Mese: giugno 2017

Più truppe in Afghanistan: la Nato risponde signorsi

Non è  una novità quanto sta emergendo dal summit Nato a Bruxelles. Già sapevamo che gli Stati Uniti (che – ha detto il capo della Difesa Usa – vogliono “finire il lavoro“) stanno decidendo l’invio di 3-5mila soldati in Afghanistan. E già sapevamo che la richiesta è stata fatta anche agli alleati, in via diretta o indiretta attraverso appunto la Nato. Sappiamo anche che l’Italia avrebbe in animo di mandare 100 soldati per aumentare il secondo contingente straniero numericamente più importante. Ma oggi veniamo a conoscenza del fatto che  gli americani non si accontenteranno di “centinaia” di soldatini a far da sostegno ai loro ma ne vogliono “migliaia“. Quante migliaia? Sembra di capire che la richiesta sia per un numero più o meno equivalente alle scelte americane e dunque, probabilmente, attorno ai 4mila uomini. Attualmente la Nato ha 13mila soldati da 29 nazioni (gli italiani sono 1000). Forse si arriverebbe a 17mila. Gli americano di soldati ne hanno 8500 e dunque salirebbero a circa 13mila. In totale potremmo dunque avere entro la fine dell’anno un corpo di spedizione di circa 30mila soldati. Non sono i 130mila di alcuni anni fa ma è pur sempre un bell’impegno che si profila per altro del tutto inutile. Se la Nato non ha vinto la guerra con 130mila militari come spera di farlo con un quarto di quei soldati? Anche perché, vero o falso, la Nato dice che le truppe inviate non saranno “combat”. Che ci vanno dunque a fare?

A metà luglio il Pentagono  ci dirà qual è la nuova strategia e come intende vincere la battaglia persa in oltre 16 anni di guerra. A quanto sappiamo sarà una strategia aerea: più aerei e più bombe oltre a un’accordo che dia agli Usa mano libera senza dover sempre chiedere il permesso a Kabul (ammesso che ora lo faccia  ma sulla carta è così). Quanto a noi, parteciperemo a questa nuova campagna. In che modo? Forse segnalando gli obiettivi, facendo cioè da sostegno a operazioni dall’aria e senza correre il rischio di riportare a casa i soldati con i piedi in avanti. Non combatteremo ma… Sono davvero pessime notizie anche perché, in Italia, il parlamento non sembra avere voce in capitolo. Tutto è già stato deciso. Altrove. E’ uno stato di vassallaggio che non ci fa onore anche perché, prima di andare in guerra (giusto o sbagliato che lo si ritenga), bisogna sapere a far cosa.

Siamo d’accordo ad appoggiare una strategia di guerra dall’aria? A colpire dal cielo guerriglieri e supposti tali? A sparare nel mucchio con tutti gli effetti collaterali stravisti? La politica dica una parola. Fughi il sospetto che stiamo aderendo all’ennesima missione suicida solo perché siamo vassalli o, peggio, per ottenere qualche poltrona a Bruxelles. Si interroghi la politica e chieda spiegazioni. Il silenzio, ancora prima di partecipare a questo nuovo surge, è già complicità.

Israele: checkpoint 1967

mcc43 La Guerra dei Sei Giorni del 1967 determinò uno stacco nella percezione che gli Israeliani avevano di sé, dello stato, della tradizione religiosa. L’argomento era stato affrontato qui attraverso le parole dello scrittore Benjamin Tammuz. Ora aggiungiamo un estratto dall’articolo Una strada senza uscita sulle “conseguenze che ancora oggi influenzano in maniera determinante tutta la società […]

The U.S. calls, Italy responds with another 100 troops in Afghanistan

Commentary. The war in Afghanistan is so political that ministers and prime ministers will stay away from it, yielding policy power to the military. They know it’s lost, but they do not have the courage to admit it. (il manifesto/global published June 21, 2017)

written by Giuliano Battiston, Emanuele Giordana

Original source here

In Afghanistan, politics has abdicated. The military decides everything.
This applies to the United States, where President Donald Trump has delegated to the Secretary of Defense James Mattis the decision on the number of soldiers to be sent to the Central Asian country. It’s also true for Italy, where the Parliament has become an office that certifies decisions already made: paper, stamp, protocol. In an article published by La Repubblica on Saturday, we learned that “the leadership of the armed forces has prepared a plan for boosting the Afghan contingent by another 100 soldiers, who will join the 950 already deployed at the Herat base.”The decision will then be “evaluated by [Defense] Minister [Roberta] Pinotti and Prime Minister Paolo Gentiloni. If approved, Gentiloni will have to communicate it to the Chambers. The involvement of parliamentary committees is not ruled out…”

The pyramid is inverted. The political leadership is not the one — as a result of a collective consultation — to indicate what to do to the armed forces; the armed forces mark the route. There’s more and more inertia. The increase in the number of Italian soldiers deployed in Afghanistan reflects the traditional Atlantic subordination: If the U.S. calls, Italy responds at attention, if anything, claiming a place in the sun (“Italy aspires to occupy some key seats” at NATO).
And it goes back to the balance between institutional powers, with foreign policy subjugated to “defense” and the Parliament as a place of policy and conflict resolution.
But the war in Afghanistan is, first and foremost, a political war. Actually, so political that ministers and prime ministers will stay away from it. They know it’s lost, but they do not have the courage to admit it. Their solution, then, is simple: Discuss it as little as possible, while giving carte blanche — and responsibility — to the military. Get used to saying yes.

The Italian “yes” follows that of other countries such as the U.K. and Denmark, which have already promised their support to NATO for the American surge that, so far, has been discovered through leaks to the press. Trump gave Mattis the authority to decide how and how many U.S. troops will go to swell the ranks of the 8,400 star-spangled soldiers are already operating in Afghanistan. According to Mattis, details will be clarified in mid-July.
In the meantime, the debate rages. Analysts wonder what the new American surge will accomplish in a country where the military mission has been fruitless. But the leading theoretician of the surge, retired General David Petraeus, has not only given his support to sending new soldiers but made clear in an interview some of the details of Mattis’s plan. For the surge in Iraq and Afghanistan, not only is the number of 3,000 or 5,000 soldiers “sustainable,” but the United States “should relax the remaining restrictions on the use of our air power to support our Afghan partners.”
In other words, not just more troops, but more bombs — and without restrictions that, at least in theory, require the Air Force to advise and agree with Kabul on its raid plans. However, the Afghan authorities have already experienced a surge in a way: For the last two years, the number of civilian casualties from the sky has increased.

The Pentagon may finally get a free hand without having to await permission from Kabul or orders from the president for actions that normally require the approval of the White House.
If the U.S. military is no longer mandated to present its plans in Kabul, the military would become a superpower. It already gave a sign of its intentions in April with the deployment of the so-called “Mother of All Bombs,” which dropped 11 tons of explosives in the border area with Pakistan.

Intervista a C. Bertolotti. Afghanistan, i talebani vogliono negoziare: "inutile escluderli"

(Agenzia DIRE); Camera dei Deputati, ROMA – C. Bertolotti: "L’Afghanistan non e’ in grado di camminare con le proprie gambe,
si trova quindi in una fase di grande pericolo per il futuro dei suoi
abitanti e delle sue istituzioni. E i Talebani si stanno dimostrando
favorevoli a sedersi al tavolo negoziale con Kabul, per avere la loro
parte nella gestione del Paese. Lo ha spiegato

Novità editoriale: Sahara, deserto di mafie e jihad

Si terrà martedì 27 giugno, a Roma, Centro studi americani, la prima presentazione del nuovo libo “Sahara, deserto di mafie e jihad”, edito da Castelvecchi, uscito il 26 maggio scorso. Il libro tratta di intrecci tra le mafie nostrane e i gruppi jihadisti e i trafficanti di droga e di esseri umani della regione dalla […]

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Speciale Ramadan: tamriyeh nablusiyeh

Per la nostra ultima ricetta di questo mese di Ramadan, ecco la ricetta di un dolce delizioso della tradizione culinaria palestinese, originario della città di Nablus: tamriyeh nablusiyeh, pane dolce ripieno di semolino! Ingredienti: Per la pasta 300g di farina 175ml di acqua un pizzico di sale olio per friggere Per il ripieno 250g di […]

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Lacrime sul golfo del Bengala – Passioni del 24 e 25 giugno

Sabato e domenica a “Passioni”, programma di Radio3 a cura di Cettina Flaccavento con la regia di
Giulia Nucci, un viaggio nel lavoro esternalizzato. E nel dolore

alle 14.30 sulle frequenze di Radio3
Diretta
Podcast

Dacca non è solo la capitale del Bangladesh ma anche la capitale della globalizzazione del lavoro, dalle nostre scarpe alle magliette. Finisce così anche per essere una capitale del dolore in un Paese che cresce a ritmi vertiginosi ma dove i profitti vanno a vantaggio di un’élite molto ristretta. Dalle macerie del Rana Plaza alle concerie del cuoio in pieno centro città, viaggio nella nazione affacciata sul Golfo del Bengala. Che sembra lontanissima ed è invece presente nella quotidianità diffusa del “Made in Bangladesh”.

Il viaggio che mi ha permesso di scrivere il capitolo sul Bangladesh di “A Oriente del Califfo”

La scelta di Sudabeh

E’ la traduzione del romanzo Bamdad-e khomar che in Iran è giunto alla 56^edizione vendendo milioni di copie e suscitando un acceso dibattito non solo tra i lettori iraniani ma pure tra gli studiosi di letteratura persiana. Romanzo popolare ambientato nella Tehran del 1900 esplora i temi delle differenze sociali e della condizione delle donne offrendo … Continua la lettura di La scelta di Sudabeh

Buon viaggio Americo

Una rarissima immagine (presa dal sito
dell’Agenzia Italia) dello schvio Sbardella

Due giorni fa se n’è andato Americo Sbardella. Un amico ma anche una pietra miliare della mia e di altre generazioni. L’ho conosciuto diversi anni fa  a Prati, un quartiere della capitale – quando sono stato a casa di Americo, sua moglie Isabella e la figlia Angelica – per la festa dell’ultimo dell’anno. Non sapevo che Americo, un signore di poche parole e dalla conversazione assolutamente non invasiva, era stato il fondatore e l’ideatore del FilmStudio, un’esperienza che, con Annabella Miscuglio, aveva segnato profondamente la vita culturale della capitale e non solo. Quando andavamo a Roma, negli anni Settanta, il Filmstudio era una sorta di riferimento fisso. Potevi anche non andarci al cinema, ma c’era. Anche se non sapevi il nome di chi aveva inventato quell’incredibile aeroporto culturale con voli da tutto il mondo.

Per dirla con Massimiliano Studer (la sua intervista ad Americo si può sentire qui) “Su posizioni vicine al situazionismo francese e giovane cinefilo “assatanato”, Americo Sbardella nel 1966/67 sostenne la necessità di collegarsi in maniera non episodica  con le cooperative di produzione e di distribuzione di cinema sperimentale e di quello politico-militante, in Italia ma soprattutto all’estero … con gli autori  indipendenti europei e americani… con la prospettiva di creare e gestire uno spazio- cinema del tutto autonomo, un filmclub. Si trattava di creare una nuova forma associativa, un’associazione privata con tessera per i frequentatori, non aderente alle federazioni nazionali dei cine-club riconosciute dallo Stato, con proprie salette di proiezione, attrezzate con il 35mm, il 16mm, il super8 e il videoproiettore. Questo tipo di struttura prescindeva dal visto di censura ufficiale…”. Già, la censura ufficiale in grado di mandare al rogo le pellicole.

Sfogliando ieri i giornali e i siti internet ho visto che Sbardella è stato ricordato da tanti, in maniera generosa e affettuosa (come in questo breve articolo di Silvana Silvestri su il manifesto, forse il primo a essere uscito su di lui). MI fa piacere perché Sbardella non era di quelli che spintonano e mi aveva sorpreso, quando l’avevo incontrato la prima volta, quella sua aria schiva e poco incline all’eroica nostalgia del passato. Cosa ha fatto Sbardella? Ha dato voce, anzi spazio, alle prime esperienze del cinema indipendente italiano e ha dato conto di quel che accadeva all’estero. Sprovincializzava e aiutava a capire cosa succedeva altrove. Ma  lascio che sia lui a spiegarlo in un articolo che si può leggere qui. Piccolo compendio di Storia del cinema italiano indipendente e, a quanto ne so, una delle poche cose scritte da lui che però ci ha lasciato recentemente un testo teatrale nel 2014 sull’epopea del leggendario re di Uruk, “Gilgamesh. Colui che tutto conobbe”.

Poiché un tipo come Americo detestava l’agiografia mi fermo qui. Anche perché non so nulla di cinema (anche se la mia famiglia ha prodotto un grande regista e una studiosa della materia che ne sanno ovviamente più di me) e sarei davvero di scarso aiuto per chi si avvicina allo Sbardella uomo di cinema. Lo voglio invece ricordare come uomo di mondo e non solo per esser stato quel gentiluomo che è stato (lavorammo tra l’altro assieme per presentare l’ultima grande rassegna che nel 2003 passò al Filmstudio), ma anche per essere stato quel bandito necessario che l’epoca richiedeva. Bandito? Si, un bandito disposto a bypassare, oltre alla censura, le maglie troppo strette del business legato a suoni e immagini. Una volta, e probabilmente non fu l’unica, proiettò il concerto di un importante gruppo musicale inglese che era stato piratescamente riprodotto da un amico a Londra. Lo rese disponibile a tutti nello spirito che allora ci accomunava negli anni Settanta. Che un po’ forse si è perso. Ma che Americo non deve aver credo mai perduto. Buon viaggio Americo. E un abbraccio a Isabella e Angelica.

REPORT DELLA RIUNIONE DEL COMITATO PROMOTORE DELLA MANIFESTAZIONE NAZIONALE DEL 7 OTTOBRE. LUNEDI’ 3 LUGLIO MANIFESTAZIONE A ROMA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA IN EGITTO.

Report della riunione del comitato promotore della manifestazione del 7 ottobre “Pace e libertà per il popolo siriano”. Si è svolta a Roma sabato 10 giugno la riunione del comitato promotore della manifestazione del 7 ottobre in solidarietà con il popolo siriano. Abbiamo discusso gli sviluppi della situazione in Siria e nell’area mediorientale: mentre continuano […]

Armiamoci e partiamo: anche i nostri stivali nel deserto afgano

Leggendo La Repubblica di domenica scorsa abbiamo saputo che il ministero della Difesa italiano ha in mente di spedire altri cento soldati in Afghanistan. Non contenti di avere il contingente più numeroso dopo quello americano, qualcuno ha già deciso, ancor prima che ne fosse informato il parlamento (che almeno teoricamente deve avere l’ultima parola) che altri cento ragazzi partano per una missione militare che ormai sta per compiere diciott’anni e che, nonostante si sia rivelata un disastro, anziché uscire di scena sceglie di restare e anzi di rilanciarsi. Cosa faranno cento soldati in più non si sa ma par di capire, dall’articolo del giornale, che ci sia anche una necessità di scambio di favori perché ci sono in ballo posti di comando che qualche nostro generale potrebbe occupare. Dove? Nella casa della guerra, quell’Alleanza atlantica sempre in cerca di nemici che ne giustifichino l’esistenza. Fare un favore a Trump in questo momento potrà pure fruttare qualche poltrona ma è anche l’ammissione di un vassallaggio privo di strumenti critici in una guerra che tutti sanno perduta e dove la presenza straniera è un elemento che anziché frenarla continua a gettare benzina sul fuoco. Distratti dal sistema tedesco (a proposito, la Merkel ha risposto picche alla proposta di aumentare i suoi soldati)  i parlamentari e le forze politiche subiscono: dal governo all’opposizione, dalla Sinistra ai Cinque stelle, che tanto si erano vantati di aver reiterato la richiesta di ritiro dei nostri soldati. Il tema è il solito: a furia di guardarci l’ombelico lasciamo che le cose in politica estera vadano come devono andare e come il padrone comanda. Che triste esempio di sovranità nazionale. Chissà se i vari sovranisti nazionali se ne rendono conto

Il “si” italiano seguirebbe quello di altri Paesi che, come Regno Unito e Danimarca, hanno già promesso alla Nato il loro appoggio al surge americano, anche quello per ora affidato solo a indiscrezioni di stampa. Stando al capo del pentagono James Mattis.  i dettagli della nuova missione saranno chiariti definitamente a metà luglio. Il dibattito intanto infuria. E mentre sui giornali ci si chiede a cosa serve il nuovo “surge” americano in un Paese dove la missione militare non sta ottenendo risultati, il massimo teorico del “surge”, il generale in pensione David Petraeus, non solo ha dato il suo appoggio all’invio di nuovi soldati ma ha chiarito, in un’intervista, alcuni dei dettagli che probabilmente Mattis si prepara e mettere nero su bianco: non solo, dice l’ex teorico del surge in Irak e Afghanistan, 3 o 5mila soldati sono un numero “sostenibile”, ma gli Stati Uniti devono “sciogliere le restrizioni” ancora in piedi nell’uso della forza aerea. Se non si dovesse render più conto nemmeno a Kabul di quel che si fa, quello militare diventerebbe uno strapotere che ha già comunque dato un segno nell’aprile scorso col lancio della famosa Moab da 11 tonnellate di esplosivo. Operazioni di cui, ancora una volta, stiamo diventando non solo silenti spettatori ma solerti conniventi.

A seguire per il manifesto un’analisi a 4 mani con G. Battiston

Dopo Oslo: il nuovo paradigma

di Mark A. LeVine e Paola Caridi (Questo articolo è stato pubblicato su minima&moralia) Ci sono luoghi ammantati di mito, a Gerusalemme. Anche quando a risuonare, nella memoria, non sono solo i suoni della sua lunga, plurimillenaria Storia, ma le parole del suo travagliato percorso contemporaneo. C’è anche una stanza d’albergo, tra questi luoghi, cheContinua a leggere

Obrovac, una città fantasma tra i parchi naturali di Croazia

bar Oluja-110La natura selvaggia che la circonda è di una bellezza indescrivibile. La vita qui, una volta, era semplice e felice. Purtroppo, due popoli che da sempre hanno vissuto insieme, serbi e croati, ad un certo punto hanno smesso di farlo, nonostante avessero stesse radici, lo stesso codice genetico, parlassero la stessa lingua, avessero le stesse abitudini e gli stessi riti.

L’iraniano Alireza Pakdel vince il World Press Cartoon

Si è concluso a Caldas da Rainha, a nord di Lisbona, il World Press Cartoon, un importante concorso internazionale che premia il lavoro dei vignettisti di tutto il mondo. A vincere è stato l’iraniano Alireza Pakdel con la vignetta “Immigrants”, che ha vinto anche il primo premio nella sezione editoriale del festival stesso. La crisi migratoria globale è stata […]

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Quanti euro vale un cittadino italiano?

(Questo mio articolo è stato pubblicato su Affari Internazionali, la newsletter dello IAI) Un cittadino italiano viene sequestrato, torturato, ucciso sul territorio italiano. La macchina investigativa e giudiziaria si mette in moto. Vengono individuati, attraverso indizi e anche prove, alcuni dei responsabili e viene definita la linea di comando che ha deciso il delitto. NonContinua a leggere

Rime dal Mediterraneo

“Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni.” Le… Continue Reading →

La luce verde del guerrafondaio riluttante ai generali

Tre generali: Mattis, attuale capo del Pentagono.
 Sotto a sn Nicholson. A dx McMaster

Alla fine la luce verde del presidente è arrivata. E benché si tratti ancora una volta di indiscrezioni giornalistiche, anche se ben verificate, Donald Trump, l’uomo che aveva promesso il disimpegno dai fronti di guerra, ha  dato l’autorità al titolare della Difesa James Mattis di decidere come e quanti soldati americani andranno a ingrossare le fila degli 8.400 militari stellestrisce che operano in Afghanistan.

In un’audizione al Senate Armed Services Committee, Mattis – un generale dei marine, già a capo dell’US Central Command, responsabile del teatro afgano e mediorientale – numeri non ne ha fatti. Ma a detto che a metà luglio renderà conto della nuova strategia per battere la guerriglia talebana. Un “nemico barbaro”, come Mattis l’ha definito in altra occasione, in perfetta sintonia con le recenti aperture del governo di Kabul a quelli che Karzai chiamò persino “fratelli”. Mattis però, così come il consigliere per la sicurezza di Trump generale McMaster, alla via pacifica crede poco. E in questo è davvero in sintonia con John Nicholson, il capo delle forze Usa e Nato sul terreno (altri 5mila uomini tra cui mille italiani): è lui il principale fautore di “più stivali” in teatro, come si dice in gergo.

La melina sul nuovo “surge” americano, che ricorda altri esperimenti fallimentari del passato, è iniziata addirittura a febbraio ma sui giornali è uscita in maggio quando con le prime indiscrezioni si son fatti anche i numeri: tra 3 e 5mila soldati in più. Poi però Trump ha fatto un passo indietro e, durante il suo viaggio europeo di tre settimane fa – che prevedeva un summit Nato a Bruxelles il 25 maggio– non ha fatto alcun annuncio limitandosi a chiedere più soldi e non soldati ai partner dell’Alleanza. Ma a questo aveva già pensato il segretario della Nato Stoltenberg, reduce da un giro delle sette chiese (anche a Roma) che ha incassato promesse da alcuni Paesi (Gran Bretagna, Danimarca) e un “ni” da altri. Cosa gli abbiano detto gli italiani non si sa e nessun parlamentare della Repubblica ha chiesto lumi sul futuro del secondo contingente straniero presente in Afghanistan dopo quello degli Stati Uniti (a seguire Germania, Romania e Regno Unito).

Per ora gli americani hanno circa 7mila uomini nel contingente multinazionale Nato di cui hanno il comando e che ha come mandato quello di fare formazione militare e non di combattere. Ma ora le regole potrebbero cambiare: i nuovi arrivi si unirebbero probabilmente ai circa 2mila soldati Usa impegnati in operazioni “combat” e sarebbe il Pentagono, non la presidenza, a decidere regole di ingaggio e strategia locale. Che per adesso, da un paio d’anni a questa parte, si è concentrata sui bombardamenti dal cielo, l’attività dei droni e il test della GBU-Moab, la cosiddetta “Madre di tutte le bombe” che solo il Papa ha per ora avuto il coraggio di criticare. Quanto all’Italia, nemmeno una parola. Né dal governo, né dall’opposizione. La guerra in Afghanistan, nonostante le Moab, il surge e mille soldati, è dietro le spalle anche per noi.

I limiti della responsabilità per le sofferenze del popolo libico

Di Mohammed Badr Eddine Zayd. Al-Hayat (11/06/2017). Traduzione e sintesi di Gemma Baccini. È stata rapida la reazione di Mohammed al-Dairi, ministro degli Esteri libico, nell’annunciare il suo appoggio alle misure che alcuni Stati arabi hanno preso per combattere l’appoggio qatariota al terrorismo e mettere fine alla lunga sofferenza della Libia. Il popolo libico, ormai da anni, ripudia il […]

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Stivali sul terreno

Il presidente Donald Trump ha dato al suo ministro della Difesa Jim Mattis l’autorità per decidere un aumento delle truppe americane sul terreno in Afghanistan. La decisione sul numero esatto dei soldati si aspetta tra circa un mese e dovrebbe essere nell’ordine delle “migliaia”. Attualmente vi sono 8.400 soldati Usa in Afghanistan, 2mila dei quali impegnati in combattimento. L’aumento potrebbe essere tra 3 e 5mila soldati.

E’ ormai da un mese che se ne discute e ci si attendeva da Trump una aperta richiesta di sostegno ai partner della Nato nell’ultimo vertice dell’Alleanza dove però il presidente non ha fatto menzione di una scelta che contraddice quanto ha sempre sostenuto in campagna elettorale. La Nato ha comunque già chiesto agli alleati un possibile aumento delle loro forze nel Paese dove sono schierati in totale circa 13mila militari stranieri, 5mila dei quali in forza all’Alleanza (l’Italia con 1000 uomini).

Egitto, governo silenzia i media: bloccati 63 giornali online e app di messaggistica. “Stretta in vista delle presidenziali 2018”

Negli ultimi giorni sulle bacheche dei social network di molti attivisti egiziani circola una vignetta: il presidente Abdel Fattah El-Sisi tiene in mano un cavo spezzato con i fili elettrici a penzoloni ed esclama “No internet”. La caricatura è stata pubblicata da Mada Masr, uno dei 63 giornali online bloccati nelle ultime due settimane dal […]

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Bombe a Kabul: il giallo si infittisce

Sirajuddin Haqqani
 in una ricostruzione dell’Fbi

Dopo aver preso lo stesso 31 maggio e con una solerte rapidità le distanze dalla bomba che ha ucciso a Kabul un centinaio di persone, i talebani tornano a smentire ogni coinvolgimento nell’attentato del mercoledi nero  chiarendo, con un messaggio affidato al loro sito internet, che la guerriglia colpisce solo obiettivi militari e  non spara mai nel mucchio. A dar più forza alla presa di distanze (la terza in pochi giorni) c’è anche un messaggio audio di Sirajuddin Haqqani, l’uomo a capo della Rete Haqqani e vice di mullah Akhundzada il leader del movimento. L’intelligence afgana è invece certa del coinvolgimento degli Haqqani che risponderebbe, dicono a Kabul, a un ordine venuto dia pachistani. E’ la prima volta non solo che i talebani reiterano una loro presa di distanze da un attentato ma che difendono con tanta alacrità la Rete Haqqani, in passato scheggia impazzita del movimento e solita agire per suo conto.

Quanto al “Processo di Kabul”, l’ultimo sasso lanciato dal governo per negoziare con la guerriglia (con l’offerta ai talebani di aprire un loro ufficio nella capitale) i guerriglieri di mullah Akhundzada  ribadiscono la loro posizione con un messaggio di poche righe: “Qualsiasi conferenza venga riunita per prolungare la presenza degli occupanti è futile e viene rigettata”.

Ali Safar: inediti in italiano

La rivista di poesia Atelier ha pubblicato, per la prima volta in italiano, alcune poesie del poeta siriano Ali Safar, tradotte dall’arabo da Caterina Pinto. Le ripubblico qui, con il permesso di Atelier e Caterina, che ringrazio.  DIARIO AUTOMATICO Diario al margine dell’incendio siriano 2012-2013 Niente sopraffà di più di ciò che ti trovi a […]

L’arte contemporanea si fa nel parco. Notenere II a Roma

14 Notenere Jerico-4 110Un pomeriggio assolato di maggio, un parco nella periferia di Roma, tre giovani artisti e un progetto originale e totalmente indipendente, ai limiti della legalità, per riscoprire e vivere il verde urbano e avvicinare il pubblico all’arte contemporanea. Con i pennelli e le installazioni di Samuele Gore, Andrea X e Jerico rivive un casale abbandonato, grazie a un collettivo di giovani curatrici, Matri-Pictoska.

Saif Gheddafi varie volte liberato. Era realmente “prigioniero”?

mcc43 La “cattura” del delfino di Muhammar Gheddafi nel novembre 2011, suscitava molte domande. Le ricostruzioni erano contrastanti e la versione accolta dalla maggior parte dei media – secondo la quale era stato catturato grazie al tradimento della guida del convoglio presso Oubari nel sud della Libia, caricato su un aereo e consegnato alla città […]

Ernesto Pagano: Napolislam

Giornalista affermato e autore di documentari, Ernesto Pagano propone nel libro “Napolislam” un reportage sulle vite di alcuni napoletani convertitisi all’islam. L’autore ci tiene a precisare di non essere partito con l’idea di narrare storie che dimostrino che l’integrazione a… Continue Reading →

“Muslim Women” and Gender Inequality in Australia’s Assimilationist-Multicultural Policies. Participation in Sport as a Case Study

Published on “About Gender” 6 (11), 2017: 324-353. Available online at: http://www.aboutgender.unige.it/index.php/generis/article/view/383 Abstract When talking about Islam, the “religionization” of subjects – in particular female subjects – becomes the primary analytical tool to describe power relations within cultural groups and in multicultural societies. Likewise, religionization is widely employed in neoliberal western societies to discuss the […]

Le parole della Luna (ai #futurimaestri)

Qui di seguito potete leggere la lettera che ho lasciato ieri sera a Bologna all’Arena del Sole ai Futuri Maestri, le centinaia di ragazzi messi insieme dal Teatro dell’Argine, protagonisti di uno spettacolo a dir poco bello, emozionante, contagioso. Mi era stato chiesto (a me così come agli altri otto ‘maestri’ che hanno letto laContinua a leggere

La parabola del pastore e il terrorismo

Santiago Alba Rico Un anno e mezzo fa scrivevo a proposito di Mabrouk Soltani, un giovane pastore tunisino del villaggio di Dauar Slatniya, ai piedi del monte Mghilla, tra Kasserine e Sidi Bouzid, la doppia culla della rivoluzione del 2011 che rovesciò Ben Ali. Il 14 novembre del 2015 Mabrouk fu assassinato dal gruppo terrorista Okba Ibn Neefa (affiliato all’AQMI) […]

L’Afghanistan visto dall’Asia Centrale*

Asia centrale, il cuore dell’Asia

Abstract: The countries of Kazakhstan, Kirghizstan, Turkmenistan, Tajikistan and Uzbekistan define a human and political space strongly influenced by its bordering territories: by Russia, obviously, but also by Pakistan, Iran, and, most importantly, by Afghanistan – a country wretched by forty years of war and generally seen as a threat rather than as a resource. However, interactions between the former five soviet republics and Kabul are unavoidable: the Islamic common denominator, the porosity of borders, the presence of shared norms and practices and the existence of communities, often speaking the same language, further reinforce such belief. Furthermore, in light of future infrastructural developments of road networks, railway lines and, possibly, of energy vectors, partnerships between the five republics and Afghanistan seem the most logical solutions.
Even if each county deals with Kabul its unique way, Kazakhstan, Kirghizstan, Turkmenistan, Tajikistan and Uzbekistan all fear the contagion of war or that of the jihadi message and explain the spread of the politics of Islam within their territories through the failures of the Afghan government. A statement contested both from the inside, with the Afghan government refusing to validate the jihadi narrative, and from the outside: many observers have indeed highlighted how the ‘Afghan danger’ is better understood as a political tool used to repress possible challenges to the political establishment, rather than as an effective threat.
Nevertheless, some positive developments are on their way: negotiations regarding a seemingly difficult partnership between Kabul and the five republics is currently ongoing and further supported, in several instances, by manifestations of international cohesion fostering and financing the expansion of strengthened bilateral agreements.


Le cinque repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan formano uno spazio umano e politico fortemente influenzato dai Paesi vicini. La Russia, naturalmente, ma anche il Pakistan o l’Iran e, soprattutto, l’Afghanistan, un Paese in guerra ormai da quasi quarant’anni che è visto più come pericolo che come risorsa. Il rapporto con l’Afghanistan è però ineludibile: per il comun denominatore islamico, la porosità delle frontiere, tradizioni comuni e presenza di comunità che spesso parlano la stessa lingua. Un rapporto che ha un senso anche in ragione di un possibile futuro sviluppo di reti stradali, ferroviarie o di vettori di energia. Se ogni Paese ha nei rapporti con Kabul un atteggiamento diverso, tutte le repubbliche ex sovietiche temono il contagio della guerra o del messaggio islamista  e attribuiscono all’Afghanistan la responsabilità  dell’espansione dell’islam politico all’interno dei propri confini. E’ una posizione contestata sia all’interno da chi si ritene ingiustamente accusato di propaganda jihadista, sia all’esterno: molti osservatori infatti ritengono che il “pericolo afgano” venga agitato per consentire la repressione e il contenimento di qualsiasi forma di contestazione delle leadership al potere. Non di meno, alcuni progressi si vedono: è in corso un’operazione di difficile costruzione di una partnership con Kabul aiutata, in molti casi, da esperimenti di coesione internazionale che hanno dato impulso e garantito finanziamenti per l’espansione di rapporti bilaterali più saldi.

* Questo articolo è stato pubblicato su IL POLITICO (Univ. Pavia, Italy) 2016, anno LXXXI, n. 3, pp. 136-149 (le note al testo sono contenute nell’edizione cartacea)

Asia Centrale e Caucaso

In una carta geografica dell’Asia, l’Afghanistan rappresenta una sorta di centro ideale: al confine con l’Iran a Occidente, con quello rappresentato dal subcontinente indiano a Oriente, frontiera meridionale delle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche a Nord. Se effettivamente l’Afghanistan faccia parte dell’Asia Centrale, e cioè di quel mondo che comprende le cinque repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, è in realtà una convenzione per alcuni e non per altri. Ne fa parte in un certo senso geograficamente ma in realtà il suo centro di gravità sono i due grandi confinanti che la circondano a Est, Ovest e Sud: l’Iran e il Pakistan, la fine del Medio Oriente e l’inizio dell’Asia meridionale.. Quanto alle cinque repubbliche ex sovietiche, lo sguardo è sicuramente più centrato, seppur con forme e modalità diverse, verso Russia e Cina e Stati Uniti. Il legame col parente meridionale (sicuramente parente per motivi storici, culturali etnici e linguistici) appare oggi soprattutto o come una sorta di “dovere” (spesso suggerito da altri), o uno sguardo obbligato dalle preoccupazioni che riguardano due aspetti in particolare: la sicurezza – col corollario di un possibile contagio lungo i confini meridionali – e il narcotraffico. I legami economici sono poca caso, salvo rare eccezioni (come nel caso del progetto tapi1), il flusso transfrontaliero è limitato, le alleanze sono fragili e il sostegno alla partecipazione dell’Afghanistan a percorsi politici aggregativi (come nel caso del Processo di Istanbul)2 appare più come un aspetto di strategia politica generale – spesso su pressione di altri attori – che non un focus volto a rafforzare il parente bistrattato dalla guerra. Il quadro delle relazioni tra le cinque repubbliche e Kabul va dunque visto anche all’interno delle pressioni e delle relazioni con i grandi attori non solo regionali ma internazionali: la Russia, in primis, la Cina, soprattutto per l’aspetto economico, e gli Stati Uniti (in misura assai minore l’Unione europea). Quanto agli attori regionali, per questi Paesi contano forse più dell’Afghanistan il peso economico e la statura politica di nazioni come Iran e Pakistan.
Che la preoccupazione principale di Astana, Bishkek, Ashkabad, Tashkent, Dushanbe, sia soprattutto l’aspetto sicurezza e stabilità lo dimostra anche il fatto che nel 2014, alla vigilia delle presidenziali afgane, i riflettori delle cinque capitali si sono riaccesi – come quelli di tutti gli altri Paesi coinvolti nella guerra afgana a vario titolo – in attesa di eventi da cui ci si aspettavano grandi novità; lo dimostra anche la pubblicazione di numerose monografie e ricerche sui rapporti tra l’Afghanistan e le repubbliche (due in particolare da segnalare3), attenzione che è poi scemata pur se il quadro uscito dalle elezioni afgane è in realtà ancor più instabile del precedente e il conflitto, benché snobbato dai riflettori della cronaca, stia conoscendo una nuova accelerazione e proprio nel Nord del Paese. Che ha, nelle repubbliche frontaliere, creato un nuovo allarme specie dopo la presa di Kunduz da parte dei Talebani, anche se per pochi giorni, nell’ottobre 2015 e poi ancora nel 2016.

1 La partita regionale

Secondo diversi analisti le preoccupazioni che riguardano la sicurezza sono in realtà da leggersi, in molti casi, anche in chiave interna: più che per il timore di un contagio o per fatti reali che giustifichino una preoccupazione vera per la minaccia di un’espansione dell’islamismo armato,
i Paesi centroasiatici avrebbero cioè utilizzato e utilizzerebbero il “pericolo jihadista” anche per contenere le spinte dal basso che possono mettere in difficoltà (come già avvenuto in passato) il sistema di potere locale. Lo stesso per il narcotraffico, attività economica sotto traccia che consente il transito di oppio e oppiacei prodotti in Afghanistan. Riprendendo i due temi (sicurezza e narcotraffico) Bleuer e Kazemi scrivono che: «Il rischio in termini di sicurezza che lega l’Afghanistan alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale viene di frequente altamente esagerato e così il presunto collegamento tra narcotraffico e gruppi radicali islamisti. In realtà in tutta l’Asia Centrale i principali attori del narcotraffico sono impiegati governativi, agenti della sicurezza e personaggi legati alla mafia… ». E ancora, scrivono, non esiste « …una grave minaccia alle Repubbliche centroasitiche da parte di terroristi e insorti del Nord dell’Afghanistan che vengono normalmente reclutati tra gli afgani per agire localmente4». I Talebani afgani del resto, contrariamente ad Al Qaeda o allo Stato islamico, la cui presenza in quest’area è al momento residuale, hanno sempre sottolineato la natura nazionalistica della loro battaglia per l’instaurazione di un Emirato in Afghanistan e solo in Afghanistan. Chiarendo, al primo punto della loro agenda politica, che l’obiettivo primario è la cacciata degli stranieri dal territorio afgano5, non certo l’espansione oltreconfine del loro jihad.
Non di meno, è evidente che per i Paesi dell’Asia centrale l’Afghanistan resta un elemento importante e preoccupante in un quadro regionale complesso e da secoli al centro di interessi geostrategici, economici e politici che hanno ripreso fiato dopo la fine del dominio sovietico e un ridimensionamento della presenza russa, come provano soprattutto la politica espansiva di Cina e Stati Uniti6. L’Afghanistan resta infine particolarmente preoccupante per tre delle cinque repubbliche che ne condividono il confine, come ha provato nel 2015 la mobilitazione sia centroasiatica sia russa lungo l’Amu Darya (per via degli accordi sulla difesa delle frontiere), specie per Uzbekistan e Tagikistan a un pugno di chilometri dalla città di Kundz, presa allora per qualche giorno dalle milizie in turbante e nuovamente sotto tiro dall’ottobre del 20167.
L’Afghanistan è dunque comunque importante nel rapporto con i grandi attori dell’area centroasiatica (e più o meno direttamente legati alle vicende della guerra afgana) e il Paese, se non lo è oggi, resta d’altronde uno snodo fondamentale per il transito delle merci (anche se ora l’interscambio con le repubbliche è minimo) e soprattutto delle pipeline. Vista dalle cinque capitali dunque, Kabul è forse attualmente più motivo di cruccio che risorsa pur se lo è diventata sia per l’utilizzo in chiave interna dello spauracchio jihadista, sia perché la relazione con l’Afghanistan passa anche per il rapporto con altri attori (dalla Turchia al Pakistan, da Mosca a Washington, da Teheran a Pechino) o organismi internazionali (onu, nato alleanze regionali). Quel che va rilevato è che non essendoci in realtà una politica comune dei cinque Paesi centroasiatici, ogni nazione agisce per suo conto e percepisce, osserva e agisce in maniera diversa e a volta addirittura opposta.
Vedremo qui le grandi linee su cui si muovono i singoli Paesi e infine dedicheremo uno spazio all’attuale situazione afgana, per ora assolutamente lontana da una stabilizzazione efficace e soprattutto da una indicazione che si stia modificando lo scenario dominato dal conflitto anziché da quel negoziato politico con la guerriglia, al netto dei tentativi per ora senza successo, e da cui le repubbliche centroasiatiche sono per ora quasi totalmente escluse.

2 Tagikistan, il vicino prossimo

Il paesaggio: montagne, pianure, acque

Il Tagikistan, teoricamente il parente più prossimo tra le cinque repubbliche – per affinità storiche, linguistiche e culturali oltre a un confine comune di oltre 1.300 chilometri – ha con l’Afghanistan scarsi rapporti economici (benché in ascesa) e un diffuso pregiudizio8 sia nei confronti dei rifugiati afgani nel Paese (circa 2.550 nel 2014) sia nei confronti di una nazione che si ritiene un pericolo costante alla frontiera, per problemi legati alla guerra, a infiltrazioni e alleanze jihadiste o al narcotraffico9. Collegate dal grande ponte sull’Amu Darya che unisce la provincia afgana di Kunduz a quella tagica di Kathion e da altri sei piccoli ponti che portano dal Tagikistan nella provincia orientale afgana del Badakshan, Dushanbe e Kabul restano lontane anche se esiste un rapporto a volte di una certa intensità sul piano culturale per iniziativa della società civile dei due Paesi.
Nonostante un interscambio commerciale ridotto, per Dushanbe l’Afghanistan rappresenta comunque un buon investimento nel settore energetico, soprattutto a partire dal 2012 quando è iniziata l’esportazione verso l’Afghanistan di energia elettrica. Kabul aveva anzi aderito al progetto noto come casa-1000, che inizialmente avrebbe dovuto portare da Tagikistan e Kirghizistan elettricità in Pakistan e Afghanistan per un totale di 1300 megawatt (1000 in Pakistan e 300 in Afghanistan). Kabul si è poi ritirata dal progetto, lanciato ufficialmente nel 2016, a un mese dalla cerimonia di avvio10 e il Pakistan usufruirà dell’intera fornitura presumibilmente entro il 2018. Ma il futuro potrebbe riservare sorprese.
Il Tagikistan, retto dal 1992 da Emomali Rahmon (che dal 1992 al 1997 ha affrontato una gravissima crisi senza risolvere i problemi alla base della guerra civile11) considera il turbolento vicino un elemento in più di destabilizzazione per un Paese, il suo, che si regge su un fragile equilibrio. Non di meno, nel giugno del 2009, il presidente tagico aveva proposto un incontro nella sua capitale tra afgani, pachistani e russi per costruire una cooperazione quadrilaterale (Dushanbe Four). Di fatto, al netto di diversi incontri, l’iniziativa non ha prodotto grandi risultati se non quello di apparire come un tassello del piano di riavvicinamento di Mosca a Kabul.

3 Uzbekistan, il vicino in allarme

L’Uzbekistan e l’Afghanistan – collegate dal tristemente famoso “Ponte dell’Amicizia” riaperto nel 2001 – hanno visto nell’ultima decade la firma di numerosi accordi per dare impulso a un interscambio economico che, sino al 2001, era praticamente inesistente. Ma gli accordi non sembrano per ora vedere un trend particolarmente significativo anche se l’interscambio è aumentato e Tashkent vende a Kabul elettricità diretta soprattutto nel Nord del Paese. Non di meno, la strategia uzbeca, più che quella di favorire il vicino – in realtà osservato con grande preoccupazione – mira a utilizzare l’Afghanistan semmai come area di passaggio in un piano di ristrutturazione delle forniture energetiche che ha come obiettivo altri Paesi. Può essere indicata come una scelta comunque significativa quella della ferrovia Hairatan-Mazar-e-Sharif, un progetto di 75 chilometri di strada ferrata, in gran parte finanziato dall’Asia Development Bank12, che collega l’importante centro afgano alla frontiera uzbeca e quindi a Termez. Inaugurata nel gennaio del 2012, la ferrovia avrebbe, secondo l’adb, trasportato in 5 anni 11,7 milioni di tonnellate di beni per un valore di oltre 115 milioni di dollari, favorendo la connessione coi mercati dell’Asia Centrale e della Cina13. Il progetto rappresenta la prima fase di un network ferroviario che include Herat e collegamenti con Tagikistan e Pakistan14.
Sul piano politico va segnalata nel 2008, durante l’incontro nel quadro dell’Euro-Atlantic Partnership Council della Nato tenutosi in Romania, la proposta dell’allora presidente Islam Karimov (morto nel settembre 2016) di istituire un ‘6+3’ Contact Group for Afghanistan sotto egida ONU che avrebbe incluso Cina, Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan accanto a NATO, Russia e Stati Uniti (escludendo sia il governo di Kabul sia la resistenza armata), con l’obiettivo di studiare l’approccio a una risoluzione del conflitto. Proposta poi rilanciata in sede ONU nel dicembre 2013 ma senza seguito.
L’Uzbekistan, assai più di altri partner regionali (con l’eccezione del Turkmenistan), si è mosso negli anni con iniziative anche autonome – spesso di segno opposto – sia col governo o con gruppi anti- talebani (noto il suo appoggio al generale Dostum, attuale vicepresidente afgano) ma anche con la guerriglia diretta allora da mullah Omar: l’obiettivo era soprattutto quello di far terra bruciata attorno al Movimentato islamico dell’Uzbekistan (mui), al punto che il governo uzbeco era arrivato a proporre ai Talebani, agli inizi del 2001, persino un riconoscimento dell’Emirato in cambio dell’espulsione dei militanti del mui15 dall’Afghanistan. Nel contempo il governo uzbeco si è distinto per una militarizzazione dei suoi confini (non solo afgani ama anche tagichi e kirghisi) considerando l’Afghanistan e i suoi movimenti islamisti una minaccia per la sicurezza del Paese, preoccupazione reiterata formalmente in più occasioni e sostenuta da una preparazione militare e di intelligence (con formazione tecnica fornita dagli Stati Uniti) che non teme confronti con le altre repubbliche.
Sul piano interno il governo uzbeco, più volte denunciato per la brutalità del trattamento riservato agli oppositori16, utilizza il “rischio afgano”, assai più che in altre repubbliche, come elemento in chiave interna volto alla repressione non solo di gruppi islamisti (aderenti al mui o all’Unione della Jihad islamica17 o supposti tali) ma in generale di oppositori al regime.

4 Turkmenistan, il vicino attivo

Durante l’epoca del governo talebano, il governo del Turkmenistan, pur non avendo ufficialmente riconosciuto il regime, aveva mantenuto rapporti stabili e, in un certo senso, cordiali con l’Emirato di mullah Omar: una scelta volta a preservare il Paese da ritorsioni o infiltrazioni talebane e confermata dalla neutralità al momento dell’invasione delle truppe straniere che nel 2001 combatterono il regime della guerriglia in turbante. Un altro buon motivo era quello di conservare buone relazioni col Pakistan (che aveva riconosciuto il regime), cliente per le forniture energetiche. Le cose sono cambiate alla morte di Niyazov nel 2006 con l’arrivo dell’attuale presidente Gurbanguly Berdimuhammedow che ha aperto agli Stati Uniti e ha autorizzato il sorvolo del Paese da parte dell’aviazione militare americana, cui ha fornito negli anni sostegno logistico e rifornimenti di carburante. Al di là delle dichiarazioni di disponibilità a sostenere ogni possibile strategia di uscita dalla crisi afgana e una discreta attività in campo diplomatico, l’iniziativa forse più rilevante del Turkmenistan è l’ospitalità offerta all’UN Regional Centre for Preventive Diplomacy for Central Asia ad Ashkabad18. Non di meno, pur non ritenendo l’Afghanistan un rischio così temibile come altre repubbliche, il Turkmenistan ha rafforzato il suo sistema di sicurezza lungo la frontiera (744 chilometri) negli ultimi anni.
Dal punto di vista economico, il progetto più interessante e che prevede un investimento stimato a circa 7 miliardi di dollari è il già citato tapi19 Coinvolge Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e Unione indiana e prevede l’esportazione di oltre 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno attraverso circa 1800 chilometri di tubi dal Turkmenistan, via Afghanistan, al Pakistan e all’India (i lavori sono iniziati nel 2015 e dovrebbero concludersi nel 2019). L’Afghanistan dovrebbe goderne per 5 miliardi di metri cubi (lungo l’asse stradale Herat-Kandahar-Quetta) e 14 rispettivamente andrebbero a Pakistan e India. Da segnalare infine il progetto tat (Turkmenistan-Afghanistan-Tagikistan) che dovrebbe sviluppare oltre 600 chilometri di ferrovia (di cui 400 in territorio afgano) che collegherebbero Atamurat in Turkmenistan a Panji in Tagikistan passando per il Nord dell’Afghanistan e collegandosi alla linea che già porta in Uzbekistan. Il costo stimato varia tra 1,5 e 2 miliardi di dollari. Il 28 novembre 2016 il presidente afgano Ghani e il suo omologo turcmeno Berdimuhamedow hanno inaugurato la tratta da Imam Nazar (Turkmenistan) ad Aqina (Afghanistan), passo in avanti sul progetto tat.

5 Kirghizistan, il vicino preoccupato

Con l’avvio del progetto casa-1000, da cui come abbiamo visto Kabul si è al momento ritirata, il Kirghizistan avrebbe assunto un ruolo rilevante nei confronti dell’Afghanistan e l’accordo avrebbe segnato una svolta in relazioni economiche il cui volume d’affari resta minimo (se si esclude quello illecito legato la narcotraffico e al contrabbando). La presenza di afgani nel Paese non ha grandi numeri limitandosi a qualche centinaia di persone, che comprendono, oltre ai rifugiati, migranti economici o studenti, molti dei quali sostenuti da borse di studio. La relazione forte con le vicende afgane si deve in realtà alla presenza della base militare americana di Manas (2001-2014) attualmente un Centro di transito dopo che è tornata nelle mani di Bishkek. La base, che serviva alle forze aeree americane come spazio logistico, è stata chiusa anche grazie alle forti pressioni in questo senso di Mosca e Pechino20. Il Kirghizistan ha comunque sempre considerato l’Afghanistan un rischio per la sua sicurezza definendolo addirittura il maggior pericolo esterno per il Paese, una formula reiterata nel National Security Concept. E una formula che tende a far apparire maggiore più di quanto non sia il rischio di contagio dall’Afghanistan anziché da alcune aree della Federazione russa21. Al netto delle speculazioni sull’utilizzo del “rischio Afghanistan” in chiave interna, va però menzionata un’idea lanciata per la prima volta nel 1998 per la preparazione di una Conferenza di pace internazionale sull’Afghanistan che però non ha mai fatto strada, nonostante nel 2009 il presidente Kurmanbek Bakiyev avesse riproposto l’iniziativa (chiamata appunto “Bishkek Initiative”) che intendeva costruire un centro di studi e ricerca sulla sicurezza e la stabilità in Asia centrale (anche quella senza seguito22). Il Kirghizistan aveva anche lanciato l’idea di una ristrutturazione del suo debito in cambio di forme di assistenza allo sviluppo in Afghanistan.

6 Kazakistan, il vicino lontano

Pur essendo geograficamente il Paese più lontano tra le cinque repubbliche, il Kazakistan si è comunque distinto per il sostegno all’integrazione regionale e internazionale dell’Afghanistan in più occasioni e in più organismi multilaterali. Ha investito in aiuto allo sviluppo, avviato sforzi per migliorare le relazioni commerciali, offerto sostegno per la formazione locale e nominato un rappresentante speciale per Afghanistan e Pakistan sull’onda di quanto fatto dai maggiori protagonisti stranieri nella guerra afgana. Nel 2012 ha anche lanciato un’iniziativa per la creazione di un Centro con sede in Kazakistan per facilitare una migliore cooperazione tra i Paesi dell’Asia centrale e volta a sostenere l’Afghanistan. Benché gli scettici giudichino questa politica più mirata a rafforzare all’estero l’immagine del Paese che non a immaginare un investimento strategico vero e proprio in Afghanistan, nel 2010 i kazachi hanno dichiarato in sede osce (di cui avevano la presidenza) che l’Afghanistan sarebbe stato una delle priorità della politica estera di Astana.
Il governo kazaco, a differenza di altri, non considera comunque l’Afghanistan un rischio per la sua sicurezza nazionale.

7 Il quadro afgano

Le elezioni presidenziali del 2014 che, come abbiamo visto hanno attirato nuovamente l’attenzione sul Paese anche se i riflettori della cronaca si sono poi andati lentamente spegnendo, si sono concluse con un accordo a tavolino che ha prodotto una bizzarra alchimia istituzionale, non prevista dalla Costituzione ma frutto di un disegno pragmatico volto a salvare almeno le apparenze di una tornata elettorale gravata da brogli e reciproche accuse tra i due principali candidati. Ashraf Ghani è diventato presidente della Repubblica e ad Abdullah Abdullah, un uomo legato alla vecchia Alleanza del Nord composta in gran parte da afgani tagichi23, è stato riservato un ruolo a metà tra il co-presidente e il primo ministro (chief executive). Il parto non è stato privo di difficoltà e il risultato sembra solo averle aumentate: questa sorta di diarchia ha di fatto paralizzato il governo per mesi sia nella nomina dei ministri, sia nell’attribuzione delle cariche secondarie, sia nella scelta dei governatori. Qualsiasi decisione, dalla più grande alla più piccola, è stata oggetto di dibattiti infiniti mal digeriti sia dal parlamento sia dal corpo elettorale che, nei sondaggi, ha visto un enorme calo di consenso verso quel governo di unità nazionale in cui tante speranze erano state riposte.
Questo preoccupante quadro politico è purtroppo sempre accompagnato da una cornice non meno angosciante: unama, la missione onu a Kabul, nel rendere noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015 ha riferito di 11.002 casi24, con un incremento del 4% rispetto al 2014 e un trend impressionante di crescita25. Anche le perdite dell’esercito afgano sono state pesanti e, tra gennaio e agosto 2016, sarebbero stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti (9.665 i feriti). Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi.
Il quadro economico resta segnato da una crisi iniziata col ritiro della maggior parte dei contingenti militari americani e Nato ed è marcato da un indebolimento della valuta, da una caduta degli investimenti e dalla fine della bolla speculativa nel settore edilizio creatasi nelle principali città26. Secondo l’Agenzia per la droga e il crimine dell’Onu infine, il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero mentre la produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43%: da 3.300 metri cubi nel 2015 a 4.800 nel 201627.
Il vero malato è però il processo negoziale che dovrebbe por fine alla guerra. I due principali attori regionali – i governi di Kabul e Islamabad – continuano ormai dal 2015 a litigare accusandosi reciprocamente in una sorta di gara a dimostrare che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese vicino. Questa tensione è andata crescendo nel tempo dall’agosto del 2015 e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione con toni anche violenti: Pakistan e Afghanistan si creano inoltre vicendevolmente problemi alla frontiera per il transito delle merci e l’intelligence dei due Paesi, anziché collaborare, nasconde o mistifica le informazioni. In questo quadro, il Pakistan ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani indocumentati che vivono oltre frontiera da decenni. Le espulsioni (che nel novembre 2016 avevano già raggiuntano quota 400mila) hanno messo in difficoltà Kabul che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni e ha appena firmato un accordo con l’Unione europea sui rimpatri forzati di afgani che vivono in Europa che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi. Quanto al processo negoziale, che nell’estate del 2015 era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan sotto l’egida di Islamabad, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar sostituito, con diversi problemi interni nel movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo pachistano), ucciso poi da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte ha visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader. In realtà, ma il condizionale resta d’obbligo, il processo negoziale, o quantomeno le trattative più o meno segrete, continuano sotto traccia. Mentre il governo di Kabul ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin Hekmatyar, fonti di stampa hanno rivelato28 che sarebbero avvenuti due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l’Ufficio politico del movimento guidato da Akhundzada. I talebani hanno smentito ma la notizia è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. Vi avrebbe partecipato un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afganistan, ma non i pachistani il che ha fatto riemergere nuove tensioni anche se in seguito i Talebani hanno inviato una missione “informativa” nel Paese dei puri.

Conclusioni

Lungi dall’essere stato risolto, il nodo della guerra rimane il peggior nemico di un processo di integrazione sia a livello regionale in Asia Centrale sia a livello multilaterale, si tratti del Processo di Istanbul29 o di qualsivoglia iniziativa volta a migliorare la cooperazione in questo o quel campo. Al momento il Paese dell’Hindukush non può che restare una preoccupazione, più o meno agitata sia che si tratti di rischi reali sia che si tratti di propaganda a uso interno. La guerra, col suo portato di instabilità e insicurezza, non richiama investimenti, blocca il flusso delle merci ed esporta al massimo colonne di rifugiati (anche se i grandi Paesi di immigrazione restano i due confinanti Pakistan e Iran). Coinvolte spesso indirettamente nella guerra afgana (o per motivi economico-militari, come nel caso della base di Manas, o per la porosità delle frontiere o per singole iniziative negoziali come nel caso turcmeno o uzbeco), le cinque repubbliche si mantengono a debita distanza in attesa che il caso si risolva e che l’Afghanistan possa tornare ad essere un Paese di transito, cosa che lo renderebbe appetibile soprattutto per il passaggio delle pipeline, ipotesi al momento molto rischiosa. Naturalmente le relazioni esistono e si vanno lentamente rafforzando, a volte anche per spinte o suggerimenti di Paesi terzi, ma l’Afghanistan rimane un luogo da cui è bene mantenere una distanza di sicurezza. L’interesse delle repubbliche è dunque rivolto verso altri Paesi, non esclusi i grandi confinati dell’Afghanistan, Iran e Pakistan.
Risolto il nodo della guerra, una nuova stagione potrebbe cambiare percezione e visuale e andare incontro a un’attenzione che comunque, e forse più che nel recente passato, Kabul ha dimostrato verso le cinque sorelle del Nord cui comunque le unisce una Storia antica e un desiderio comune di indipendenza che per l’Afghanistan, e in parte anche per le repubbliche, resta una chimera in attesa che finisca l’eterno Great Game30 il vero comun denominatore che collega tutti e sei i Paesi.

Speciale Ramadan: barazek, biscotti siriani al miele con sesamo e pistacchio

Con la ricetta di oggi scopriamo uno dei tanti prodotti della deliziosa pasticceria siriana: i barazek, biscotti al miele ricoperti di sesamo e pistacchio! Ingredienti: Per la pasta: 150g di zucchero a velo 130ml di burro chiarificato 250g di farina 100ml di acqua tiepida ½ cucchiaino di lievito per dolci 200g di pistacchi pestati 400g di semi di sesamo tostati Per lo sciroppo: […]

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Il "week end" nero di Kabul

Sulla copertina de Il Tascabile l’ultimo attentato
a Herat il 6 giugno 

Stragi senza rivendicazioni, collasso del sistema politico, lotta tra fazioni, confusione tra gli alleati internazionali. L’Afghanistan sembra attraversare un nuovo periodo buio. O un’ennesima riedizione del Grande Gioco. Un tentativo di analisi

Alle 8 e venti del mattino di mercoledi 31 aprile un’autocisterna rossa per l’acqua viene fermata all’imbocco della cosiddetta “green zone” di Kabul, un’area blindatissima dove si trovano diverse ambasciate – l’americana, la tedesca, la nostra –, il quartier generale della Nato, rimesse e caserme che ospitano soldati americani. Appena fermato e probabilmente sviato dal suo vero obiettivo, uno dei luoghi inviolabili della zona verde, l’autista si fa esplodere facendo saltare l’autobotte che contiene 1500 chili di esplosivo e che, nel creare un cratere vasto e profondo, uccide un centinaio di persone e ne ferisce circa 500, alcune delle quali in maniera semi letale. Si tratta del più grosso attentato che la capitale abbia conosciuto dal 2001, da che sono iniziati gli ormai 16 anni di guerra infinita che hanno seguito i dieci di conflitto con i sovietici dal 1979 all’89 e in seguito altri sette tra soli afgani fino alla nascita dell’emirato di mullah Omar nel settembre del 1996.
Il fatto singolare è che l’attentato non viene rivendicato…

segue su Il Tascabile

Vedi anche questo servizio della Bbc sulla vita sotto i talebani nell’Helmad

Sara Borrillo: Femminismi e Islam in Marocco

“Femminismi e Islam in Marocco: attiviste laiche, teologhe, predicatrici” è l’ultima pubblicazione di Sara Borrillo, che con linearità e accuratezza esplora il panorama femminile marocchino impegnato nella rivendicazione di una propria posizione all’interno delle istituzioni, della famiglia e della società… Continue Reading →

White Helmets, Not White Collars

Source: the Independent. White Helmets, Not White Collars http://www.syriauntold.com/en/2017/06/white-helmets-not-white-collars/ By Estella Carpi. Last autumn, Max Blumenthal’s commentary on the White Helmets in Syria went viral in the international media. At the same time, the 2016 White Helmets movie and the “Hollywoodization” of civilian search and rescue operations became objects of discussion and even suspicion in […]

Guerra di troni. Non più passi di danza fra Sauditi e Qatar

mcc43 Lo scorso dicembre Re Salman dell’Arabia Saudita era in visita a Doha, lo si vide danzare gongolante sul palco accanto a Tamim bin Hamad al-Thani, Emiro del Qatar. Cinque mesi dopo, esattamente il 5 giugno 2017, con una mossa che sembra improvvisa ma non lo è, quello sfoggio d’amichevole allegria si trasforma in veemente accusa […]

5 giugno 1967 – 5 giugno 2017

Volevo ricordare i 50 anni trascorsi dall’inizio della Guerra dei Sei giorni, oggi. La guerra che ha cambiato il conflitto israelo-palestinese. Volevo e dovevo ricordare, come dovrebbe ricordare la comunità internazionale, i paesi arabi, l’Europa, gli Stati Uniti. E invece devo scrivere di un altro argomento, almeno all’apparenza. Le ennesime tensioni nella storia dei rapportiContinua a leggere

Mazen Maarouf: inediti in italiano

La rivista di poesia Atelier ha da poco pubblicato alcune poesie (inedite in italiano) dello scrittore e poeta palestinese-islandese Maazen Maarouf, tradotte dall’arabo da Elena Chiti. Le ripubblico qui con il permesso di Atelier e di Elena, che ringrazio.  افتراض مناخي تخيلي معي طفلا يقف في نهايته طفل خلفه طفل بجانبه طفل آخر وأمامه طفل […]

Si spegne a Marrakech lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo

(Ser). Lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo è morto oggi a Marrakech, inMarocco. Classe 1931, Goytisolo è stato uno degli scrittori contemporanei con la più vasta conoscenza della letteratura spagnola, nonché esperto critico e interlocutore tra la cultura europea e quella islamica. Le sue opere ricoprono diversi generi letterari: narrativa, reportage, letteratura di viaggio, racconti e memorie. Per […]

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Dietro le bombe senza un padrino

Babur: si vuole che la sua tomba a Kabul
respingesse le pallottole durante la guerra
tra mujahedin

Sono da poco passate le tre del pomeriggio al cimitero di Khair Khana a Kabul. Un migliaio di persone sono li a rendere l’ultimo omaggio alle vittime della manifestazione antigovernativa di venerdi dove le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla. Tra questi c’è anche il cadavere di Salem Izdyar, figlio di un senatore della Repubblica e dunque sono presenti anche le alte cariche dello Stato: c’è il primo ministro Abdullah Abdullah e il ministro degli Esteri Salahuddin Rabbani. Anche perché il padre di Salem, Mohammad Alam Izdyar, non è un senatore qualsiasi ma il rappresentante alla Meshrano Jirga della Provincia del Panjshir – a maggioranza tagica e bacino elettorale fieramente antitalebano di Abdullah. La funzione religiosa viene interrotta da tre esplosioni: un ordigno e due kamikaze che si fanno saltare in aria e gettano nello scompiglio la folla che cerca salvezza nella fuga. Il bilancio è ancora incerto: decine i feriti e, secondo alcune fonti, almeno 20 morti.
Ma cosa c’è dietro questa nuova stagione del terrore con un quadro ancor più confuso dal fatto che gli attentati non vengono rivendicati e sono stati prontamente condannati dai talebani?

La pista pachistana

I servizi segreti afgani lo hanno detto sin dalle prime ore di mercoledi quando una cisterna è esplosa nel cuore ella capitale uccidendo un centinaio di civili: dietro le stragi ci sono i servizi pachistani che si servono, come in passato, della Rete Haqqani, la fazione più stragista dei talebani. E’ un’ipotesi non nuova e con diversi precedenti anche se spesso Islamabad sembra solo il colpevole più facile da indicare: una pista che raccoglie sempre il consenso dell’uomo della strada. In passato queste stragi senza paternità erano soprattutto servite a far deragliare l’avvio degli stentati tentativi di mettere in piedi un tavolo negoziale che però – almeno per quel se ne sa – in questo momento è ben lungi dall’essere apparecchiato.

Pista talebana

Abdullah e Ghani: il primo Ceo (una specie di premier,
il secondo presudente. Due anime in guerra perenne

Gli Haqqani però, anche se dotati di larga autonomia, fanno pur sempre parte della galassia talebana. Possono dunque agire del tutto fuori linea rispetto a quanto decide mullah Akhundzada, leader della guerriglia? Se fosse così ci sarebbe un motivo che spiegherebbe bene un piccolo giallo: la presa di distanze della strage di mercoledi è infatti stata riscritta sul sito ufficiale della guerriglia (smentendo il coinvolgimento di Haqqani) e non vi appare la smentita della strage al funerale. Si potrebbe dunque anche ipotizzare una lotta intestina tra fazioni e immaginare dunque che anche l’attentato di mercoledi rientri in questa logica. Le esplosioni al funerale confermerebbero le ipotesi che vogliono gli irriducibili esasperare la tensione tra le due anime del governo: quella irriducibile rappresentata da Abdullah e dai “panjshiri” e quella di Ghani, pashtun e più possibilista anche se in realtà da tempo il presidente si è spostato su posizioni di netta chiusura al Pakistan e avrebbe appena ordinato l’esecuzione di alcuni talebani prigionieri.

Pista politica interna

Il manifesto di oggi: dopo 16 anni di guerra
il Paese è un “posto sicuro”
solo per chi ordina i rimapatrii (forzati)

Stando ai talebani, le stragi sono il frutto della tensione tra queste due anime: una tensione palpabile e
che si è manifestata nella manifestazione di venerdi che aveva però preso di mira entrambe le fazioni chiedendo le dimissioni di Ghani e Abdullah e quelle del capo della guarnigione di Kabul generale Gul Nabi Ahmadzai – che da due giorni invita i residenti a stare a casa e lontani da luoghi affollati – del capo dei servizi Massoum Stanekzai e del capo del National security council, Haneef Atmar, un uomo che è stato anche ministro di Karzai. A farsi portavoce della protesta c’è Asif Ashna, anche lui con un passato governativo: nel 2015 si è dimesso da vice portavoce di Abdullah. Accanto a lui anche Zia Massud, un altro panjshiri già nell’esecutivo di Karzai e poi in quello di Ghani finché il presidente non lo ha fatto fuori. Dunque, dietro la comprensibile rabbia dei parenti delle vittime c’è chi soffia sul fuoco ma da qui a immaginare che questi personaggi fabbrichino bombe da 1500 chili, come quella di venerdi, ce ne corre. Certo il quadro interno è confuso e il governo è barcollante, litigioso e senza consenso salvo l’appoggio della Nato e degli americani che non sembrano che aspettare il momento per poter aumentare il numero delle truppe straniere nel Paese, un piano che il Pentagono avrebbe già sottoposto a Trump e ai partner dell’Alleanza ma che è rimasto in stand-by. Quanto a Ghani ha già detto che non si dimetterà. Abdullah è della stessa opinione

Pista Stato islamico

Data per buona mercoledì solo da alcuni siti online (italiani) sembra da scartare completamente: il Califfato ha armi di propaganda ben affilate e quando prepara un attentato è già pronto anche il piano di comunicazione. Certo le truppe del califfo in Afghanistan sono in difficoltà ma, a maggior ragione, se dietro le stragi ci fossero loro, lo avremmo saputo con rapidità e certezza.

Afghanistan: cambiano i tempi, non cambia il paese

Articolo pubblicato su L’INDRO

L’#Afghanistan è la guerra persa in cui stiamo affondando.
Quella afghana è una guerra che vede impegnata la NATO da oltre 16 anni
ed è costata più di 115 miliardi di dollari. E il risultato non è
incoraggian…

Speciale Ramadan: bevanda dolce al tamarindo

Dopo tante ore di digiuno, soprattutto in estate, reidratare il corpo è fondamentale. Oggi vi proponiamo la ricetta di una delle tipiche bevande di rottura del digiuno quotidiano: bevanda dolce al tamarindo! Ingredienti: 200g di tamarindo 1 litro d’acqua 130g di zucchero acqua di rose (facoltativo) Preparazione: Prima di tutto, sminuzzare il tamarindo in piccoli pezzi. […]

L’articolo Speciale Ramadan: bevanda dolce al tamarindo sembra essere il primo su Arabpress.

Kabul spari sulla folla 5 morti

Chi non vuole vedere l’abisso afgano?

La strage senza paternità che mercoledi ha ucciso un centinaio di cittadini di Kabul e ne ha feriti ennesimo episodio mortale. A farne le spese alcuni dimostranti uccisi dalle forze di sicurezza afgane mentre, assieme ad altri, erano convenuti sul ruolo della strage per protestare contro l’insicurezza quotidiana che circonda la vita nella capitale e in un Paese dove, nei primi tre mesi del 2017, sono state uccise oltre settecento civili e che nel 2016 ha totalizzato il bilancio più grave della guerra infinita: 3.500 morti, in aumento rispetto all’anno precedente.
oltre 400 con effetti devastanti sul centro città che si sono sentiti fino a 4 chilometri dal sito dell’esplosione, è stata seguita ieri da un

La protesta che dalle prime ore del mattino aveva raccolto un migliaio di persone si è rapidamente trasformata in una manifestazione politica con slogan che chiedevano la testa dei capi degli apparati di sicurezza ma anche le dimissioni del governo di unità nazionale. Numerosi gli slogan contro i talebani (che hanno preso le distanze dalla strage) e il Pakistan. I media locali sostengono che molti dimostranti fossero armati e che abbiano lanciato pietre contro gli agenti (alcuni dei quali sono stati feriti) ma la reazione delle forze dell’ordine, stando anche a quanto dichiarato dai responsabili di Amnesty International nella regione, sarebbe stata spropositata. L’organizzazione internazionale chiede ora un’inchiesta sull’impiego di armi da fuoco durante il corteo. Quel che è certo è che la tensione è salita alle stelle quando i dimostranti hanno cercato di spingersi verso il palazzo presidenziale, non molto distante dal luogo dell’attentato. In sostanza, quando la manifestazione, da semplice reazione di rabbia spontanea, è diventata politica, la sicurezza del governo è entrata in azione. Gas e acqua non sono stati ritenuti sufficienti e si è iniziato a sparare. I morti accertati sarebbero almeno cinque. Molti anche i feriti, con pallottole che hanno colpito alcuni dimostranti ai piedi e alle gambe.

Afghanistan: la guerra infinita strage dopo strage

Alla protesta hanno partecipato anche alcuni parlamentari e anche l’ex rappresentante speciale di Ashraf Ghani per le Riforme e il Buon governo, Ahmad Zia Massud, licenziato dal presidente qualche tempo fa. Zia Massud (fratello minore del “leone del Panjshir” ed eroe nazionale Ahmad Shah), già vicepresidente con Karzai, si è unito a un sit in nel pomeriggio che chiedeva la testa di Ghani e Abdullah, i reggenti del governo “a due teste” dell’Afghanistan. La situazione resta tesa in città mentre è ancora senza paternità l’attentato che mercoledi mattina ha raggiunto il primato del più sanguinoso attacco suicida che la capitale afgana ricordi.

Il massacro senza padrini di Kabul per l’intelligence afgana una firma invece l’avrebbe: i servizi sono infatti sicuri che dietro la strage ci sia la fazione talebana della cosiddetta Rete Haqqani, sanguinaria e favorevole ad attentati stragisti con grandi numeri, che è notoriamente vicina ai servizi segreti del Pakistan. Gli afgani sono così certi della paternità pachistana della strage che il presidente Ghani avrebbe deciso, dopo l’attentato di mercoledi, di firmare l’ordine di esecuzione per undici talebani, alcuni dei quali appartengono appunto alla Rete Haqqani. Nelle stesse ore l’Afghanistan Cricket Board cancellava tutte le partite con il Pakistan fino a nuovo ordine, un segnale non certo solo sportivo in quella che spesso viene chiamata cricket-diplomacy e che lavora proprio in quei Paesi dove il vecchio gioco degli inglesi è ora sport nazionale. Latore di buoni propositi ma anche di totali chiusure.

Ghani, che ha ricevuto anche una telefonata di Trump e la solidarietà del generale Nicholson, che comanda le truppe Nato e Usa nel Paese ed è un fautore dell’aumento di soldati stranieri in Afghanistan, è comunque in seria difficoltà. Non solo potrebbe non bastargli il possibile aumento di nuove truppe straniere (anche italiane?) ma il presidente sa che l’abisso del suo Paese non fermerà comunque l’esodo forzato degli afgani venuti in Europa a chiedere asilo: nonostante lo stop alle deportazioni deciso a caldo, Angela Merkel ha fatto infatti sapere che il piano di rimpatrio andrà avanti.

Via Andegari 6

Mi ha colpito soprattutto la porta. La porta verdolina dell’ultimo piano di via Andegari 6. Il cuore della casa editrice Feltrinelli. Una porta massiccia, eppure ingentilita da quel colore così siciliano. La prima volta che l’ho attraversata, quella porta, avevo timori e allo stesso tempo molta speranza. Niente di anormale, anzi, molto di scontato quandoContinua a leggere

The day after

Guerra senza fine

E’ ancora senza paternità l’attentato che mercoledi mattina ha raggiunto il primato del più sanguinoso attacco suicida che la capitale afgana ricordi. Fonti del ministero della Sanità di Kabul hanno contato almeno cento morti e 600 feriti ma è un bilancio che è per difetto: ci sono ancora circa una ventina di dispersi e ancora non sono stati trovati i corpi dei poliziotti che erano di guardia al check point di Zarbaq Square, nella zona “diplomatica” di Wazir Akbar Khan che si trova nel pieno centro della capitale. Un’area, non lontana dall’ospedale di Emergency, che a quell’ora, le 8 e 20 del mattino, è solitamente un ingorgo di mezzi civili guidati da chi va al lavoro. Tra i dispersi c’è ad esempio il comandante Assadullah Andarabi dell’Afghan National Police che, al comando di otto poliziotti, era di guardia al check point. Le prime ricostruzioni dicono che l’ufficiale avrebbe fermato la cisterna bloccandola nella piazza e che il conducente si sarebbe dunque fatto esplodere forse ancora lontano dal suo obiettivo reale. Il risultato dell’attentato resta comunque spaventoso: sia in termini di vite umane, mutilazioni e danni che la Camera di commercio afgana ha stimato a circa dieci milioni di dollari.

I dubbi sulla paternità si devono sia al fatto che, con una rapidità inconsueta, i talebani hanno preso le distanze dal massacro, sia che lo Stato islamico, che è invece notoriamente rapidissimo nelle rivendicazioni e incline a stragi con grandi numeri (come nel luglio dell’anno scorso), non ha fatto alcuna dichiarazione ufficiale né per altro ufficiosa. Uno dei suoi punti di forza è invece proprio la comunicazione, rapida ed efficace, che molto spesso si serve di lanci via twitter, pagine social o di agenzie di notizie come la famosa “Amaq” il cui fondatore, l’ideologo del Bahrein Turki al-Binali, sarebbe stato ucciso durante un raid a Raqqa. Notizia confermata proprio da fonti dello Stato islamico. Stato islamico che ha invece rivendicato un’auto bomba con autista kamikaze che si è fatto esplodere poco lontano dall’aeroporto di Jalalabad nella provincia orientale di Nangarhar – dove il 13 aprile gli americani hanno testato la super bomba GBU-43 Moab – che è ritenuta la base dei militanti della cosiddetta “Provincia del Khorasan”, come il Califfato ha rinominato l’area afgano pachistana. Avrebbe ucciso un soldato afgano – dicono fonti ufficiali – e ne avrebbe ferito un altro. Ma c’è un piccolo giallo: poco prima che Site Intelligence Group – l’organizzazione che monitora le attività jihadiste – rilanciasse la notizia data dal Califfato (secondo cui i morti sarebbero invece sette) anche il sito dei talebani riportava la notizia di un attacco a Jalalabad che aveva ferito cinque soldati americani. Ma nelle ore seguenti la notizia è sparita (è singolarmente sparita anche la presa di distanze dell’attentato di Kabul….)..

Poco spazio ormai per poeti e letterati


Come che sia, il massacro di Kabul per ora non ha padrini anche se i servizi afgani sono sicuri che dietro la strage ci sia la fazione talebana degli Haqqani, sanguinaria e favorevole agli attentati stragisti con grandi numeri, notoriamente vicina ai servizi segreti del Pakistan. Gli afgani sono così certi della paternità pachistana della strage che, secondo indiscrezioni, il presidente Ashraf Ghani avrebbe deciso, dopo l’attentato di mercoledi, di firmare l’ordine di esecuzione per undici talebani, alcuni dei quali appartengono appunto alla Rete Haqqani (Ghani ieri ha ricevuto anche una telefonata di solidarietà di Trump mentre il generale Nicholson, che comanda le truppe Nato e Usa nel Paese ed è un fautore dell’aumento di soldati stranieri nel Paese, si è recato sul luogo della strage). Nelle stesse ore l’Afghanistan Cricket Board cancellava tutte le partite con il Pakistan fino a nuovo ordine, un segnale non certo solo sportivo in quella che spesso viene chiamata cricket-diplomacy e che lavora proprio in quei Paesi dove il vecchio gioco inglese è diventato lo sport nazionale a volte latore di buoni propositi. Oppure di totali chiusure.

Il massacro di Kabul non fermerà comunque l’esodo forzato degli afgani venuti in Europa a chiedere asilo: nonostante lo stop alle deportazioni deciso a caldo, Angela Merkel ha fatto sapere che il piano di rimpatrio andrà avanti. Bomba non bomba.