Mese: marzo 2016

Daesh e il sesso: l’anti-Mille e una Notte per eccellenza

Di Fawzia Zouari. Al Huffington Post Maghreb (18/03/2016). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia. Questo video ci mostra su uno dei grandi sogni nutriti da Daesh (ISIS): dominare le donne e controllarne il corpo. Come spiegare le atrocità commesse dal sedicente Stato Islamico contro le donne per cui non esiste nessun riferimento religioso plausibile? Come spiegare […]

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Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

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Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
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Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
”Dove sono gli arabi” ?

Dove sono gli arabi ?

L’unico movimento di resistenza al Sionismo viene classificato dai regimi arabi come ” organizzazione terrorista ”.
Da piccolo,quando mio padre mi costringeva a guardare i telegiornali arabi,un po per imparare la lingua araba e un po per conoscere la triste realtà del popolo palestinese nei territori occupati dallo Stato sionista, mi commuovevo quando ascoltavo la frase urlata da una donna palestinese ” Eina el arab !!? ” (dove sono gli arabi ?). Me lo chiedevo anche io quando vedevo le bombe al fosforo piovere sopra Gaza,e se lo chiedevano tutti quelli che,seppur distratti dalla mondanità e dai problemi della vita occidentale, hanno a cuore la questione palestinese. Qualche mese fa i ministri degli esteri arabi hanno classificato Hezbollah,l’unico movimento di resistenza arabo e musulmano capace di tenere testa ad Israele,come ” organizzazione terrorista ” .
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Il problema degli esperti di Yemen

Di Afrah Nasser. Al-Araby al-Jadeed (29/03/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Mohammed Al-Yamani, il fotogiornalista yemenita che è stato ucciso da un cecchino Houthi più di una settimana fa, ha ricevuto una solidarietà online superiore alla sua solita rete locale. Anche The New York Times ha parlato della sua morte. Se Al-Yamani non fosse […]

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Presentazione di “Il giocatore d’azzardo” a Milano

Se siete a Milano domenica, non perdetevi la presentazione dell’ultima raccolta di poesie di Mahmud Darwish, presentata dalla sua traduttrice Ramona Ciucani e da Elisabetta Bartuli, traduttrice e curatrice di Darwish. Una trilogia palestinese. Se volete saperne di più, leggetevi il post in cui ne avevo parlato in occasione dell’uscita della raccolta: Mahmud Darwish, giocatore … Continua a leggere Presentazione di “Il giocatore d’azzardo” a Milano

Presentazione di “Il giocatore d’azzardo” a Milano

Se siete a Milano domenica, non perdetevi la presentazione dell’ultima raccolta di poesie di Mahmud Darwish, presentata dalla sua traduttrice Ramona Ciucani e da Elisabetta Bartuli, traduttrice e curatrice di Darwish. Una trilogia palestinese. Se volete saperne di più, leggetevi il post in cui ne avevo parlato in occasione dell’uscita della raccolta: Mahmud Darwish, giocatore … Continua a leggere Presentazione di “Il giocatore d’azzardo” a Milano

La complicità degli stupidi

Il buon Gasparri e il saggio Salvini,e cosi tutta la cricca fascista che intasa lo stivale dal 1948 ad oggi,e che al grido ” ripuliamo le nostre città ” arringano le folle contro quelli che ” prendono i nostri passaporti, lavorano nelle nostre città , come Salah e i suoi familiari a Bruxelles, e in cambio ci sterminano”, hanno di nuovo riattivato la macchina dell’odio. 

Qualche altro idiota,che stranamente si ritrova ad intasare abusivamente la mia home facebook,chiede la cacciata di tutti i musulmani dall’Europa,compresi i ” moderati ”. Ecco,questa gente, nella loro ingenua stupidità,fanno il gioco dell’Isis. Seminano odio,arringano le folle contro l’ultimo arrivato,regalando cosi sempre più adepti alla macchina bellica dello Stato Islamico. Quindi non sorprendetevi se un giorno,ciò che è successo a Parigi e Bruxelles,si ripeterà in qualche piazza italiana.

La complicità degli stupidi

Il buon Gasparri e il saggio Salvini,e cosi tutta la cricca fascista che intasa lo stivale dal 1948 ad oggi,e che al grido ” ripuliamo le nostre città ” arringano le folle contro quelli che ” prendono i nostri passaporti, lavorano nelle nostre città , come Salah e i suoi familiari a Bruxelles, e in cambio ci sterminano”, hanno di nuovo riattivato la macchina dell’odio. 

Qualche altro idiota,che stranamente si ritrova ad intasare abusivamente la mia home facebook,chiede la cacciata di tutti i musulmani dall’Europa,compresi i ” moderati ”. Ecco,questa gente, nella loro ingenua stupidità,fanno il gioco dell’Isis. Seminano odio,arringano le folle contro l’ultimo arrivato,regalando cosi sempre più adepti alla macchina bellica dello Stato Islamico. Quindi non sorprendetevi se un giorno,ciò che è successo a Parigi e Bruxelles,si ripeterà in qualche piazza italiana.

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Varoufakis’ DiEM25 and the politics of the self(ie)

Last week I entered the Acquario Romano, a historic gorgeous building in the surroundings of the main train station in Rome, eager to breath some fresh air in the lately very depressing hallways of politics. Yannis Varoufakis was there to launch his newborn movement, DiEM25: an ambitious name that stands for “Democracy in Europe Movement” […]

Varoufakis’ DiEM25 and the politics of the self(ie)

Last week I entered the Acquario Romano, a historic gorgeous building in the surroundings of the main train station in Rome, eager to breath some fresh air in the lately very depressing hallways of politics. Yannis Varoufakis was there to launch his newborn movement, DiEM25: an ambitious name that stands for “Democracy in Europe Movement” […]

Varoufakis’ DiEM25 and the politics of the self(ie)

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Varoufakis’ DiEM25 and the politics of the self(ie)

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“Shah-in-Shah” di Ryszard Kapuscinski

Note, appunti, fotografie, audiocassette, costituiscono l’enorme mole di materiale utilizzato dal giornalista Ryszard Kapuscinski per il suo reportage sugli ultimi anni della dittatura dei Pahlavi in Iran e la transizione verso la Repubblica Islamica di Khomeini. Il famoso reporter polacco ci restituisce il quadro di un paese dominato dalla famiglia dello scià, dove solo in […]

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Combattere l’estremismo prima del terrorismo

Di Abdulrahman al-Rashed. Asharq Al-Awsat (29/03/2016). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti. È ingenuo accusare giornalisti e commentatori di diffondere storie locali sull’estremismo islamista oltre i confini e di aizzare contro la propria religione, la propria gente o il proprio Paese. La verità è chiara per tutti: i terroristi compiono ciò che gli estremisti pensano. Alla […]

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Amin Maalouf e Nathalie Handal al Festival Incroci di civiltà di Venezia

Il famoso scrittore franco-libanese Amin Maalouf inaugurerà il Festival veneziano di letteratura internazionale Incroci di civiltà questo pomeriggio, alle 17.30, al Teatro Goldoni. L’autore di Le crociate viste dagli arabi, che è spesso ospite del nostro Paese (vd. il mio post sul suo ultimo incontro romano), converserà con: Marie Christine Jamet, Università Ca’ Foscari Venezia … Continua a leggere Amin Maalouf e Nathalie Handal al Festival Incroci di civiltà di Venezia

Amin Maalouf e Nathalie Handal al Festival Incroci di civiltà di Venezia

Il famoso scrittore franco-libanese Amin Maalouf inaugurerà il Festival veneziano di letteratura internazionale Incroci di civiltà questo pomeriggio, alle 17.30, al Teatro Goldoni. L’autore di Le crociate viste dagli arabi, che è spesso ospite del nostro Paese (vd. il mio post sul suo ultimo incontro romano), converserà con: Marie Christine Jamet, Università Ca’ Foscari Venezia … Continua a leggere Amin Maalouf e Nathalie Handal al Festival Incroci di civiltà di Venezia

Il Gandhi della frontiera

Musulmano, pashtun, non violento e pacifista. Profilo del leader delle 100mila “camice rosse” disarmate che volevano l’indipendenza del Raj britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e senza dividere l’India. Un simbolo allora nel mirino della polizia coloniale e adesso dei talebani
Negli anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell’Indian National Congressdi accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un parto gemellare che faceva della Perla d’oriente della corona i due stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario alla Partition, la commentò così rivolgendosi all’Inc che non lo aveva nemmeno consultato: «Ci avete gettato in pasto ai lupi». Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi.
Abdul Ghaffar Khan era un leader politico della Provincia più occidentale dell’Impero, al confine con l’Afghanistan. Era un musulmano convinto e convinto che l’islam fosse una religione di pace. Ed era un pukthun, membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand, delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathanin quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun, come vengono chiamati in Afghanistan.
Pukhtun, pathan, pashtun
La storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque definitivamente separata alla fine dell’Ottocento anche se ha conservato un’unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in parte perché la “guerra afgana” si combatta in realtà soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C’è molto dunque che lega il passato al presente. E c’è un episodio recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno dei suoi principali protagonisti.
Il 20 gennaio di quest’anno, un gruppo di guerriglieri talebani (talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera) fa irruzione nell’università Bacha Khan di Charsadda nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, nato nel 1890 e deceduto il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l’Urss). Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati dell’Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi a mettere in relazione l’assalto con la cerimonia. Eppure la scelta appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto anche il Gandhi della Frontiera?
Non violento e pacifista
Bacha Khan con Gandhi. Si alleò col Congresso
ma fu contrarissimo allla divisione del Raj
. Sopra a sn la “Durand Line” disegnata dai britannici
La scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardianche «…la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel pashtunwali– il codice etico dei pashtun – e nell’Islam» e che il successo della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce un nesso evidente tra l’attacco di musulmani violenti a una scuola intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta, contagerà l’intera provincia patana e metterà in seria difficoltà gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un movimento nonviolento denominato Khudai Khidmatgar, “i servi di Dio”. Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti (tra loro anche donne ndr), era dedito alla riforma sociale e a porre fine al regime britannico con mezzi nonviolenti…fu per molti anni un fedele compagno di lotta di Gandhi… e ancora oggi viene ricordato come il “Gandhi della frontiera”. Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson «…l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera nord-occidentale… gli appartenenti a queste tribù, noti per le loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in India».
La nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe in “The Pathans”, questa gente «…non era pronta per quel che a livello popolare era chiamato governo responsabile»e che avrebbe dovuto dare (in parte) l’India agli indiani con la riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l’anno dopo, doveva trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull’autogoverno. Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati non eletti ma “nominati”. E di fatto la provincia della Frontiera del NordOvest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in quell’area remota così che si formò un’organizzazione politica in cui emersero due personaggi noti come i “fratelli Khan”: Khan Sahib, un medico che aveva sposato un’inglese e lavorava per l’Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan. Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il governo coloniale, il secondo capiva l’inglese ma non lo parlava così come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d’importazione. Un vero pathan dall’eloquio affascinante che finì per conquistare – si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti.
Una terra per tutti: il Pashtunistan
Le terre patane   o pashtun tra Afghanistan
e Pakistan. Un fantasma ancora presente
Bacha Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento “Khilafat” (in difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell’India su basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami). Ma quando diventa chiaro che la Partitionè inevitabile, Bacha Khan lavora all’idea che le terre dei pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l’idea del Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai possidenti terrieri. E quando crea i Khudai Khidmatgar– detti anche surkh poshano camice rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan (che dopo il ’47 metterà fuori legge le camice rosse). La repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene arrestato, un’enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si rifiutano di sparare.
Dentro e fuori dal suo Paese (è a Jalalabd in Afghanistan che si svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citavaper corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano e’ colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori di Charsadda non lo hanno dimenticato.

Per saperne di più:
Leggere: Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. Lorenzo Armando, Sonda, Torino 1990 pp. 250
Vedere: Teri C. McLuhan, Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace (Canada) 2009
Questo articolo è uscito sul quotidiano  il manifesto

Il Gandhi della frontiera

Musulmano, pashtun, non violento e pacifista. Profilo del leader delle 100mila “camice rosse” disarmate che volevano l’indipendenza del Raj britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e senza dividere l’India. Un simbolo allora nel mirino della polizia coloniale e adesso dei talebani
Negli anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell’Indian National Congressdi accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un parto gemellare che faceva della Perla d’oriente della corona i due stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario alla Partition, la commentò così rivolgendosi all’Inc che non lo aveva nemmeno consultato: «Ci avete gettato in pasto ai lupi». Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi.
Abdul Ghaffar Khan era un leader politico della Provincia più occidentale dell’Impero, al confine con l’Afghanistan. Era un musulmano convinto e convinto che l’islam fosse una religione di pace. Ed era un pukthun, membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand, delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathanin quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun, come vengono chiamati in Afghanistan.
Pukhtun, pathan, pashtun
La storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque definitivamente separata alla fine dell’Ottocento anche se ha conservato un’unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in parte perché la “guerra afgana” si combatta in realtà soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C’è molto dunque che lega il passato al presente. E c’è un episodio recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno dei suoi principali protagonisti.
Il 20 gennaio di quest’anno, un gruppo di guerriglieri talebani (talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera) fa irruzione nell’università Bacha Khan di Charsadda nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, nato nel 1890 e deceduto il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l’Urss). Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati dell’Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi a mettere in relazione l’assalto con la cerimonia. Eppure la scelta appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto anche il Gandhi della Frontiera?
Non violento e pacifista
Bacha Khan con Gandhi. Si alleò col Congresso
ma fu contrarissimo allla divisione del Raj
. Sopra a sn la “Durand Line” disegnata dai britannici
La scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardianche «…la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel pashtunwali– il codice etico dei pashtun – e nell’Islam» e che il successo della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce un nesso evidente tra l’attacco di musulmani violenti a una scuola intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta, contagerà l’intera provincia patana e metterà in seria difficoltà gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un movimento nonviolento denominato Khudai Khidmatgar, “i servi di Dio”. Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti (tra loro anche donne ndr), era dedito alla riforma sociale e a porre fine al regime britannico con mezzi nonviolenti…fu per molti anni un fedele compagno di lotta di Gandhi… e ancora oggi viene ricordato come il “Gandhi della frontiera”. Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson «…l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera nord-occidentale… gli appartenenti a queste tribù, noti per le loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in India».
La nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe in “The Pathans”, questa gente «…non era pronta per quel che a livello popolare era chiamato governo responsabile»e che avrebbe dovuto dare (in parte) l’India agli indiani con la riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l’anno dopo, doveva trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull’autogoverno. Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati non eletti ma “nominati”. E di fatto la provincia della Frontiera del NordOvest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in quell’area remota così che si formò un’organizzazione politica in cui emersero due personaggi noti come i “fratelli Khan”: Khan Sahib, un medico che aveva sposato un’inglese e lavorava per l’Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan. Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il governo coloniale, il secondo capiva l’inglese ma non lo parlava così come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d’importazione. Un vero pathan dall’eloquio affascinante che finì per conquistare – si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti.
Una terra per tutti: il Pashtunistan
Le terre patane   o pashtun tra Afghanistan
e Pakistan. Un fantasma ancora presente
Bacha Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento “Khilafat” (in difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell’India su basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami). Ma quando diventa chiaro che la Partitionè inevitabile, Bacha Khan lavora all’idea che le terre dei pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l’idea del Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai possidenti terrieri. E quando crea i Khudai Khidmatgar– detti anche surkh poshano camice rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan (che dopo il ’47 metterà fuori legge le camice rosse). La repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene arrestato, un’enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si rifiutano di sparare.
Dentro e fuori dal suo Paese (è a Jalalabd in Afghanistan che si svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citavaper corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano e’ colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori di Charsadda non lo hanno dimenticato.

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Da Regeni al volo EgyptAir, l’Egitto e la sicurezza impossibile:”1.000 vittime di attentati nel solo 2015, Sinai nel caos”

C’è un filo che parte dal dirottamento dell’Airbus della EgyptAir, passa per l’uccisione di Giulio Regeni e arriva ai molteplici attentati che nell’ultimo anno ha colpito il Paese dalla penisola del Sinai fino al Cairo: la difficoltà incontrata dalle autorità nel garantire la sicurezza dei propri cittadini. Il dirottamento dell’airbus Egyptair MS 181 non è stato […]

L’articolo Da Regeni al volo EgyptAir, l’Egitto e la sicurezza impossibile:”1.000 vittime di attentati nel solo 2015, Sinai nel caos” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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C’è un filo che parte dal dirottamento dell’Airbus della EgyptAir, passa per l’uccisione di Giulio Regeni e arriva ai molteplici attentati che nell’ultimo anno ha colpito il Paese dalla penisola del Sinai fino al Cairo: la difficoltà incontrata dalle autorità nel garantire la sicurezza dei propri cittadini. Il dirottamento dell’airbus Egyptair MS 181 non è stato […]

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“No al federalismo in Siria!”

Di Abdullah Awadhi. Al-Arab (26/03/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Per la prima volta dall’inizio delle Conferenze di Ginevra, il governo e l’opposizione siriana si trovano d’accordo nell’essere contro il progetto separatista curdo, con un “No al federalismo” come primo passo verso la trasformazione della Grande Siria in una serie di staterelli. Tale timore è […]

L’articolo “No al federalismo in Siria!” sembra essere il primo su Arabpress.

Strage di Pasqua in Pakistan

Il giorno dopo la strage di Pasqua, tutto il Pakistan manifesta la sua solidarietà ai funerali delle vittime dell’attentato in Punjab, ben oltre la religione di appartenenza dei morti: tre giorni di lutto nazionale, dichiarazioni istituzionali forti contro l’islamismo radicale e il via libera a un’ “Operazione Punjab” che è stata decisa ieri dal generale Rahel Sharif, l’uomo forte del Pakistan, a capo dell’esercito e il personaggio che sta facendo piazza pulita nel Waziristan, sul confine con l’Afghanistan, con un operativo militare contro la guerriglia (nell’immagine sotto a sn).

I fatti di Pasqua sono atroci anche se perfettamente in linea con la logica stragista e terroristica che insanguina il Paese ormai da oltre quindici anni: un gruppo islamista di recente formazione e dai contorni confusi, mette a segno nel giorno di Pasqua un attentato suicida che si consuma in un parco pubblico di Lahore. Il primo bilancio dava già almeno settanta morti (ieri saliti a 72) con centinaia di feriti di diversa età, estrazione sociale e confessione religiosa anche se il comunicato di rivendicazione di Jamaatul Ahrar puntava l’indice sui cristiani, colpiti nel mucchio di un luogo di ricreazione che di per sé una fede non ce l’ha. L’attentatore suicida che entra senza difficoltà nel parco, innescando l’inevitabile polemica sull’assenza di forze di sicurezza, appartiene a una formazione dai contorni incerti che oltre un anno fa si è scissa dal Tehreek Taleban Pakistan (Ttp), l’ombrello jihadista per eccellenza che si rifà al verbo di mullah Omar e alla scuola islamista Deobandi ma che ha declinato il suo jihad in modo brutale e scegliendo di colpire soprattutto il governo di Islamabad, apostata e asservito agli Stati Uniti. JA è governata tra l’altro da quell’Ehsanullah Ehsan che del Ttp è stato a lungo portavoce. Le cronache dicono che la scissione ha poi portato il gruppo a sostenere Daesh ma che in seguito JA avrebbe fatto marcia indietro, rientrando nelle file del Ttp. Vero o non vero, è JA a firmare l’attentato di Pasqua e questo è il primo dato: un dato che dice che il Ttp è ancora in crisi e una nuova guerra per bande – forse anche per controllare la cupola del vecchio network jihadista – è in corso.

Il secondo elemento è che il gruppo colpisce Lahore, la “perla dell’islam” nel subcontinente indiano, ex capitale del Punjab – quando Pakistan e India erano unite sotto il Raj britannico – e capitale attuale della provincia più popolosa e importante del Paese, governata dal fratello del premier Nawaz Sharif. Un elemento non secondario perché la fazione punjabi del Ttp – anche lei dissociatasi dal cartello madre – appare in sordina da diverso tempo e, a parte rare escursioni in altre province, le azioni dell’estremismo jihadista restano per lo più confinate nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa e in particolare nelle sette agenzie tribali al confine con l’Afghanistan. Il terrore esce dunque dalla sua area tradizionale.

Il terzo elemento racconta una deriva anti cristiana che non è nelle corde classiche del Ttp, più orientato semmai a combattere gli sciiti, i sufi, le minoranze islamiche devianti. Un quarto elemento che li contiene tutti, appare dunque essere quello di una guerriglia jihadista sempre più atomizzata, che sembra sparare nel mucchio senza far troppe differenze, forse per guadagnare la testa di un movimento in difficoltà: sia per l’arrivo di Daesh sia per i dissidi interni, spesso legati all’origine clanica – dunque “famigliare” – della guerriglia pashtun delle aree di confine, ma anche perché governo ed esercito stanno facendo sul serio con quell’operazione Zarb e Azb iniziata quasi due anni fa nelle aree tribali e che ha scompaginato e in parte distrutto i santuari rifugio della guerriglia, nazionale e straniera.

E’ comunque difficile capire quale rapporto Jamaatul Ahrar abbia con Daesh – presente in Pakistan ma più come minaccia che come realtà – quale sia la sua relazione col Ttp, quale la sua agenda politica, aperta e nascosta. E, soprattutto, chi arma e finanzia un gruppo la cui scia di terrore ha già colpito la minoranza cristiana altre volte. E’ pur vero che il gruppo era salito alla ribalta con un’attentato al confine indo-pachistano – il che l’aveva posizionato tra i combattenti anti indiani – ma poi le sue azioni si sono diversificate. Agisce – Lahore ne è la prova – anche fuori dalle aree tribali. E non guarda in faccia le sue vittime. Non è purtroppo una sua prerogativa. Se ci colpiscono settanta persone uccise in un parco, la memoria corre al gennaio scorso quando a Charsadda, un manipolo di combattenti, anche quelli non riconducibili al Ttp (che anzi condannò), attacca un’università e uccide oltre una ventina tra studenti e insegnanti. E solo un anno prima, a Peshawar, nel dicembre 2014, il Ttp uccideva oltre 140 studenti di una scuola militare.

Strage di Pasqua in Pakistan

Il giorno dopo la strage di Pasqua, tutto il Pakistan manifesta la sua solidarietà ai funerali delle vittime dell’attentato in Punjab, ben oltre la religione di appartenenza dei morti: tre giorni di lutto nazionale, dichiarazioni istituzionali forti contro l’islamismo radicale e il via libera a un’ “Operazione Punjab” che è stata decisa ieri dal generale Rahel Sharif, l’uomo forte del Pakistan, a capo dell’esercito e il personaggio che sta facendo piazza pulita nel Waziristan, sul confine con l’Afghanistan, con un operativo militare contro la guerriglia (nell’immagine sotto a sn).

I fatti di Pasqua sono atroci anche se perfettamente in linea con la logica stragista e terroristica che insanguina il Paese ormai da oltre quindici anni: un gruppo islamista di recente formazione e dai contorni confusi, mette a segno nel giorno di Pasqua un attentato suicida che si consuma in un parco pubblico di Lahore. Il primo bilancio dava già almeno settanta morti (ieri saliti a 72) con centinaia di feriti di diversa età, estrazione sociale e confessione religiosa anche se il comunicato di rivendicazione di Jamaatul Ahrar puntava l’indice sui cristiani, colpiti nel mucchio di un luogo di ricreazione che di per sé una fede non ce l’ha. L’attentatore suicida che entra senza difficoltà nel parco, innescando l’inevitabile polemica sull’assenza di forze di sicurezza, appartiene a una formazione dai contorni incerti che oltre un anno fa si è scissa dal Tehreek Taleban Pakistan (Ttp), l’ombrello jihadista per eccellenza che si rifà al verbo di mullah Omar e alla scuola islamista Deobandi ma che ha declinato il suo jihad in modo brutale e scegliendo di colpire soprattutto il governo di Islamabad, apostata e asservito agli Stati Uniti. JA è governata tra l’altro da quell’Ehsanullah Ehsan che del Ttp è stato a lungo portavoce. Le cronache dicono che la scissione ha poi portato il gruppo a sostenere Daesh ma che in seguito JA avrebbe fatto marcia indietro, rientrando nelle file del Ttp. Vero o non vero, è JA a firmare l’attentato di Pasqua e questo è il primo dato: un dato che dice che il Ttp è ancora in crisi e una nuova guerra per bande – forse anche per controllare la cupola del vecchio network jihadista – è in corso.

Il secondo elemento è che il gruppo colpisce Lahore, la “perla dell’islam” nel subcontinente indiano, ex capitale del Punjab – quando Pakistan e India erano unite sotto il Raj britannico – e capitale attuale della provincia più popolosa e importante del Paese, governata dal fratello del premier Nawaz Sharif. Un elemento non secondario perché la fazione punjabi del Ttp – anche lei dissociatasi dal cartello madre – appare in sordina da diverso tempo e, a parte rare escursioni in altre province, le azioni dell’estremismo jihadista restano per lo più confinate nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa e in particolare nelle sette agenzie tribali al confine con l’Afghanistan. Il terrore esce dunque dalla sua area tradizionale.

Il terzo elemento racconta una deriva anti cristiana che non è nelle corde classiche del Ttp, più orientato semmai a combattere gli sciiti, i sufi, le minoranze islamiche devianti. Un quarto elemento che li contiene tutti, appare dunque essere quello di una guerriglia jihadista sempre più atomizzata, che sembra sparare nel mucchio senza far troppe differenze, forse per guadagnare la testa di un movimento in difficoltà: sia per l’arrivo di Daesh sia per i dissidi interni, spesso legati all’origine clanica – dunque “famigliare” – della guerriglia pashtun delle aree di confine, ma anche perché governo ed esercito stanno facendo sul serio con quell’operazione Zarb e Azb iniziata quasi due anni fa nelle aree tribali e che ha scompaginato e in parte distrutto i santuari rifugio della guerriglia, nazionale e straniera.

E’ comunque difficile capire quale rapporto Jamaatul Ahrar abbia con Daesh – presente in Pakistan ma più come minaccia che come realtà – quale sia la sua relazione col Ttp, quale la sua agenda politica, aperta e nascosta. E, soprattutto, chi arma e finanzia un gruppo la cui scia di terrore ha già colpito la minoranza cristiana altre volte. E’ pur vero che il gruppo era salito alla ribalta con un’attentato al confine indo-pachistano – il che l’aveva posizionato tra i combattenti anti indiani – ma poi le sue azioni si sono diversificate. Agisce – Lahore ne è la prova – anche fuori dalle aree tribali. E non guarda in faccia le sue vittime. Non è purtroppo una sua prerogativa. Se ci colpiscono settanta persone uccise in un parco, la memoria corre al gennaio scorso quando a Charsadda, un manipolo di combattenti, anche quelli non riconducibili al Ttp (che anzi condannò), attacca un’università e uccide oltre una ventina tra studenti e insegnanti. E solo un anno prima, a Peshawar, nel dicembre 2014, il Ttp uccideva oltre 140 studenti di una scuola militare.

Premio Giulio Questi 2016

giuliaccio 110E’ indetta la prima edizione del Premio Giulio Questi per promuovere e sostenere opere di giovani autori. Il Premio si rivolge ad autori italiani e stranieri maggiorenni e che non abbiano superato 27 anni di età alla data di scadenza del bando.

I rifugiati “in ostaggio” da quarant’anni

Di Mahmoud al-Rimawi. Al-Araby al-Jadeed (26/03/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Quando il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha descritto la presenza marocchina nel Sahara occidentale come “occupazione”, probabilmente non era in mala fede. Ad ogni modo, il segretario non è tornato sulla questione e non ha chiarito ciò che ha […]

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Le possibili conseguenze della ripresa di Palmira da parte del regime siriano

Di Louis Imbert e Madjid Zerrouky. Le Monde.fr (25/03/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. Appena completato, senza grandi risultati, il ciclo di negoziati a Ginevra, venerdì 25 marzo le forze siriane sembravano essere sul punto di riprendere la città di Palmira dalle forze del sedicente Stato Islamico che la occupa da quasi un anno. […]

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La favola dell’ “integrazione”

Tutte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male.

Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo “provincializzare l’Europa”, renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro.

La favola dell’ “integrazione”

Tutte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male.

Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo “provincializzare l’Europa”, renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro.

Bruxelles: i pericoli della ripetizione

Santiago Alba Rico Quando un fenomeno si ripete in modo regolare, è necessario concentrarsi sugli effetti di tale ripetizione più che sulle cause locali di una delle sue manifestazioni fisiche. Il doppio attentato di martedì scorso a Bruxelles chiaramente spinge a porsi numerose domande di ordine poliziesco; induce a interrogarsi sul coordinamento tra polizia e servizi segreti in Belgio e […]

Bruxelles: i pericoli della ripetizione

Santiago Alba Rico Quando un fenomeno si ripete in modo regolare, è necessario concentrarsi sugli effetti di tale ripetizione più che sulle cause locali di una delle sue manifestazioni fisiche. Il doppio attentato di martedì scorso a Bruxelles chiaramente spinge a porsi numerose domande di ordine poliziesco; induce a interrogarsi sul coordinamento tra polizia e servizi segreti in Belgio e […]

Bruxelles: i pericoli della ripetizione

Santiago Alba Rico Quando un fenomeno si ripete in modo regolare, è necessario concentrarsi sugli effetti di tale ripetizione più che sulle cause locali di una delle sue manifestazioni fisiche. Il doppio attentato di martedì scorso a Bruxelles chiaramente spinge a porsi numerose domande di ordine poliziesco; induce a interrogarsi sul coordinamento tra polizia e servizi segreti in Belgio e […]

Bruxelles: i pericoli della ripetizione

Santiago Alba Rico Quando un fenomeno si ripete in modo regolare, è necessario concentrarsi sugli effetti di tale ripetizione più che sulle cause locali di una delle sue manifestazioni fisiche. Il doppio attentato di martedì scorso a Bruxelles chiaramente spinge a porsi numerose domande di ordine poliziesco; induce a interrogarsi sul coordinamento tra polizia e servizi segreti in Belgio e […]

Le sigle di 5 cartoni animati rifatte in arabo

Di Reeman Bustami. Barakabits (26/03/2016). Traduzione di Giusy Regina Niente più dei vecchi cartoni animati è in grado di provocare nostalgia in ognuno! E soprattutto le sigle di quei cartoni degli anni ’80 e ’90 sono molto più sacre di quanto si possa immaginare e concepire ora. Godetevi dunque questi re-make in arabo di alcune sigle […]

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Afghanistan / La guerra infinita e l’allarme di Emergency

A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo che appare persino sarcastico: “Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo”. Nelle stesse ore, l’ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all’ospedale per ferite connesse al conflitto. L’ospedale, che l’anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt’altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar – ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l’usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell’ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

In mezzo a un quadro inquietante e che al momento non promette nulla di buono, si muove un impacciato Alto consiglio di pace che anni fa era stato scelto da Karzai per tentare di apparecchiare un tavolo negoziale. Ma passi avanti ne ha fatti pochi. Alcuni mesi fa è stato messo in piedi un Comitato quadrilaterale che comprende afgani, pachistani, americani e cinesi. Si sono riuniti quattro volte e avevano annunciato l’imminente avvio del tavolo negoziale per marzo. Ma la tovaglia non era stata ancora stesa che mullah Mansur, l’uomo che ha sostituito mullah Omar (e come si vede non senza suscitare polemiche) ha detto «no», reiterando la vecchia posizione della guerriglia in turbante: finché le truppe straniere non avranno lasciato il Paese di negoziare non se ne parla.

Adesso la Quadrilaterale vorrebbe riprovarci. Un piccolo successo lo ha in effetti portato a casa perché l’Hezb e islami di Gulbuddin Hekmatyar (chi ha buona memoria si ricorderà di questo capo mujahedin all’epoca della guerra antisovietica) ha accettato do negoziare col governo. Ma è un successo a metà. Hekmatyar, un soggetto a geometria di alleanze molto variabile, non solo non è molto affidabile ma non rappresenta che se stesso: ossia una fazione minoritaria della guerriglia che controlla zone a macchia di leopardo nel Nord e nell’Est. Già alleato coi talebani, Hekmatyar è solo una parte del tutto e certo non la più importante.

Il quadro della lotta armata è molto frazionato e uno dei timori che circolano a proposito del ritorno forzato di migranti è che proprio questa nuova forza lavoro in cerca dell’occupazione negata in Europa possa diventare facile preda degli arruolatori delle varie bande: dai talebani più o meno doc, alle fazioni che contestano Mansur fino ai reclutatori di Daesh – piccoli ma presenti – o della vecchia Al Qaeda che riunisce un po’ tutti gli spezzoni jihadsiti che negli anni hanno fatto di Pakistan e Afghanistan le case rifugio dei vari movimenti islamisti stranieri, dall’Uzbekistan al Turkestan cinese. La pace per ora è lontana e non sembra sia sufficiente il riavvicinamento afgano-pachistano che è in realtà sempre a rischio perché nel governo Ghani-Abdullah c’è chi rema contro a un accordo col Pakistan se non addirittura al processo di pace. I più restii sono i vecchi signori della guerra che, cooptati nei governi nazionali che ne hanno ripulito l’immagine, coi talebani preferiscono combattere. Il peccato originale – averli amnistiati di fatto – si continua a scontare. E rinvia la pace impossibile a uno scenario di guerra infinita dalla quale per ora non si intravede via d’uscita.

Afghanistan / La guerra infinita e l’allarme di Emergency

A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo che appare persino sarcastico: “Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo”. Nelle stesse ore, l’ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all’ospedale per ferite connesse al conflitto. L’ospedale, che l’anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt’altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar – ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l’usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell’ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

In mezzo a un quadro inquietante e che al momento non promette nulla di buono, si muove un impacciato Alto consiglio di pace che anni fa era stato scelto da Karzai per tentare di apparecchiare un tavolo negoziale. Ma passi avanti ne ha fatti pochi. Alcuni mesi fa è stato messo in piedi un Comitato quadrilaterale che comprende afgani, pachistani, americani e cinesi. Si sono riuniti quattro volte e avevano annunciato l’imminente avvio del tavolo negoziale per marzo. Ma la tovaglia non era stata ancora stesa che mullah Mansur, l’uomo che ha sostituito mullah Omar (e come si vede non senza suscitare polemiche) ha detto «no», reiterando la vecchia posizione della guerriglia in turbante: finché le truppe straniere non avranno lasciato il Paese di negoziare non se ne parla.

Adesso la Quadrilaterale vorrebbe riprovarci. Un piccolo successo lo ha in effetti portato a casa perché l’Hezb e islami di Gulbuddin Hekmatyar (chi ha buona memoria si ricorderà di questo capo mujahedin all’epoca della guerra antisovietica) ha accettato do negoziare col governo. Ma è un successo a metà. Hekmatyar, un soggetto a geometria di alleanze molto variabile, non solo non è molto affidabile ma non rappresenta che se stesso: ossia una fazione minoritaria della guerriglia che controlla zone a macchia di leopardo nel Nord e nell’Est. Già alleato coi talebani, Hekmatyar è solo una parte del tutto e certo non la più importante.

Il quadro della lotta armata è molto frazionato e uno dei timori che circolano a proposito del ritorno forzato di migranti è che proprio questa nuova forza lavoro in cerca dell’occupazione negata in Europa possa diventare facile preda degli arruolatori delle varie bande: dai talebani più o meno doc, alle fazioni che contestano Mansur fino ai reclutatori di Daesh – piccoli ma presenti – o della vecchia Al Qaeda che riunisce un po’ tutti gli spezzoni jihadsiti che negli anni hanno fatto di Pakistan e Afghanistan le case rifugio dei vari movimenti islamisti stranieri, dall’Uzbekistan al Turkestan cinese. La pace per ora è lontana e non sembra sia sufficiente il riavvicinamento afgano-pachistano che è in realtà sempre a rischio perché nel governo Ghani-Abdullah c’è chi rema contro a un accordo col Pakistan se non addirittura al processo di pace. I più restii sono i vecchi signori della guerra che, cooptati nei governi nazionali che ne hanno ripulito l’immagine, coi talebani preferiscono combattere. Il peccato originale – averli amnistiati di fatto – si continua a scontare. E rinvia la pace impossibile a uno scenario di guerra infinita dalla quale per ora non si intravede via d’uscita.

La responsabilità dei media: per non cadere nella trappola

di Zouhir Louassini, Osservatore Romano (25/03/2016). Sulla “gente del libro” (ahl al-kitab), come vengono chiamati gli ebrei e i cristiani nel Corano, l’interpretazione più singolare è quella del professor Mustafa Bouhandi: «Il Corano — ha dichiarato a una tv araba — non parla di “gente del libro”, ma di “famiglia del libro”». Bouhandi, professore di religioni […]

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Speciale Pasqua: maamoul, biscotti con ripieno di frutta secca

La Pasqua è ormai alle porte e per festeggiarla quale modo migliore di preparare un dolce? Allora maamoul siano! Questo piatto è molto diffuso in tutto il mondo arabo e preparato solitamente dai musulmani per celebrare la fine del Ramadan, ma è anche molto diffuso tra i cristiani del Medio Oriente, specialmente in Libano, e preparato per […]

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Il terrorismo a Bruxelles: una tragedia anche per i musulmani

Di Jihad El Khazen. Al-Hayat (24/03/2016). Traduzione e sintesi di Rachida Razzouk. Il terrorismo colpisce Bruxelles. Quel giorno sono uscito da casa per recarmi alla conferenza organizzata da Quilliam Fondation, (un think tank londinese che si confronta con la sfida al terrorismo), sotto l’egida e gli auspici dello sheikh Fawaz bin Mohammed al-Khalifa, ambasciatore del Bahrein […]

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Perché gli europei odiano gli arabi?

L’opinione di al-Quds. Al-Quds al-arabi (24/03/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Uno studio recente effettuato dal Centro per l’analisi dei social media del think-thank britannico Demos, ha analizzato cosa accade a livello virtuale dopo i grandi eventi che colpiscono il mondo e cosa spinge gli esseri umani a commentare o a inviare foto, video e […]

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Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

Il fascismo genera fascismo

Non saprò mai cosa provava un ebreo nell’Italia fascista. Di certo le sue paure non saranno diverse dalle mie quando nascondo la mia appartenenza etnica agli occhi di un europeo,o peggio ancora,di un italiano. Tutto comincia quando mi viene fatta la fatidica domanda : Dove sono nati i tuoi genitori ? E se un tempo andavo fiero delle mie radici magrebine,adesso che sono circondato da menti e coscienze disinformate,cerco di nascondere qualsiasi traccia di questa eredità culturale dei miei antenati. Ma i miei occhi,i miei tratti somatici,e sopratutto questa mia predisposizione alla spiritualità ereditata molto probabilmente da qualche antenato nordafricano,gettano continuamente sospetti su di me. A poche giorni dall’arresto del terrorista Salah a Malenbeck e dagli attentati dei fratelli Bakraoui all’aeroporto di Bruxelles (ultimamente i carnefici sono sempre fratelli ; i fratelli Camaev a Boston e i fratelli Kouachi a Parigi ) i riflettori si riaccendono su questi figli senza identità. Su queste facce arabe e africane munite di passaporto europeo. Personalmente non mi ha mai sorpreso la radicalizzazione di questa gioventù ” ne carne e ne pesce ”, perché in questa Europa intimorita,disinformata,incattivita e fascistizzata,non c’è mai stato spazio per chi condivide il patrimonio genetico dei nemici dell’Europa bianca e cristiana (o laica).
Noi Euro – africani di fede musulmana siamo figli di tutti ma allo stesso tempo figli di nessuno. E quando ci ritroviamo con tutte le porte chiuse. Prima o poi ci stuferemo di bussare. Ci siederemo, e attenderemo che le porte del radicalismo religioso si apriranno per consegnarci una cintura esplosiva e l’indirizzo del prossimo obbiettivo da colpire.

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E’ una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

Quella dell’indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. E’ anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche li, la loro piccola strada. Una strada che spesso viene limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, cinesi e britannici. I primi due sono i colossi dell’Asia: il terzo lo è diventato costruendo il suo impero nel subcontinente indiano. Dawa Norbu, un tibetano specialista di Storia asiatica che vive a Parigi, la racconta così, sostenendo che proprio questa lotta per garantirsi un controllo o evitare che altri ne avessero, finì a favorire un isolamento che, anziché essere splendido, condannava il Tibet a restare ai confini del mondo e del suo sviluppo

Nel 1950 – scrive Dawa Norbu – il Tibet era una teocrazia isolata, forse unica nel suo genere nel mondo moderno. Era però condannata, dagli interessi in conflitto di Russia, Gran Bretagna e Cina a un isolamento ancora più forte che rinforzava quello naturale di un Paese di montagne. Sia il trattato anglo tibetano del 1904 sia quello anglo russo del 1907 erano infatti tesi a creare un’ area libera delle influenze reciproche. Cosa che in questo modo negava al Tibet qualsiasi possibilità di cambiamento sociale. E se però in qualche modo i britannici favorivano la sua indipendenza e autonomia, i cinesi erano invece feroci oppositori di ogni influenza esterna. Temevano che, occupati com’erano con la rivoluzione, Londra avrebbe finito per fare del Tibet una colonia. Sebbene gli inglesi non avessero intenzione di sfruttare economicamente il Tibet non si opponevano alla sua modernizzazione, ovviamente finché si fosse svolta sotto l’occhio vigile di Londra. Il 13mo Dalai Lama, dopo una serie di viaggi in Mongolia e in India, prestava attenzione a queste aperture guardate invece con sospetto dalla comunità conservatrice monastica, cosa che – dice sempre Dawa Norbu – fu favorita dai cinesi che erano considerati i tradizionali custodi del buddismo tibetano nei confronti di possibili ingerenze esterne come quelle dei cristiani.

Dunque in quella società, per certi versi conservatrice e feudale, si muovono forze progressiste che ne sottolineano la vitalità. E dunque per i cinesi il controllo del Tibet resta un punto chiave, si tratti anche di appoggiare i segmenti sociali più conservatori del Paese. Per i cinesi il controllo del Tetto del mondo è di vitale importanza ma la vera occasione arriva solo negli anni Cinquanta, quando l’epoca classica del colonialismo sta ormai arrivando alla sua nemesi storica. Per i cinesi, fin dalla nascita della Repubblica popolare nel ’49 e ancor prima di quell’evento, la riunificazione col Tibet è un elemento primario. Bisogna riaccorpare i territori “separati dalla madre patria”. Il 7 ottobre 1950, quarantamila soldati dell’Esercito popolare di liberazione attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano nel Tibet orientale. Avanzano incontrando poca resistenza. Una settimana dopo, l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso che allora è solo poco più che quindicenne, viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Ma ormai è un sovrano senza Stato.

I cinesi però vogliono le cose a posto nonostante l’invasione non abbia sollevato grandi problemi nella comunità internazionale. Pensano a un accordo, l’Accordo fra il governo centrale del popolo e il governo locale del Tibet sulle misure per la liberazione pacifica del Tibet, chiamato in forma breve anche l’Accordo dei Diciassette punti. E’ un documento che viene firmato dai delegati del 14 ° Dalai Lama nel 1951. I cinesi lo considerano un contratto legale, reciprocamente accolto da entrambi i governi, ma i tibetani lo rifiutano come un atto illegale perché firmato sotto costrizione. Il Dalai Lama lo ha rinnegato in più occasioni. Ma come è andata? La Cina ha in sostanza chiesto al Tibet di inviare rappresentanti a Pechino per negoziare un accordo. Il Dalai Lama accetta ma ai delegati non è concesso suggerire modifiche. Inoltre non gli è permesso comunicare con il governo di Lhasa. La delegazione tibetana, pur non essendo stata autorizzata a firmare, alla fine – sotto la forte pressione dei cinesi – sigla l’accordo. E’ il via libera legale all’assimilazione del Tibet. Le cose però non vanno lisce anche se devono passano otto anni.

La rivolta scatta il 10 marzo del 1959 in seguito a un evento apparentemente ordinario. I cinesi

hanno invitato Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito che si trova alle porte della capitale. Il Dalai Lama accetta ma le autorità militari lo invitano a venire rinunciando alla scorta che di solito lo accompagna. In città si diffonde l’idea, largamente condivisa dalla leadership tibetana, che in realtà l’invito nasconda l’opportunità di un sequestro e la reazione non si fa attendere. La gente della capitale scende in strada come a voler sigillare il percorso che porta dal palazzo del Dalai Lama alla caserma. E’ però una miccia che innesca l’esplosione di una rivolta latente.

Tom Grunfeld, uno storico americano, sostiene che la rivolta di Lhasa non fu semplicemente una ribellione anti cinese. Fu anche, scrive in The Making of Modern Tibet, una rivolta contro il comunismo e il feudalesimo: una doppia rivoluzione, diretta anche contro i privilegi della tirannia religiosa locale cosi come contro la tirannia imperialistica del comunismo cinese. Una rivolta che combinava assieme la rivoluzione ungherese con quella francese. Quel che è certo è che in quelle tragiche settimane che vanno dal 10 al 28 marzo, si consuma il dramma tibetano. Quel giorno, il 28, tre tramonti dopo la riconquista di Lhasa il 25 marzo, un atto formale del Consiglio di Stato firmato da Zhou Enlai abolisce di fatto il sistema teocratico e feudale del Tibet. E dissolve – cancella – il governo tibetano.

Il 12 marzo la città è piena di barricate e di manifestanti che chiedono l’indipendenza. Si mescolano sentimenti diversi che forse possono essere riassunti nelle preoccupazioni che alcuni profughi tibetani confidano anni dopo a Grunfeld:
c’è il timore di non poter più praticare il buddismo; poi i racconti sulle atrocità commesse dagli Han, l’etnia principe dei cinesi; i rumor sul fatto che i matrimoni fra tibetani sono vietati ed è obbligatorio sposare un Han; c’è la fuga del Dalai Lama e l’insicurezza di un futuro incerto
E’ il 1975 quando Grunfeld fa la sua ricerca. Sono passati più di 15 anni dalla rivolta ma nella testa dei tibetani nulla è cambiato

Torniamo a Lasa attanagliata nella morsa della protesta e della repressione. I cinesi hanno dislocato l’artiglieria e il 17 marzo il primo proiettile arriva vicino al palazzo del Dalai Lama. E’ il segnale definitivo che Tenzin Gyatso deve prendere la strada dell’esilio. Ha appena 21 anni e regna da nemmeno due lustri. Il suo tempo è finito e, presto, anche quello della rivolta di Lhasa.

La rivolta si conclude con una strage. Il numero dei morti è incerto e non provato da documenti storici anche se i tibetani stimano il bilancio a 87mila morti. I cinesi invece hanno lasciato sul campo 2mila soldati. L’asimmetria è evidente: da una parte le armi sono piccole e poche in una rivolta semi spontanea. Dall’altra, la Cina ha i cannoni, l’aviazione, un esercito disciplinato e organizzato. I danni ai monasteri e le testimonianze raccontano il resto: raccontano di una battaglia furiosa e di esecuzioni sommarie. Di una repressione che non lascia quartiere. Tenzin Gyatso intanto è fuggito, di notte, accompagnato dalla sua scorta. Obiettivo: raggiungere l’India. Passa diverse notti in un ricovero per monaci mentre esercito e aviazione setacciano i villaggi alla sua ricerca: mentre si conclude nel sangue la rivolta di Lhasa, i generali cinesi infuriati cercano di mettere il cappio attorno al leader politico e spirituale dei tibetani. Non ci riescono

Il Dalai Lama raggiunge Towang, oltre la frontiera. Il suo viaggio verso l’esilio è durato due settimane. La sua fuga, scrive Jennifer Latson per Time magazine, è stata protetta da una coltre di nubi basse evocate dalle preghiere dei monaci che hanno impedito agli aerei di vedere i movimenti del drappello di fuggiaschi. E’ il 30 marzo 1959. Il palazzo di Norbulingka è lontano e il suo governo è stato spazzato via con la rivolta. Tenzin Gyatso sa che anche il governo tibetano, ristabilito formalmente a Lhudup Dzong in quei giorni, un governo che rigetta l’accordo dei 17 punti, non ha futuro. Il 25 marzo, le truppe di Pechino hanno ormai riconquistato la capitale. La rivolta è finita. Ora Zhou Enlai può firmare il decreto. Tre giorni dopo la riconquista della capitale il Tibet autonomo sparisce dalla storia. Al suo posto c’è una festa nazionale che ha il nome di una beffa: celebra il giorno dell’emancipazione.

Del Tibet ci si occupa ormai solo in rari casi. Spesso quando è utile citare il Dalai Lama per fare un dispetto alla Cina o quando la cronaca ci obbliga a riparlarne. E’ successo nel 2008. Succede quando un monaco o una monaca si danno fuoco, una pratica che il Dalai Lama ha fortemente condannato ma che è il segno inequivocabile di un malessere irrisolto. Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1987 a rivendicare l’indipendenza del Tibet ma lo statuto di “regione autonoma” non è in realtà che un nome

improprio come una foglia di fico su un territorio dove bisogna essere cinesi prima che tibetani. La comunità internazionale se ne occupa poco e dunque salvaguardare la cultura e le tradizioni di questo paese – in una parola la sua identità – è difficile quando non impossibile. Eppure nel 1992 il Tribunale permanente per i diritti dei popoli con sede a Strasburgo, un’istituzione creata dal politico italiano Lelio Basso negli anni Settanta, studiò il caso Tibet e arrivò a queste conclusioni: il tribunale giudicò che sottomettere negli anni Cinquanta il Tibet al regime del diritto internazionale, considerando che il suo passato lo aveva visto ripetutamente avere un rapporto di vassallaggio con la Cina, ne snaturava l’identità statuale, quella di uno Stato a parte, fuori allora dalle regole di quel diritto internazionale sancito dalle Nazioni unite cui Lhasa non aveva aderito. Un Paese però, che se non rientrava nei canoni del diritto internazionale dell’epoca, aveva dimostrato più volte la sua volontà di partecipare, come soggetto attivo – dice il tribunale – a una vita internazionale effettiva. I magistrati dunque gli riconoscevano un’esistenza di entità statuale propria, con gli attributi dunque di una sovranità interna. Un punto di partenza che oggi, anche nell’ottica di un’appartenenza del Tibet alla Cina, potrebbe costituire la base di un negoziato serio attraverso il quale ricostruire una reale autonomia. Una scelta politica, sia da parte cinese, sia da parte tibetana. Che sembra però ancora lontana.

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) il ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E’ una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

Quella dell’indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. E’ anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche li, la loro piccola strada. Una strada che spesso viene limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, cinesi e britannici. I primi due sono i colossi dell’Asia: il terzo lo è diventato costruendo il suo impero nel subcontinente indiano. Dawa Norbu, un tibetano specialista di Storia asiatica che vive a Parigi, la racconta così, sostenendo che proprio questa lotta per garantirsi un controllo o evitare che altri ne avessero, finì a favorire un isolamento che, anziché essere splendido, condannava il Tibet a restare ai confini del mondo e del suo sviluppo

Nel 1950 – scrive Dawa Norbu – il Tibet era una teocrazia isolata, forse unica nel suo genere nel mondo moderno. Era però condannata, dagli interessi in conflitto di Russia, Gran Bretagna e Cina a un isolamento ancora più forte che rinforzava quello naturale di un Paese di montagne. Sia il trattato anglo tibetano del 1904 sia quello anglo russo del 1907 erano infatti tesi a creare un’ area libera delle influenze reciproche. Cosa che in questo modo negava al Tibet qualsiasi possibilità di cambiamento sociale. E se però in qualche modo i britannici favorivano la sua indipendenza e autonomia, i cinesi erano invece feroci oppositori di ogni influenza esterna. Temevano che, occupati com’erano con la rivoluzione, Londra avrebbe finito per fare del Tibet una colonia. Sebbene gli inglesi non avessero intenzione di sfruttare economicamente il Tibet non si opponevano alla sua modernizzazione, ovviamente finché si fosse svolta sotto l’occhio vigile di Londra. Il 13mo Dalai Lama, dopo una serie di viaggi in Mongolia e in India, prestava attenzione a queste aperture guardate invece con sospetto dalla comunità conservatrice monastica, cosa che – dice sempre Dawa Norbu – fu favorita dai cinesi che erano considerati i tradizionali custodi del buddismo tibetano nei confronti di possibili ingerenze esterne come quelle dei cristiani.

Dunque in quella società, per certi versi conservatrice e feudale, si muovono forze progressiste che ne sottolineano la vitalità. E dunque per i cinesi il controllo del Tibet resta un punto chiave, si tratti anche di appoggiare i segmenti sociali più conservatori del Paese. Per i cinesi il controllo del Tetto del mondo è di vitale importanza ma la vera occasione arriva solo negli anni Cinquanta, quando l’epoca classica del colonialismo sta ormai arrivando alla sua nemesi storica. Per i cinesi, fin dalla nascita della Repubblica popolare nel ’49 e ancor prima di quell’evento, la riunificazione col Tibet è un elemento primario. Bisogna riaccorpare i territori “separati dalla madre patria”. Il 7 ottobre 1950, quarantamila soldati dell’Esercito popolare di liberazione attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano nel Tibet orientale. Avanzano incontrando poca resistenza. Una settimana dopo, l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso che allora è solo poco più che quindicenne, viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Ma ormai è un sovrano senza Stato.

I cinesi però vogliono le cose a posto nonostante l’invasione non abbia sollevato grandi problemi nella comunità internazionale. Pensano a un accordo, l’Accordo fra il governo centrale del popolo e il governo locale del Tibet sulle misure per la liberazione pacifica del Tibet, chiamato in forma breve anche l’Accordo dei Diciassette punti. E’ un documento che viene firmato dai delegati del 14 ° Dalai Lama nel 1951. I cinesi lo considerano un contratto legale, reciprocamente accolto da entrambi i governi, ma i tibetani lo rifiutano come un atto illegale perché firmato sotto costrizione. Il Dalai Lama lo ha rinnegato in più occasioni. Ma come è andata? La Cina ha in sostanza chiesto al Tibet di inviare rappresentanti a Pechino per negoziare un accordo. Il Dalai Lama accetta ma ai delegati non è concesso suggerire modifiche. Inoltre non gli è permesso comunicare con il governo di Lhasa. La delegazione tibetana, pur non essendo stata autorizzata a firmare, alla fine – sotto la forte pressione dei cinesi – sigla l’accordo. E’ il via libera legale all’assimilazione del Tibet. Le cose però non vanno lisce anche se devono passano otto anni.

La rivolta scatta il 10 marzo del 1959 in seguito a un evento apparentemente ordinario. I cinesi

hanno invitato Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito che si trova alle porte della capitale. Il Dalai Lama accetta ma le autorità militari lo invitano a venire rinunciando alla scorta che di solito lo accompagna. In città si diffonde l’idea, largamente condivisa dalla leadership tibetana, che in realtà l’invito nasconda l’opportunità di un sequestro e la reazione non si fa attendere. La gente della capitale scende in strada come a voler sigillare il percorso che porta dal palazzo del Dalai Lama alla caserma. E’ però una miccia che innesca l’esplosione di una rivolta latente.

Tom Grunfeld, uno storico americano, sostiene che la rivolta di Lhasa non fu semplicemente una ribellione anti cinese. Fu anche, scrive in The Making of Modern Tibet, una rivolta contro il comunismo e il feudalesimo: una doppia rivoluzione, diretta anche contro i privilegi della tirannia religiosa locale cosi come contro la tirannia imperialistica del comunismo cinese. Una rivolta che combinava assieme la rivoluzione ungherese con quella francese. Quel che è certo è che in quelle tragiche settimane che vanno dal 10 al 28 marzo, si consuma il dramma tibetano. Quel giorno, il 28, tre tramonti dopo la riconquista di Lhasa il 25 marzo, un atto formale del Consiglio di Stato firmato da Zhou Enlai abolisce di fatto il sistema teocratico e feudale del Tibet. E dissolve – cancella – il governo tibetano.

Il 12 marzo la città è piena di barricate e di manifestanti che chiedono l’indipendenza. Si mescolano sentimenti diversi che forse possono essere riassunti nelle preoccupazioni che alcuni profughi tibetani confidano anni dopo a Grunfeld:
c’è il timore di non poter più praticare il buddismo; poi i racconti sulle atrocità commesse dagli Han, l’etnia principe dei cinesi; i rumor sul fatto che i matrimoni fra tibetani sono vietati ed è obbligatorio sposare un Han; c’è la fuga del Dalai Lama e l’insicurezza di un futuro incerto
E’ il 1975 quando Grunfeld fa la sua ricerca. Sono passati più di 15 anni dalla rivolta ma nella testa dei tibetani nulla è cambiato

Torniamo a Lasa attanagliata nella morsa della protesta e della repressione. I cinesi hanno dislocato l’artiglieria e il 17 marzo il primo proiettile arriva vicino al palazzo del Dalai Lama. E’ il segnale definitivo che Tenzin Gyatso deve prendere la strada dell’esilio. Ha appena 21 anni e regna da nemmeno due lustri. Il suo tempo è finito e, presto, anche quello della rivolta di Lhasa.

La rivolta si conclude con una strage. Il numero dei morti è incerto e non provato da documenti storici anche se i tibetani stimano il bilancio a 87mila morti. I cinesi invece hanno lasciato sul campo 2mila soldati. L’asimmetria è evidente: da una parte le armi sono piccole e poche in una rivolta semi spontanea. Dall’altra, la Cina ha i cannoni, l’aviazione, un esercito disciplinato e organizzato. I danni ai monasteri e le testimonianze raccontano il resto: raccontano di una battaglia furiosa e di esecuzioni sommarie. Di una repressione che non lascia quartiere. Tenzin Gyatso intanto è fuggito, di notte, accompagnato dalla sua scorta. Obiettivo: raggiungere l’India. Passa diverse notti in un ricovero per monaci mentre esercito e aviazione setacciano i villaggi alla sua ricerca: mentre si conclude nel sangue la rivolta di Lhasa, i generali cinesi infuriati cercano di mettere il cappio attorno al leader politico e spirituale dei tibetani. Non ci riescono

Il Dalai Lama raggiunge Towang, oltre la frontiera. Il suo viaggio verso l’esilio è durato due settimane. La sua fuga, scrive Jennifer Latson per Time magazine, è stata protetta da una coltre di nubi basse evocate dalle preghiere dei monaci che hanno impedito agli aerei di vedere i movimenti del drappello di fuggiaschi. E’ il 30 marzo 1959. Il palazzo di Norbulingka è lontano e il suo governo è stato spazzato via con la rivolta. Tenzin Gyatso sa che anche il governo tibetano, ristabilito formalmente a Lhudup Dzong in quei giorni, un governo che rigetta l’accordo dei 17 punti, non ha futuro. Il 25 marzo, le truppe di Pechino hanno ormai riconquistato la capitale. La rivolta è finita. Ora Zhou Enlai può firmare il decreto. Tre giorni dopo la riconquista della capitale il Tibet autonomo sparisce dalla storia. Al suo posto c’è una festa nazionale che ha il nome di una beffa: celebra il giorno dell’emancipazione.

Del Tibet ci si occupa ormai solo in rari casi. Spesso quando è utile citare il Dalai Lama per fare un dispetto alla Cina o quando la cronaca ci obbliga a riparlarne. E’ successo nel 2008. Succede quando un monaco o una monaca si danno fuoco, una pratica che il Dalai Lama ha fortemente condannato ma che è il segno inequivocabile di un malessere irrisolto. Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1987 a rivendicare l’indipendenza del Tibet ma lo statuto di “regione autonoma” non è in realtà che un nome

improprio come una foglia di fico su un territorio dove bisogna essere cinesi prima che tibetani. La comunità internazionale se ne occupa poco e dunque salvaguardare la cultura e le tradizioni di questo paese – in una parola la sua identità – è difficile quando non impossibile. Eppure nel 1992 il Tribunale permanente per i diritti dei popoli con sede a Strasburgo, un’istituzione creata dal politico italiano Lelio Basso negli anni Settanta, studiò il caso Tibet e arrivò a queste conclusioni: il tribunale giudicò che sottomettere negli anni Cinquanta il Tibet al regime del diritto internazionale, considerando che il suo passato lo aveva visto ripetutamente avere un rapporto di vassallaggio con la Cina, ne snaturava l’identità statuale, quella di uno Stato a parte, fuori allora dalle regole di quel diritto internazionale sancito dalle Nazioni unite cui Lhasa non aveva aderito. Un Paese però, che se non rientrava nei canoni del diritto internazionale dell’epoca, aveva dimostrato più volte la sua volontà di partecipare, come soggetto attivo – dice il tribunale – a una vita internazionale effettiva. I magistrati dunque gli riconoscevano un’esistenza di entità statuale propria, con gli attributi dunque di una sovranità interna. Un punto di partenza che oggi, anche nell’ottica di un’appartenenza del Tibet alla Cina, potrebbe costituire la base di un negoziato serio attraverso il quale ricostruire una reale autonomia. Una scelta politica, sia da parte cinese, sia da parte tibetana. Che sembra però ancora lontana.

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) il ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

Migranti: un piano Ue per fermare gli afgani

E’ un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a un’invasione dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. E’ un’invasione che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E’ questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa «l’alto rischio di una nuova ondata migratoria» tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali “documentati”) per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti).

Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la «strada giusta» (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano – dice il documento – dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo “sicurezza”, nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afgani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). E’ un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo.

Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-
2020 – l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan – ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale. L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul “restare a casa” o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a «che ciò non attragga invece nuovi migranti». Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi «in positivo» – uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio – che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul.

Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante.

L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere.

Migranti: un piano Ue per fermare gli afgani

E’ un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a un’invasione dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. E’ un’invasione che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E’ questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa «l’alto rischio di una nuova ondata migratoria» tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali “documentati”) per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti).

Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la «strada giusta» (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano – dice il documento – dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo “sicurezza”, nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afgani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). E’ un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo.

Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-
2020 – l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan – ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale. L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul “restare a casa” o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a «che ciò non attragga invece nuovi migranti». Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi «in positivo» – uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio – che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul.

Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante.

L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere.

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

PAROLE DISSIDENTI

Incontro con lo scrittore siriano Khaled Khalifa Roma, 5 aprile 2016 ore 16 Aula degli Organi Collegiali Palazzo del Rettorato – Università La Sapienza (piazzale Aldo Moro)    

Pensando alla Palestina post-Abbas

Di Menachem Klein. +972 (20/03/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Come Ariel Sharon, Mahmoud Abbas potrebbe sparire dalla scena politica palestinese in qualsiasi momento. Ma a differenza del caso israeliano, Abbas non ha alcun successore designato o nessun vice. Secondo lo statuto dell’Autorità Palestinese (AP) afferma, il vuoto verrebbe colmato, in via automatica e provvisoria, dal […]

L’articolo Pensando alla Palestina post-Abbas sembra essere il primo su Arabpress.

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La giustizia condanna Karadzic

… La Storia lo aveva già condannato e sconfitto Condannato Radovan Karadzic a 40 anni di carcere per genocidio dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia. L’accordo politico e internazionale di Dayton che ha concluso l’assedio di Sarajevo è di 19 anni fa. Ci sono voluti 19 anni per avere questa sentenza. Ma questa sentenza, allaRead more

La nostra (dis)informazione ha raggiunto l’abisso

Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

La nostra (dis)informazione ha raggiunto l’abisso

Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

La nostra (dis)informazione ha raggiunto l’abisso

Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Sono scandalizzata. sono appena stata “ospite” di una trasmissione radiofonica di RAI 1, a proposito di donne e islam…vecchio argomento vecchie prospettive. ieri mi avevano tenuto mezz’ora al telefono chiedendomi informazioni d’ogni tipo “per scardinare gli stereotipi”(in realtà forse per carpirmi informazioni che poi riutilizzeranno inoltro modo) per poi chiedermi oggi solo del VELO!L a […]

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Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

La prossima settimana arriverà in Italia lo scrittore siriano Khaled Khalifa, che era stato ospite del nostro Paese cinque anni fa, in occasione della pubblicazione in italiano del suo romanzo L’elogio dell’odio. Nato vicino ad Aleppo nel 1964, Khaled Khalifa è uno degli autori siriani e arabi più rappresentativi e importanti della narrativa araba contemporanea. … Continua a leggere Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

La prossima settimana arriverà in Italia lo scrittore siriano Khaled Khalifa, che era stato ospite del nostro Paese cinque anni fa, in occasione della pubblicazione in italiano del suo romanzo L’elogio dell’odio. Nato vicino ad Aleppo nel 1964, Khaled Khalifa è uno degli autori siriani e arabi più rappresentativi e importanti della narrativa araba contemporanea. … Continua a leggere Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

Libia. Le speranze tradite della rivoluzione

Liberata ad agosto 2011, la capitale libica ha conosciuto un periodo di grazia che è stato dimenticato velocemente. Le speranze di aprire una nuova pagina della storia della Libia erano forti, ma sono state rapidamente tradite e la logica delle milizie ha preso il sopravvento sulla logica della politica.

 

 

 

23 Marzo 2016
di: 
Maryline Dumas e Mathieu Galtier per OrientXXI*

Libia. Le speranze tradite della rivoluzione

Liberata ad agosto 2011, la capitale libica ha conosciuto un periodo di grazia che è stato dimenticato velocemente. Le speranze di aprire una nuova pagina della storia della Libia erano forti, ma sono state rapidamente tradite e la logica delle milizie ha preso il sopravvento sulla logica della politica.

 

 

 

23 Marzo 2016
di: 
Maryline Dumas e Mathieu Galtier per OrientXXI*

Libia. Le speranze tradite della rivoluzione

Liberata ad agosto 2011, la capitale libica ha conosciuto un periodo di grazia che è stato dimenticato velocemente. Le speranze di aprire una nuova pagina della storia della Libia erano forti, ma sono state rapidamente tradite e la logica delle milizie ha preso il sopravvento sulla logica della politica.

 

 

 

23 Marzo 2016
di: 
Maryline Dumas e Mathieu Galtier per OrientXXI*

“Hezbollah è terrorista”, Lega Araba e CCG contro il Partito di Dio

Nell’ultima riunione della Lega Araba i paesi sunniti hanno definito “terroristica” la natura di Hezbollah, inserendo il movimento libanese all’interno delle proprie black-list. Una nuova mossa della partita a scacchi in cui si affrontano da un millennio i due blocchi del mondo islamico. 

 

 

18 Marzo 2016
di: 
Luigi Giorgi

Ricordando il Tibet, domani a Wikiradio (Radio3)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India…

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

Bruxelles paga il prezzo degli errori politici

Di Moataz Bellah Abdel-Fattah, Daily News Egypt (23/03/2016) Traduzione e sintesi dii Chiara Cartia In Europa, quando viene sferrato un attacco terroristico, la colpa ricade immediatamente sui musulmani, ancor prima che siano state svolte indagini. Come ho già scritto: “Pagano il prezzo dei nostri errori politici”. La mia prima considerazione è che l’albero del terrorismo […]

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Attentati di Bruxelles nelle prime pagine dei giornali arabi

Asharq al-Awsat – giornale saudita Il terrorismo paralizza Bruxelles  L’autorità saudita condanna gli attentati – 3 attacchi rivendicati da Daesh diffondono morte e distruzione – Gli ordigni esplosivi contenevano chiodi e materiali chimici Al-Quds al-Arabi – giornale panarabo Il terrorismo colpisce “la capitale d’Europa”, 35 morti e oltre 200 i feriti Rafforzate le misure di sicurezza in […]

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Qual è il segreto del disaccordo tra il Marocco e Ban Ki-moon?

Opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (20/03/2016). Traduzione e sintesi di Laura Giacobbo. Continua il disaccordo emerso tra le Nazioni Unite e il regno del Marocco. Il segretario generale Ban Ki-moon, in visita ai campi profughi di Tindouf, in Algeria, ha incontrato il leader del Fronte Polisario e durante tale visita avrebbe usato il termine “occupazione” […]

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La Turchia nel mirino del terrorismo: dove il pericolo maggiore?

Di Abdel Bari Atwan. Al-Arab (21/03/2016).  Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Al quinto anniversario della crisi siriana, aldilà della discussione sul futuro del presidente Bashar al-Assad, l’attenzione è ora riservata al nemico numero uno del suo governo, tra coloro che si aspettavano sin dall’inizio la sua caduta, ovvero il vicino turco. Quest’ultimo ha giocato […]

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Incontro a Venezia con Suad Amiry

Domani pomeriggio, la scrittrice e architetta palestinese Suad Amiry sarà a Venezia per presentare il suo ultimo romanzo Damasco, appena pubblicato dall’editore Feltrinelli.  Domenica scorsa Amiry è stata ospite a Libri Come, dove con Paola Caridi ha parlato di Damasco e Gerusalemme, mentre lunedì ha partecipato al programma di Rai Tre Pane Quotidiano. Vi siete persi la … Continua a leggere Incontro a Venezia con Suad Amiry

Incontro a Venezia con Suad Amiry

Domani pomeriggio, la scrittrice e architetta palestinese Suad Amiry sarà a Venezia per presentare il suo ultimo romanzo Damasco, appena pubblicato dall’editore Feltrinelli.  Domenica scorsa Amiry è stata ospite a Libri Come, dove con Paola Caridi ha parlato di Damasco e Gerusalemme, mentre lunedì ha partecipato al programma di Rai Tre Pane Quotidiano. Vi siete persi la … Continua a leggere Incontro a Venezia con Suad Amiry

Forza e debolezza dei curdi siriani

Di Hazim Saghiya. Al-Hayat (19/03/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo. Quale sarà il nome della nuova federazione che i curdi siriani hanno in mente di creare: “Federazione del Kurdistan occidentale” o “Federazione della Siria del Nord”? Questa domanda non vuole essere un semplice gioco di parole, ma serve a comprendere quale potrebbero essere i […]

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Egitto: più di 1.000 fatwa tradotte in diverse lingue

(Asharq al-Awsat). La Dar al-Ifta d’Egitto, una delle maggiori istituzioni islamiche del mondo arabo, ha tradotto più di 1.000 fatwa dall’arabo all’inglese, il francese e il tedesco. La maggior parte di esse, sono contro la promozione dell’estremismo e del radicalismo religioso e contro il terrorismo. Shawki Ibrahim, il Grand Mufti d’Egitto, ha dichiarato che “Dar al-Ifta […]

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Il Medio Oriente tra terrorismo e crisi di legittimità

Di Tawfiq al-Madini. As-Safir (19/03/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Al tempo dei movimenti estremisti di matrice jihadista, gli Stati del Medio Oriente, specialmente quelli nei quali sono stati i movimenti nazionalisti arabi a salire al potere, vivono sotto l’influenza del fenomeno dello Stato totalitario, dalla struttura coercitiva. Nel corso di numerosi decenni, […]

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UE-Turchia: un accordo pericoloso

Di Barbara Wesel. Deutsche Welle (18/03/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. L’accordo con Ankara è una sorta di successo politico per Angela Merkel: le dà molto più margine di manovra nel suo paese, soprattutto dopo l’ascesa del partito populista di destra Alternativa per la Germania (AfD). La popolarità della Merkel è già in crescita e ora […]

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Tutto sul “Nowruz”, il capodanno persiano

Di Thomas Seymat. Euronews.com (17/03/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina Cos’è il Nowruz?  Il Nowruz è il giorno che segna il nuovo anno in Iran ma anche in varie parti del Medio Oriente, dei Balcani, del Caucaso e dell’Asia. Si può trovare scritto in vari modi,  Novruz, Nowrouz, Nooruz, Navruz, Nauroz o Nevruz, a seconda della […]

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Roma attraverso occhi orientali: uno specchio della creatività

Di Mohammad Hussein Bazzi. As-Safir (14/03/2016). Traduzione e sintesi di Laura Giacobbo. A Roma, porta con te solo uno specchio. Tutto ti accoglie con un sorriso, anche gli alberi pressati nelle strade storiche, o quelli allineati come mulini a vento. Roma è una città profondamente radicata nel Paese, nella saggezza, nella filosofia, nella poesia e […]

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Cucina iraniana: sabzi polow ba mahi, riso alle erbe con pesce fritto

In occasione dell’avvicinarsi del Nawruz – il capodanno iraniano, curdo e afghano che coincide ogni anno con l’inizio della primavera, a simboleggiare la rinascita – vi proponiamo uno dei piatti immancabili durante i festeggiamenti: il sabzi polow ba mahi, riso alle erbe con pesce fritto! Ingredienti: Per il riso: 300g di riso basmati 25g di prezzemolo fresco […]

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No alla normalizzazione dei rapporti con Israele

Di Saif el-Din Abdel Fattah. Al-Araby al-Jadeed (18/03/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. Il ministro della difesa israeliano, Moshe Ya’alon, nel suo discorso di fronte la conferenza annuale della lobby sionista Aipac, ha confessato che Israele aveva progettato di rovesciare il presidente islamista Morsi in collaborazione con l’esercito, i servizi segreti egiziani e del […]

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Chi si ricorda di Giovanni Lo Porto?

Presi come siamo dalla vicenda di Giulio Regeni, tra depistaggi e bugie, abbiamo forse dimenticato – in un Paese che tende a dimenticare alla svelta – la morte di un altro italiano: Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 in Pakistan e ucciso da un drone americano nel gennaio del 2015. A non dimenticare è la famiglia che, quattro giorni fa, ha tenuto una conferenza stampa a Montecitorio (andata deserta!) con gli avvocati che la assistono, i radicali (grazie a loro si può riascoltare nei podcast di Radio radicale) e il senatore Luigi Manconi. Quest’ultimo lunedi prossimo depositerà un’interrogazione al governo e al ministero degli Esteri per sapere sia il risultato delle promesse che il presidente Obama fece nella dichiarazione pubblica con la quale, nell’aprile 2015, rese nota la morte di Giovanni e si scusò con la famiglia, sia se gli Usa intendano procedere a un risarcimento. E sì, perché Obama fece delle promesse poi ribadite in un comunicato ufficiale della casa Bianca. Undici mesi fa.

L’America non è l’Egitto e ovviamente Obama non è Al Sisi. Anzi, quella dichiarazione rese testimonianza di un desiderio di trasparenza che sta a cuore all’uomo che ha sempre voluto chiudere Guantanamo anche se resta il principale assertore della politica dei droni. Ma la storia della morte di Giovanni era e resta lacunosa. E le promesse di quell’aprile lettera morta. I legali della famiglia, gli avvocati Andrea Saccucci e Giorgio Perroni, ricordano che Obama si assunse la piena responsabilità dell’accaduto e promise la declassificazione dell’operativo che “erroneamente” portò alla morte di Giovanni e di Warren Weinstein quando l’obiettivo erano due qaedisti americani, Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Gli avvocati, per conto della famiglia, hanno inoltrato una richiesta formale al governo americano per quel che riguarda il risarcimento e al contempo hanno depositato, nel procedimento aperto dalla magistratura italiana nel 2012, una denuncia querela nella quale domandano ai giudici italiani di richiedere, per rogatoria, le regole delle operazioni coi droni e la documentazione su quella che riguardò Giovanni. Infine le risultanze delle indagini condotte dall’intelligence americana prima e dopo il raid, ossia gli esiti degli accertamenti tecnici. Va ricordato che Obama fece il suo annuncio tre mesi dopo l’operativo e che Renzi (si ricorderà la polemica sul fatto che non fosse stato informato) spiegò che gli accertamenti avevano richiesto appunto tre mesi per capire come erano andate le cose. La famiglia infine, solleciterà anche le Nazioni Unite perché appoggino le loro richieste (esiste un Rapporteur che indaga queste pratiche ritenute violazioni del diritto internazionale quando i droni operano fuori da un contesto bellico dichiarato).

Oggi come allora: una mappa dela Durand Line
il confine artificioso creato dai britannici.In che zona
fu ucciso Giovanni Lo Porto? Ancora non sappiano

Manconi, nella sua interrogazione, chiede luce su un particolare: «Il comunicato ufficiale della Casa Bianca – dice – fa esplicito riferimento al lavoro di una commissione indipendente di indagine. Di questo lavoro, a 11 mesi dall’impegno, vorremmo sapere, poiché ciò fornirebbe la conoscenza non solo del prima e del dopo ma anche cosa o chi determinò l’errore».

Recentemente il Pentagono ha fatto sapere, forse sull’onda dell’effetto trasparenza, che annualmente saranno rese note tutte le operazioni segrete compiute dai droni e relativi effetti. Ma quanto sarà trasparente il rapporto resta da vedere visto che gli esiti dell’indagine sul caso Lo Porto (o quella sul raid di Kunduz nell’ospedale di Msf) ancora non si vedono. Per ora ci sono solo dichiarazioni d’intenti. Una recente inchiesta di Al Jazeera in Afghanistan – con Pakistan e Yemen uno dei Paesi più bombardati del mondo con i droni – ha rivelato che proprio la classificazione delle operazioni con velivoli senza pilota impedisce la ricostruzione degli effetti su vittime innocenti. Impedisce cioè una ricostruzione chiara delle responsabilità che finisce così a inficiare persino il rapporto sulle vittime civili afgane che ogni anno Unama, la missione Onu a Kabul, rende pubblico.

Chi si ricorda di Giovanni Lo Porto?

Presi come siamo dalla vicenda di Giulio Regeni, tra depistaggi e bugie, abbiamo forse dimenticato – in un Paese che tende a dimenticare alla svelta – la morte di un altro italiano: Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 in Pakistan e ucciso da un drone americano nel gennaio del 2015. A non dimenticare è la famiglia che, quattro giorni fa, ha tenuto una conferenza stampa a Montecitorio (andata deserta!) con gli avvocati che la assistono, i radicali (grazie a loro si può riascoltare nei podcast di Radio radicale) e il senatore Luigi Manconi. Quest’ultimo lunedi prossimo depositerà un’interrogazione al governo e al ministero degli Esteri per sapere sia il risultato delle promesse che il presidente Obama fece nella dichiarazione pubblica con la quale, nell’aprile 2015, rese nota la morte di Giovanni e si scusò con la famiglia, sia se gli Usa intendano procedere a un risarcimento. E sì, perché Obama fece delle promesse poi ribadite in un comunicato ufficiale della casa Bianca. Undici mesi fa.

L’America non è l’Egitto e ovviamente Obama non è Al Sisi. Anzi, quella dichiarazione rese testimonianza di un desiderio di trasparenza che sta a cuore all’uomo che ha sempre voluto chiudere Guantanamo anche se resta il principale assertore della politica dei droni. Ma la storia della morte di Giovanni era e resta lacunosa. E le promesse di quell’aprile lettera morta. I legali della famiglia, gli avvocati Andrea Saccucci e Giorgio Perroni, ricordano che Obama si assunse la piena responsabilità dell’accaduto e promise la declassificazione dell’operativo che “erroneamente” portò alla morte di Giovanni e di Warren Weinstein quando l’obiettivo erano due qaedisti americani, Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Gli avvocati, per conto della famiglia, hanno inoltrato una richiesta formale al governo americano per quel che riguarda il risarcimento e al contempo hanno depositato, nel procedimento aperto dalla magistratura italiana nel 2012, una denuncia querela nella quale domandano ai giudici italiani di richiedere, per rogatoria, le regole delle operazioni coi droni e la documentazione su quella che riguardò Giovanni. Infine le risultanze delle indagini condotte dall’intelligence americana prima e dopo il raid, ossia gli esiti degli accertamenti tecnici. Va ricordato che Obama fece il suo annuncio tre mesi dopo l’operativo e che Renzi (si ricorderà la polemica sul fatto che non fosse stato informato) spiegò che gli accertamenti avevano richiesto appunto tre mesi per capire come erano andate le cose. La famiglia infine, solleciterà anche le Nazioni Unite perché appoggino le loro richieste (esiste un Rapporteur che indaga queste pratiche ritenute violazioni del diritto internazionale quando i droni operano fuori da un contesto bellico dichiarato).

Oggi come allora: una mappa dela Durand Line
il confine artificioso creato dai britannici.In che zona
fu ucciso Giovanni Lo Porto? Ancora non sappiano

Manconi, nella sua interrogazione, chiede luce su un particolare: «Il comunicato ufficiale della Casa Bianca – dice – fa esplicito riferimento al lavoro di una commissione indipendente di indagine. Di questo lavoro, a 11 mesi dall’impegno, vorremmo sapere, poiché ciò fornirebbe la conoscenza non solo del prima e del dopo ma anche cosa o chi determinò l’errore».

Recentemente il Pentagono ha fatto sapere, forse sull’onda dell’effetto trasparenza, che annualmente saranno rese note tutte le operazioni segrete compiute dai droni e relativi effetti. Ma quanto sarà trasparente il rapporto resta da vedere visto che gli esiti dell’indagine sul caso Lo Porto (o quella sul raid di Kunduz nell’ospedale di Msf) ancora non si vedono. Per ora ci sono solo dichiarazioni d’intenti. Una recente inchiesta di Al Jazeera in Afghanistan – con Pakistan e Yemen uno dei Paesi più bombardati del mondo con i droni – ha rivelato che proprio la classificazione delle operazioni con velivoli senza pilota impedisce la ricostruzione degli effetti su vittime innocenti. Impedisce cioè una ricostruzione chiara delle responsabilità che finisce così a inficiare persino il rapporto sulle vittime civili afgane che ogni anno Unama, la missione Onu a Kabul, rende pubblico.

Passaggi: “Fankenstein a Baghdad” di Ahmed Saadawi

La potenza descrittiva di questo romanzo è sicuramente una delle caratteristiche che più mi ha colpito della scrittura di Ahmed Saadawi. Per questo voglio darvi un assaggio di questa sua capacità, proponendovi un passaggio in cui introduce uno dei personaggi principali di “Frankenstein a Baghdad”, il generale Surur e il suo lavoro. Il generale Surur […]

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Incontro a Venezia sulla letteratura araba per l’infanzia

Lunedì 21 marzo, l’Alliance française di Venezia, in collaborazione con il Master MIM dell’Università Cà Foscari, presenta il libro Le poussin n’est pas un chien. Quarante ans de création arabe en littérature pour la jeunesse, reflet et projet des sociétés (Égypte, Syrie, Liban), di Mathilde Chevre.  Dal comunicato: (si tratta di) uno studio delle produzioni … Continua a leggere Incontro a Venezia sulla letteratura araba per l’infanzia

Incontro a Venezia sulla letteratura araba per l’infanzia

Lunedì 21 marzo, l’Alliance française di Venezia, in collaborazione con il Master MIM dell’Università Cà Foscari, presenta il libro Le poussin n’est pas un chien. Quarante ans de création arabe en littérature pour la jeunesse, reflet et projet des sociétés (Égypte, Syrie, Liban), di Mathilde Chevre.  Dal comunicato: (si tratta di) uno studio delle produzioni … Continua a leggere Incontro a Venezia sulla letteratura araba per l’infanzia

Siria: Assad dorme sonni tranquilli

Di Mohammad Mashmoushi. Al-Hayat (17/03/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. Quando un giornalista tedesco ha chiesto al presidente siriano Bashar al-Assad “Riesce a dormire la notte?”, non si aspettava certo che avrebbe risposto alla sua domanda in questo modo: “Sto cercando tempo per lavorare, non per dormire”. Il giornalista aveva in mente le immagini delle […]

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Msf/Kunduz: una multa seppellirà il caso

Medici senza frontiere e senza giustizia

Nel novembre scorso il Pentagono rese noto che erano stati sospesi dal servizio i militari coinvolti nell’incidente di Kundz, dove un ospedale di Medici senza frontiere finì con dottori e pazienti sotto il fuoco di un cacciabombardiere americano. Si aspettava che l’indagine a seguito della strage fosse terminata. L’indagine ancora non si è vista ma le indiscrezioni continuano a filtrare e l’ultima in ordine di tempo riguarda le “punizioni” comminate ai soldati coinvolti. Ma se è vero quanto riporta l’agenzia Associated Press, subito ripresa dalla stampa afgana, le punizioni sono di puro ordine disciplinare e non criminale, ossia non molto di più della sospensione già resa nota in novembre dal generale John Campbell, allora comandante interforze della Nato e al contempo responsabile della missione statunitense nel Paese dell’Hindukush. L’amministrazione militare si sarebbe limitata a una reprimenda scritta che, secondo l’agenzia di stampa, può al più essere d’impedimento al proseguimento della carriera militare. Sanzioni amministrative insomma, ben lontane dalla possibilità di un’accusa per crimini di guerra. E un’azione, aggiungiamo noi, che almeno apparentemente scarica le responsabilità della catena di comando sugli esecutori e non sul vertice.

Msf per ora non smentisce e non conferma e, spiegano nei suoi uffici, aspetta di vedersi recapitare un atto formale e non una semplice indiscrezione di stampa. La polemica è in agguato: a fine febbraio gli americani scrissero a 140 parenti delle vittime facendo le scuse e promettendo un risarcimento che da vittime e medici fu definito offensivo e ridicolo: 3mila dollari se c’era un ferito, e ben… 6mila se era scappato il morto. Se i soldi siano stati poi accettati o già pagati non si sa: a distanza di quasi sei mesi dall’attacco all’ospedale di Msf a Kunduz (erano gli inizi dell’ottobre scorso) la vicenda resta piena di ombre e le famose indagini ufficiali ancora non sono state pubblicate. Di certo c’è soltanto quella prodotta da Msf mentre il numero dei morti è lievitato ad “almeno” 52 (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti e 14 altri civili).

Presentato in novembre a Kabul, il rapporto di Msf racconta invece dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario, consumatosi in circa un’ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre 2015 e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto: alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e alcuni dello staff furono decapitati e mutilati dalle schegge magari mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto spiegava anche che all’interno del centro traumatologico della città in mano ai talebani e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione statunitense, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – spiegava Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”. Gli americani hanno poi spiegato che si era trattato di un difetto nella ricezzione degli ordini e cioè che l’edificio da colpire era in realtà un altro. Dunque la colpa fu della squadra dell’AC-130 che avrebbe dovuto mirare allo stabile in mano alla guerriglia a 411 metri di distanza dal nosocomio ma sbagliò obiettivo.

Msf/Kunduz: una multa seppellirà il caso

Medici senza frontiere e senza giustizia

Nel novembre scorso il Pentagono rese noto che erano stati sospesi dal servizio i militari coinvolti nell’incidente di Kundz, dove un ospedale di Medici senza frontiere finì con dottori e pazienti sotto il fuoco di un cacciabombardiere americano. Si aspettava che l’indagine a seguito della strage fosse terminata. L’indagine ancora non si è vista ma le indiscrezioni continuano a filtrare e l’ultima in ordine di tempo riguarda le “punizioni” comminate ai soldati coinvolti. Ma se è vero quanto riporta l’agenzia Associated Press, subito ripresa dalla stampa afgana, le punizioni sono di puro ordine disciplinare e non criminale, ossia non molto di più della sospensione già resa nota in novembre dal generale John Campbell, allora comandante interforze della Nato e al contempo responsabile della missione statunitense nel Paese dell’Hindukush. L’amministrazione militare si sarebbe limitata a una reprimenda scritta che, secondo l’agenzia di stampa, può al più essere d’impedimento al proseguimento della carriera militare. Sanzioni amministrative insomma, ben lontane dalla possibilità di un’accusa per crimini di guerra. E un’azione, aggiungiamo noi, che almeno apparentemente scarica le responsabilità della catena di comando sugli esecutori e non sul vertice.

Msf per ora non smentisce e non conferma e, spiegano nei suoi uffici, aspetta di vedersi recapitare un atto formale e non una semplice indiscrezione di stampa. La polemica è in agguato: a fine febbraio gli americani scrissero a 140 parenti delle vittime facendo le scuse e promettendo un risarcimento che da vittime e medici fu definito offensivo e ridicolo: 3mila dollari se c’era un ferito, e ben… 6mila se era scappato il morto. Se i soldi siano stati poi accettati o già pagati non si sa: a distanza di quasi sei mesi dall’attacco all’ospedale di Msf a Kunduz (erano gli inizi dell’ottobre scorso) la vicenda resta piena di ombre e le famose indagini ufficiali ancora non sono state pubblicate. Di certo c’è soltanto quella prodotta da Msf mentre il numero dei morti è lievitato ad “almeno” 52 (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti e 14 altri civili).

Presentato in novembre a Kabul, il rapporto di Msf racconta invece dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario, consumatosi in circa un’ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre 2015 e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto: alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e alcuni dello staff furono decapitati e mutilati dalle schegge magari mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto spiegava anche che all’interno del centro traumatologico della città in mano ai talebani e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione statunitense, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – spiegava Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”. Gli americani hanno poi spiegato che si era trattato di un difetto nella ricezzione degli ordini e cioè che l’edificio da colpire era in realtà un altro. Dunque la colpa fu della squadra dell’AC-130 che avrebbe dovuto mirare allo stabile in mano alla guerriglia a 411 metri di distanza dal nosocomio ma sbagliò obiettivo.

Pace in Afghanistan. E il vecchio islamista disse si

Classe 1947, è nato
 nella provincia di Kunduz

L’Hezb-e-Islami, il partito islamista pashtun di Gulbuddin Hekmatyar – che ha un braccio politico in parlamento e un esercito nelle montagne afgane – lo aveva anticipato in febbraio, rendendo noto che non era da escludere una sua partecipazione al negoziato di pace tra guerriglia e governo. Poi, a sorpresa, qualche giorno fa, il gruppo ha detto si al negoziato promosso da Kabul che al momento però è al palo dopo che i talebani di mullah Mansur han detto no. I primi passi sono già in corso.

Hekmatyar sostiene che nonostante gli americani non se ne siano andati (precondizione principe della guerriglia per avviare negoziati) il suo partito è disposto comunque al dialogo perché vuole dimostrare che l’Hezb vuole la pace. In realtà di Hekmatyar non c’è molto da fidarsi: è un uomo che ha attraversato tutte le stagioni della guerra afgana e cambiato posizione, alleati e ideologie a seconda della situazione. Gode di un discreto potere in certe aree del Paese nelle regioni  settentrionali e orientali (è originario di Kunduz)  ma il suo legame coi talebani è sempre stato soprattutto tattico. Di fatto è un soggetto per i fatti suoi pronto, domani, ad allearsi, se davvero gli convenisse, anche con Daesh. E’ comunque un personaggio con cui è d’obbligo fare i conti e scendere a patti. E se il fronte della guerriglia si scompagina, tanto meglio. La pace si fa quando il punto di non ritorno mostra le debolezze che, nel caso afgano, sono un segno che ormai tocca tutti i contendenti. C’è una stanchezza della e nella guerra? Staremo a vedere. Per ora il fronte caldo è più a Ovest, in Medio oriente. E questo aiuta

Pace in Afghanistan. E il vecchio islamista disse si

Classe 1947, è nato
 nella provincia di Kunduz

L’Hezb-e-Islami, il partito islamista pashtun di Gulbuddin Hekmatyar – che ha un braccio politico in parlamento e un esercito nelle montagne afgane – lo aveva anticipato in febbraio, rendendo noto che non era da escludere una sua partecipazione al negoziato di pace tra guerriglia e governo. Poi, a sorpresa, qualche giorno fa, il gruppo ha detto si al negoziato promosso da Kabul che al momento però è al palo dopo che i talebani di mullah Mansur han detto no. I primi passi sono già in corso.

Hekmatyar sostiene che nonostante gli americani non se ne siano andati (precondizione principe della guerriglia per avviare negoziati) il suo partito è disposto comunque al dialogo perché vuole dimostrare che l’Hezb vuole la pace. In realtà di Hekmatyar non c’è molto da fidarsi: è un uomo che ha attraversato tutte le stagioni della guerra afgana e cambiato posizione, alleati e ideologie a seconda della situazione. Gode di un discreto potere in certe aree del Paese nelle regioni  settentrionali e orientali (è originario di Kunduz)  ma il suo legame coi talebani è sempre stato soprattutto tattico. Di fatto è un soggetto per i fatti suoi pronto, domani, ad allearsi, se davvero gli convenisse, anche con Daesh. E’ comunque un personaggio con cui è d’obbligo fare i conti e scendere a patti. E se il fronte della guerriglia si scompagina, tanto meglio. La pace si fa quando il punto di non ritorno mostra le debolezze che, nel caso afgano, sono un segno che ormai tocca tutti i contendenti. C’è una stanchezza della e nella guerra? Staremo a vedere. Per ora il fronte caldo è più a Ovest, in Medio oriente. E questo aiuta

Quanto c’è di arabo nella matematica?

(Step Feed).  Durante l’epoca d’oro islamica,  tra l’VIII e il XIII secolo,  è stato raggiunto un immenso progresso scientifico dagli scienziati musulmani e studiosi nel mondo arabo, in particolare nei settori della matematica, della chimica e della fisica. Le scoperte e teorie scientifiche fatte in questo periodo di illuminazione hanno agito come base delle scienze […]

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Yemen e Libano: test delle potenze regionali e internazionali

Di Raghida Dergham. Al-Arabiya (14/03/2016). Traduzione e sintesi di Viviana Schiavo. Questa settimana il radar delle crisi ha registrato un passo in avanti in Yemen, con una delegazione Houti che ha visitato l’Arabia Saudita per la prima volta da quando la coalizione araba a guida saudita è intervenuta contro i ribelli sciiti. Il paese potrebbe […]

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Ho letto tante interviste a Hosni Mubarak

… e ho letto anche l’intervista ‘esclusiva’ di Repubblica ad Abdelfattah al Sisi. Presidente della repubblica egiziana Mubarak, sino a che – nel 2011 – il vertice dell’esercito non gli ha imposto le dimissioni per evitare il peggio. Presidente della repubblica egiziana Al Sisi. Non è questa l’unica analogia, tra i due uomini. Anche leRead more

Ho letto tante interviste a Hosni Mubarak

… e ho letto anche l’intervista ‘esclusiva’ di Repubblica ad Abdelfattah al Sisi. Presidente della repubblica egiziana Mubarak, sino a che – nel 2011 – il vertice dell’esercito non gli ha imposto le dimissioni per evitare il peggio. Presidente della repubblica egiziana Al Sisi. Non è questa l’unica analogia, tra i due uomini. Anche leRead more

Ho letto tante interviste a Hosni Mubarak

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Ho letto tante interviste a Hosni Mubarak

… e ho letto anche l’intervista ‘esclusiva’ di Repubblica ad Abdelfattah al Sisi. Presidente della repubblica egiziana Mubarak, sino a che – nel 2011 – il vertice dell’esercito non gli ha imposto le dimissioni per evitare il peggio. Presidente della repubblica egiziana Al Sisi. Non è questa l’unica analogia, tra i due uomini. Anche leRead more

Ho letto tante interviste a Hosni Mubarak

… e ho letto anche l’intervista ‘esclusiva’ di Repubblica ad Abdelfattah al Sisi. Presidente della repubblica egiziana Mubarak, sino a che – nel 2011 – il vertice dell’esercito non gli ha imposto le dimissioni per evitare il peggio. Presidente della repubblica egiziana Al Sisi. Non è questa l’unica analogia, tra i due uomini. Anche leRead more

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Mediterraneo in Traduzione

MiT 110Mediterraneo in Traduzione è una scuola estiva di traduzione dalle lingue del Mediterraneo, che si tiene in uno dei luoghi più belli e carichi di storia della costa siciliana: capo Peloro, presso Messina, affacciato sul mare che gli antichi credevano abitato da Scilla e Cariddi.

Denaro e armi dell’ISIS attraverso la Turchia

TK dollari 110Report dell’Organizzazione della Ricerca sull’Armamento nei Conflitti (CAR) e del quotidiano Wall Street Journal su ricerche effettuate tra luglio 2014 e febbraio 2016 secondo cui l’ISIS si rifornisce per la costruzione di armi da 51 aziende in 20 Paesi diversi. Tredici di queste si trovano in Turchia.

Siria e Russia: da alleato a padrone

di Lina Khatib. Middle East Eye (15/03/2016). Traduzione e sintesi di Silvia Di Cesare. L’annuncio di Vladimir Putin del ritiro delle truppe russe dalla Siria è stata una sorpresa per molti, ma non è che l’ultimo episodio di affermazione di Mosca del suo potere nei confronti del regime di Bashar al-Assad. L’annuncio coincide con l’ultimo […]

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La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

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La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

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La busta paga di Netanyahu: 4 mila euro (netti) al mese

Lordi fanno 48.815 shekel al mese. Cioè poco più di 11.285 euro. Che però tolte le tasse, tolte le spese sanitarie, tolta l’assicurazione e, soprattutto, il mantenimento del veicolo dotato di tutti i protocolli di sicurezza imposti dallo Shin Bet, ecco, tolto tutto questo, quella cifra cala a 17.645 shekel. Quindi a 4.079,47 euro. Netti. […]

Marocco: la chiesa abbandonata inondata di street art

(Design Boom). Dopo aver trasformato una vecchia chiesa spagnola in uno skatepark, lo street artist Okuda San Miguel ha bombardato un’altra chiesa abbandonata con i suoi colori accesi e le sue forme geometriche, ma stavolta in Marocco. Il progetto dell’artista madrileno, intitolato “11 Miraggi alla Libertà”, è stato realizzato nella cittadina di Youssoufia nell’ambito del progetto […]

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“Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” di Eric-Emmanuel Schmitt

Mosè, detto Momo, è un ragazzino ebreo dall’indole ribelle che non vuole sottostare alle rigide regole di vita che gli detta suo padre, del quale peraltro non riconosce l’autorità. Monsieur Ibrahim è l’”arabo” del quartiere, un droghiere vedovo che vive nel ricordo dell’amata moglie, dividendo la sua vita fra le merci della sua piccola bottega […]

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Egitto: il licenziamento di El-Zind e la lotta tra El Sisi e la magistratura

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (14/03/2016). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti. Chi ha realmente deposto il ministro della Giustizia egiziano Ahmad El-Zind? È stato necessario per rispondere al suo “lapsus” contro il Profeta durante delle dichiarazioni televisive, specie dopo che Al-Azhar ha pubblicamente espresso la propria rabbia insieme a numerosi attivisti e politici? El-Zind […]

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Un "presidente civile" per Myanmar

Il primo giorno del prossimo mese di aprile il Myanmar avrà, dopo più di cinquant’anni di regime militare, un presidente in abiti civili. Si chiama Htin Kyaw, ha settant’anni, gode della stima di molti birmani e – quel che fa la differenza – della piena fiducia di Aung San Suu Kyi, la vera vincitrice di questa vicenda che si trascina da anni attraverso arresti domiciliari per lei e una persecuzione mirata degli uomini e delle donne del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Lnd). La gestazione di questa elezione è stata lunga e, si può ben dire, sofferta. Comincia nel novembre scorso (ben prima in realtà) quando la Lega fa il pieno alle elezioni parlamentari. Un successo a valanga, senza brogli e intimidazioni. Con qualche ombra ma, in sostanza, col marchio della trasparenza e della legalità sul voto popolare. La maggioranza in parlamento può dunque permettersi di non temere più la presenza dei militari che hanno comunque il 25% dei seggi garantiti e un indiretto potere di veto sul cambiamento della Costituzione, che si può modificare solo col 75% del voto parlamentare.


Dopo la vittoria comincia una lunga trattativa che Aung San Suu Kyi conduce con il partito dei militari e le minoranze per capire come potrà governare. Sa che per ora non può essere presidente perché l’articolo 59 della Costituzione “militare” del 2008 lo vieta a chi ha sposato un forestiero o ha figli con passaporto straniero. La Nobel per la pace spiana così la strada al suo braccio destro: a un uomo, in sostanza, che le consentirà di governare dietro al paravento. Per meglio dire, Suu Kyi sta pavimentando la strada che può portarla a fare la premier, carica che finora non esiste: per governare allo scoperto, poter andare all’estero a incontrare i suoi pari, decidere, avere in mano le leve dell’esecutivo che finora sono prerogativa del presidente. Comunque difficile, perché, al momento, i ministeri chiave son nelle mani dei militari che possono contare sul vicepresidente.

Htin Kyaw infatti non è solo. Ha vinto più della metà dei voti necessari nei due rami del parlamento (360 su 652). Ma accanto a lui – come “primo vicepresidente” – c’è l’uomo che i militari hanno proposto: Myint Swe, 213 voti totali. Non pochi. E’ un buon amico del presidente uscente Than Shwe, e dunque un uomo fedele alla tradizione in divisa. Si dice anche che sia un falco. A sua volta c’è però un “secondo vice” che è un altro uomo della Lega: Henry Van Thio, 79 voti, e un’appartenenza etnica alla minoranza Chin. Non son state rose e fiori. Le nomine a presidente devono passare l’analisi di un comitato cui vengono presentate le candidature. Il comitato è composto da sette membri, sei dei quali in rappresentanza di Camera Alta e Bassa, più un militare. Quest’ultimo, il generale Than Soe, ha avuto da ridire sia su Htin Kyaw sia su Van Thio. Il primo non è un deputato e il secondo ha passato molto tempo all’estero. Ma un problema ce l’aveva anche Mynt Shwe il cui figlio, con passaporto australiano, ha dovuto rinunciare a quella nazionalità per garantire al padre di poter accedere allo scranno di vice presidente. Il particolare, raccontato da Irrawaddy (da sempre una testata dell’opposizione), rivela dunque che la trattativa applicata alle vicende dei tre candidati potrebbe domani riaprirsi sulla presidenza per Aung San Suu Kyi, che di figli ne ha due con passaporto britannico.

La legge ad hoc che le ha finora impedito di correre per la presidenza potrà forse essere superata – cambiando la Costituzione – o aggirata con qualche escamotage classico delle alchimie istituzionali. O più semplicemente, l’istituzione del premierato semplificherà le cose impedendo un’inutile guerra tra militari e civili. La battaglia sembra dunque spostarsi su un altro fronte: quello della conservazione di poteri e privilegi, una stagione abbastanza classica nei Paesi in transizione. E le prime battaglie si vedranno al momento di formare l’esecutivo, la prima mossa reale del presidente Htin Kyaw. I militari controllano Difesa e economia, hanno le mani in pasta nel commercio e nelle miniere. Sono i signori della guerra alle minoranze. La strada è meno in salita ma non è ancora in discesa.

Un "presidente civile" per Myanmar

Il primo giorno del prossimo mese di aprile il Myanmar avrà, dopo più di cinquant’anni di regime militare, un presidente in abiti civili. Si chiama Htin Kyaw, ha settant’anni, gode della stima di molti birmani e – quel che fa la differenza – della piena fiducia di Aung San Suu Kyi, la vera vincitrice di questa vicenda che si trascina da anni attraverso arresti domiciliari per lei e una persecuzione mirata degli uomini e delle donne del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Lnd). La gestazione di questa elezione è stata lunga e, si può ben dire, sofferta. Comincia nel novembre scorso (ben prima in realtà) quando la Lega fa il pieno alle elezioni parlamentari. Un successo a valanga, senza brogli e intimidazioni. Con qualche ombra ma, in sostanza, col marchio della trasparenza e della legalità sul voto popolare. La maggioranza in parlamento può dunque permettersi di non temere più la presenza dei militari che hanno comunque il 25% dei seggi garantiti e un indiretto potere di veto sul cambiamento della Costituzione, che si può modificare solo col 75% del voto parlamentare.


Dopo la vittoria comincia una lunga trattativa che Aung San Suu Kyi conduce con il partito dei militari e le minoranze per capire come potrà governare. Sa che per ora non può essere presidente perché l’articolo 59 della Costituzione “militare” del 2008 lo vieta a chi ha sposato un forestiero o ha figli con passaporto straniero. La Nobel per la pace spiana così la strada al suo braccio destro: a un uomo, in sostanza, che le consentirà di governare dietro al paravento. Per meglio dire, Suu Kyi sta pavimentando la strada che può portarla a fare la premier, carica che finora non esiste: per governare allo scoperto, poter andare all’estero a incontrare i suoi pari, decidere, avere in mano le leve dell’esecutivo che finora sono prerogativa del presidente. Comunque difficile, perché, al momento, i ministeri chiave son nelle mani dei militari che possono contare sul vicepresidente.

Htin Kyaw infatti non è solo. Ha vinto più della metà dei voti necessari nei due rami del parlamento (360 su 652). Ma accanto a lui – come “primo vicepresidente” – c’è l’uomo che i militari hanno proposto: Myint Swe, 213 voti totali. Non pochi. E’ un buon amico del presidente uscente Than Shwe, e dunque un uomo fedele alla tradizione in divisa. Si dice anche che sia un falco. A sua volta c’è però un “secondo vice” che è un altro uomo della Lega: Henry Van Thio, 79 voti, e un’appartenenza etnica alla minoranza Chin. Non son state rose e fiori. Le nomine a presidente devono passare l’analisi di un comitato cui vengono presentate le candidature. Il comitato è composto da sette membri, sei dei quali in rappresentanza di Camera Alta e Bassa, più un militare. Quest’ultimo, il generale Than Soe, ha avuto da ridire sia su Htin Kyaw sia su Van Thio. Il primo non è un deputato e il secondo ha passato molto tempo all’estero. Ma un problema ce l’aveva anche Mynt Shwe il cui figlio, con passaporto australiano, ha dovuto rinunciare a quella nazionalità per garantire al padre di poter accedere allo scranno di vice presidente. Il particolare, raccontato da Irrawaddy (da sempre una testata dell’opposizione), rivela dunque che la trattativa applicata alle vicende dei tre candidati potrebbe domani riaprirsi sulla presidenza per Aung San Suu Kyi, che di figli ne ha due con passaporto britannico.

La legge ad hoc che le ha finora impedito di correre per la presidenza potrà forse essere superata – cambiando la Costituzione – o aggirata con qualche escamotage classico delle alchimie istituzionali. O più semplicemente, l’istituzione del premierato semplificherà le cose impedendo un’inutile guerra tra militari e civili. La battaglia sembra dunque spostarsi su un altro fronte: quello della conservazione di poteri e privilegi, una stagione abbastanza classica nei Paesi in transizione. E le prime battaglie si vedranno al momento di formare l’esecutivo, la prima mossa reale del presidente Htin Kyaw. I militari controllano Difesa e economia, hanno le mani in pasta nel commercio e nelle miniere. Sono i signori della guerra alle minoranze. La strada è meno in salita ma non è ancora in discesa.

“Filastin” di Naji AL-Ali

filastin 110In ristampa “Filastin”, la prima raccolta pubblicata in Italia con i lavori di Naji Al-Ali, il più grande cartoonist palestinese assassinato a Londra a causa delle idee espresse nelle sue opere. Introduce il libro la prefazione del vignettista italiano Vauro Senesi. Presentazione a Roma il 19 marzo.

Mark LeVine a Roma, a discutere di Israele/Palestina – appuntamento allo IAI il 23 marzo!

Il mio terzo appuntamento romano, assieme all’incontro su Gerusalemme allo IPOCAN (18 marzo, ore 17), e alla conversazione con Suad Amiry a LibriCome all’Auditorium (20 marzo, ore 17) INVITATION Conference on One or two states: A misleading dichotomy? Speaker Mark Le Vine Professor of Modern Middle Eastern History, University of California, Irvine Discussant Paola Caridi,Read more

Mark LeVine a Roma, a discutere di Israele/Palestina – appuntamento allo IAI il 23 marzo!

Il mio terzo appuntamento romano, assieme all’incontro su Gerusalemme allo IPOCAN (18 marzo, ore 17), e alla conversazione con Suad Amiry a LibriCome all’Auditorium (20 marzo, ore 17) INVITATION Conference on One or two states: A misleading dichotomy? Speaker Mark Le Vine Professor of Modern Middle Eastern History, University of California, Irvine Discussant Paola Caridi,Read more

Mark LeVine a Roma, a discutere di Israele/Palestina – appuntamento allo IAI il 23 marzo!

Il mio terzo appuntamento romano, assieme all’incontro su Gerusalemme allo IPOCAN (18 marzo, ore 17), e alla conversazione con Suad Amiry a LibriCome all’Auditorium (20 marzo, ore 17) INVITATION Conference on One or two states: A misleading dichotomy? Speaker Mark Le Vine Professor of Modern Middle Eastern History, University of California, Irvine Discussant Paola Caridi,Read more

La bolla di Obama

Di Tariq al-Homayed. Asharq al-Awsat (14/03/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. La rivista statunitense The Atlantic ha recentemente pubblicato uno speciale sul presidente Barack Obama e sulla sua visione della politica estera dal titolo “La Dottrina Obama”. Di conseguenza, la stampa araba ha detto che il presidente stava attaccando l’Arabia Saudita e che, in generale, odia […]

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Sulla ricerca di una soluzione per la Siria

Di Michel Kilo. Al-Araby al-Jadeed (13/03/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Nessuno si recherà mai a dei negoziati persi in partenza. Nessuno potrà rifiutarsi di negoziare, con l’intenzione di astenersi dal raggiungimento di una soluzione, così come nessuno spingerà personalità incapaci o non qualificate al tavolo dei negoziati o nella ricerca di soluzioni valide. […]

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La giornata internazionale della donna dal punto di vista arabo

Di Husein al-Odat. As-Safir (12/03/2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Sebbene la donna abbia ottenuto molti dei suoi diritti politici, economici, sociali e umani nelle società più avanzate, queste stesse società hanno stabilito di dedicare un giorno particolare proprio a lei, un giorno che funga da continuo promemoria per le donne che non […]

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L’Iran e la Turchia non sono un modello per nessuno

Di Hazim Saghaya. Al-Hayat (12/03/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo Le ultime elezioni iraniane hanno dato ai “riformisti” e ai “moderati” credibilità davanti agli elettori, ma per questa vittoria, all’ex presidente Khatami è stato impedito ogni contatto con i mezzi d’informazione, mentre la notizia del suo arresto non è stata ancora confermata. Cosa più […]

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Il Calamaio di Nura

  “I baffi di Abu Elias erano lunghi. Lunghi e neri. Così lunghi, neri e ispidi che Nura rimaneva tutte le volte a bocca aperta, senza riuscire a staccare gli occhi dal suo viso. Sembrava come se un calligrafo si fosse divertito a disegnarli, quei baffi, sul volto di Abu Elias mentre il vecchio dormiva,Read more

Il Calamaio di Nura

  “I baffi di Abu Elias erano lunghi. Lunghi e neri. Così lunghi, neri e ispidi che Nura rimaneva tutte le volte a bocca aperta, senza riuscire a staccare gli occhi dal suo viso. Sembrava come se un calligrafo si fosse divertito a disegnarli, quei baffi, sul volto di Abu Elias mentre il vecchio dormiva,Read more

Il Calamaio di Nura

  “I baffi di Abu Elias erano lunghi. Lunghi e neri. Così lunghi, neri e ispidi che Nura rimaneva tutte le volte a bocca aperta, senza riuscire a staccare gli occhi dal suo viso. Sembrava come se un calligrafo si fosse divertito a disegnarli, quei baffi, sul volto di Abu Elias mentre il vecchio dormiva,Read more

Un’insegnante donna palestinese ha vinto il “Global Teacher Prize”

Si chiama Hanan Al-Hroub ed è un’ex rifugiata palestinese cresciuta in un campo profughi vicino Betlemme. Adesso è lei stessa un’insegnante per i rifugiati e ha vinto il Global Teacher Prize come “Insegnante 2016”. Hanan si è specializzata nel supportare i bambini che sono stati traumatizzati dalla violenza, preferendo un approccio di apprendimento basato sul gioco e sull’educazione […]

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A Elias Khoury, Ghassan Zaqtan e Alice Walker il Premio Mahmud Darwish 2016

Ogni anno il 13 marzo, giorno in cui ricorrono l’anniversario della nascita di Mahmud Darwish e la Giornata nazionale della Cultura palestinese, viene assegnato il Premio letterario Mahmud Darwish per la Creatività.  A vincerlo quest’anno è stata una tripletta di autori: il romanziere libanese Elias Khoury, il poeta palestinese Ghassan Zaqtan e la scrittrice statunitense … Continua a leggere A Elias Khoury, Ghassan Zaqtan e Alice Walker il Premio Mahmud Darwish 2016

A Elias Khoury, Ghassan Zaqtan e Alice Walker il Premio Mahmud Darwish 2016

Ogni anno il 13 marzo, giorno in cui ricorrono l’anniversario della nascita di Mahmud Darwish e la Giornata nazionale della Cultura palestinese, viene assegnato il Premio letterario Mahmud Darwish per la Creatività.  A vincerlo quest’anno è stata una tripletta di autori: il romanziere libanese Elias Khoury, il poeta palestinese Ghassan Zaqtan e la scrittrice statunitense … Continua a leggere A Elias Khoury, Ghassan Zaqtan e Alice Walker il Premio Mahmud Darwish 2016

Iraq: l’ultima battaglia del primo ministro Abadi

Di Sarbast Bamarni. Elaph (11/03/2016). Traduzione e sintesi di Alessandro Mannara. Con l’aumento dell’indignazione popolare in Iraq, l’inasprimento della crisi politica e finanziaria del paese e una guerra contro un terrorismo inarrestabile, l’attuale governo del primo ministro Haidar al-Abadi appare, dopo circa due anni, totalmente impotente dinanzi alla possibilità di salvare lo Stato dal caos e […]

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Obama e la sua dottrina sul Medio Oriente

Di Abdullah Hamidaddin. Al-Arabiya (11/03/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. Tutti sappiamo che l’America ha aperto un nuovo capitolo in Medio Oriente e ne abbiamo già visto alcune delle pagine. Che il Medio Oriente rappresenti un’area poco importante per gli Stati Uniti, sembra essere un dato di fatto, un dato di fatto combinato allo […]

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La musica sulle parole di Mahmoud Darwish

Oggi, 75 anni fa, nasceva ad al-Birwa, un paesino della Palestina, vicino ad Acri, Mahmoud Darwish, uno dei più grandi poeti arabi di tutti i tempi. La bellezza dei suoi versi, nonché il loro contenuto di impegno nella lotta palestinese, l’hanno giustamente consacrato a simbolo in carne ed ossa contro la repressione, a favore della […]

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Formidable!

Due mesi fa esatti ci lasciava Mario Dondero che, in questo particolare da uno scatto di Monika Bulaj, sembra dire: “Formidabile”. Eri formidabile Mario. E indimenticabile.

Formidable!

Due mesi fa esatti ci lasciava Mario Dondero che, in questo particolare da uno scatto di Monika Bulaj, sembra dire: “Formidabile”. Eri formidabile Mario. E indimenticabile.

Buon compleanno, Mahmoud

Buon compleanno caro Mahmoud, avrei voluto conoscerti di persona. Grazie per le tue poesie, grazie per avermi accolta tra i tuoi versi. Grazie per avermi fatta sentire meno straniera nell’arabo, per aver fatto dell’arabo, la tua lingua, una lingua accogliente anche per me. Grazie per avermi fatta accomodare tra le tue parole. Buon compleanno Mahmoud, … Continua a leggere Buon compleanno, Mahmoud

Buon compleanno, Mahmoud

Buon compleanno caro Mahmoud, avrei voluto conoscerti di persona. Grazie per le tue poesie, grazie per avermi accolta tra i tuoi versi. Grazie per avermi fatta sentire meno straniera nell’arabo, per aver fatto dell’arabo, la tua lingua, una lingua accogliente anche per me. Grazie per avermi fatta accomodare tra le tue parole. Buon compleanno Mahmoud, … Continua a leggere Buon compleanno, Mahmoud

La responsabilità dell’Europa nei confronti di Gaza

Di Hossam Shaker. Middle East Monitor (11/03/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. L’idea dell’annegamento di Gaza era il famoso desiderio dell’ex primo ministro israeliano Yitzak Rabin, ma i suoi successori si sono orientati verso un’opzione più facile: Israele ha deciso di soffocare la Striscia con una politica di assedio totale. Negli ultimi dieci anni, le politiche europee […]

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I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

mcc43 “Stiamo parlando di crimini molto gravi” dichiara Lama Fakih di Amnesty International dopo l’accertamento di una serie di crimini di guerra: esodi forzati, distruzione di proprietà individuali e di interi villaggi, commessi dai combattenti curdi del YPG contro le minoranze etniche turkmene e arabe, oltre che contro civili di etnia curda in Siria. (ndr. […]

I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

mcc43 “Stiamo parlando di crimini molto gravi” dichiara Lama Fakih di Amnesty International dopo l’accertamento di una serie di crimini di guerra: esodi forzati, distruzione di proprietà individuali e di interi villaggi, commessi dai combattenti curdi del YPG contro le minoranze etniche turkmene e arabe, oltre che contro civili di etnia curda in Siria. (ndr. […]

I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

mcc43 “Stiamo parlando di crimini molto gravi” dichiara Lama Fakih di Amnesty International dopo l’accertamento di una serie di crimini di guerra: esodi forzati, distruzione di proprietà individuali e di interi villaggi, commessi dai combattenti curdi del YPG contro le minoranze etniche turkmene e arabe, oltre che contro civili di etnia curda in Siria. (ndr. […]

I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

mcc43 “Stiamo parlando di crimini molto gravi” dichiara Lama Fakih di Amnesty International dopo l’accertamento di una serie di crimini di guerra: esodi forzati, distruzione di proprietà individuali e di interi villaggi, commessi dai combattenti curdi del YPG contro le minoranze etniche turkmene e arabe, oltre che contro civili di etnia curda in Siria. (ndr. […]

I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

mcc43 “Stiamo parlando di crimini molto gravi” dichiara Lama Fakih di Amnesty International dopo l’accertamento di una serie di crimini di guerra: esodi forzati, distruzione di proprietà individuali e di interi villaggi, commessi dai combattenti curdi del YPG contro le minoranze etniche turkmene e arabe, oltre che contro civili di etnia curda in Siria. (ndr. […]

I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

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I Curdi nella proxy war dell’ Occidente

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Sei mediorientali in lizza per il “World Photography Award” di Sony

Di Israa al-Khatib. Barakabits (6/03/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina La lista che la Sony ha presentato per il suo annuale World Photography Award è composta da oltre 270 fotografi provenienti da quasi 60 paesi di tutto il mondo. Secondo il comunicato stampa dell’Organizzazione, questo sarà “il più importante premio” in nove anni di storia!  Per la gioia di tutti gli arabi, e […]

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Libia: eccesso di divisioni interne

Di Samir Atallah. Al-Sharq al-Awsat (11/03/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi. Il territorio libico è due volte quello di Francia e Germania, dell’Olanda e della Gran Bretagna. Quello che rimane basterebbe per altri due Stati almeno. La sua costa mediterranea si estende per 1600 km e questa vasta area è abitata da sei milioni di persone, […]

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Cucina palestinese: shulbato, bulgur con melanzane

Con la ricetta di oggi andiamo a scoprire un piatto della tradizione culinaria palestinese, una pietanza semplice, gustosa e nutriente: lo shulbato, bulgur con melanzane! Ingredienti: 60ml di olio d’oliva 1 cipolla 1 spicchio d’aglio 1 melanzana 2 pomodori 1 peperone 225g di bulgur 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro spezie: 1 cucchiaino di cumino, un pizzico […]

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Il razzismo democratico e quello repubblicano

Di Mustafa Zein. Al-Hayat (05/03/2016). Traduzione e sintesi di Sofia Carola Sammartano. Hillary Clinton ha facilmente sconfitto il suo rivale Bernie Sanders. Le lobby, Wall Street e le istituzioni che i presidenti americani hanno usato per raggiungere la Casa Bianca hanno sferrato l’attacco. Mentre la signora rende omaggio ai finanziatori della sua campagna, confermando di mantenere […]

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Il carcere in “Le altre facce della medaglia”

Evento teatrale con il coinvolgimento di un gruppo di detenuti e di operatori della Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino,studenti di Giurisprudenza, esperti e studiosi in materia. Un dialogo sulla situazione carceraria a partire dalla legge di …

Tunisia: l’offensiva preventiva di Daesh

Rawabet Center for Research and Strategic Studies (09/03/2016). Traduzione e sintesi di Rachida Razzouk. All’alba di lunedì 7 marzo 2016, la città di Ben Guerdane, nel governatorato tunisino di Médenine, a pochi chilometri dal confine con la Libia, ha vissuto pesanti combattimenti e scontri a fuoco mai prima d’ora riscontrati, costringendo all’assedio le forze militari […]

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Prima che il mondo cambi noi. Una reazione a caldo (aggiornato con una nota di F. Pesoli)

Matteo Guarnaccia – personaggio
 guida del documentario – assieme
a Finardi (dalla pag fb di Matteo)

Con una certa emozione che non nascondo, sono andato a vedere ieri sera a Milano – muovendo dalle lande padane dove attualmente staziono in un eccitante incipit primaverile – il bel documentario di Felice Pesoli. Si intitola “Prima che la vita cambi noi” ed è dedicato al movimento beat, beatnik, hippy degli anni Sessanta e Settanta. Il documentario si interrompe quando l’oscura tragedia degli anni di piombo (e dell’operazione Blue Moon) si abbatte sul movimento e su quel segmento del  movimento più che anarchico e più che libertario: artistico, pacifista, curioso, viaggiante e capace di mettere a rischio ogni certezza. Il docufilm (pare si dica così) mi è piaciuto e molto. Fila giù come un bicchier d’acqua nonostante gli 80 minuti. Non c’è ombra di nostalgie o di un “com’eravamo” che sottintenda “belli e bravi” come nessuno più sarà. Ad un certo punto del filmato, Eugenio Finardi, il musicista che con Rossana Casale ha firmato una delle più belle melodie della musica italiana (che posto sotto), dice che gli è piaciuto trasmettere ai suoi ragazzi le idee che aveva e ha ancora in testa ma che loro, ora, stanno cercando nuove strade in quella direzione. E’ il messaggio migliore per dire che non eravamo né i migliori né qualcos’altro. Eravamo nel flusso della vita che andava in una certa direzione e pronti al salto nel buio, tra le pareti di casa o a Kathmandu. Qualcun’altro sta già esplorando nuove frontiere. Per oltrepassarle come noi cercammo in qualche modo di fare

Il re è nudo

Dico qui cosa credo manchi al documentario: due cose forse. La prima è che è quasi totalmente assente il “proletariato giovanile” come allora veniva chiamato da quel tentativo nobile (di Re Nudo, degli Indiani metropolitani e forse anche di una parte di Lotta Continua*) di dar voce a un popolo minore che tutt’al più serviva alle cronache del Corriere per raccontare i “capelloni”. Ma di quella gente – giovani operai, disoccupati, ragazzi col diploma elementare – nel film non c’è che sporadica traccia. C’è molto salotto buono ed è pur vero che quei giovani figli della borghesia illuminata (ed ero tra quelli) erano le punte di lancia del movimento che però aveva una sua

Felice Pesoli 

dimensione di massa un po’ diversa e che nel documentario appare solo a tratti. Pochi.

Infine c’è tantissima Milano – che fu in effetti una gran fucina – ma assai poco del resto d’Italia. Penso anche solo a Roma, dove pure ci furono esperimenti fondamentali: Stampa alternativa nell’editoria e il Filmstudio sul fronte musiche e immagini che venivano dall’estero. Qui forse il materiale si sarebbe trovato. E forse anche di Napoli o della Sicilia (la famosa comune vicino a Cinisi). Ma certo,”…se 80 minuti vi sembran pochi…” provateci voi a metterci tutto senza far sbadigliare! **

Il mio contributo beat:
I disegni per il
manuale  di Luca Gerosa

Detto questo – e spero che Felice non me ne voglia –  il lavoro di Pesoli è straordinario. Il primo lavoro  ben fatto e con la giusta distanza; con empatia ma anche con la freddezza necessaria ad analizzarne il bene e il male. E senza dimenticare la tenerezza, traghettata dalle belle parole di Claudio Rocchi (di cui si coglie la statura intellettuale e a cui il docufilm è dedicato) o di certi baci rubati dalla macchina da presa in un lavoro di ricostruzione difficilissimo perché le immagini dell’epoca sono poche (a Roma però c’è il tesoretto di Grifi).

E’ un documentario che consiglierei a chiunque per farsi un’idea di cosa fu quello strano e straordinario movimento che diede un impulso fondamentale al cambiamento della società bigotta e dagli orizzonti ristretti che eravamo. Per farsi un’idea di cosa fu quel difficile incontro tra politica e istanze libertarie, tra organizzazioni militanti e violente e persone che volevano mettere i fiori nei cannoni. Per capire cosa furono le droghe e il viaggio in Oriente, il mitico Viaggio all’Eden. Tanto insomma, e bene. Che mille sale fioriscano e che possiate avere l’occasione di gustarvi quest’ora e venti minuti. Ne uscirete rinfrancati e con una curiosità del divenire che, grazie a Dio, non si spegne mai. Questo, mi sembra, il messaggio che resta e che il film posta con sé.

* Ricordate Rostagno? “Una fumata bianca al vertice di Lotta Continua”

** Posto di seguito una breve nota di Pesoli a questa breve recensione:
Caro Emanuele, ti ringrazio molto per quello che hai scritto, naturalmente comprese le critiche. Forse non è molto elegante commentare una recensione, ma un paio di cose le voglio dire. La prima è che non ho mai ben capito cosa volesse dire “proletariato giovanile”, fin dai tempi mi è sembrata una definizione politichese, un modo per dire che tutti i giovani incazzati stanno con noi, mentre secondo me c’era una discriminante culturale, una concezione del mondo che andava conquistata al di là delle origini di classe. Lo dice uno che non ha mai appartenuto alla borghesia illuminata (anzi forse adesso sì). Detto brutalmente penso che il tentativo di includere in quel movimento troppa gente sia stato un errore, io credo nel valore dell’esempio, non nell’ “andare verso le masse”.
Per quanto riguarda la dimensione non milanese del movimento ci ho rinunciato perchè avrei dovuto mettere in evidenza le differenze e questo contrastava con la modalità “a volo d’uccello” con cui ho costruito il doc. E poi è già abbastanza lungo così, altro non ci stava e non volevo togliere nulla. Quella che racconto è la specificità del movimento milanese, a Roma le cose erano molto diverse. Direi che c’è spazio per altre documentari.


Prima che il mondo cambi noi. Una reazione a caldo (aggiornato con una nota di F. Pesoli)

Matteo Guarnaccia – personaggio
 guida del documentario – assieme
a Finardi (dalla pag fb di Matteo)

Con una certa emozione che non nascondo, sono andato a vedere ieri sera a Milano – muovendo dalle lande padane dove attualmente staziono in un eccitante incipit primaverile – il bel documentario di Felice Pesoli. Si intitola “Prima che la vita cambi noi” ed è dedicato al movimento beat, beatnik, hippy degli anni Sessanta e Settanta. Il documentario si interrompe quando l’oscura tragedia degli anni di piombo (e dell’operazione Blue Moon) si abbatte sul movimento e su quel segmento del  movimento più che anarchico e più che libertario: artistico, pacifista, curioso, viaggiante e capace di mettere a rischio ogni certezza. Il docufilm (pare si dica così) mi è piaciuto e molto. Fila giù come un bicchier d’acqua nonostante gli 80 minuti. Non c’è ombra di nostalgie o di un “com’eravamo” che sottintenda “belli e bravi” come nessuno più sarà. Ad un certo punto del filmato, Eugenio Finardi, il musicista che con Rossana Casale ha firmato una delle più belle melodie della musica italiana (che posto sotto), dice che gli è piaciuto trasmettere ai suoi ragazzi le idee che aveva e ha ancora in testa ma che loro, ora, stanno cercando nuove strade in quella direzione. E’ il messaggio migliore per dire che non eravamo né i migliori né qualcos’altro. Eravamo nel flusso della vita che andava in una certa direzione e pronti al salto nel buio, tra le pareti di casa o a Kathmandu. Qualcun’altro sta già esplorando nuove frontiere. Per oltrepassarle come noi cercammo in qualche modo di fare

Il re è nudo

Dico qui cosa credo manchi al documentario: due cose forse. La prima è che è quasi totalmente assente il “proletariato giovanile” come allora veniva chiamato da quel tentativo nobile (di Re Nudo, degli Indiani metropolitani e forse anche di una parte di Lotta Continua*) di dar voce a un popolo minore che tutt’al più serviva alle cronache del Corriere per raccontare i “capelloni”. Ma di quella gente – giovani operai, disoccupati, ragazzi col diploma elementare – nel film non c’è che sporadica traccia. C’è molto salotto buono ed è pur vero che quei giovani figli della borghesia illuminata (ed ero tra quelli) erano le punte di lancia del movimento che però aveva una sua

Felice Pesoli 

dimensione di massa un po’ diversa e che nel documentario appare solo a tratti. Pochi.

Infine c’è tantissima Milano – che fu in effetti una gran fucina – ma assai poco del resto d’Italia. Penso anche solo a Roma, dove pure ci furono esperimenti fondamentali: Stampa alternativa nell’editoria e il Filmstudio sul fronte musiche e immagini che venivano dall’estero. Qui forse il materiale si sarebbe trovato. E forse anche di Napoli o della Sicilia (la famosa comune vicino a Cinisi). Ma certo,”…se 80 minuti vi sembran pochi…” provateci voi a metterci tutto senza far sbadigliare! **

Il mio contributo beat:
I disegni per il
manuale  di Luca Gerosa

Detto questo – e spero che Felice non me ne voglia –  il lavoro di Pesoli è straordinario. Il primo lavoro  ben fatto e con la giusta distanza; con empatia ma anche con la freddezza necessaria ad analizzarne il bene e il male. E senza dimenticare la tenerezza, traghettata dalle belle parole di Claudio Rocchi (di cui si coglie la statura intellettuale e a cui il docufilm è dedicato) o di certi baci rubati dalla macchina da presa in un lavoro di ricostruzione difficilissimo perché le immagini dell’epoca sono poche (a Roma però c’è il tesoretto di Grifi).

E’ un documentario che consiglierei a chiunque per farsi un’idea di cosa fu quello strano e straordinario movimento che diede un impulso fondamentale al cambiamento della società bigotta e dagli orizzonti ristretti che eravamo. Per farsi un’idea di cosa fu quel difficile incontro tra politica e istanze libertarie, tra organizzazioni militanti e violente e persone che volevano mettere i fiori nei cannoni. Per capire cosa furono le droghe e il viaggio in Oriente, il mitico Viaggio all’Eden. Tanto insomma, e bene. Che mille sale fioriscano e che possiate avere l’occasione di gustarvi quest’ora e venti minuti. Ne uscirete rinfrancati e con una curiosità del divenire che, grazie a Dio, non si spegne mai. Questo, mi sembra, il messaggio che resta e che il film posta con sé.

* Ricordate Rostagno? “Una fumata bianca al vertice di Lotta Continua”

** Posto di seguito una breve nota di Pesoli a questa breve recensione:
Caro Emanuele, ti ringrazio molto per quello che hai scritto, naturalmente comprese le critiche. Forse non è molto elegante commentare una recensione, ma un paio di cose le voglio dire. La prima è che non ho mai ben capito cosa volesse dire “proletariato giovanile”, fin dai tempi mi è sembrata una definizione politichese, un modo per dire che tutti i giovani incazzati stanno con noi, mentre secondo me c’era una discriminante culturale, una concezione del mondo che andava conquistata al di là delle origini di classe. Lo dice uno che non ha mai appartenuto alla borghesia illuminata (anzi forse adesso sì). Detto brutalmente penso che il tentativo di includere in quel movimento troppa gente sia stato un errore, io credo nel valore dell’esempio, non nell’ “andare verso le masse”.
Per quanto riguarda la dimensione non milanese del movimento ci ho rinunciato perchè avrei dovuto mettere in evidenza le differenze e questo contrastava con la modalità “a volo d’uccello” con cui ho costruito il doc. E poi è già abbastanza lungo così, altro non ci stava e non volevo togliere nulla. Quella che racconto è la specificità del movimento milanese, a Roma le cose erano molto diverse. Direi che c’è spazio per altre documentari.


L’Iran invierà le sue forze in Yemen?

Di Abdulrahman Al-Rashed. Asharq Al-Awsat (10/03/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina Quando al vice capo di stato maggiore delle Forze Armate iraniane è stato chiesto se il suo Paese avrebbe inviato consiglieri militari in Yemen così come è stato per la Siria, la sua risposta è stata tutt’altro che negativa. Egli ha detto infatti che Teheran riconosce la propria […]

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Amleto a Gerusalemme

amleto 110Il Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale presenta in prima assoluta alle Fonderie Limone il 29 marzo 2016 “Amleto a Gerusalemme. Palestinian Kids Want To See The Sea”, con la regia di Gabriele Vacis, interpretato da Marco Paolini e da giovani attori palestinesi e italiani. 

Attenzione Sig. Presidente: l’Egitto sta regredendo

Di Charl Fouad Al-Masry. Daily News Egypt (08/03/2016) Traduzione e sintesi di Chiara Cartia. Nessuno può negare gli sforzi che il Presidente Abdel Fattah al-Sisi sta facendo per conservare la struttura dello Stato sia a livello nazionale che internazionale. Questa è un’introduzione fondamentale per impedire a chi ha cattive intenzioni di potersi opporre a quello che sto per […]

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Oggi a Milano, due viaggi a Oriente

Il primo al Pime (alle 18, via mosè bianchi 94) è un viaggio dentro la guerra in Afghanistan
all’interno del ciclo sulla Via della seta. Un modo un po’ anomalo di raccontare  di quella lunga strada che lungo 8mila chilometri di carovaniere ci portava fino in Cina e viceversa. Passava per Herat (una delle tante Alexandria) e Kabul, che i cinesi chiamavano Kophen. Ma oggi ci passa altro sulla via della seta. Ci passano le pallottole e le trame del nuovo Grande gioco che proveremo a raccontare.

La sera alle 21 invece, allo spazio  Oberdan, di viaggio ce n’è un’altro: quello che Felice Pesoli ha fatto con la cinepresa nella generazione che al piombo preferì i sogni e alle pallottole preferì un altro viaggio: il viaggio all’Eden. Sono contento di aver partecipato al suo lavoro che ha un bel titolo: Prima che la vita cambi noi. Una scommessa che, per quanto mi riguarda, resta ancora aperta.

Oggi a Milano, due viaggi a Oriente

Il primo al Pime (alle 18, via mosè bianchi 94) è un viaggio dentro la guerra in Afghanistan
all’interno del ciclo sulla Via della seta. Un modo un po’ anomalo di raccontare  di quella lunga strada che lungo 8mila chilometri di carovaniere ci portava fino in Cina e viceversa. Passava per Herat (una delle tante Alexandria) e Kabul, che i cinesi chiamavano Kophen. Ma oggi ci passa altro sulla via della seta. Ci passano le pallottole e le trame del nuovo Grande gioco che proveremo a raccontare.

La sera alle 21 invece, allo spazio  Oberdan, di viaggio ce n’è un’altro: quello che Felice Pesoli ha fatto con la cinepresa nella generazione che al piombo preferì i sogni e alle pallottole preferì un altro viaggio: il viaggio all’Eden. Sono contento di aver partecipato al suo lavoro che ha un bel titolo: Prima che la vita cambi noi. Una scommessa che, per quanto mi riguarda, resta ancora aperta.

Syria off Frame

Oggi pomeriggio a Roma, in via dell’Umiltà 83/c, verrà presentato SYRIA OFF FRAME, volume che raccoglie le opere d’arte di 140 artisti (poeti, registi, attori, street artist, vignettisti) siriani. Ne ho parlato qualche giorno fa su Q Code Magazine.  “Gli artisti rappresentano l’anima del popolo siriano” ha detto Mahmoud Hariri, 26 anni, ex insegnante d’ … Continua a leggere Syria off Frame

Syria off Frame

Oggi pomeriggio a Roma verrà presentato SYRIA OFF FRAME, volume che raccoglie le opere d’arte di 140 artisti (poeti, registi, attori, street artist, vignettisti) siriani. Ne ho parlato qualche giorno fa su Q Code Magazine.  “Gli artisti rappresentano l’anima del popolo siriano” ha detto Mahmoud Hariri, 26 anni, ex insegnante d’ arte ora rifugiato nel … Continua a leggere Syria off Frame

Syria off Frame

Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la […]

Syria off Frame

Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la […]

Syria off Frame

Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la […]

Syria off Frame

Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la […]

Syria off Frame

Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la […]

Terrorismo: dalla paranoia all’Apocalisse

Di Meriem Ben Nsir. L’Économiste Maghrébin (08/03/2016). Traduzione e sintesi di Laura Giacobbo. Il terrorista è pragmatico e ha tracciato un percorso al di là delle norme sociali. Anche se questi “pazzi” dell’ideologia estremista non lo sono dal punto di vista medico, c’è un legame tra la loro estrema violenza e alcune caratteristiche patologiche. Secondo […]

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La prima esperienza di università popolare in Tunisia a Sidi Hassine-Sijoumi

Patrizia Mancini e Hamadi Zribi Sidi Hassine-Sijoumi, a 10 km dalla capitale, è una delle banlieue tunisine più emblematiche per quanto riguarda esclusione, marginalizzazione e scempio del territorio. Situata nei pressi del bordo occidentale della “sebka” (lago) Sijoumi, laddove un tempo, neanche troppo lontano, si estendevano coltivazioni di ulivi e agrumi a perdita d’occhio, oggi Sidi Hassine conta quasi 400.000 […]

La prima esperienza di università popolare in Tunisia a Sidi Hassine-Sijoumi

Patrizia Mancini e Hamadi Zribi Sidi Hassine-Sijoumi, a 10 km dalla capitale, è una delle banlieue tunisine più emblematiche per quanto riguarda esclusione, marginalizzazione e scempio del territorio. Situata nei pressi del bordo occidentale della “sebka” (lago) Sijoumi, laddove un tempo, neanche troppo lontano, si estendevano coltivazioni di ulivi e agrumi a perdita d’occhio, oggi Sidi Hassine conta quasi 400.000 […]

Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi a Roma e Milano

Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi, autore del romanzo L’autistico e il piccione viaggiatore (Il Sirente 2016, trad. dall’olandese di S. Musilli), vincitore del Premio Unione Europea per la Letteratura, dal 16 al 20 marzo sarà in Italia per un ciclo di presentazioni a Roma e Milano. L’autistico e il piccione viaggiatore è il secondo titolo … Continua a leggere Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi a Roma e Milano

Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi a Roma e Milano

Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi, autore del romanzo L’autistico e il piccione viaggiatore (Il Sirente 2016, trad. dall’olandese di S. Musilli), vincitore del Premio Unione Europea per la Letteratura, dal 16 al 20 marzo sarà in Italia per un ciclo di presentazioni a Roma e Milano. L’autistico e il piccione viaggiatore è il secondo titolo … Continua a leggere Lo scrittore olandese-iracheno Rodaan al-Galidi a Roma e Milano

La Lega Araba: speranze e sfide

Di Amil Amin. Asharq al-Awsat (08/03/2016). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti. A breve si riuniranno i ministri degli Esteri arabi presso la sede della Lega Araba per scegliere il nuovo segretario generale dell’organizzazione, e forse gli interrogativi non riguardano più la personalità o la nazionalità del prossimo rappresentante, ma piuttosto le sfide che si […]

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Novità editoriali: “Esilio dalla Siria” di Shady Hamadi

Uscirà a fine aprile il nuovo libro di Shady Hamadi intitolato “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza”. Sottotitolo significativo, quindi, che fa comprendere al lettore l’intento di quest’opera: restituire un volto umano ai numeri di profughi e rifugiati a cui ormai siamo tanto abituati. Attraverso le storie delle persone comuni, quelle che devono realmente […]

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L’olio di oliva tunisino e la guerra neocoloniale in Libia

L'huile d'olive tunisienne et la guerre néocoloniale en Libye  | babelmed | culture méditerranéenneStrani sussulti d’interesse per la sorte della Tunisia vanno manifestandosi da qualche tempo in alcuni ambienti italiani e sul versante dell’Unione europea. Il 25 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per l’aumento delle quote di esportazione dell’olio d’oliva tunisino verso il mercato dell’UE, “al fine di sostenere la ripresa della Tunisia dall’attuale periodo di difficoltà”.

Non solo dalle donne

Allargare la visuale, cambiare la prospettiva. Iniziare a pensare che sia un problema di tutti e di tutte. Che se c’è una parte della società che vive una situazione di prevaricazione, di diseguaglianza, è un problema di tutta la società e non solo della minoranza discriminata. Se quindi le donne, in quanto tali, sono oggi […]

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Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

Fatima Mernissi

Non so se l’8 marzo deva essere celebrato ma comunque oggi voglio ricordare una grandissima donna, Fatima Mernissi.

La repressione delle libertà fondamentali nella Turchia di Erdoğan

Di Muhammad Nour El-Din. As-Safir (05/03/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. In una notifica emanata dal ministro della Giustizia turco, Bekir Bozdağ, si evidenzia che il numero delle accuse presentate dal presidente della repubblica, Recep Tayyeb Erdoğan, alla Corte Costituzionale si aggira intorno a 1845. Tra queste, figurano i nomi di parlamentari e leader politici, […]

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Chi si ricorda dell’Unione del Maghreb?

Di Abdul Samad Bin Sharif. Al-Araby al-Jadeed (5 Marzo 2016). Traduzione e sintesi di Antonia Maria Cascone. Lo scorso 17 febbraio è ricorso il 27° anniversario dell’annuncio della creazione dell’Unione del Maghreb Arabo, eppure da quel giorno sono cambiate molte cose, a cominciare dalla deposizione dei leader fondatori: il re Hassan II, il presidente algerino […]

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Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale si dice morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” […]

Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale si dice morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” […]

Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale si dice morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” […]

Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale si dice morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” […]

Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale si dice morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” […]

Non mi piace l’8 marzo

mcc43 Non mi interessa quando è stata istituita La Festa delle Donne e spero sia davvero falso il rogo della fabbrica nella quale morirono delle operaie più di un secolo fa . La trovo una festa stupida come tante altre che celebrano uno stato naturale. Chi è a proprio agio in quel che “è” non si […]

L’Iran è l’unica via di uscita per la Turchia

Di Wasfy al-Amin. As-Safir (05/03/2016). Traduzione e sintesi di Sebastiano Garofalo. L’accordo russo-statunitense per l’interruzione delle ostilità in Siria è stato un duro colpo per le ambizioni turche. Il cessate-il-fuoco ha chiuso alla Turchia ogni possibilità di realizzare i propri obiettivi, in particolare la creazione di una zona cuscinetto e la deposizione del presidente siriano. […]

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Secondo appuntamento con il book club: “Frankenstein a Baghdad”

Il secondo appuntamento con il book club di editoriaraba è per domenica 17 aprile alle ore 16, presso la Libreria Griot a Roma. Il romanzo che vi propongo è: Frankenstein a Baghdad, romanzo gotico e fiabesco dello scrittore iracheno Ahmed Saadawi che nel 2014 ha vinto il Premio internazionale per la letteratura araba, e che … Continua a leggere Secondo appuntamento con il book club: “Frankenstein a Baghdad”

Crisi dei rifugiati in Europa: il Medio Oriente ne ha bisogno

Di Hafsa Kara-Mustapha. Middle East Eye (01/03/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Le immagini delle masse di rifugiati che attraversano i confini dell’Unione Europea continueranno a perseguitare la nostra coscienza collettiva per anni. Col passare del tempo, il vocabolario sulla questione viene cambiato in modo insidioso. Non ci sono più ‘rifugiati’, ma ‘migranti’, anzi ‘migranti economici’. I ‘gruppi’ […]

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La tregua e il ritorno delle manifestazioni in Siria

 di Amar Diop. Al Araby (04/03/2016). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi Una volta entrato in vigore il cessate il fuoco in Siria, nella notte del 27 febbraio scorso, hanno fatto ritorno anche le proteste popolari. Quest’ultime hanno coinvolto numerose città siriane, da Dara a Homs fino ad Aleppo. I civili scesi in piazza hanno […]

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Corso scandalo in Arabia Saudita: “La donna è un essere umano?”

Di Charlotte Arce. TerraFemina (03/03/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. Lunedì 1° marzo, un sito di e-learning in Arabia Saudita ha tenuto un corso dal titolo “La donna è un essere umano?”. Anche in un paese dove le donne sono viste come asservite e in secondo piano rispetto agli uomini, il titolo dato a […]

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Negoziati afgani: mullah Mansur dice no

L‘annunciato avvio del negoziato di pace tra governo afgano e talebani sembra nuovamente lettera morta. Con una nota ufficiale,  pubblicata ieri sul sito del movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e ora capeggiato da mullah Mansur, i talebani respingono al mittente l’offerta del tavolo negoziale che solo due giorni fa era dato per apparecchiato sia da Islamabad sia da Kabul. Persino con una data: una prima riunione da tenersi in Pakistan entro venerdi prossimo.

Come fonti dei talebani avevano comunque già fatto sapere, la nota di ieri reitera che «l’Ufficio Politico dell’Emirato islamico (che si trova a Doha, in Qatar, e che è l’organismo deputato alla trattativa ndr) non è stato tenuto informato in merito ai negoziati», motivo per cui sono prive di fondamento «le voci in circolazione sul fatto che delegati dell’Emirato islamico parteciperanno agli incontri con il permesso dello stimato Ameer ul Momineen, Mullah Akhtar Muhammad Mansoor (che Allah lo salvaguardi). Respingiamo tutte queste voci e inequivocabilmente affermiamo che il leader dell’Emirato islamico non ha autorizzato nessuno a partecipare a questo incontro né lo ha fatto la leadership del Consiglio dell’Emirato». I talebani chiariscono che nessun negoziato è possibile finché non verranno rispettate le precondizioni poste dalla guerriglia a fine gennaio durante una riunione informale promossa dall’Ong internazionale Pugwash: «fine dell’occupazione dell’Afghanistan, eliminazione delle liste nere, liberazione dei prigionieri». La guerriglia accusa infine governo e Stati uniti di utilizzare una doppia condotta: da una parte compiono raid ed espandono l’attività militare, dall’altra fanno propaganda sui risultati positivi del Comitato quadrilaterale, una commissione formata da emissari di Islamabad, Kabul, Washington e Pechino che avrebbe dovuto stendere la “road map” per predisporre l’avvio del negoziato ufficiale. Che per ora sembra nuovamente congelato.

La notizia è effettivamente una doccia fredda anche se in parte c’era da aspettarselo. E può persino darsi che alcuni elementi della guerriglia (mullah Mansur e l’Ufficio di Doha ne rappresentano solo una porzione benché forse la più strutturata) decidano di partecipare a un processo che inizierebbe però a zoppicare ancor prima di cominciare la corsa. Il comunicato dice una serie di cose: la prima è che evidentemente non è la fazione che fa capo a Mansur quella che si pensava fosse stata convinta a partecipare al tavolo da Islamabad (che aveva citato una “lista” in suo possesso di talebani favorevoli al negoziato); la seconda è che, salvo smentite, il comunicato ribadisce unità di intenti tra la direzione talebana di Mansur e l’Ufficio politico di Doha, questione non del tutto scontata. La terza è che, se il negoziato salta, la leadership di Mansur e dei talebani della cosiddetta Shura di Quetta riacquistano forza e riescono a farsi percepire che la vera unica forza con cui bisogna parlare.

Il movimento talebano è molto diviso non da oggi e, dopo la morte di mullah Omar, alcuni esponenti del movimento e comandanti dei vari distretti non hanno gradito la manovra “centralista” con cui Mansur, già braccio destro di Omar, ha creato le condizioni per la sua nomina a nuova guida del movimento. Alcune defezioni sono state recuperate ma altre restano. Infine c’è la variabile Hezb Islami, la fazione – non esattamente talebana – che fa capo al vecchio mujahedin Hekmatyar e che controlla diverse aree nel Nord – Nord-est. Senza contare la minaccia rappresentata da Daesh, un movimento ancora debole in Afghanistan e confinato solo in alcuni distretti, ma che rappresenta un polo di attrazione per i nemici di Mansur. Che dimostra però di aver ben compreso la lezione della propaganda e della comunicazione, e assai meglio di Hekmatyar o dei pur abili (ma non in Afghanistan) comunicatori di Daesh.

Quanto alla controparte, la Quadrilaterale per ora ha partorito un topolino. Tra l’altro, forse, sconta il peccato originale di rappresentare un quadro internazionale molto ristretto anche se altri Paesi – come la Russia ad esempio – han preso posizione appellandosi ai talebani perché partecipino al tavolo negoziale e la Ue vuole invitare Teheran a una conferenza internazionale da tenersi in ottobre a Bruxelles sul futuro dell’Afghanistan.

Negoziati afgani: mullah Mansur dice no

L‘annunciato avvio del negoziato di pace tra governo afgano e talebani sembra nuovamente lettera morta. Con una nota ufficiale,  pubblicata ieri sul sito del movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e ora capeggiato da mullah Mansur, i talebani respingono al mittente l’offerta del tavolo negoziale che solo due giorni fa era dato per apparecchiato sia da Islamabad sia da Kabul. Persino con una data: una prima riunione da tenersi in Pakistan entro venerdi prossimo.

Come fonti dei talebani avevano comunque già fatto sapere, la nota di ieri reitera che «l’Ufficio Politico dell’Emirato islamico (che si trova a Doha, in Qatar, e che è l’organismo deputato alla trattativa ndr) non è stato tenuto informato in merito ai negoziati», motivo per cui sono prive di fondamento «le voci in circolazione sul fatto che delegati dell’Emirato islamico parteciperanno agli incontri con il permesso dello stimato Ameer ul Momineen, Mullah Akhtar Muhammad Mansoor (che Allah lo salvaguardi). Respingiamo tutte queste voci e inequivocabilmente affermiamo che il leader dell’Emirato islamico non ha autorizzato nessuno a partecipare a questo incontro né lo ha fatto la leadership del Consiglio dell’Emirato». I talebani chiariscono che nessun negoziato è possibile finché non verranno rispettate le precondizioni poste dalla guerriglia a fine gennaio durante una riunione informale promossa dall’Ong internazionale Pugwash: «fine dell’occupazione dell’Afghanistan, eliminazione delle liste nere, liberazione dei prigionieri». La guerriglia accusa infine governo e Stati uniti di utilizzare una doppia condotta: da una parte compiono raid ed espandono l’attività militare, dall’altra fanno propaganda sui risultati positivi del Comitato quadrilaterale, una commissione formata da emissari di Islamabad, Kabul, Washington e Pechino che avrebbe dovuto stendere la “road map” per predisporre l’avvio del negoziato ufficiale. Che per ora sembra nuovamente congelato.

La notizia è effettivamente una doccia fredda anche se in parte c’era da aspettarselo. E può persino darsi che alcuni elementi della guerriglia (mullah Mansur e l’Ufficio di Doha ne rappresentano solo una porzione benché forse la più strutturata) decidano di partecipare a un processo che inizierebbe però a zoppicare ancor prima di cominciare la corsa. Il comunicato dice una serie di cose: la prima è che evidentemente non è la fazione che fa capo a Mansur quella che si pensava fosse stata convinta a partecipare al tavolo da Islamabad (che aveva citato una “lista” in suo possesso di talebani favorevoli al negoziato); la seconda è che, salvo smentite, il comunicato ribadisce unità di intenti tra la direzione talebana di Mansur e l’Ufficio politico di Doha, questione non del tutto scontata. La terza è che, se il negoziato salta, la leadership di Mansur e dei talebani della cosiddetta Shura di Quetta riacquistano forza e riescono a farsi percepire che la vera unica forza con cui bisogna parlare.

Il movimento talebano è molto diviso non da oggi e, dopo la morte di mullah Omar, alcuni esponenti del movimento e comandanti dei vari distretti non hanno gradito la manovra “centralista” con cui Mansur, già braccio destro di Omar, ha creato le condizioni per la sua nomina a nuova guida del movimento. Alcune defezioni sono state recuperate ma altre restano. Infine c’è la variabile Hezb Islami, la fazione – non esattamente talebana – che fa capo al vecchio mujahedin Hekmatyar e che controlla diverse aree nel Nord – Nord-est. Senza contare la minaccia rappresentata da Daesh, un movimento ancora debole in Afghanistan e confinato solo in alcuni distretti, ma che rappresenta un polo di attrazione per i nemici di Mansur. Che dimostra però di aver ben compreso la lezione della propaganda e della comunicazione, e assai meglio di Hekmatyar o dei pur abili (ma non in Afghanistan) comunicatori di Daesh.

Quanto alla controparte, la Quadrilaterale per ora ha partorito un topolino. Tra l’altro, forse, sconta il peccato originale di rappresentare un quadro internazionale molto ristretto anche se altri Paesi – come la Russia ad esempio – han preso posizione appellandosi ai talebani perché partecipino al tavolo negoziale e la Ue vuole invitare Teheran a una conferenza internazionale da tenersi in ottobre a Bruxelles sul futuro dell’Afghanistan.

Il mondo arabo ha bisogno di una rivoluzione intellettuale?

Di H. A. Hellyer. The National.ae (03/03/2016). Traduzione e sintesi di Alessandro Mannara. Nel 2016, molte aree del mondo arabo versano in uno stato di caos. L’instabilità che si percepisce è causata da disordini politici esistenti in egual misura negli Stati più forti e in quelli più deboli. Eppure vi è una confusione di fondo che […]

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Siria. 4 marzo 2016, un déjà-vu?

(di Alberto Savioli, per SiriaLibano). Per la prima volta dopo molti anni, grazie alla momentanea tregua, venerdì 4 marzo ci sono stati diversi cortei di protesta in tutta la Siria. A […]

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(di Alberto Savioli – per SiriaLibano) Per la prima volta dopo molti anni, grazie alla momentanea tregua, venerdì 4 marzo ci sono stati diversi cortei di protesta in tutta la Siria. A […]

La biblioteca più antica del mondo è a Fez e riaprirà a maggio

(HuffPostMaghreb). Più di tre anni dopo l’inizio dei lavori di restauro, la famosa biblioteca di Fez Al-Quaraouiyine sarà presto riaperta, dopo che l’accesso al pubblico è stato chiuso per anni. Costruita nell’859, Al-Quaraouiyine è la biblioteca più antica del mondo, che contiene manoscritti di dodici secoli fa, e riaprirà a maggio 2016. È l’architetto marocchino Aziza […]

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Talebani vs Kabul. Processo di pace? No grazie

Mullah Mansur: la nota dei talebani
lo cita come la persona che può o meno
autorizzare la partecipazione al negoziato

I talebani che fanno capo a mullah Mansur, il leader in turbante che ha preso il posto l’estate scorsa di mullah Omar, respingono al mittente la proposta di un incontro negoziale che faccia ripartire il processo di pace col governo afgano, grazie anche agli sforzi di Islamabad e al sostegno di Washington e Pechino. . Con una nota ufficiale, il Consiglio e l’Ufficio politico della guerriglia in turbante, sostenendo di non essere mai stati consultati, negano che qualcuno sia stato autorizzato a partecipare all’incontro su cui, nei giorni scorsi, sia Kabul sia Islamabad si dicevano molto fiduciosi tanto che anche Barack Obama, in una video conferenza con la sua controparte afgana Ashraf Ghani, si è appena complimentato per gli sforzi di Kabul nel riavvio del processo di pace che sarebbe dovuto ripartire, ormai il condizionale è d’obbligo,  entro metà mese.

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Giornale turco Today’s Zaman: “siamo seriamente preoccupati”

Il 4 marzo 2016 le forze di polizia turche sono entrate negli uffici del quotidiano turco Zaman davanti alla cui sede i manifestanti protestavano per la decisione del tribunale di porre sotto amministrazione controllata il gruppo cui fa capo il giornale. Di seguito riportiamo la dichiarazione del giornale Today’s Zaman in seguito a quanto accaduto.  […]

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