Mese: agosto 2017

Sorpresa: in Afghanistan le truppe Usa son già aumentate! (aggiornato)

Con adamantina franchezza e a dimostrazione di un’amministrazione più “trasparente” della guerra afgana, il generale Kenneth McKenzie, joint staff director al Pentagono, ha fatto sapere che le truppe Usa sono 11mila e non 8.400 come si è sempre detto. Solo 2600 soldati in più! Washington chiarisce che non si tratta di un aumento di truppe: semplicemente erano già lì. Intanto si comincia a intravedere la nuova linea della guerra: ancora più soldati e più vittime civili. Ci sono già due casi con una dozzina di civili morti per raid aerei avvenuti recentemente a Logar e a Herat. Raid aerei a caccia di talebani con effetti collaterali. Ecco la nuova guerra dello sceriffo Trump che resta comunque una nebulosa. Pericolosa (le vittime civile sono state confermate venerdi da Uanma, la sede Onu a Kabul.

 Ma come la vedono gli alleati nell’area. Cosa ne pensano a Kabul e a Islamabad? C’è chi la approva e chi ne teme gli effetti. Quanto agli americani, sono divisi della nuova strategia presidenziale (vedi foto in basso)?

Lunga gestazione

Il 22 agosto, a oltre un mese dalla data in cui i nuovi obiettivi americani sull’Afghanistan avrebbero dovuto essere resi noti, il presidente Trump li ha definiti con un discorso ripreso in diretta Tv. Ma tutti gli osservatori, americani e non, sono abbastanza concordi nel definire la nuova strategia presidenziale abbastanza oscura e non molto dissimile da quella che aveva caratterizzato il mandato di Obama. Quella che al momento appare una nebulosa senza obiettivi tattici – se non quello strategico finale di “vincere! – e che dovrebbe modularsi senza un’agenda precisa sulle richieste “che vengono dal terreno” ha lasciato perplessa buona parte dei commentatori statunitensi e gli analisti dei Paesi della Nato che, al di là delle dichiarazioni di principio (la fedeltà all’alleato americano), non nascondono le preoccupazioni per un nuovo surge di cui non si capisce né la portata né la quantità e la qualità di nuove possibili truppe, né quali esattamente saranno gli accordi tra Usa, Nato e governo afgano sulla gestione della catena di comando.
Ma la strategia di Trump, costata almeno otto mesi di gestazione e svelata in parte col filtrare ciclico di indiscrezioni di stampa basate su fonti anonime dell’Amministrazione, ha però certamente sollevato due reazioni, diametralmente opposte quanto chiaramente espresse, nei due principali attori regionali: l’Afghanistan, felice e soprattutto sollevato dalle dichiarazioni di Trump, e il Pakistan, additato in modo più violento che in passato come il “cattivo” istituzionale, eterno inaffidabile doppiogiochista, colpevole di ospitare le retrovie talebane.


Contenti a Kabul

La base di Bagram, caposaldo americano

Il governo di Kabul aspettava con un certa ansia che il presidente americano svelasse la sua strategia per diversi motivi: il primo, e più cogente, risiede nel fatto che a Kabul c’è un governo debole, con un sistema economico finanziario in caduta libera e che gode ormai di consensi ridotti al lumicino. Il fatto che gli americani decidano di non abbandonare l’Afghanistan – cosa che si poteva temere dai molti tweet di Trump durante la campagna elettorale – significa per Kabul non solo che il magro flusso di denaro garantito dalla permanenza della missione alleata non si arresterà ma che, presumibilmente, aumenterà. Il presidente ha fatto capire di voler sostenere un miglioramento delle forze aeree locali (argomento ribadito anche dal segretario generale della Nato), che sono l’apparato più costoso della guerra, e di essere favorevole all’utilizzo di nuove armi come ha dimostrato la bomba da 11 tonnellate lanciata in aprile nella zona di confine col Pakistan infestata da militanti dello Stato islamico. Infine, anche se non è chiara la quantità di “stivali sul terreno” che Washington è disposta a impiegare, è evidente che un aumento di uomini ci sarà e che lo stesso avverrà, pur se con riluttanza, anche per i partner Nato. Nuove truppe significano più denaro fresco e più spese che ridaranno fiato all’economia di guerra (che che ai tempi in cui la coalizione contava 130mila soldati, andava a gonfie vele), con nuove commesse, posti di lavoro e un possibile rilancio di settori come la logistica e l’edilizia oltre a un rafforzamento della moneta. La presenza resta garantita, sia sul piano militare, sia sul piano politico. Infine Kabul potrebbe sentirsi rassicurata anche dal fatto che, accanto a Trump, ci sono tre generali: il consigliere per la sicurezza McMaster, il titolare della difesa Mattis e il capo di gabinetto Kelly. Dovrebbero esser loro a garantire la continuità (e la mano più pesante) chiesta da mesi dal generale John Nicholson, al comando delle truppe Usa e Nato nel Paese. L’unico vero ostacolo all’interno dell’Amministrazione è infatti andato a casa: con il siluramento di Bannon, il capo stratega della Casa Bianca – il più cauto e il più contrario a un nuovo surge – le cose andranno come devono andare, garantendo a Kabul di tornare ad essere, da Cenerentola del Pentagono, una nuova reginetta, pur se in forma più contenuta che in passato.

Scontenti a Islamabad

Quanto a Kabul si festeggia, tanto a Islamabad si mastica amaro. Nel discorso di Trump il Pakistan è stato uno degli elementi centrali del “piano” e il responsabile maggiore, nelle parole del presidente, di una guerra che non si riesce a vincere. Tanto rapidi sono stati gli apprezzamenti di Kabul (poche ore dopo il discorso, Trump incassava il plauso dell’ambasciatore afgano a Washington e subito dopo quello di Ghani e del suo governo) tanto veloci sono state le rimostranze pachistane che hanno avuto una buona eco anche nelle dichiarazioni della Cina, il Paese più solidale con Islamabad. Il Pakistan – che versa tra l’altro in un momento complesso della sua vita politica dopo l’uscita di scena del premier Nawaz Sharif per il cosiddetto scandalo Panamaleaks – si è indignato per il tenore delle accuse – per altro non molto diverse da quelle sempre avanzate dall’amministrazione Obama – ma soprattutto perché Trump si è rivolto all’India chiedendole uno sforzo maggiore nel Paese dell’Hindukush: un invito che, alle orecchie pachistane, suona come un via libera a Delhi per rafforzare la testa di ponte già creata in Afghanistan con l’apertura di consolati, l’esborso di aiuti economici e progetti di formazione per l’esercito afgano. Un consolidamento che Islamabad vede come il fumo negli occhi. Infine, Trump ha omesso di ricordare, cosa che la diplomazia americana ha invece sempre fatto, di enumerare almeno gli sforzi del governo contro gli islamisti e il tributo di sangue pagato dai suoi militari nelle aree di confine. Senza contare il fratto che, se i talebani afgani hanno i loro santuari in Pakistan, i talebani pachistani godono in Afghanistan della possibilità di sfuggire alla giustizia del Paese dei puri.

Divisi: nel sondaggio di Politico.com
il 45% degli americani approva
 l’aumento di truppe. Il 41% è contrario


Incognite sul futuro

Se lo si guarda da Kabul e da Islamabad l’oscuro piano afgano di Trump resta dunque una nebulosa con luci e ombre non priva di rischi. I rapporti con Kabul sono ottimi ma sono basati sulla debolezza di un governo senza consensi e disposto a tutto pur di ricevere nuovi finanziamenti esterni. Un alleato debole in un quadro complesso. I rapporti col Pakistan rischiano invece di peggiorare e nessuno meglio di Islamabad può far deragliare qualsiasi processo negoziale. Processo su cui merita spendere una parola. Trump ha invitato i talebani a scendere a patti ma li ha anche minacciati, con uno stile da sceriffo, senza alcuna concessione. Una parafrasi delle sue parole l’ha poi fatta due giorni dopo il suo discorso, il generale Nicholson a Kabul che ha apostrofato la guerriglia in turbante “banda di criminali”, dediti al traffico di droga e ai rapimenti a scopo di estorsione. Invitare il nemico al tavolo negoziale minacciandolo di morte e dandogli dell’assassino, può forse funzionare come mossa tattica ma è l’esatto opposto di una strategia diplomatica che dovrebbe, con cautela, costruire le condizioni per far tacere le armi e tentare un dialogo che vada oltre gli insulti. La sensazione è che, dal punto di vista diplomatico, gli Stati Uniti si stiano infilando in un ginepraio che complicherà le cose più che renderle chiare. E se queste son le premesse politiche anche la guerra rischia di essere l’ennesima nebulosa senza via d’uscita.

Il profitto dell’espulsione

Sarebbero già 5mila i rohingya in fuga che tentano di raggiungere il Bangladesh. Gente che scappa dall’ennesima stretta militare che ha tutta l’aria di un pogrom verso la minoranza musulmana che fugge da un territorio che è appena stato fotografato dal satellite cui ha fatto seguito una denuncia di Human Roights Watch: incendi a macchia di leopardo nelle tre township (unità amministrativa birmana) di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, lungo un percorso di 100 chilometri in aree prossime alla frontiera bangladese. Di questi 5mila però circa 4mila – secondo il magazine birmano Irrawaddy – si trovano nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di Dacca li respingono. Lo hanno già fatto con 550 persone. Ad altre lasciano che passino il confine per avere medicine ma poi devono tornare dall’altra parte, dove c’è il “loro” Paese che però non li vuole. Gli appelli dell’Onu cadono nel vuoto e intanto il governo agita lo spettro di uno “stato islamico” nel cuore del buddista Myanmar, progetto all’origine dell’attacco del 25 agosto a trenta posti di polizia. In una conferenza stampa, il ministro dell’Interno generale Kyaw Swe (i militari gestiscono anche Difesa e Frontiere) ha detto che l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) vuole stabilirlo nelle township di Maungdaw e Buthidaung.

C’è dunque anche una scusa securitario-terroristica dietro alle violenze in cui sarebbero coinvolti, stando ai racconti che alcuni fuggitivi han fatto a Reuters, anche civili: «Siamo qui perché abbiamo paura per le nostre vite, ma non possiamo attraversare il confine e quindi non sappiamo cosa fare» dice Aung Myaing e aggiunge che militari e civili buddisti saccheggiano e incendiano i loro villaggi, utilizzando anche lanciagranate. E quando il reporter chiede loro della guerriglia risponde: «Non li abbiamo visti, non abbiamo alcuna relazione con loro. Ma il Myanmar non distingue tra i terroristi e i civili. Stanno cacciando tutti i rohingya». Granate, saccheggi, incendi e un bilancio che ha già superato i cento morti.

La bandiera di Tatmadaw, l’esercito
birmano. Non solo militari. Sopra,
la mappa degli incendi pubblicata da Hrw

Le immagini diffuse da Hrw sugli incendi fanno pensare a fotogrammi più vecchi: quelli con cui la stessa organizzazione, nell’autunno scorso, riuscì a stimare a 1500 gli edifici incendiati. Adesso, dicono all’organizzazione internazionale, non ci sono evidenze per poter dire chi ha appiccato gli incendi, se siano dolosi o provocati dal conflitto ma è certo che la scia di fuoco si estende su una lunghezza di circa 100 chilometri, lungo tutte le aree delle tre township, la zone dello Stato di Rakhine dove vive la maggioranza dei rohingya.

Sono quelle immagini a rendere più chiaro non solo un processo di espulsione che ha a che vedere col razzismo e la fobia religiosa ma l’ipotesi che, dietro alla cacciata di queste genti senza documenti, ci sia anche un piano economico per sfruttare le loro terre. In un articolo pubblicato sul Guardian all’inizio del 2017, la sociologa Saskia Sassen ricordava che dagli anni Novanta il governo dei generali ha portato avanti nel Paese una politica di requisizione delle terre considerate mal sfruttate per affidarle a compagnie private e metterle a profitto, land grabbing per società con grandi mezzi in nome dello sviluppo. Dal 2012 una legge ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati che gestiscono fino a 20mila ettari aprendo anche a investitori stranieri: assalto alla foresta (ogni anno 400mila ettari) o a piccoli appezzamenti confiscati visto che la legge ne aboliva una del 1963 che difendeva i piccoli agricoltori. Nella zona dei rohingya siamo a 1.269mila ettari con un balzo rispetto ai primi 7mila che furono ceduti durante il pogrom del 2012.

La polizia britannica riapre il caso dell’omicidio di Naji al-Ali

In un articolo apparso ieri sulla versione online inglese, al-Jazeera ha reso noto che la polizia britannica ha diramato un appello affinchè chi sia in possesso di informazioni sull’omicidio di Naji al-Ali si faccia avanti. A 30 anni dalla morte. Naji al-Ali, palestinese, vignettista, è noto per essere l’autore di Handala, il bambino rifugiato palestinese […]

Rohingya, fuga senza fine

 Sembra che si chiami Francesco Bergoglio l’ultima speranza dei Rohingya, minoranza musulmana in fuga dal suo Paese e ora respinta sia dal Bangladesh che ha chiuso le frontiere sia dall’India che ne minaccia l’espulsione. Ma il pontefice, che dopo aver ricordato all’Angelus la tragedia birmana e fatto sapere a sorpresa ieri mattina che andrà in Myanmar e in Bangladesh, inizierà il suo viaggio solo il 27 novembre: mancano tre mesi, un tempo sufficiente a ridurre al minimo questa minoranza ormai così vessata e strangolata dalla violenza che ormai i suoi numeri in Myanmar sono ridotti al lumicino.

L’inizio dell’ultimo pogrom è di alcune settimane fa quando i militari birmani hanno stretto d’assedio tre township nella zona orientale dello Stato di Rakhine, la regione al confine con Bangladesh e India dove vivevano oltre un milione di rohingya, una minoranza che in Myanmar non ha diritto alla cittadinanza, non può votare, è considerata immigrazione bangladese illegale e vive in gran parte in campi profughi nel suo stesso Paese. Per reagire all’accerchiamento delle aree di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, il gruppo armato  Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) – accusato di terrorismo da Naypyidaw – ha sferrato venerdi scorso un’offensiva contro trenta obiettivi militari, scatenando una vera e propria battaglia con oltre 100 morti e la conseguente repressione – anche a colpi di mortaio – mentre si riprendeva una fuga in realtà mai interrotta dall’ottobre scorso quando si erano verificati incidenti simili. L’uso “sproporzionato” della forza militare – avverte International Crisis Group, un organismo di monitoraggio che da tempo segue la questione – non è solo da condannare in sé ma rischia di favorire la radicalizzazione della minoranza, favorendo la crescita di gruppi armati. Arsa, guidato da Ata Ullah alias Abu Ammar Jununi, rohingya nato in Pakistan che godrebbe di finanziamenti privati pachistani e sauditi, ha lanciato messaggi video di sfida al governo. Ma gli scontri nelle tre città del Nord hanno registrato anche singoli episodi di violenza verso buddisti, indù o altre minoranze.

Il flusso della fuga verso il Bangladesh si ferma quando le acque si calmano ma riprende appena l’esercito stringe la morsa. A metà agosto, la stampa del Bangladesh ha cominciato a dare conto dei nuovi arrivi che già avevano totalizzato un migliaio di profughi, riusciti a passare la frontiera clandestinamente. Ora sono almeno 3mila (in tre giorni), secondo l’Onu. Da quel che si capisce, aumentata la pressione ai posti tradizionali di passaggio dei profughi, i rohingya in fuga hanno trovato nuovi percorsi per sfuggire alle guardie accampandosi in campi informali e senza registrarsi. Ma in tanti sono ora nella no man’s land tra i due Paesi perché Dacca ha detto basta: oltre 80mila sono i rohingya già arrivati in Bangladesh da ottobre e in tutto sono circa mezzo milione, arrivati a ondate successive a partire già dal secolo scorso. Una tragedia senza fine consumata in silenzio ma con un bubbone sempre più purulento che adesso fa rumore anche se, di fatto, non si va oltre le pressioni verbali: il Myanmar non è la Libia e neppure l’Afghanistan o i Balcani. E le parole diritti, pulizia etnica, tortura, stupro, omicidio commuovono ma fino a un certo punto.

I messaggi di Arsa su Youtube. A dx il simbolo
dell’organizzazione 

La situazione è complicata dal fatto che al potere c’è, per la prima volta da decenni, un governo civile guidato, anche se informalmente (la Costituzione glielo vieta), da una Nobel per la pace. Ma la signora Suu Kyi, figlia di un eroe della resistenza anti britannica e icona della battaglia per i diritti e la libertà, è rimasta zitta. O meglio, ha cercato in modo indolore di far digerire l’amara pillola con mezze parole e qualche timido rimedio: l’ultimo consisterebbe nell’applicazione delle raccomandazioni contenute in un dossier scritto da Kofi Annan che chiede al Myanmar la revisione della legge sulla cittadinanza. Ma Suu Kyi deve fare i conti con un potere militare ferocemente contrario alle aperture. Per eccesso di zelo buddista o spinto dal pericolo islamista? La sociologa Saskia Sassen ha spiegato che i generali, casta economica oltreché militare, stanno favorendo l’accaparramento dei terreni del Rakhine, resi sempre più appetibili se chi li possiede fugge e non ha le carte per dimostrarlo. Gli strumenti per opporsi sono scarsi anche se ieri il parlamento ha bloccato la richiesta della minoranza (filo militare) di dichiarare lo stato di emergenza a Maungdaw.

La solidarietà è scarsa a parte quella di Bergoglio, l’unico capo di Stato che ha strigliato Suu Kyi quando alcuni mesi visitò l’Europa. Malaysia e Indonesia fanno accoglienza. Molta l’ha fatto il Bangladesh che ora però chiude. Quanto all’India, fa sapere che vuole rimpatriare i rifugiati sul suolo indiano: 14mila registrati con l’Acnur e, pare, altri 400mila illegali.

Nuove violenze nel Rakhine birmano

Nelle prime ore della giornata di ieri un attacco congiunto su una trentina di obiettivi militari nella Birmania occidentale ha scatenato l’ennesima ondata di violenza nello Stato del Rakhine. La regione è sede anche della minoranza musulmana dei Rohingya nel Paese a maggioranza buddista dove la Lega per la democrazia di Aung San Suu Kyi è al governo ma sotto la spada di Damocle di un ancora forte potere militare. L’attacco coordinato è avvenuto nelle aree di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung dopo un’escalation di violenze seguite, nelle ultime settimane, a un ennesimo invio di soldati nella regione che avrebbe spinto alla fuga verso il Bangladesh migliaia di Rohingya, andati a ingrossare le fila di una massa di profughi che da ottobre scorso conta nel Paese vicino già oltre 80mila nuovi rifugiati. Nello stesso periodo di sarebbero verificate nel Rakihine violenze anche contro monaci buddisti, molti dei quali poi evacuati.

Gli scontri di ieri, rivendicati da una sigla nazionalista rohingya – Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) che ha dato notizia delle azioni via twitter – si sarebbero conclusi con un bilancio – secondo fonti governative – di oltre 80 morti: dieci poliziotti, un soldato, undici agenti della sicurezza, un ufficiale dell’immigrazione e 59 sospetti militanti dei circa 150 che, dalla una del mattino, avrebbero scatenato l’attacco. Le Nazioni Unite hanno chiesto alle parti di astenersi da nuove violenze, ormai cicliche nello Stato di Rakhine.

L’azione dell’Arsa è stata messa in relazione alla pubblicazione delle raccomandazioni che l’ex segretario Onu Kofi Annan ha consegnato al governo birmano poche ora prima dei raid anche se – sebbene molto probabilmente il rapporto di Annan venga ritenuto dall’Arsa troppo moderato – l’attacco fa pensare a un’azione preordinata e preparata da tempo, forse proprio a partire dalle violenze scatenate col nuovo “surge” dell’esercito nel Rakhine nelle ultime settimane. Così sembrerebbe di capire anche dal tenore delle dichiarazioni di Arsa secondo cui si sarebbe trattato di un’ “azione difensiva”. La signora Suu Kyi ha condannato le azioni della guerriglia e il suo ufficio ha rilasciato una dichiarazione nella quale si citano estremisti “bengalesi”, il termine con cui i Rohingya – senza cittadinanza né diritti in Myanmar e considerati immigrati illegali – vengono normalmente chiamati. Proprio il documento di Annan, morbido probabilmente per evitare a Suu Kyi uno scontro coi militari, chiede comunque che ai Rohingya siano riconosciuti i diritti che sono loro negati dalla legge del 1982 sulla cittadinanza, di cui il rapporto chiede una revisione: si tratta di raccomandazioni che un comitato ministeriale ad hoc ha ora il compito di studiare e mettere in pratica secondo quanto promesso dalla Nobel. A dimostrazione di quanto sia delicata la situazione in cui si trova il governo civile, il capo delle Forze armate Min Aung Hlaing ha messo in questione l’imparzialità del rapporto e lo ha accusato di una ricostruzione inaccurata.

La nebulosa afgana disastro annunciato. Ora di tornare a casa

Nicholson durante la conferenza stampa.
La foto correda l’articolo sulle esternazioni del generale

Rinfrancato dal fatto che per ora non sarà mandato a casa e bypassando le più elementari categorie della diplomazia negoziale, il generale Jhon Nicholson, al comando delle truppe Usa e Nato in Afghanistan, ha detto la sua dopo le esternazioni del presidente. Il generale, sicuro del fatto che ormai Trump abbia passato la mano ai McMaster (sicurezza) e Mattis (Difesa) di turno (generali come il suo capo gabinetto Jhon Kelly, pensa che ormai tocchi a lui interpretare anche politicamente la confusa idea che Trump vuole applicare in Afghanistan per vincere la guerra. E così ha definito i talebani  una “criminal organization that is more interested in profits from drugs, kidnapping and murder for hire.” Un testo che non mi pare il caso di stare a tradurre…

Forse anche Trump pensa lo stesso ma se le parole del presidente sono state improvvide – come in altri casi – nel suo discorso di due giorni fa sull’Afghanistan, quelle di Nicholson sono una traduzione ancora peggiore. Da un lato invita i talebani – come Trump – a deporre le armi, dall’altro apostrofa la parte che dovrebbe negoziare nel modo che abbiamo riportato. Nemmeno Trump lo sceriffo era giunto a tanto. Sarebbe come se, dovendo negoziare col vostro padrone di casa l’affitto e/o lo sfratto, gli deste del bandito prima ancora di esservi seduti al tavolo. Anche un idiota capisce che se c’è un modo per irritare i talebani questa è la via giusta. Nemmeno più il bastone e la carota. Solo bastoni e, come si evince dalle parole del generale, un bastone sempre più aereo: sempre più raid, bombe dal cielo, droni e omicidi mirati. Nicholson e Trump pensano che i talebani afgani si possano trattare come l’Isis a Raqqa e che anzi siano più o meno la stessa cosa. In un Paese dove l’intelligenza e l’analisi non mancano, quella che si sente è adesso una sola campana che annuncia una stagione pericolosa, dominata dai generali. Che, come la storia insegna, son magari bravi a fare la guerra ma in politica sono un disastro. Purtroppo il governo di Kabul appoggia e la Nato pure. Stiamo andando verso una nuova catastrofe e non si riesce che ad applaudire.

Allora sarebbe bene prendere subito le distanze da questa strategia oscura e muscolare che già si annuncia col fiato corto e danni di lungo periodo. Sarebbe opportuno che i nostri politici pensassero anche all’Afghanistan dove abbiamo quasi mille soldati che stiamo esponendo a un’ennesima guerra peggio guerreggiata delle precedenti e che non risiede certo nei nostri interessi nazionali. Un governo serio si ritirerebbe da una politica avventurista e guerrafondaia e, semmai, impiegherebbe i soldi che ora spende ( circa 500mila euro al giorno) in opere di bene e di pace. Ma, come avvenne per la Libia e prima ancora per l’Iraq, alla fine sappiamo solo dire signorsi e, nel farlo, non facciamo un piacere né ai nostri alleati né – tanto meno – agli afgani. Che iddio protegga quel povero popolo. E che il mio paese abbia un sussulto di orgoglio e intelligenza.

Lo sceriffo, l’Alleanza e le nostre responsabilità

Marshall Trump, stanco dei polticanti di Washington
ha adesso una nuova idea: “Ci penso io”. Ma come non si sa

E’ una strana “nuova” strategia quella che Donald Trump, e con lui la Nato, sta mettendo in piedi per rinfocolare la guerra infinita che da 16 anni vede impegnata anche l’Italia. Una nuova guerra senza numeri e con molte reticenze, frasi di rito e un plauso incondizionato a un piano che par confuso allo stesso burattinaio che ne dovrebbe tirare le fila. Un piano che non vuole insegnare nulla agli afgani e li invita a fare la pace coi talebani ma che al contempo mira a far fuori i “nemici” con maggior determinazione. Una strategia che chiede nuove truppe ma quante non si sa. Una guerra da modularsi sulle richieste che vengono dal terreno ma che sembra in realtà una nebulosa senza obiettivi che pare rispondere alla domanda che lo stesso Trump si faceva in campagna elettorale: «Che ci stiamo a fare»? L’impressione è che lo sceriffo di New York, dove Trump è nato nel 1946, ancora non lo sappia anche se i suoi generali devono aver convinto il guerrafondaio riluttante che l’Afghanistan bisogna controllarlo.

Quel che Trump e i suoi generali sanno non è solo che, come ha twittato Trump nel 2012, l’Afghanistan è un Paese dove «abbiamo costruito strade e suole per della gente che ci odia» ma l’avamposto da cui, grazie a una decina di basi aeree, gli Stati Uniti possono controllare l’Iran e soprattutto la Russia. Nessuno disvela o ammette questa evidente verità che costò a Washington un lungo braccio di ferro con Karzai che non voleva cedere ai diktat americani.

Il refrain resta il solito: scompaiono diritti e democrazia ma resta la lotta alle basi del terrore anche se, nel caso dei talebani, non son certo una minaccia né per gli States né per l’Europa. Per gli alleati di Trump nella Nato dovrebbe invece esser chiaro che, oggi più di ieri, restare e mandare nuove truppe come Washington chiede, significa limitarsi a sostenere un disegno soprattutto americano pur se assai più vago che in precedenza. Per ora una quindicina di Paesi avrebbero detto si: Londra manderà circa cento soldati e Varsavia altri 30. Ma di altri Paesi, come la Danimarca, il numero resta incerto mentre i tedeschi hanno chiaramente detto no e anche l’Italia, che un pensierino ce l’aveva fatto, ha poi preferito saggiamente declinare l’invito forse per evitare a Gentiloni l’ennesimo grana. Purtroppo anche se Roma non invierà altri soldati noi ne abbiamo già mille in Afghanistan che sarebbe bene far tornare a casa. Lasciarli lì significa accettare supinamente un piano confuso, incerto e dunque pericoloso. Ed esserne dunque corresponsabili.

Regeni, accademici all’estero: “Il ritorno dell’ambasciatore al Cairo? Realpolitik del governo è codarda e ci mette a rischio”

E’ il pomeriggio del 14 agosto, la vigilia di ferragosto, quando il comunicato della Farnesina annuncia che “il Governo italiano ha deciso di inviare l’Ambasciatore Giampaolo Cantini nella capitale egiziana, dopo che – l’8 aprile 2016 – l’allora Capo Missione Maurizio Massari venne richiamato a Roma per consultazioni”. I telefoni cominciano a squillare: la famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore […]

L’articolo Regeni, accademici all’estero: “Il ritorno dell’ambasciatore al Cairo? Realpolitik del governo è codarda e ci mette a rischio” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Gli arabi israeliani, un “popolo invisibile”

Realismo sulla situazione dello Stato di Israele, che solo per abitudine o cecità si continua a pensare come democrazia compiuta, come stato coeso e solido. Disse Gideon Levy che i Palestinesi sono un popolo paziente, ma anche Giobbe, il Paziente per eccellenza, al culmine della sua sofferenza chiese ragione a Dio di tanto inesplicabile patire. […]

Monica Capasso: Al di là del mare

Restituire umanità alla narrativa sulle migrazioni. Questa è la prospettiva in cui si dipanano le vicende del romanzo “Al di là del mare” di Monica Capasso. La giovane autrice barese, giurista per formazione e impegnata nell’attivismo e nell’associazionismo, riporta sul… Continue Reading →

Andarsene o restare? La strategia confusa di Trump sull’Afghanistan

A metà luglio la Casa Bianca
aveva promesso di rivelare
il nuovo piano per l’Afghanistan

Donald Trump sta pensando da qualche mese a cosa fare a Kabul, un luogo in cui non ha ancora messo piede anche se si è intrattenuto al telefono più volte con Ashraf Ghani che già aveva conosciuto negli States. Ci sono sul tavolo diverse opzioni che si potrebbero riassumere in due posizioni abbastanza chiare. La prima : aumentare il numero dei soldati, intensificare i raid aerei e rivedere i laccioli imposti agli Usa da un accordo militare che li vincola ad agire solo dopo aver consultato la Difesa afgana. Seconda opzione: utilizzare un esercito di mercenari e far la guerra senza perdere uomini e consensi. Ma adesso pare ce ne sia una terza di opzione: andarsene complemtamente: full withdrawal, come ha spiegato il segretario alla Difesa Mattis in una conferenza stampa mentre diceva che ormai è questione di poco e presto si saprà quanto tutti stanno aspettando di sapere da ormai un mese, data in cui Trump avrebbe dovuto rendere nota la sua scelta.

Sappiamo che la prima opzione è appoggiata dal Pentagono ma anche da potenti repubblicani come John McCain o da generali come il consigliere per la sicurezza McMaster per non parlare dei papaveri del Pentagono e del comandante in loco John Nicholson, per quanto il generale non sia esattamente nelle grazie di Trump. La seconda opzione ha qualche sostenitore, sia nella famiglia Trump, sia nella lobby dei contractor, ma la terza – full withdrawal – è un’assoluta novità. Come si vede non sono tre opzioni parallele ma tre perpendicolari che viaggiano in opposte direzioni. Tre idee assi lontane l’una dall’altra  e così differenti tra loro  da giustificare in effetti un certo tentennamento: poche idee chiare insomma in una strategia confusa. Se non fosse un dramma verrebbe da sorridere.

Caro ambasciatore Cantini…

Lettera aperta di Filippo Landi all’ambasciatore Giampaolo Cantini, in procinto di recarsi al Cairo come nostro rappresentante diplomatico in Egitto. Egregio Ambasciatore Giampaolo Cantini, mi perdonerà se mi rivolgo a lei pubblicamente, ma credo che sia importante che si conoscano alcuni fatti alla vigilia del suo arrivo al Cairo. Alla fine di agosto del 2015,Continua a leggere

4 anni dopo un massacro

14 agosto 2013. Cairo. Massacro di Rabaa el Adawye. 4 anni dopo, nell’anniversario, nello stesso giorno, si comunica al pubblico che il governo italiano ha deciso di far ritornare il nostro ambasciatore al Cairo. Senza porre nessuna attenzione ai simboli, alle date, al modo in cui le notizie vengono percepite. A Rabaa el Adawyie, alContinua a leggere

Viaggio all’Eden a "Le antiche vie dell’Hospitale"

XIII incontro sulla Via di San Tommaso

Villa san Tommaso Majano (Udine)

sulle antiche vie dell’Hospitale,
oltre Gerusalemme
sulle Vie Reali di Persia, vie della Seta,
verso l’altra metà del Mondo

PASSAGGIO IN AFGHANISTAN

ALL’HOSPITALE DI SAN GIOVANNI DI GERUSALEMME
A SAN TOMASO DI MAJANO (UD)

Venerdì 18 Agosto 2017
Ore 17.15 Passaggio in Afghanistan. Presentazione. Amici dell’Hospitale.
Ore 17.30 L’Afghanistan prima della guerra. La Collezione SchinasiAnteprima della mostra fotografica 1900-1979. Dalla modernizzazione del primo 900 alla fine della monarchia. Proiezioni. Presentazione di Valerio PellizzariUn documento fondamentale per riprendere la storia interrotta.
Ore 18.30 Emergency a Kabul, incontro con Letizia Cialli e Ilaria Zamburlini.

Ore 19.15 cena condivisa (*)

Ore 20.45 “In battaglia, quando l’uva è matura. Quarant’anni di Afghanistan”(Laterza, 2012). Presentazione del libro di Valerio Pellizzari.
Sabato 19 Agosto 2017

Ore 16.00 Il problema dell’acqua. Maurizio Peseljper anni nella zona di Herat, nel Faryab e nel Wakhan, ha portato acqua alla popolazione afgana. Infrastrutture in aree desertiche e montane in condizioni estreme, con la guerra in corso. Il suo racconto.

Nel frattempo, nel pomeriggio, per i bambini presenti (0-90) laboratorio di aquiloni (l’Afghanistan è il paese degli aquiloni) a cura della Refugees Public School di OIA.

Ore 17.00 Afghanistan, storia, arte, cultura e poesia. Racconti e letture a cura della Refugees Public School di OIA con introduzione di Morena Maresia. Volontari, richiedenti asilo e afghani a cui è già stata riconosciuta la protezione internazionale leggeranno poesie e brani di Rahman Baba, Gialal al-din Rumi, Basir Ahang, Umar Khayyam, Tiziano Terzani e altri.
Ore 19.15 assaggi di cucina afghana a cura di Refugees Public School di OIA (**)

Ore 20.45 “Un altro Afghanistan, oltre il velo del tempo”. Identità etniche e frontiere culturali nel Pamir afghano. Conferenza di Giovanni Pedrini. Testimonianze di Maurizio Peselj e di Valerio Pellizzari che hanno vissuto e studiato la regione del Badakhshan, il corridoio del Wakhan nel Pamir tra Cina, Pakistan e Tagikistan.

Domenica 20 Agosto 2017

Ore 17.30 “Afghanistan Crocevia dell’Asia”, barnabiti in terra afghana. Un altro modo di guardare l’Afghanistan e la sua storia. Incontro con lo scrittore Emanuele Giordana, dialoga con Giovanni Pedrini.

Ore 19.15 cena condivisa (*)

Ore 20.45 “Viaggio all’Eden” Da Milano a Kathmandu (Laterza 2017). Presentazione del libro di Emanuele Giordana. L’autore parlerà anche di progetti e collaborazioni attuali tra Italia e Afghanistan. A fine serata sono graditi interventi e racconti liberi di coloro che hanno vissuto esperienze similari.

Per quelli che… rimandiamoli in Libia

mcc43 Storie per un’Europa più vecchia e gretta quanto più benestante e indifferente. Storie per noi, popolo di santi, poeti e navigatori secondo Benito Mussolini, mentre aggrediva l’Abissinia, e per i Francesi avvolti nella grandeur della Liberté Egalité Fraternitè del continuato saccheggio dell’Africa… Gebreel ha 28-anni, è nato sulle Montagne di Nuba in Sudan, dove il padre fu ucciso in un […]

Oltre il bel tramonto

È una immagine che non parla solo di un bel tramonto. Parla di cambiamenti climatici che cominciano a incidere sulle nostre abitudini. Da sere le spiagge sono piene di famiglie. Non solo di ragazzi, come succede attorno a Ferragosto. Si sta sulla spiaggia a prendere aria, a prendere un poco di aria, vecchi e bambiniContinua a leggere

Serraj e Haftar da Macron: una farsa, non un summit

mcc43  Questo articolo di  Times of Malta intitolato “A summit pantomine” riassume il ristagno della situazione in Libia, a fronte delle impressioni indotte dai media circa una situazione in via di evoluzione costruttiva. I rapporti fra i vari attori politici sono congelati al deprecato accordo del 2015 a Skhirat. Vedere La Libia e i giochi di […]

Mauro Martini, in memoriam

Sono passati 12 anni dalla morte di Mauro Martini.  “Perché ti illudi e resti ancora lì? Non lo sai che la cultura si fa fuori dalle università?” Roma, piazza Cavour. Per essere precisi, proprio sotto il Palazzaccio. O almeno, io quella passeggiata me la ricordo lì, proprio a piazza Cavour. Il tempo, il troppo tempoContinua a leggere

Libia: ne parliamo con Michela Mercuri

Da Sedici Pagine Iniziamo dalla fine. Chi governa in Libia oggi e come si è arrivati a questa situazione? Nel 2011 c’è stata un’azione unilaterale francese voluta dall’allora presidente Sarkozy per mettere le mani non solo sulle risorse energetiche libiche… Continue Reading →

Al Jazeera, la storia continua

E così è ufficiale.  Israele ha fatto partire la procedura per chiudere l’ufficio di Al Jazeera e revocare il permesso stampa della tv del Qatar, la prima tv panaraba nella storia dei media della regione. Lo ha confermato il ministro delle comunicazioni, Ayoub Kara. Chiusura non imminente, ha precisato alla Reuters, perché l’iter avrà bisognoContinua a leggere

Sogno americano*

Greyhound coast to coast. La panamericana. Droghe e lotta armata. Allucinogeni e allucinati. Scuola di illegalità. Rimpatrio alla portoghese. L’ultimo capitolo di Viaggio all’Eden*

A quelli di noi cui andava stretto persino il Viaggio all’Eden, il volo magico che negli anni Settanta portava verso Kathmandu, si apriva anche un’altra pista. Era il viaggio negli States che proseguiva fino in Messico e da lì, attraverso il Centroamerica, lungo la Panamericana, nella lunga discesa che percorreva le Ande, attraversava la selva e la montagna, raggiungeva il deserto del Perù, risaliva in Bolivia, si allungava fino al Brasile. Era un altro viaggio, naturalmente, ma lo spirito non era per niente diverso. Chi aveva soldi comprava una macchina a New York e correva fino a Frisco, Sognando la California come gli italici Dik Dik avevano tradotto California Dreamin’, cantata dai Mamas and Papas o dai Beach Boys. Ma la maggior parte di noi, denari ne aveva meno e aveva fretta di raggiungere i posti da uno o due dollari al giorno (uscivano allora volumi col titolo South America on …. dollar a day, con cifre per tutte le tasche) e poiché il viaggio negli Usa era competitivo sul prezzo, si sceglieva di cominciare da Nord. Una volta guadagnata la Grande Mela, si saliva su un Greyhound, l’inconfondibile pullman col levriero, per fare in 10 giorni coast to coast. Negli anni Settanta, il volo Lussemburgo-New York costava appena 100 dollari e con altri 500 si poteva star via mesi. Gli Stati Uniti – la cui cultura underground era all’origine dei grandi movimenti degli anni Sessanta-Settanta poi declinati in chiave nazionale – erano solo una tappa veloce per gli squattrinati abituati ai prezzi indiani. Il fascino del rock, della letteratura Beat, dei santoni dell’Hyppismo restava confinato in un tributo ideale – leggere Kerouac o sentire Zappa – e venivamo trascinati inevitabilmente al Sur. Il Messico non era ancora stato sequestrato dalle narcomafie ma era saldamente occupato dalla mafia politica del Partido Revolucionario Institucional, che di rivoluzionario aveva solo il nome e longevità infinita. Laggiù, sorseggiando Tecate in lattina o Carta blanca in bottiglia, ascoltando le frequenze di Radio Mundo, fumando marijuana e andando in cerca del peyote, il cactus magico degli Huicholes, ci ammaestravamo con i libri di Carlos Castaneda, peruviano statunitense che ci aveva affascinato con gli insegnamenti di Don Juan, personaggio forse di fantasia che gli aveva fatto partorire 12 libri tradotti in 17 lingue. La sua «via Yaqui alla Conoscenza» (A scuola dallo stregone, 1968) era un’iniziazione allo sciamanesimo che andava a braccetto con la mistica che ci stregava in Oriente.

Illustrazione di Maurizio Sacchi. Sotto, a sn foto di Guido Corradi. Sotto a dx foto di Davide Del Boca


La Panamericana si poteva attraversare con mezzi pubblici scalcinati, autostop che andava alla grande o treni merci frequentati da poveracci locali e da banditi che aspettavano il prossimo gonzo. Molte delle informazioni fondamentali riguardavano le droghe, le chiavi per aprire le Porte della Percezione che nelle Americhe non erano meno presenti che in Asia. Con quei viatici scendevamo fino alla bellissima Colombia in cerca di funghi allucinogeni e la miglior erba del mondo, giù fino alla Quito coloniale e verso le Ande peruviane in cerca del cactus San Pedro, che come il peyote contiene mescalina. Oppure verso l’Amazzonia in cerca della Ayahuasca, la liana degli spiriti dei morti, i cui viaggi allucinati necessitano un curandero. Infine, come tacere della cocaina e non certo quella in foglie masticata dagli indigeni delle Ande. La mafia colombiana con le sue alleanze trasversali ne aveva già fatto un lucroso commercio che partiva dalle raffinerie clandestine sparse nella foresta e che controllava coi suoi manovali assoldati a poco prezzo nei barrio marginali della grandi città o con accordi con la guerriglia che in Colombia controllava intere regioni e amministrava città, tasse, arruolamenti e coltivazioni.

La rivoluzione era l’altra grande attrattiva di un continente dove gli scritti di Camillo Torres e Che Guevara avevano abbeverato i nostri sogni di giovani ribelli cui già sembrava che la revolucion cubana avesse tradito gli ideali originari. A quell’epoca il Nicaragua era ancora sotto il tallone dei Somoza, la Colombia era una fucina della guerra di guerriglia e in Bolivia la dittatura di Hugo Banzer aveva fatto fuori, una decina di anni prima, il mitico Ernesto detto “che” per quell’intercalare comune tra i porteños, gli argentini di Buenos Aires. Infine c’era stato il colpo di Stato in Cile che aveva assassinato Allende, fatto sparire centinaia di persone e scritto fine sulla via pacifica del socialismo nel Cono Sur. In Sudamerica c’era tutto e il contrario di tutto: la rivoluzione cubana e i forse inevitabili compromessi con l’Urss, i movimenti maoisti, la lotta armata, partiti populisti, puri e duri col fucile in spalla e paramilitari assassini, assoldati spesso dai cartelli della droga capaci di allearsi ora coi primi ora coi secondi sfruttando l’estesissimo odio del Sud per il Nordamerica, odio cui sfuggivamo proprio perché non eravamo yankee. Abimael Guzmán aveva da poco fondato Sendero Luminoso.
Il viaggio poteva finire bene o male a seconda dell’attività illegale intrapresa. Come e forse più che nel Viaggio all’Eden, il Sudamerica era in effetti una vera scuola di illegalità: traffico di stupefacenti, dollari falsi oppure perdita o furto fasullo di travelers cheques, “assegni turistici” assicurati che, dopo aver incassato l’equivalente mostrando la denuncia (vera) di furto o smarrimento (falsi), venivano poi incassati appena passata la più vicina frontiera nella prima banca dove avrebbero saputo forse solo un mese dopo di aver pagato una seconda volta cheque già rimborsati. Poteva finir bene anche con un altro sistema che, per noi italiani, si era poi dimostrato per anni un ottimo modo di tornare a casa come portoghesi a carico dello Stato. Come in India qualcuno aveva scoperto lo sportello ferroviario “per soli bianchi”, noi avevamo scoperto che le ambasciate italiche in Sudamerica potevano offrire un servizio di rimpatrio gratuito via nave agli emigranti italiani cui l’indigenza non consentiva di pagare il biglietto.

Chi dunque arrivava in Brasile senza ormai più una lira in tasca, andava a batter cassa al consolato

…ma il sogno restava Kathmandu…

di San Paolo o di Rio piangendo in sette lingue e mostrando le foto dei parenti e le tasche bucate. Quei diplomatici che non avevano ancora conosciuto le orde di questuanti che affollavano le varie legazioni sulla rotta dell’Eden, compilavano il formulario di rimpatrio fino al porto di Genova con annesso biglietto ferroviario fino alla città natale. Senza ritegno sfruttavamo cinicamente l’antica miseria dei nostri migranti che all’inizio del secolo avevano cercato fortuna nel Nuovo Mondo con alterni destini. Era la scuola dell’Eden e stavamo già pensando a come tornarci perché si favoleggiava di una nave da Rio per Dakar e da lì a Bombay… Discoli, certamente, e sempre in compagnia di cattivi maestri, avremmo importato salsa e merengue, canti rivoluzionari, poncho di alpaca, frasi gergali imparate nel Salvador, cocaina e maria. E avremmo esibito un’altra sequela di tacche sul passaporto che, tra l’altro, nelle Americhe di visti non c’era bisogno. Fatta eccezione per gli Stati Uniti, che per rilasciarlo pretendevano che tu sottoscrivessi di non esser mai stato comunista. Beffare gli yankee con una menzogna burocratica era una delle nostre più grandi soddisfazioni.
Su quelle strade ripetevamo come un mantra l’ultima frase con cui Jack Kerouac aveva terminato Sulla strada – On the Road – uno dei nostri testi sacri: «Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale… nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventare vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty».

* Questo capitolo (leggermente ridotto rispetto all’originale nel libro, è uscito venerdi 4 agosto su il manifesto)

Afghanistan, la prima vittima della guerra di Trump

Trump. A sn John Nicholson.
Sotto il trailer di
War machine

La prima vittima eccellente della nuova strategia della Casa bianca per l’Afghanistan potrebbe proprio essere la persona che ha sostanzialmente
chiesto al presidente un nuovo “surge”, con un maggior impegno di soldati e soldi a un capo dello Stato che, in campagna elettorale, voleva tirare via anche l’ultimo singolo soldato dal Paese dell’Hindukush.

 Stando a un dispaccio di Reuters, in una burrascosa riunione il 19 luglio scorso col segretario alla Difesa  James Mattis e il capo del Joint Chiefs of Staff (lo stato maggiore) Joseph Dunford, Trump avrebbe chiesto la testa di John Nicholson,  che comanda nel Paese asiatico gli americani e la Nato dal marzo del 2016. La sua colpa? Non aver vinto la guerra… che adesso Trump invece vuole vincere senza indugi. Come? Non si sa. Il suo stratega  Steve Bannon e il suo national security adviser H.R. McMaster hanno tentato di blandire Trump nel burrascoso meeting ma non sembra ci siano riusciti.

Se Nicholson sarà fatto secco si vedrà ma la cosa non piacerà al Pentagono. C’è una sorta di guerra tra il presidente e le istituzioni repubblicane. Probabilmente a Trump piace l’idea che la macchina della guerra si rimetta in moto con commesse e dunque lavoro ma non si fida né dei militari né della sua intelligence. A chi darà retta? Teoricamente a metà luglio avremmo dovuto sapere se è vero che gli Usa manderanno nuovi soldati e se è vero che chiederanno agli afgani di cambiare le regole della guerra che, almeno in teoria, ora prevedono che la catena di comando risponda in ultima istanza a Kabul. Si è anche ventilata l’ipotesi di una guerra per procura con i contractor. Ma sono tutte speculazioni e il presidente tace.

Silurare il capo locale dei soldati può essere un modo per far vedere che si ha la situazione in pugno ma non può bastare. Viene in mente il generale Stanley McChristall che, mandato a Kabul per vincere la guerra, si ritrovò sotto il fuco incrociato dopo che la rivista Rolling Stones aveva pubblicato un servizio in cui il generale non le mandava a dire. Fu licenziato e forse sapeva benissimo cosa sarebbe successo dopo le sue dichiarazioni. Forse voleva farsi cacciare. La sua storia è adesso un film (non particolarmente eccitante). La prossima puntata, con Nicholson protagonista, è ancora da scrivere.

Il sorriso di un bambino

Sono passati due anni dal conflitto armato in Yemen, un conflitto che ha devastato il paese.  APPROFONDIRE Ma ciò che turba lo Yemen è il colera. Maggiori conseguenze ricadono sui minori e sugli adolescenti che è la fascia maggiormente colpita… Continue Reading →

Bologna, 2 agosto 1980

Chissà, forse pensavamo di aver superato la fase più dura. La violenza politica che aveva segnato in modo indelebile la nostra adolescenza, e le stragi per mano ‘ignota’. Chissà perché, di quell’estate ricordo la sensazione che fosse in via di remissione una stagione. La memoria fa singolari selezioni, non sempre affidabili, ma la sensazione dellaContinua a leggere

In arrivo in libreria: “Passaggi in Siria” di Samar Yazbek e “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città” di Khaled Khalifa

Per una strana coincidenza, tra settembre e ottobre 2017 escono in traduzione italiana due novità di narrativa siriana: Passaggi in Siria, di Samar Yazbek (Sellerio, trad. di Andrea Grechi) e Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città, di Khaled Khalifa (Bompiani, traduttore ancora ignoto). Yazbek e Khalifa sono due scrittori siriani contemporanei: la […]

Bella scelta, Google Camp!

Al Baglio San Vincenzo ci abbiamo trascorso due lunghe estati. Correva l’anno 2008, e l’estate era stata così calma, il mare per famiglie così rilassante, e soprattutto il tappeto di stelle così bello sopra di noi, sopra il Baglio immerso nella campagna tra Menfi e Sciacca, che l’anno dopo ci tornammo. Al Baglio. E allaContinua a leggere

Da Raqqa con furore

Il sito di Amq, voce del “califfato”

Colpire il nemico fuori dal teatro siriano iracheno. Punirlo per aver annunciato (alcuni giorni fa con un incontro stampa) la presa di Mosul. Attaccare un obiettivo che dia risalto mediatico all’azione esemplare. Sembra questo il ragionamento che ha portato ieri un commando dello Stato islamico, nella sua versione “Territorio del Khorasan”, ad attaccare l’ambasciata irachena a Kabul, nel cuore commercial diplomatico della capitale. Azione rapida e con meccanismi noti: un kamikaze vestito da poliziotto afgano si fa esplodere all’ingresso della legazione irachena; la porta si apre e un commando di tre uomini entra per fare strage. Ma le cose vanno male: un poliziotto viene ferito e mentre i guardiani dell’ambasciata impegnano il commando gli altri riescono a fuggire. Poi escono tutti mentre la legazione viene circondata e finisce sotto il fuoco incrociato della truppe speciali afgane. Dura circa quattro ore l’assedio al commando (dalle 11 del mattino alle 15), poi i tre vengono fatti fuori mentre l’agenzia Amaq, la sirena mediatica del califfato di Al Baghdadi, rivendica l’azione. Fortunatamente sfortunata. Il prezzo lo pagano soprattutto gli uomini del commando anche se due civili hanno perso la vita ed è sempre presto per sapere se non vi siano altre vittime. Le vittime civili della guerra, come ha appena denunciato il rapporto semestrale dell’Onu, sono quelle con i numeri più alti, in un conflitto che si è spostato sempre più nella capitale: degli 1662 morti nei primi sei mesi del 2017, il 20% ha perso la vita a Kabul.

L’attentato sembra indicare il desiderio dello Stato islamico di affermare la sua presenza nella guerra afgana nel tentativo di farla apparire come un pezzo della guerra globale volta alla riconquista di vecchi e nuovi territori della Umma sunnita. Ma la guerra afgana di Al Baghdadi segna pochi successi ed è particolarmente sotto tiro anche da parte dei talebani che non amano affatto questi jihadisti d’importazione che hanno reclutato vecchi quadri espulsi dal movimento o qualche clan, guerrigliero più per convenienza che per fede. Colpire l’ambasciata irachena, un obiettivo davvero inusuale nel panorama diplomatico della capitale, indica poi un cambio di strategia che esce dai binari che hanno sempre condotto le azioni verso la “zona verde”, una città nella città dove c’è il quartier generale della Nato e l’ambasciata americana, il “nemico lontano” per Al Qaeda, il nemico di sempre per i talebani che imputano a Washington l’escalation della guerra, pur coi suoi alti e bassi, e soprattutto la scelta di mantenere un’occupazione militare che, per quanto avallata dal governo locale, mostra sempre più la corda.

Per uscire dall’impasse gli americani stanno pensando a una nuova strategia che per ora è solo una sommatoria di indiscrezioni dove c’è tutto e il contrario di tutto: Trump avrebbe dovuto rendere noto il suo piano a metà luglio ma i giorni passano e la montagna non riesce a partorire nemmeno un topolino. Più soldati? Più aerei? Più omicidi mirati di leader guerriglieri? E come la mettiamo con la missione Nato “Resolute support” che, come dice il nome, dovrebbe essere di sola assistenza tecnica, senza sparare un colpo? Una missione che vede impegnati quasi mille militari italiani. Quanto alle indiscrezioni di stampa dei giorni scorsi secondo cui truppe italiane e statunitensi sarebbero sbarcate a Farah (sudoccidente), lo Stato maggiore della Difesa ha precisato che attualmente non vi sono soldati italiani a Farah e che comunque le missioni italiane fuori da Camp Arena (base Nato del quadrante Ovest) «non prevedono l’uso delle armi» ma solo training e formazione. Non di meno, a metà agosto circa cento militari italiani si sposteranno a Farah una volta conclusa l’attività esterna di Train Advise e Assist a favore della 3ª brigata del 207˚ Corpo d’Armata dell’esercito afgano dislocata a Qual-eye-naw, 150 Km a Nord di Herat.