali?

      Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l’Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un’altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

      Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all’interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l’instaurazione di una “repubblica di generali”: un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

      La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quoereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l’Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell’esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l’obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.

       

      Le petizioni e i timori dei generali

      Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di “alta politica”, l’intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l’immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell’esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

      Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale “incostituzionale”). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l’insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

      Altra questione è l’impero economico dei militari. L’esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

      Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall’esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr – membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie – ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: “[l’impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate”.

      Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l’allontanamento di Mubarak, l’inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

      La coesione interna dell’esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni – come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir – la soluzione è stata la fabbricazione di “demoni” esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la “guerra sporca” combattuta in Algeria durante gli anni ’90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell’ottobre 2011, ad esempio, l’esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l’incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: “i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!”.

      La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l’escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi “demoni”.

       

      Tentativi presidenziali

      Dopo l’elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell’agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l’annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l’avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

      Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell’elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall’essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

      “Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei”, ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell’esercito all’Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest’ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.

       

      Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

      Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l’Egitto verso scenari funesti. L’esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l’ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l’intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa – lo scorso agosto – ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

      Il colpo di Stato presuppone l’ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

      La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l’impunità, senza un controllo efficace sull’esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E’ questo l’unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

       

      (Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)