Giorno: 1 giugno 2017

The day after

Guerra senza fine

E’ ancora senza paternità l’attentato che mercoledi mattina ha raggiunto il primato del più sanguinoso attacco suicida che la capitale afgana ricordi. Fonti del ministero della Sanità di Kabul hanno contato almeno cento morti e 600 feriti ma è un bilancio che è per difetto: ci sono ancora circa una ventina di dispersi e ancora non sono stati trovati i corpi dei poliziotti che erano di guardia al check point di Zarbaq Square, nella zona “diplomatica” di Wazir Akbar Khan che si trova nel pieno centro della capitale. Un’area, non lontana dall’ospedale di Emergency, che a quell’ora, le 8 e 20 del mattino, è solitamente un ingorgo di mezzi civili guidati da chi va al lavoro. Tra i dispersi c’è ad esempio il comandante Assadullah Andarabi dell’Afghan National Police che, al comando di otto poliziotti, era di guardia al check point. Le prime ricostruzioni dicono che l’ufficiale avrebbe fermato la cisterna bloccandola nella piazza e che il conducente si sarebbe dunque fatto esplodere forse ancora lontano dal suo obiettivo reale. Il risultato dell’attentato resta comunque spaventoso: sia in termini di vite umane, mutilazioni e danni che la Camera di commercio afgana ha stimato a circa dieci milioni di dollari.

I dubbi sulla paternità si devono sia al fatto che, con una rapidità inconsueta, i talebani hanno preso le distanze dal massacro, sia che lo Stato islamico, che è invece notoriamente rapidissimo nelle rivendicazioni e incline a stragi con grandi numeri (come nel luglio dell’anno scorso), non ha fatto alcuna dichiarazione ufficiale né per altro ufficiosa. Uno dei suoi punti di forza è invece proprio la comunicazione, rapida ed efficace, che molto spesso si serve di lanci via twitter, pagine social o di agenzie di notizie come la famosa “Amaq” il cui fondatore, l’ideologo del Bahrein Turki al-Binali, sarebbe stato ucciso durante un raid a Raqqa. Notizia confermata proprio da fonti dello Stato islamico. Stato islamico che ha invece rivendicato un’auto bomba con autista kamikaze che si è fatto esplodere poco lontano dall’aeroporto di Jalalabad nella provincia orientale di Nangarhar – dove il 13 aprile gli americani hanno testato la super bomba GBU-43 Moab – che è ritenuta la base dei militanti della cosiddetta “Provincia del Khorasan”, come il Califfato ha rinominato l’area afgano pachistana. Avrebbe ucciso un soldato afgano – dicono fonti ufficiali – e ne avrebbe ferito un altro. Ma c’è un piccolo giallo: poco prima che Site Intelligence Group – l’organizzazione che monitora le attività jihadiste – rilanciasse la notizia data dal Califfato (secondo cui i morti sarebbero invece sette) anche il sito dei talebani riportava la notizia di un attacco a Jalalabad che aveva ferito cinque soldati americani. Ma nelle ore seguenti la notizia è sparita (è singolarmente sparita anche la presa di distanze dell’attentato di Kabul….)..

Poco spazio ormai per poeti e letterati


Come che sia, il massacro di Kabul per ora non ha padrini anche se i servizi afgani sono sicuri che dietro la strage ci sia la fazione talebana degli Haqqani, sanguinaria e favorevole agli attentati stragisti con grandi numeri, notoriamente vicina ai servizi segreti del Pakistan. Gli afgani sono così certi della paternità pachistana della strage che, secondo indiscrezioni, il presidente Ashraf Ghani avrebbe deciso, dopo l’attentato di mercoledi, di firmare l’ordine di esecuzione per undici talebani, alcuni dei quali appartengono appunto alla Rete Haqqani (Ghani ieri ha ricevuto anche una telefonata di solidarietà di Trump mentre il generale Nicholson, che comanda le truppe Nato e Usa nel Paese ed è un fautore dell’aumento di soldati stranieri nel Paese, si è recato sul luogo della strage). Nelle stesse ore l’Afghanistan Cricket Board cancellava tutte le partite con il Pakistan fino a nuovo ordine, un segnale non certo solo sportivo in quella che spesso viene chiamata cricket-diplomacy e che lavora proprio in quei Paesi dove il vecchio gioco inglese è diventato lo sport nazionale a volte latore di buoni propositi. Oppure di totali chiusure.

Il massacro di Kabul non fermerà comunque l’esodo forzato degli afgani venuti in Europa a chiedere asilo: nonostante lo stop alle deportazioni deciso a caldo, Angela Merkel ha fatto sapere che il piano di rimpatrio andrà avanti. Bomba non bomba.