C’è una piccola storia nella grande storia. Nel grande contenitore rappresentato dallo Executive Order del 27 gennaio 2017, data ormai determinante in questo capitolo recente della storia statunitense, c’è la piccola storia che riguarda l’intellighenzia non solo araba, ma in generale mediorientale, in massima parte musulmana. Un ‘gruppo’ composto da chissà quante teste. Almeno daContinua a leggere
Il 30 gennaio, nella capitale etiope avrà luogo il vertice UA: tra le tante questioni in agenda, il rientro del Marocco nell’Unione e l’elezione di un nuovo presidente al posto dell’ex ministro sudafricano
I lunghi anni di tirannia e di potere militare hanno ostacolato la riuscita dell’esperimento democratico nei Paesi arabi, portandolo a un chiaro fallimento
Un rapporto di Amnesty international rivela gli orrori commessi dentro la più famigerata prigione siriana, descritta da come “il posto più orribile al mondo.”
Questa rinfrescante macedonia di frutta secca ed essiccata viene servita spesso come pasto di rottura del digiuno nel mese di Ramadan. È dunque una pietanza diffusa in diversi Paesi del mondo arabo-islamico, dal Maghreb al Mashreq, ma la ricetta che vi proponiamo oggi viene dalla Libia orientale. Scopriamo come preparare il khoshaf! Ingredienti: 500g di frutta essiccata […]
Lorenzo Feltrin A Giulio Regeni, nel primo anniversario della sua scomparsa (25 gennaio 2016-25 gennaio 2017) In questo mese si è registrato un aumento delle mobilitazioni sociali in Tunisia, che, per quanto di portata inferiore a picchi precedenti, segnala la persistenza delle rivendicazioni e delle lotte sociali nel paese. Il sito Nawaat.org ha riportato in un video le manifestazioni […]
Da mesi i media lo cercavano. Da giorni gli spettatori – italiani e non – lo sentono parlare in quel video sgranato e sgradevole che fornisce anche l’ultima immagine da vivo di Giulio Regeni. Nel filmato Mohamed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani, assilla con richieste di denaro il ricercatore italiano scomparso esattamente un […]
Il recupero delle relazioni diplomatiche con la Siria è diventato una questione urgente per il governo tunisino, dato il gran numero di combattenti tunisini coinvolti nella guerra siriana
Patrizia Mancini Un appuntamento imperdibile quello con le audizioni pubbliche delle vittime delle dittature, seguito da molte testate internazionali fra cui Il New York Times, ma che i media italiani hanno completamente ignorato, mentre continuano le pubblicazioni mistico-deliranti di alcune testate sulla Tunisia “vivaio” del terrorismo internazionale. Non si tratta di negare il fenomeno, ma di contestualizzarlo e di analizzarlo, […]
Un paio di giorni fa mi è capitato di leggere alcuni post su facebook di membri e membre di un gruppo che in teoria dovrebbe servire a discutere di idee per la città in cui vivo, Sesto San Giovanni. I … Continua a leggere→
Arrestato nel settembre 2016 insieme al fratello Mehmet, con l’accusa di aver favorito il fallito colpo di stato di luglio, Ahmet Altan è una delle penne più potenti della Turchia. Dopo il successo internazionale di L’amore è come la ferita di una spada, (Bompiani 2008), Ahmet Altan con questo avvincente noir ci porta in una piccola cittadina […]
In uno scenario internazionale dai toni sempre più estremi la soluzione è la resistenza in un’unica battaglia che unisce America e Medio Oriente contro una politica che parla la lingua dell’odio
Devo ad Alessandro De Pascale la segnalazione di questo preziosissimo video, postato su Youtube dal suo autore Vittorio Mangilis che sulle orme di Marco Polo lungo la Via della seta scala arriva a Kabul per scalare il Noshaq (7.400 metri), la vetta più alta vetta del Paese. Un super8 davvero eccezionale
Non c’erano grandi aspettative intorno all’incontro organizzato da Russia, Turchia ed Iran nella capitale kazaka, Astana, alla ricerca di una stabilizzazione per la Siria. Eppure qualcosa sta cambiando.
Si farà fatica a crederlo vista la rappresentazione diffusa della “rivoluzione riuscita” in Tunisia. Ma è qui che si può essere arrestati per uno spinello. Ed è qui che la popolazione attiva si sente “dentro un carcere a cielo aperto”.
Ricordo molto bene il giorno in cui venni a sapere che Giulio Regeni, uno studente dell’Università di Cambridge, era scomparso al Cairo. Era il 31 gennaio, ed erano trascorsi 6 giorni dall’anniversario della rivoluzione egiziana.
Di fronte al cambiamento dell’ordine mondiale sta crescendo la possibilità di una conciliazione che possa porre fine al conflitto: un’ultima speranza prima del baratro
Contro Israele, Hamas e Fatah
“Fuck the Occupation. Fuck Hamas. Fuck Fatah”. Allora come anni fa, la voce di una nuova generazione di attivisti palestinesi rivendica il diritto a vivere in uno Stato libero e giusto. Combattendo contro l’Occupazione un…
In Libia si continua a sperare. Per una risoluzione permanente ai conflitti, per un governo unitario e rappresentativo, per la stabilizzazione del paese e per la ripresa dell’economia. Mentre i giochi di potere si infittiscono e il popolo soffre condizioni di vita insopportabili.
A un anno dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo nulla è cambiato. Il traffico incessante tra i palazzi color caramello della capitale è lo stesso di sempre, quasi una metafora stantia della continua repressione del governo egiziano che rende questo giorno, sesto anniversario della rivoluzione egiziana, uno dei più temuti da quando Abdel Fattah […]
Non si è fatto a tempo a inaugurarla questa presidenza Trump, che già il tema-chiave attorno al quale ruoterà tutto il dibattito sulla democrazia nei prossimi cinque anni ha già egemonizzato le prime pagine di tutti i giornali, soprattutto quelle dei paesi anglosassoni, che per cultura e tradizione vivono nel culto della verità fattuale.…
Fra 10.000 e 15.000 militanti di varia estrazione sono concentrati nel
nord dell’Afghanistan, alla frontiera con il Tagikistan. Intervistato
dalla tv afghana, il ministro dell’Interno del Tagikistan ha confermato
che “l’attuale situazione…
Malgrado Mosca sembri favorevole a promuovere i negoziati che si sono aperti il 23 gennaio ad Astana, capitale del Kazakistan, le fazioni armate siriane hanno ancora molto lavoro da fare per far sentire la loro voce
Si stima che il regime nazifascista abbia sterminato in Europa almeno 500 mila rom e sinti. Il genocidio di questo popolo – ricordato in lingua romanès come “Porrajmos” (“grande divoramento”) o “Samudaripen” (“tutti morti”) – rimane per la memoria collettiva una tragedia silenziosa, dimenticata.
Chouchou, regia di Merzak Allouache, 104′, 2003. Choouchou giunge da Algeri a Parigi apparentemente alla ricerca del nipote (queer come lo zio), ma soprattutto per poter vivere liberamente il suo orientamento sessuale. Come … Continua a leggere→
“Mia moglie ha il cancro e per me la cosa più importante è trovare dei soldi con ogni mezzo”. Inizia così il video girato di nascosto da Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani che ha ammesso di aver denunciato Giulio Regeni ai servizi segreti del Cairo. Le riprese, acquisite anche dagli inquirenti […]
Da tempo volevo orgnizzare un gruppo di lettura-discussione sulla letteratura araba e finalmente ci siamo. Grazie all’Associazione Direfaredare partiamo il 15 febbraio 2017 alle 18.30 presso lo spazio Talamucci di Sesto San Giovanni, in Via Dante … Continua a leggere→
Nonostante il nome, questa bevanda diffusa soprattutto nella regione saudita del Hijaz non ha niente a che vedere con un normale caffè. Per preparala, infatti, vengono utilizzate mandorle tritate invece che chicchi di caffè. Ecco come preparare il qahwa al-looz! Ingredienti: 1l di latte intero 50g di farina di riso 50g di zucchero 70g di mandorle intere cardamomo in polvere […]
Il 20 gennaio Donald Trump diventa il presidente della nazione più potente al mondo e sarà un giorno diverso per la Cina, l’Europa, il Mondo arabo e il resto del mondo
David Thomson è stato tra i primi a sostenere che la religione sia la causa principale del terrorismo in Francia. Oggi è uno degli intellettuali francesi più in voga.
Lo Human Rights International Film Festival torna a Todi dal 25 al 28 gennaio 2017, con una selezione di 9 documentari e 13 cortometraggi in concorso, 6 film fuori concorso, due spettacoli teatrali, 6 mostre, 5 convegni, presentazioni di libri e 3 giur…
La fabbrica del consenso lavora alacremente. Quello che vedete è il titolo di un articolo apparso sul Corriere della sera edizione romana. Musta’ribàt attente: parlare anche arabo è di … Continua a leggere→
Diversi osservatori pensano che la politica estera di Trump sarà basata su tre assi che interessano la regione: la cooperazione con la Russia, la lotta all’islam radicale e l’approccio verso l’Iran.
Decine di migliaia di bambini sfollati dalle loro case a causa delle violenze politiche in atto in Gambia stanno per riversarsi in ospedali, scuole e altri servizi pubblici nelle aree di confine tra il Paese e il Senegal. Questa la denuncia di Save the Children, l’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e a promuoverne i diritti, che lancia l’allarme sul rischio di un’emergenza umanitaria su entrambi i lati del confine tra i due paesi.
Le tensioni in Gambia sono cresciute all’inizio dell’anno, nonostante il Segretario Generale entrante delle Nazioni Unite abbia chiesto ai cittadini, ai governi e ai leader politici un sforzo per superare le differenze e mettere la pace sopra ogni altro obiettivo. Secondo le stime delle Nazioni Unite circa 50.000 persone, nella grande maggioranza donne e bambini, hanno già lasciato i principali centri urbani del Gambia per raggiungere il confine del paese verso il Senegal. “Si tratta di bambini in fuga che si stanno spostando verso un’area dove i servizi pubblici e le strutture sanitarie sono già messe a dura prova”, spiega Bonzi Mathurin, Direttore di Save the Children in Senegal.
Alcune scuole che in Gambia avrebbero dovuto riaprire il 9 gennaio, sono invece rimaste chiuse e molti genitori hanno troppa paura di far frequentare quelle rimaste aperte ai loro figli. Un numero significativo di scuole hanno consigliato ai genitori di tenere a casa i propri figli fino a nuovo avviso. Molti bambini del Gambia si sono iscritti a scuola in Senegal, dove però viene insegnato il francese e non l’inglese come avviene in Gambia.
Gli ultimi dati forniti dal governo indicano che circa 26.000 persone hanno già attraversato il confine tra il Senegal e il Gambia dopo le elezioni, aumentando la pressione sulle comunità locali di questa area. “La migrazione tra il Gambia e il Senegal è stata sempre relativamente fluida, poiché molte persone che vivono in quest’area hanno membri della loro famiglia su entrambi i lati del confine. Tuttavia questo movimento improvviso e massiccio di persone potrebbe sopraffare i servizi pubblici, che stanno già combattendo per affrontare un’emergenza umanitaria”, spiega ancora Mathurin. “Durante gli spostamenti di massa delle persone, i bambini sono quelli più vulnerabili, perché perdono l’ambiente protetto della scuola, della famiglia e della comunità. In questi casi aumenta il rischio di violenze di genere, di mutilazioni genitali femminili e di matrimoni precoci. I più piccoli sono inoltre quelli più esposti a malattie mortali come la diarrea e la malaria, quando le strutture sanitarie non funzionano come dovrebbero. Per questo motivo è fondamentale fare in modo che questi bambini possano avere accesso ai servizi di base in questo periodo difficile”.
Le strutture sanitarie in Gambia sono ancora in funzione, ma la maggior parte dei medici stranieri hanno lasciato il paese, aumentando la pressione sulle strutture sanitarie pubbliche. Secondo l’Associazione dei Medici e Dentisti del Gambia, il sistema sanitario del paese non sarebbe in grado di far fronte a qualsiasi focolaio di violenza.
Save the Children ha messo in atto un piano di emergenza ed è pronta ad assistere la popolazione attraverso al distribuzione di aiuti in Senegal. L’Organizzazione è inoltre impegnata con i propri partner in Gambia e in Senegal per stabilire le aree che hanno maggiore necessità di intervento per raggiungere quelle dove è più urgente dare assistenza.
Una sentenza del TAR Lecce che ha accolto il ricorso avverso il diniego di titolo di viaggio della questura di Taranto, a favore di una donna eritrea titolare di permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, che correva seri rischi rivolgendosi alla Ambasciata dell’Eritrea (così come avrebbe voluto la questura). La donna che in passato faceva parte dell’esercito eritreo, risultava di fatto una disertrice, essendo fuggita dal paese e dall’esercito. Il TAR afferma che trattasi di assoluta novità oggetto del giudizio. Ora la donna può andare a trovare i suoi familiari che vivono stabilmente in varie parti d’Europa.
Scarica la sentenza
Sentenza T.A.R. per la Puglia n. 2023 del 30 dicembre 2016
L’idea del Califfato in una mappa diffusa da un’organizzazione islamista. Lo Stato islamico ci si è ispirato?
Sappiamo tutto o quasi del progetto dello Stato islamico di Al Baghdadi per la Siria e l’Irak o per l’espansione del suo progetto in Libia e per l’esportazione del terrore in Europa o in Turchia. Ma esiste un progetto anche per il mondo non arabo? Esiste un progetto di espansione a Est dove il mondo musulmano è più numeroso? Elisa Giunchi (Afghanistan e Pakistan) e Guido Corradi (Indonesia) parleranno degli elementi caratteristici del messaggio del Califfato nell’estremo Est del Sudest asiatico e nell’area della guerra permanente lungo il confine afgano pachistano. Emanuele Giordana coordinerà l’incontro e parlerà dello sviluppo dello Stato islamico in Bangladesh (dove in luglio vennero uccise 23 persone tra cui 17 stranieri di cui 9 italiani) da dove è appena tornato.
Guido Corradi – è un esperto dell’area malese indonesiana. Ha insegnato all’IsMeo Isiao e attualmente collabora con l’Università Bicocca a Milano. Con Emanuele Giordana ha scritto “La scommessa indonesiana” e sta collaborando alla collettanea “A Oriente del Califfo. Il progetto dello Stato islamico a Est di Raqqa” in uscita per Rosemberg&Sellier
Elisa Giunchi – docente all’Università degli Studi di Milano, è un’esperta di storia e istituzioni del mondo musulmano. Ha scritto diversi saggi tra cui due dedicati a Pakistan e Afghanistan (Carocci)
La donna morta a Borghetto travolta da un treno ha un nome: si chiama Rawda, aveva 29 anni ed era di origine etiope. Risalire alla sua identità è stato possibile grazie al lavoro di Antenne Migranti, il gruppo di monitoraggio attivo lungo la rotta del Brennero. Domattina l’ultimo saluto al cimitero e poi la salma di Rawda torna dai suoi cari in Etiopia, la raccolta fondi promossa da Avio Solidale ha permesso di sostenere le spese del rimpatrio. La solidarietà espressa dalla comunità aviense permetterà inoltre alla giovane figlia di Rawda di proseguire gli studi. Per Antenne Migranti, che si presenterà domani sera al Centro Trevi a Bolzano, “una solidarietà che fa onore al Trentino, ma che non può servire come alibi alle mancanze che questa storia evidenzia”.
Rawda non è stata dimenticata
Rawda aveva 29 anni e ha perso la vita a pochi chilometri dalle nostre case. Era partita tempo fa dalla sua terra, l’Etiopia, dove vivono i suoi cari. E’ arrivata in Italia lo scorso novembre. Nel freddo della stagione e del sistema d’accoglienza, Rawda si è trovata smarrita. Ha concluso il suo viaggio il 16 novembre 2016, camminando lungo i binari nei pressi di Borghetto: nel buio, un treno l’ha investita.
Rawda non è stata dimenticata. Grazie all’impegno di tante persone della comunità della Vallagarina e al nostro gruppo Antenne Migranti è stato possibile mettersi in contatto con la famiglia, che ha chiesto sostegno per poter rivedere, seppur da deceduta, la propria cara, non potendosi permettere la cifra necessaria al rimpatrio della salma. In poche settimane la mobilitazione di tante persone della comunità locale ha fatto sì che venisse raccolto quanto serve per coprire le spese . Ora Rawda può tornare a casa. Un’incredibile solidarietà popolare, che permetterà, oltre al rimpatrio, di studiare anche una forma di sostegno alla figlia di Rawda, rimasta orfana.
Una solidarietà che fa onore al Trentino, ma che non può servire come alibi alle mancanze che questa storia evidenzia.
Primo, la vicinanza di molti trentini ha coperto quella che crediamo essere un’assenza delle istituzioni: se, arrivando da lontano, si muore così tragicamente su un territorio, non sarebbe lecito aspettarsi che siano le istituzioni pubbliche di quel territorio a rendere omaggio alla defunta? Senza un’attivazione volontaristica, invece, Rawda sarebbe rimasta sepolta in Trentino, e chissà quando la sua famiglia avrebbe avuto notizia della sua morte.
Secondo, è necessario abituarsi alle morti sulle rotaie? Dopo Rawda, altre quattro persone hanno perso la vita sulla rotta ferroviaria Verona-Austria. Dobbiamo aspettarci di dover cercare altre famiglie orfane e rimpatriare altre salme?
Preoccupati per la condizione delle persone migranti che transitano lungo i nostri binari, abbiamo costituito il gruppo indipendente Antenne Migranti. Con il sostegno della Fondazione Alexander Langer di Bolzano, il nostro obiettivo è svolgere attività di monitoraggio nelle stazioni e città lungo la rotta del Brennero per cercare di fornire supporto, in termini di orientamento informativo, ai migranti in transito e di stimolare le istituzioni rispetto alle problematiche esistenti. Il progetto sarà presentato domani, venerdì 20 gennaio, alle ore 18.00 presso il Centro Culturale Trevi di Bolzano.
Antenne Migranti Monitoraggio lungo la rotta del Brennero
Antenne Migranti e Fondazione Alexander Langer Stiftung presenteranno il progetto “Monitoraggio lungo la rotta del Brennero” venerdì 20 gennaio dalle ore 18.00 alle 20.00 presso il Centro culturale Trevi in via Cappuccini 28 a Bolzano.
Per l’occasione Giuseppe De Mola, di Medici senza Frontiere, presenterà il report sull’accoglienza informale in Italia: “Fuori campo. Mappa dell’accoglienza che esclude”. Nel corso della serata sarà illustrata anche la situazione dei migranti in transito nella stazione di Bolzano e alcune situazioni riguardo l’accoglienza di richiedenti protezione internazionale.
Le recenti crisi umanitarie, hanno determinato un crescente flusso di uomini e donne richiedenti asilo e rifugiati verso il nostro Paese e in generale verso l’Europa. La risposta arrivata dagli Stati e dalle istituzioni dell’Unione Europea si è concretizzata nell’erezione di muri fisici e legali al fine di ostacolare il libero movimento dei migranti verso e all’interno dell’Europa. Il nostro territorio, che da sempre rappresenta un luogo di transito, è particolarmente colpito da queste politiche. Scongiurato (almeno per ora) il muro con l’Austria, il libero movimento dei migranti viene prevenuto per mezzo di controlli nelle varie stazioni che precedono il Brennero. Così molti migranti, dopo aver tentato invano di raggiungere l’Austria, si trovano bloccati nelle nostre città sempre meno ospitali. Inoltre l’inasprimento dei controlli ha portato i migranti ad assumersi rischi sempre maggiori pur di attraversare il confine, come testimoniano i recenti fatti di cronaca. Antenne Migranti, gruppo di attivisti volontari, e la Fondazione Alexander Langer Stiftung hanno deciso di dare seguito all’esperienza iniziata negli anni scorsi, promuovendo un monitoraggio della situazione dei migranti nelle stazioni e nelle città, sulla linea Verona-Brennero. L’attività di monitoraggio sarà finalizzata ad osservare, e ove possibile prevenire, eventuali violazioni dei diritti dei migranti; fornire supporto in termini di orientamento e accesso alle informazioni al fine di una scelta consapevole; raccogliere i bisogni dei migranti in modo da poter sensibilizzare e stimolare le istituzioni rispetto alle problematiche esistenti. Inoltre, scopo del monitoraggio è quello di aprire un dialogo sui temi dell’accoglienza e della libertà di movimento con tutti gli attori coinvolti, per contribuire alla diffusione di modalità maggiormente rispettose dei diritti umani. Attualmente gruppi di volontari si stanno muovendo nelle città di Verona, Trento e Bolzano. Al fine di poter essere svolte al meglio, queste attività necessitano la presenza di un nutrito numero di volontari. Per questo invitiamo gli interessati a mettersi in contatto per mail o telefono per avere maggiori informazioni e conoscere il gruppo territoriale più prossimo:
Conosco un altro Montello, OLTRE la violenza delle parole: Ritmi e danze dal mondo — crocevia di incontri e di culture invita alla MARCIA DEI 1000 PIEDI
Da 22 anni lavoriamo, attraverso il festival “Ritmi e danze dal mondo — crocevia di incontri e di culture” che si tiene a Giavera del Montello, per far crescere il dialogo, il confronto e l’incontro con il territorio e tutti coloro che lo abitano, compreso chi viene da culture diverse. Abbiamo chiara consapevolezza di vivere in un mondo complesso, dove le semplificazioni e le contrapposizioni non aiutano ad affrontare efficacemente le questioni che riguardano tutti. Non intendiamo quindi proporre qualcosa “contro” qualcun altro: nessuna “contromanifestazione”, come qualcuno ha scritto. Non è il nostro stile. Tuttavia non possiamo ignorare quanto va accadendo a partire dalla manifestazione di Volpago, proprio perché il nostro festival si tiene anch’esso ai piedi del Montello.
La nostra è piuttosto proposta di un evento positivo: i 500 volontari del festival vogliono metterci la faccia e i piedi, “mille piedi” che simbolicamente camminano insieme, con tutti coloro che vorranno partecipare, per dire che è necessario proporre un modo diverso di affrontare i cambiamenti sociali e la questione dei migranti, partendo dal nostro essere cittadini capaci di promuovere una partecipazione civile consapevole e informata nel territorio in cui viviamo. Stiamo invitando i sindaci del comprensorio del Montello, a ribadire che vogliamo superare ogni rischio di contrapposizione, con l’unica attenzione che parole violente non accendano ulteriormente animi già esasperati. Stiamo lavorando con altre realtà del territorio, che parteciperanno con noi all’evento.
Invitiamo singoli e famiglie a ritrovarsi domenica 22 gennaio alle 14.30 presso villa Wasserman, in via della Vittoria a Giavera del Montello (TV), luogo del festival “Ritmi e danze dal mondo”.
Percorreremo a piedi un simbolico tratto di strada lungo il Montello (5 km al massimo), per arrivare ancora a villa Wasserman entro le 16. La marcia verrà preceduta da una staffetta che attraverserà tutto il Montello. Di lì ci porteremo in auto al Palamazzalovo, in via Malipiero 125 — Montebelluna, dove concluderemo la manifestazione con interventi culturali, musica e danze, con spazio libri e angolo per i bimbi. Vuole essere l’inizio di un percorso lungo il quale, confrontandoci con chi vorrà partecipare, offriremo nei prossimi mesi altri incontri di informazione e riflessione sulle tematiche della migrazione e le problematiche attuali ad esse collegate.
La manifestazione non ha colore politico né ideologico, avrà piuttosto il colore dei volti di tutti. Per questa volta lasciamo a casa altre bandiere e striscioni. Daremo comunicazione durante la manifestazione, in rete e mediante stampa, di tutte le realtà del territorio che avranno voluto aderire.
In caso di pioggia, l’evento si terrà al Palamazzalovo di Montebelluna con inizio alle ore 15.00.
Unisciti a noi con un IO CI SONO, partecipando alla marcia dei 1000 piedi + i miei!
Conosco un altro Montello, OLTRE la violenza delle parole: Ritmi e danze dal mondo — crocevia di incontri e di culture invita alla MARCIA DEI 1000 PIEDI
Da 22 anni lavoriamo, attraverso il festival “Ritmi e danze dal mondo — crocevia di incontri e di culture” che si tiene a Giavera del Montello, per far crescere il dialogo, il confronto e l’incontro con il territorio e tutti coloro che lo abitano, compreso chi viene da culture diverse. Abbiamo chiara consapevolezza di vivere in un mondo complesso, dove le semplificazioni e le contrapposizioni non aiutano ad affrontare efficacemente le questioni che riguardano tutti. Non intendiamo quindi proporre qualcosa “contro” qualcun altro: nessuna “contromanifestazione”, come qualcuno ha scritto. Non è il nostro stile. Tuttavia non possiamo ignorare quanto va accadendo a partire dalla manifestazione di Volpago, proprio perché il nostro festival si tiene anch’esso ai piedi del Montello.
La nostra è piuttosto proposta di un evento positivo: i 500 volontari del festival vogliono metterci la faccia e i piedi, “mille piedi” che simbolicamente camminano insieme, con tutti coloro che vorranno partecipare, per dire che è necessario proporre un modo diverso di affrontare i cambiamenti sociali e la questione dei migranti, partendo dal nostro essere cittadini capaci di promuovere una partecipazione civile consapevole e informata nel territorio in cui viviamo. Stiamo invitando i sindaci del comprensorio del Montello, a ribadire che vogliamo superare ogni rischio di contrapposizione, con l’unica attenzione che parole violente non accendano ulteriormente animi già esasperati. Stiamo lavorando con altre realtà del territorio, che parteciperanno con noi all’evento.
Invitiamo singoli e famiglie a ritrovarsi domenica 22 gennaio alle 14.30 presso villa Wasserman, in via della Vittoria a Giavera del Montello (TV), luogo del festival “Ritmi e danze dal mondo”.
Percorreremo a piedi un simbolico tratto di strada lungo il Montello (5 km al massimo), per arrivare ancora a villa Wasserman entro le 16. La marcia verrà preceduta da una staffetta che attraverserà tutto il Montello. Di lì ci porteremo in auto al Palamazzalovo, in via Malipiero 125 — Montebelluna, dove concluderemo la manifestazione con interventi culturali, musica e danze, con spazio libri e angolo per i bimbi. Vuole essere l’inizio di un percorso lungo il quale, confrontandoci con chi vorrà partecipare, offriremo nei prossimi mesi altri incontri di informazione e riflessione sulle tematiche della migrazione e le problematiche attuali ad esse collegate.
La manifestazione non ha colore politico né ideologico, avrà piuttosto il colore dei volti di tutti. Per questa volta lasciamo a casa altre bandiere e striscioni. Daremo comunicazione durante la manifestazione, in rete e mediante stampa, di tutte le realtà del territorio che avranno voluto aderire.
In caso di pioggia, l’evento si terrà al Palamazzalovo di Montebelluna con inizio alle ore 15.00.
Unisciti a noi con un IO CI SONO, partecipando alla marcia dei 1000 piedi + i miei!
Domenica 22 gennaio il festival “Ritmi e danze dal mondo”, che si svolge da 22 anni a Giavera del Montello, promuove “La Marcia dei 1.000 piedi sul Montello”. L’iniziativa è stata discussa in un incontro che ha messo a tema termini e motivazioni della marcia. Pubblichiamo la nota di adesione del Centro sociale Django di Treviso.
L’incontro si è svolto all’interno dell’oratorio di Giavera, paese di 5.000 abitanti circa poco distante da quella Volpago del Montello, diventata tristemente nota per il corteo anti-immigrazione entrato agli onori delle cronache locali e nazionali per lo striscione razzista “Benvenuti sul Montello, sarà il vostro inferno”.
L’incontro, oltre ad innumerevoli associazioni e gruppi informali presenti nei tanti piccoli comuni alle pendici del Montello, ha visto la presenza dei rappresentanti dell’Associazione promotrice della marcia.
Premettiamo di essere ben felici dell’iniziativa e soprattutto che questa sia nata da chi vive all’interno di un territorio non facile, in gran parte amministrato dalla Lega Nord e dove riconosciamo il grande ruolo svolto dal festival, “Ritmi e danze dal mondo”, che da ormai 20 anni per quattro giorni diventa un punto di riferimento per quella galassia di realtà, associazioni e gruppi di volontariato che operano nel mondo dell’accoglienza per la promozione di un dialogo tra culture.
Crediamo però doveroso, oltre a sottoscrivere l’iniziativa, esprimere il nostro punto di vista e la nostra modalità di affrontare la questione accoglienza nei nostri territori.
La manifestazione, come dichiarato a più riprese nel corso dell’assemblea non vuole avere un carattere politico, né ideologico quanto piuttosto proporre un modo diverso di affrontare i cambiamenti sociali e la questione migranti, un’occasione di confronto e apertura rivolto a tutti.
E’ stato più volte ripetuto che non è intenzione dell’Associazione porsi contro qualcun altro, anche la paura degli abitanti del Montello avversi ad accogliere 100 richiedenti asilo è comprensibile, in quanto sentimento umano la paura è necessaria a non cadere in quell’atteggiamento di accettazione senza riserve tipico dei buonisti.
Ci si dimentica però che la “paura” dei partecipanti alla marcia di Volpago, a cui peraltro hanno preso parte anche il governatore del Veneto Luca Zaia e molti amministratori e politici locali della Lega Nord non è quella di un genitore che evoca ai suoi bambini quando attraversano la strada o toccano le prese della corrente ma una paura che viene fatta circolare all’interno di una fiorente economia di potenti gruppi di interesse, la cui esistenza dipende proprio dal fatto che noi continuiamo ad avere paura. Questi professionisti della paura dove annovero teologi, politici, medici, psicologi e mass media in primis dipendono proprio dal nostro terrore e la rimozione, l’eliminazione di questo sentimento non è mai davvero auspicata in quanto il loro obiettivo è sempre stato quello di sostituire e rinnovare i discorsi che suscitano le paure più profonde dell’essere umano.
E’ fondamentale ribadire che emozioni come la paura, la xenofobia e il razzismo non appartengono soltanto agli individui o a ristretti gruppi sociali, esse sono strumenti di mediazione tra individuo e società e riguardano le relazioni di potere, la Lega in questi anni ha costruito proprio su questi istinti il suo consenso e il suo elettorato facendo leva su fattori come la razzializzazione del crimine — tendenza a imputare il crimine ai migranti — rafforzando il binomio straniero uguale criminale o peggio sulla guerra di civiltà e il pericolo dell’invasione, del non essere “più padroni a casa nostra”.
Il razzismo si è così profondamente radicato nei nostri territori che crediamo invece sia necessario isolarlo, e per farlo pensiamo si debba cominciare a chiamare certe pulsioni con il loro nome, non siamo più disposti a cercare alcun tipo di mediazione con i razzisti e i fascisti di ogni genere.
Con l’associazione “Ritmi e Danze del Mondo”, abbiamo condiviso la necessità di superare un modello di accoglienza, quello costituito dalle grandi strutture di accoglienza individuate dalle prefetture, dove i numeri non permettono di fornire quei servizi minimi per una corretta integrazione e di rilanciare l’idea di un modello d’accoglienza diffuso nei territori.
Su questo tema, l’esperienza del centro sociale Django a Treviso, con il lavoro di inchiesta che stiamo conducendo all’interno delle cooperative e che trova peraltro conferma oggi nelle regole del nuovo pacchetto emigrazione del Viminale ci ha portato a credere che anche in questo caso, non si tratta soltanto di una questione relativa alla qualità dei servizi che siamo in grado di offrire ai rifugiati e all’impatto nei territori ma ci sia in ballo qualcosa di molto più inquietante.
Per l’impresa privata, la presenza dei richiedenti asilo è una pentola piena d’oro. Grandi numeri significa grandi guadagni e adesso che nelle nuove misure anticipate dal Ministro Minniti viene imposto ai richiedenti asilo di lavorare anche l’occasione per una manodopera gratuita, niente più scioperi ne sindacati, niente indennità di malattia, sussidi di disoccupazione e compensi da pagare.
Quello a cui stiamo assistendo è la nascita di un sistema non dissimile da quanto accadeva nei paesi coloniali o peggio durante lo schiavismo che di fatto riduce i migranti alla dipendenza da altri per la fornitura di servizi umani basilari, come il cibo e l’alloggio, isolandoli dalla popolazione comune, confinandoli in un habitat ben definito.
Alla nostra richiesta di partecipare alla marcia assieme ai nostri fratelli rifugiati richiedenti asilo ci è stato suggerito che sarebbe auspicabile ci fosse il permesso della cooperativa di accoglienza o del Prefetto e questo conferma i nostri timori più profondi, si sta insinuando un’idea e una convinzione volta a giustificare la riduzione di individui di origine africana allo stato giuridico di proprietà di qualcuno e questo non possiamo permettere che avvenga.
Al corteo del 22 sul Montello noi ci saremo, abbiamo sempre creduto necessario relazionarci con tutti i soggetti presenti sul territorio per costruire assieme, in modo orizzontale e partecipato, un terreno di confronto che porti ad un cambiamento culturale nelle nostre coscienze e nei nostri territori. Raccogliamo quindi l’appello lanciato dall’Associazione Ritmi e Danze dal Mondo.
Domenica 22 ci saremo anche noi, con il nostro punto di vista, la nostra storia, le nostre esperienze concrete e, come sempre, ci metteremo la faccia e questa volta anche i piedi per camminare assieme attraverso il Montello. Un muro abbattuto può diventare un ponte.
Trovo geniale l’uso di “kushari” come titolo di un libro che parli dell’Egitto di oggi. Come Elisa Ferrero ci spiega nelle prime pagine, kushari è un piatto tipico egiziano, delizioso nella resa finale ma che mescola ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro. Una metafora che si adatta perfettamente a un paese ricco di discordanze, la cui identità è difficile […]
Giardini di Consolazione è la storia di una famiglia iraniana attraverso il trentennio più appassionante e indimenticabile della storia dell’Iran. Il libro ci catapulta negli anni tra il 1920 e il 1953. Il paese, una realtà ancora tradizionalista e feudale nelle aree rurali, vive un forte sviluppo democratico, civile ed economico. I cittadini si permettono di sognare un futuro migliore per sé stessi e, […]
Evidentemente i segnali sono molti, basta coglierli. Leggo un altro articolo, questo. Scopro che l’articolo è praticamente una traduzione in arabo di quest’altro. Entrambi fanno riferimento a un progetto lanciato dal National Geographic, … Continua a leggere→
Questo pezzo l’ho scritto per Internazionale e parla della traduzione in arabo della famosa tetralogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante (edizioni e/o). “Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il termine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni … Continua a leggere Elena Ferrante tradotta in arabo è un’ottima notizia per la cultura→
Questo pezzo l’ho scritto per Internazionale e parla della traduzione in arabo della famosa tetralogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante (edizioni e/o). “Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il termine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni … Continua a leggere Elena Ferrante tradotta in arabo è un’ottima notizia per la cultura→
«Poche settimane fa ho provato ad attraversare il confine con l’Ungheria per arrivare in Germania, ma la polizia ci ha scoperti è ha cominciato a picchiarci. Con me c’erano anche bambini di dieci anni e la polizia ha picchiato anche loro». Nonostante ci sia un timido sole a illuminare il volto di Farid la temperatura di Belgrado, alle 14, è ben al di sotto dello zero. Questo ragazzo afghano di venti anni, stretto nel suo cappotto arancione, ci racconta una storia che non è più nuova. Non lo è alle nostre orecchie, non lo è a quelle di milioni di europei, ma che ancora una volta tutti quanti continuiamo ad ignorare.
Dietro la stazione ferroviaria della capitale serba, a meno di un chilometro dal centro storico, più di mille migranti hanno dato vita ad un nuovo insediamento informale. Un piazzale circondato da capannoni ed ex depositi, da diversi mesi, è diventato la nuova casa per migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria e Kurdistan. Sono soprattutto giovani uomini, molti adolescenti, qualche bambino; tutti bloccati a Belgrado nel loro viaggio lungo la rotta balcanica. Proprio quella che l’Europa dice che non esiste più. Proprio quella che, a seguito degli accordi tra l’Unione europea e la Turchia, da marzo dovrebbe essere stata definitivamente sbarrata. In realtà, seppur i numeri siano leggermente diminuiti, la balkan route è tutt’altro che chiusa. Si sono aperte nuove strade, che nella maggior parte dei casi sono ancora più insicure e rischiose.
«In Serbia — ci racconta Andrea Contenta, Humanitarian affairs officer di Medici senza frontiere — ci sono circa 8000 migranti. 6000 vivono in campi governativi che, a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, non rappresentano certo un esempio di accoglienza dignitosa, mentre 1700 persone vivono a Belgrado».
C’è un cancello proprio dietro l’angolo della piazza della stazione, sembra un normale parcheggio con tanto di custode, ma dentro ci sono centinaia di persone già in fila ad attendere che Hot Food Idomeni, un’organizzazione autorganizzata che avevamo già incontrato alconfine tra la Grecia e la Macedonia (leggi qui il reportage), arrivi a fornirgli un pasto caldo. Una zuppa e un pezzo di pane, quanto basta per non morire di fame, per cercare di riscaldare il corpo già provato dal freddo polare.
L’unico riparo sono i capannoni abbandonati che circondano il piazzale, un materasso lurido e una coperta. L’unica soluzione è accendere un fuoco, bruciare qualsiasi cosa possibile alla ricerca di un po’ di calore.
«L’aria all’interno dei magazzini è irrespirabile — ci racconta Alì, un adolescente pakistano — , dormire tutte le notti così diventa davvero pericoloso per la salute. Ma la scelta tra il morire di freddo e rischiare un’intossicazione è facile».
Il numero di migranti assiderati nell’ultimo periodo è aumentato considerevolmente, qualsiasi fonte di calore è vitale. Negli ultimi giorni Medici senza frontiere, oltre che del lavoro sanitario si sta occupando anche di distribuire coperte. Il termometro di notte tocca meno venti. In queste condizioni anche lavarsi diventa proibitivo. L’unico modo è scaldare l’acqua sul fuoco e approfittare di ogni singola goccia, mentre quella che finisce a terra sull’asfalto gelato, alza nuvole di vapore spettacolari. «Sono circa quattro mesi che parliamo con il municipio, con il Ministero della salute e il governo per cercare di installare dei bagni e delle docce — aggiunge preoccupato Andrea –, ma ci hanno risposto che non era proprio il caso, mentre le persone continuano a vivere qui senza un bagno e senza acqua corrente». E continueranno a viverci, perché il confine con l’Ungheria è bloccato, mentre i migranti in Serbia continuano ad arrivare o a ritornare. «La Serbia rischia di diventare una nuova Calais all’interno dei Balcani — conclude il responsabile di Msf –, molte delle persone che sono qui erano già arrivate in Austria o in Germania, sono state poi trasferite in Bulgaria, a causa delle leggi di Dublino, e si ritrovano di nuovo qui. La Serbia rischia di diventare un grosso campo aperto, circondata dai confini dell’Europa, non gode dei benefici dell’Unione ma ne paga comunque le conseguenze».
Un cane che si morde la coda, mentre le persone continuano a morire. Mentre continuiamo a pagare la Turchia perché blocchi i migranti lungo il confine siriano, mentre stringiamo dispendiosi accordi commerciali con paesi come la Libia perché arginino i flussi, le persone continuano ad arrivare in maniera ancora più difficoltosa e sopponendosi a condizioni sempre peggiori. La linea politica europea in tema di gestione dei flussi migratori fatta di muri, fili spinati e esternalizzazione dei confini, non solo non sta funzionando, ma mostra tutta la sua disumanità.
Il saggio di Edward Said intitolato “Orientalismo” risulta ancora oggi, nonostante i suoi limiti ed i suoi anni, estremamente attuale. La connotazione mistificatoria e stereotipata del concetto di “Oriente” enucleata da Said ha trovato esempi estremamente rappresentativi nel cinema italiano del ‘900…. Continue Reading →
Il saggio di Edward Said intitolato “Orientalismo” risulta ancora oggi, nonostante i suoi limiti ed i suoi anni, estremamente attuale. La connotazione mistificatoria e stereotipata del concetto di “Oriente” enucleata da Said ha trovato esempi estremamente rappresentativi nel cinema italiano del ‘900…. Continue Reading →
Si sono presentati in quaranta, lunedì mattina, nonostante il freddo e il vento gelido, davanti la questura di Bolzano per protestare, per l’ennesima volta, contro i tempi di attesa biblici per essere auditi dalla Commissione territoriale di Verona che valuta le domande di protezione internazionale. Una quarantina di richiedenti asilo afghani e pachistani, da mesi oramai rinchiusi all’interno di un centro di accoglienza, hanno deciso di manifestare il loro dissenso in maniera dura, seppur pacifica, mettendoci, come sempre più spesso accade, la faccia e il corpo. La risposta della questura, manco a dirlo, è stata quella di blindare il gruppo ai limiti di un parco con un ingente spiegamento di forze dell’ordine in assetto antisommossa. Daya, pachistano, era tra coloro che hanno portati avanti la protesta. “Sono 18 mesi che cerco di sopravvivere all’interno dei centri di accoglienza” ci racconta “sono stato in questura a Bolzano a metà del 2015 per consegnare i documenti che poi sono stati spediti a Verona. Ad oggi nessuna risposta. Nel frattempo vivo in un limbo, non posso lavorare, ho pochissimi contatti con italiani, non ho la minima libertà di movimento”. La condizione di Daya è quella di migliaia di richiedenti asilo in Italia, intrappolati in un circuito infernale di leggi mal scritte e mal fatte, sintomo di una costante situazione emergenziale inventata ad hoc e connotata da ritardi tipici della burocrazia italiana. Un circolo vizioso che porta a ricevere una risposta, mediamente, dopo due o tre anni. In molti di loro lamentano il fatto, inoltre, della severità della Commissione territoriale e delle modalità del colloquio. Ci confidano che i loro amici sono stati sottoposti ad un interrogatorio, con domande calzanti che puntavano a metterli in contraddizione. Alcuni di loro hanno ricevuto il diniego nonostante arrivino da zone non sicure colpite da attentati terroristici. “Temiamo di non ricevere nessuna protezione e di essere rimpatriati, ma nel nostro Paese non ci è rimasto nulla, solo morte e dolore”. A Bolzano la situazione sembra precipitata nell’ultimo periodo, nonostante un sostanziale rallentamento del passaggio di migranti nella tratta Verona/Monaco. Oltre ad una chiara difficoltà nell’accoglienza di questi ultimi, una ventina di richiedenti asilo vive per strada da una settimana circa con temperature che hanno sfiorato i dieci gradi sotto lo zero. Nell’assurdità della situazione, degradante e disumanizzante per chi vive ostaggio di una risposta, spesso negativa, andrebbero però indagate le responsabilità della questura di Bolzano che, spesso, non si è dimostrata particolarmente solerte nel formalizzare le richieste di asilo attraverso il modello C3 e poi inviare i documenti. Sullo sfondo a completare il cerchio delle responsabilità, le istituzioni, Comune e Provincia in primis, che non solo restano sorde alle richieste dei migranti e volontari che chiedono un’accoglienza dignitosa, ma che non hanno mai negato il fastidio di dover accogliere, a tal punto da non aver ancora ritirato la circolare Critelli. La morte di Abeil, a inizio dicembre, sembra già essere stata dimenticata!
L’altro giorno ho letto questo articolo. Tratta del nuovo allestimento dell’opera di Mozart Il ratto del serraglio. L’oggetto della quetione è l’allestimento contemporaneo, nel quale il regista austriaco ha sostituito ai Turchi i combattenti di daesh, come da immagine che segue: … Continua a leggere→
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Il percorso di orientamento rappresenta uno strumento volto ad analizzare le precedenti esperienze di lavoro per poter ricostruire il proprio passato e delineare un progetto futuro di vita. Un percorso di vita che riparta dalla consapevolezza delle proprie capacità, innescando un processo volto a stimolare la proprie capacità di resilienza. L’utenza di questo percorso è costituita da richiedenti asilo i quali affrontano un percorso di transizione totale, affrontare in maniera trasversale un percorso di orientamento è essenziale per creare le fondamento per l’inserimento nella vita sociale ed economica del nostro paese.
Outplacement, percorsi di inserimento sociale e lavorativo:
L’Outplacement si rivolge a coloro che non hanno un obiettivo professionale definito, o il cui obiettivo professionale sembra essere irraggiungibile. Anche le persone senza esperienze professionali possono aver bisogno di definire meglio le proprie capacità e aspirazioni professionali, e di progettare e mettere in atto percorsi professionali. In questo caso i beneficiare del corso sono immigrati, quindi persone che hanno deciso di abbandonare il proprio luogo di origine alla ricerca di un futuro migliore. I percorsi di Outplacement sono mirati a sostenere, individualizzare e potenziare le capacità e le competenze dei singoli beneficiari.
Lo scopo è di mettere in grado le persone di progettare il proprio futuro personale, in questa ottica diventa fondamentale riconoscere e metabolizzare il proprio percorso migratorio, identificare gli obiettivi da raggiungere e il sistema per realizzarlo.
I traguardi personali non possono essere imposti dall’operatore, ma devono nascere autonomamente dal vissuto dei beneficiari, i quali sono gli unici a poter rispondere nel modo più adeguato ai propri bisogni formativi, lavorativi e alla definizione del proprio percorso migratorio. Consegue che l’operatore offre un punto di vista esterno con cui confrontarsi e una guida al percorso che comunque ciascuno dei beneficiari deve compiere per:
1* identificare competenze e potenzialità da investire nell’elaborazione/realizzazione di un progetto di inserimento sociale professionale e migratorio 2* acquisire autonome capacità di autovalutazione e scelta e autodeterminazione 3* sviluppare, rispetto a sé, quadri di riferimento socio-culturali e registri emotivi appropriati per affrontare positivamente situazioni di transizione/cambiamento, per investire sulla propria progettualità; 4* la ristrutturazione cognitiva, per favorire il passaggio da un atteggiamento rinunciatario a un’attivazione diretta nella ricerca di lavoro o di informazioni. 5* costruire un progetto di sviluppo umano 6* la ristrutturazione cognitiva, per favorire il passaggio da un atteggiamento rinunciatario a un’attivazione diretta nella ricerca di lavoro o di informazioni.
Metodologia: Il Target di persone che partecipato al corso risulta essere diverso da quelli che possono essere considerati utenti “classici”. La letteratura di settore è carente se non priva nell’offrire materiale specifico da utilizzare in questi casi, quindi risulta indispensabile avere un approccio etno-antopologico . Come metodologia di lavoro si è preferito usare le tecniche di educazione non formale e momenti di peer education, permettendo ai beneficiari di essere i creatori dei contenuti e non soggetti passivi di lezioni frontali.
Strumenti: Gli strumenti utilizzati sono costituiti da: Attività di presentazione e analisi dei bisogni, attraverso giochi di gruppo e attività semi strutturate
Cos’è il lavoro? Attività di confronto collettivo sulla concezione del lavoro, e sulle emozioni che suscitano. Attraverso l’utilizzo di cartelloni e post it i beneficiari riescono a concretizzare i propri vissuti
Il filo rosso del Lavoro; con l’utilizzo di fogli e colori i beneficiari sono stati chiamati a organizzare in maniera temporale la propria storia lavorativa, utilizzando colori diversi a seconda del sentimento legato all’esperienza di lavoro. Discussione finale e confronto di gruppo
Le mie competenze; per ogni esperienza si è chiesto di elencare le azioni pratiche svolte e le responsabilità legate al proprio ruolo.
Cos’è il mio lavoro; partendo dalle caratteristiche identificate in ogni lavoro svolto in precedenza, attività pratiche, intellettuali, lavoro autonomo, dipendente, in gruppo o svolto singolarmente, i beneficiari hanno dovuto analizzare queste esperienze per capire se quella professione è stata un’esperienza soddisfacente oppure no, quali erano le mansioni nelle quali si riusciva meglio e quelle nelle quali non si era particolarmente idonee. Cercare di capire i lavoro svolti per necessità e quelli fatti realmente per interesse personale.
Le mie caratteristiche personali; in questo caso ai beneficiari è stato chiesto di elencare le proprie caratteristiche personali, individuando in maniera particolare tutte quegli atteggiamenti che vengono fuori o si accentuano nei luoghi di lavoro.
Il mio lavoro ideale; E’ stato chiesto ai beneficiari di pensare a 3 lavori ideali che possono o hanno l’intenzione di fare in futuro. Per ogni professione inoltre è stato chiesto di elencare una serie di attività proprie di quel lavoro e le caratteristiche personali predominati per quel tipo di lavoro, quali ad esempio lavoro in gruppo, alta responsabilità, gestione del lavoro ecc.. Per ogni caratteristica personale o lavorativa bisogna capire se questa è da acquisire oppure già presente nel proprio bagaglio di esperienza personale.
Decidere di utilizzare del materiale mutuato da altri settori è stato di sicuro una scelta efficace che permette a tutti di esprimere il proprio vissuto, i proprio punti di orgoglio personale e le proprie ansie.
Per far capire il coinvolgimento dei beneficiari mi piace ricordare due episodi, un signore Pakistano sui 45 anni che ci mostra il biglietto da visita del suo negozio di abbigliamento e un altro signore che mi mostra la foto della sua sartoria. Non si può negare che sia stato un percorso difficile, chiedere di riflettere sulla propria storia personale a persone che hanno lasciato la propria Nazione, i propri affetti e la propria vita alla ricerca di un futuro.
Non ha nome, è lì tra i vecchi binari, i vecchi magazzini. In un altro mondo, un mondo accanto al mondo, rifugiati si riscaldano bruciando vecchie traversine dei binari, nell’ex stazione ferroviaria di Belgrado. A ridosso del scintillante Waterfront, un mostro immobiliare di lusso che tra poco cancellerà la jungle già nascosta da immensi cartelloni immobiliari di famiglie sorridenti con vista sul Danubio. Flash delle contraddizioni del capitale. Dietro, 2.000 esseri profughi organizzano turni per riscaldare un po’ di acqua calda e rimanere puliti dignitosi. Di notte temperature a meno 20 gradi. E mi chiedo che tipo di vitalità ci vuole per sopravvivere a meno 20… La forza del movimento libero forse?
Un odore acre che permea tutto e si attacca nel fondo dei polmoni. Tutti tossiscono, polmoniti forse pneumonie, ipotermie in corso. Nel grigio del fumo, come un archivio vivente, assalgono le immagini dell’archivio storico, quello storico, quello dell’apertura dei campi, il disastro della Seconda guerra mondiale. Germania anno zero, Europa anno zero, Europa 2017.
Un’umanità ridotta ai bracieri.
Coperte grigie sulle spalle, dalle coperte tutte uguali si riconoscono. Tremanti. Uomini rigettati nell’oscurità, fuori dal corpo sociale.
“Ebbene, storia, la contro-storia che nasce con il racconto della lotta delle razze, parlerà proprio della parte dell’ombra, a partire da quest’ombra. Sarà il discorso di quelli che non possiedono la gloria, o di quelli che l’hanno perduta, e si trovano ora — per un certo tempo forse, ma sicuramente a lungo — nell’oscurità e nel silenzio. Tutto questo farà sì che [… ] il nuovo discorso sarà una presa di parola che irrompe, un appello: “ (…). Noi usciamo dall’ombra. Non avevamo diritti e non avevamo gloria, ma proprio per questo prendiamo la parola e cominciamo a raccontare la nostra storia”. Questa presa di parola accomuna il tipo di discorso emergente [… ] a una sorta di rottura profetica.”
Michel Foucault, “Bisogna difendere la società” (1976)
Attraverso il fumo denso opaco, scorgo occhi verdi di speranza, quelli degli altipiani dell’Hindu Kush. Accanto alle pozzanghere gelate, contrastano come foto-shock mute, le infradito, le crocks, i piedi nudi gelati nelle scarpe da tennis sfondate e senza più suola, piedi nudi, alcuni persino in ciabatte d’albergo. Tutti hanno camminato mesi, per ritrovarsi nel limbo della jungle di Belgrado, tra le frontiere dell’Europa chiusa. Rotta balcanica (ufficialmente) chiusa, anche se continuano ad arrivare. L’altro giorno uno di loro è stato portato in ospedale per un mezzo congelamento di un piede. Uno a nord sul confine con l’Ungheria è morto di ipotermia.
Ad accendere i fuochi, scorgo bambini, alcuni non hanno più di dieci anni. I bimbi in questa storia, rappresentano la metà dei circa 8.500 rifugiati in Serbia, afghani pachistani, iracheni e siriani — tutti provenienti da zone di guerra. Quelli che sono fuori dei campi, a Belgrado, trovano rifugio nel più grande grande squat dell’Europa centrale, un’altra jungle, come Calais e Ventimiglia. Appena entrata, uno sviene a terra, scosso da forti tremori, si teme un’ipotermia in corso. Loro rifiutano di farsi registrare dalle autorità, per paura di venir rinchiusi nei 15 campi in Serbia o deportati, pushed-back, come accade ogni giorno, verso i confini macedoni o bulgari. E poi parte la catena del refoulement (respingimento, NdR) Serbia, Macedonia, ecc… Condizioni igieniche mostruose, gravide di una catastrofe umanitaria, come avverte da mesi Msf, che con una clinica mobile nel parco avverte e cura un’epidemia di malattie della pelle per ora contenuta. Un unico piatto caldo al giorno, distribuito da volontari, senza nomi, quelli che sono già intervenuti dal 2015 in Grecia, a Idomeni e sulla rotta balcanica (Hotfood Idomeni per le donazioni).
Perché il governo serbo, per paura del cosiddetto presunto “appello d’aria”, ha pubblicato una lettera pubblica per vietare alle Ong internazionali di distribuire cibo e vestiti a Belgrado ai migranti non registrati nei campi e che dormono all’adiaccio. L’inverno più duro alle porte, temperature notturne a meno 20. Deterrenza contemporanea. Si smaschera allora…. il progetto è di farli soffrire nella carne e nello spirito? Impazzire… E qual è il limite? Quando decine cadranno di polmonite, ipotermia, assideramento? Quando si molteplicheranno i casi di morti di gelo, le amputazioni (già tre casi l’inverno scorso), quando gli arti saranno rotti come le menti, di quest’umanità ridotta alla diversità? Nascondersi sempre, vivere negli anfratti, nelle fratture del capitalismo denunciandone con la propria esistenza, il volto mostruoso. Alzarsi ancora. Rifugiati a ridosso del Waterfront come una beffa, una denuncia di corpi viventi, sotto la neve.
Sadismo o piuttosto necropolitica migratoria? A che punto allora si muoverà la comunità internazionale? Quando la soglia diventa “soglia critica”? Le domande sorgono, qui nel cuore dell’Europa, nel vecchio impero Ottomano, ora attraversato e violento, e riecheggiano le parole di Achille Mbembe in Necropolitica:
«La sovranità in questi luoghi equivale alla capacità di definire chi conta e chi non conta, chi è eliminabile e chi non lo è».
«Creare dei mondi di morte, forme nuove e uniche di esistenza sociale, nelle quali popolazioni intere sono assoggettate a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in condizione di “morti in vita”».
Questi rifugiati respinti, che nessuno vuole, a parte i siriani di prima classe e nemmeno più loro dopo l’Accordo con la Turchia che permette di respingere interi nuclei familiari sopravvissuti alle bombe, indietro, persino verso la Siria. Quei respinti, che vivono tra i rifiuti, chi li rappresenta? Respinti tra Stati, come in un ping pong, dalle violentissime e xenofobe polizie ungherese e croata a colpi di pestaggi, pepper spray negli occhi, deportazioni e cani sguinzagliati. Addosso. Persino spari da arma da fuoco, in Croazia, secondo alcune testimonianze. Riportati in Serbia, finiscono per ritornare allo squat di Belgrado e riprovarci. Perché la Serbia, punto nodale tra gli Stati europei balcanici, è diventata una trappola dopo la chiusura della rotta balcanica, una specie di “discarica” per i non wanted refugees, pachistani, afghani per la maggioranza. In tutto circa 10.000 in tutto il paese, da statistiche non ufficiali (l’Unhcr li stima a 7.000) e nonostante la chiusura, continuano ad arrivare, 50 a giorno, tanti minori non accompagnati. La metà dei profughi in Serbia sono bimbi. Tutti hanno provato il border crossing almeno 3 volte, alcuni persino ventina di volte. Venti volte respinti.
La pelle archivio
Sulla pelle, i segni: ferite da manganelli, dissuasori elettrici, morsi da cane, maltrattamenti, umiliazioni, alcuni fatti saltare dai vagoni, le porte dei container rinchiuse sulle sulle caviglie strappate, piedi rotti, uomini con stampelle, a Kelebija, Subotica, Shid, Preševo. Come in un archivio vivente, la violenza della frontiera sui corpi. La sovranità, barbarie-Europa stampata a vita, sulla pelle.
«Le tracce di queste chirurgie demiurgiche persistono a lungo nella forma di figure umane che di certo sono vive, ma la cui integrità fisica è stata sostituita da pezzi, frammenti, pieghe e ferite immense che difficilmente si rinchiuderanno. La funzione di questi pezzi è mantenere davanti agli occhi della vittima, e chi sta intorno a lui o a lei, lo spettacolo morboso dell’amputare.» Achille Mbembe
Non voler vedere che è in corso un’eliminazione. Europa-negazione.
Nella tende del Community center gestiti da volontari internazionali, a Kelebija, entry point in Ungheria, una cinquantina di algerini fa a gara per mostrarmi le ferite di questa violenza di frontiera. Mentre ricaricano le batterie, cellulare bussola. Questa ferita è dovuta ai pestaggi della polizia ungherese, dall’altra parte della recinzione, questa sulla caviglia, a Shid, qua un cane mi ha attaccato, qua ho il segno del morso, a Preševo, qua in Ungheria, dall’altra parte del confine, ci hanno arrestati, e chiesto di camminare verso la Serbia, in piena notte. La prassi è anche di confiscare i cellulari, impunità che si diffonde come una macchia. Polizia di guanti neri. A Subotica una pattuglia ci ha fatto scendere di forza dai treni, il mio piede si è rotto nella porta del container. Qualcuno cammina con le stampelle, qualcuno è esaurito, un altro sta impazzendo. Mesi nei boschi, in capanne di foglie ad aspettare un varco o un smuggler. Con il rumore di un’improbabile apertura dei confini, la speranza non cessa mai, anche nei posti disperati, sorrisi immensi totali. Intanto all’altezza del duty free, uomini obbligati a rintannarsi nei boschi, mentre i tir di merci passanno, liberi. Uomini rintanati nei boschi.
Photo credit: Mario Badagliacca
Un’umanità ridotta ai boschi. Europa 2017.
E poi c’è la lunga scia invisibile di deportazioni illegali, persino di richiedenti asilo registrati ai confini, i numeri sono registrati nei rapporti dell’Unhcr. 51, 150, 109. Unchr denuncia pure il netto incremento delle deportazioni illegali di migranti che cercano di raggiungere l’Europa passati per la Rotta Balcanica. «Circa 1.000 persone dal Medioriente, Asia e Africa sono stati espulsi nel solo mese di Novembre sulla rotta balcanica… di più dei mesi precedenti», dichiara la portavoce dell’Unhcr in Serbia, Mirjana Milenkovska. Fino al caso emblematico del 17 dicembre, dove un’intera famiglia curdo-siriana, registrata a Belgrado dalle autorità e in corso di trasferimento al campo di Boseligradj, centro-sud, viene fatta scendere dal bus, portata in un furgone delle forze speciali e abandonnata, due donne e un bimbo di due anni, in pieno nulla, nei boschi sul confine bulgaro, e consigliata di camminare verso la Bulgaria a meno 11 gradi. Grazie agli attivisti di Info-Park, sono scampati all’ipotermia. E quanti casi di deportazioni e scomparse nei freddi boschi dei confini balcanici? Non lo sapremo probabilmente mai. Barbarie-Europa avanza. Eliminabili.
E mi chiedo allora se basterà quel reportage, quelle prove, quella denuncia, l’ennesima. Mi chiedo se basteranno i loro occhi, le loro parole, le loro ferite, non vittime ma eroi, è la rivoluzione che avanza e la sua punta avanzata, è qua. E mi chiedo il senso di questo pezzo, se la narrazione non dovrebbe semplicemente riassumersi in un unica parola, il disumano.
A qualche centinaia da noi, sulle frontiere, sono in corso
Rastrellamenti, ratonnade, deportazioni in mezzo alle notti, pestaggi infiniti. Cadono dai treni, muoiono di gelo, congelati, assiderati nei boschi sui confini, costretti a camminare di notte in nuove marce forzate, uno è stato gettato in un lago ghiacciato, sui petti, vedo i morsi dei cani. Non ricorda nulla a nessuno… Se non è una lenta politica di eliminazione, questa, uomini-rifiuti, respinti, eliminabili. Necropolitica migratoria.
Photo credit: Mario Badagliacca
Migranti morti di gelo
Dal mio ritorno, e mentre chiudo quest’articolo a casa al caldo, giungono le notizie di morti annunciate sul confine bulgaro-turco, nei pressi del monte Strandzha, perché è l’unico carico a non aver recinti, passaggio del confine nella neve (30cm): nella sola prima settimana di gennaio 2017 sono morti di assideramento, 4 persone, migranti e solo nelle ultime 24 ore ci sono stati sette casi di congelamento a Belgrado.
Due giovani uomini iracheni, di 28 e 35 anni, ritrovati nei pressi del paese di Izvor, regione di Burgas, Sud-Est Bulgaria, 6 gennaio 2017.
Nella stessa zona, una donna somala è stata rirovata il 2 gennaio 2017 nei pressi di Ravadinovo. I compagni di viaggio, raccontano che sono stati costretti ad abbandonarla, perché non aveva più la forza di camminare.
Un altro afghano è morto di ipotermia, dopo aver traversato a nuoto il fiume Evros, a Nord della Grecia, ritrovato nei pressi di Didymoteicho, il 3 gennaio 2017.
E già il 26 dicembre un irachene richiedente asilo era stato costretto dai trafficanti ad abbandonare la propria sorella sul confine bulgaro, perché troppa stremata per camminare.
Mi sorprendo a scrivere queste cose come se fossero normali. “Lasciata indietro tra i boschi perché stremata, nel gelo, morta di gelo”. A 2000 km da casa nostra. Un orrore, un Novecento di ritorno.
Eliminazione. Racconti da Seconda guerra mondiale, di marce forzate, di morte per stenti, di esaurimento e di gelo. Non Siberia 1917, non Germania anno zero, Europa 2017. Barbarie-Europa.
Ai nostri piedi si stendeva la fantasia di pan di zenzero che è la Città Vecchia di San’a: un agglomerato di case color biscotto, decorate con quella che ha l’aspetto di glassa bianca, circondato da mura spesse e alte. Non avevo mai visto una città così bella. Queste poche righe sono sufficienti a immergerci nella […]
La conferenza per la pace avvenuta nella capitale francese non porterà alla soluzione immediata della disputa in Medio Oriente ma fornisce un’apertura verso il diritto dei palestinesi
Vivo nella valle della Roya, all’estremo sud est francese, una valle che rispecchia l’immagine di un’Europa popolare, umana. La Bassa Roya è italiana e l’Alta è francese. Noi, gli abitanti della Roya, passiamo da un Paese all’altro senza prestare attenzione alla frontiera. Non sono né francese, né italiano, sono della valle della Roya. Lo Stato d’urgenza ha avuto un impatto senza precedenti per la nostra valle. Una razza, dei popoli, una religione sono stati stigmatizzati da una politica populista, una politica che manipola la massa, usando la paura nei confronti dell’altro, la paura della differenza. Cercando di ricongiungersi, mariti, zii, sorelle, cugine, amiche … donne, bambini, famiglie cacciate dal loro Paese d’origine a causa della dittatura, la guerra, intrappolati, torturati, schiavi in Libia, tutti si incontrano alla frontiera francese. In maggioranza d’origine africana, pensano di trovarsi nel Paese dei “saggi”, il Paese dei Diritti dell’Uomo, lì dove ci si prende cura dei bambini perduti. Ebbene, no! Giunti alla frontiera, esausti, spesso feriti dagli ostacoli incontrati lungo il cammino, si fanno cacciare come dei cani dall’esercito, la polizia. Secondo la legge francese, i bambini non accompagnati devono essere sostenuti dallo Stato francese ma non si rispetta nulla di tutto questo. I “neri” sono privati di ogni diritto! La polizia francese riporta i bambini in Italia, o in treno senza titolo di viaggio, occultati alla polizia italiana, oppure all’interno di veicoli non identificati guidati da poliziotti in borghese, diretti verso la frontiera italiana. Circa trecento testimoni di questi fatti hanno sporto denuncia contro il Prefetto delle Alpi Marittime, il Presidente del Consiglio della Prefettura e il Presidente della Regione. Ma nessun provvedimento è stato preso dalla procura di Nizza, dal signor Pretre, Procuratore della Repubblica, che si rifiuta di ammettere l’ingiustizia e a causa della sua inerzia si rende complice della messa in pericolo di questi bambini. La nostra associazione “Roya Citoyenne” si sente disarmata dinanzi a questi uomini che detengono tutto il potere. Per questi alti funzionari, rappresentanti della più alta autorità, i migranti non sono che cifre, un flusso, delle quote. Invece, noi, gli abitanti della Roya, li incrociamo e dobbiamo fare i conti con i loro sguardi. Loro sono lì, nella nostra valle, senza avere l’opportunità di nascondersi, se non con il nostro aiuto. Non c’è bisogno di una stella gialla, non c’è bisogno di nessuna etichetta per riconoscerli. Loro sono neri, il loro colore indelebile fa di loro un bersaglio, Il Bersaglio! Sono la “valvola di sfogo” per tutti, li si accusa di essere dei potenziali terroristi, di rubare il lavoro ai francesi e di essere lì solo per approfittare del sistema sociale. La frontiera è stata ristabilita contro il terrorismo, ciò nonostante è sufficiente pagare 250 euro a un gruppo di trafficanti per oltrepassarla. I nostri politici mantengono uno stato di terrore, diffondendo l’idea che l’Europa sarebbe il bersaglio del terrorismo mentre la grande maggioranza degli attentati e delle morti avvengono in Paesi a predominanza religiosa musulmana, essendo i musulmani le prime vittime di questo abominio. Il terrorismo si costruisce attraverso il terrore, la stigmatizzazione. Ed è contro questo che mi batto! Contro l’odio e la stigmatizzazione di una razza, di una religione, di un colore della pelle. Rischio otto mesi di prigione per aiutare delle persone che sono diventate mie amiche. Voglio precisare la mia provenienza: sono nato a Nizza, in un quartiere dove i miei compagni di classe erano neri, grigi, gialli, bianchi. Sono stato educato nell’indifferenza razziale ed è questo che mi si rimprovera oggi, di non fare la differenza, di non chiedere i documenti a un ragazzino prima di tendergli la mano. Continuerò, fino al momento in cui non finirò in prigione, ad aiutare chi mi sembra una persona buona con o senza documenti perché amo la vita e la rispetto. Non soccomberò alla minaccia, alla pressione, non sarò complice né del silenzio, né dell’inerzia.
Si ringrazia l’Avv. Salvatore Fachile per la segnalazione ed il commento.
Una sentenza con cui il TAR del Lazio conferma la precedente giurisprudenza del TAR Campania e riconosce il diritto del cittadino straniero a ricevere la notifica del provvedimento conclusivo della richiesta di rilascio del permesso di soggiorno (diniego) tramite il proprio avvocato. Il TAR Lazio conferma l’illegittimità della prassi, adottata dalle questure in tutta Italia, secondo cui il rigetto della richiesta di rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno debba essere effettuato personalmente all’interessato (e non al suo avvocato), così da consentire l’immediato fermo, quindi il trattenimento nel CIE e l’accompagnamento forzato. Questa prassi di fatto scoraggia moltissimi cittadini stranieri a recarsi in questura per ricevere la notifica del diniego, precludendosi nella pratica la possibilità concreta di esercitare il proprio diritto di difesa.
Scarica la sentenza
Sentenza T.A.R. del Lazio n. 12620 del 19 dicembre 2016
Il ritorno dei miliziani: Marc Trévidic e David Thomson due realtà suscettibili di influenzare il dibattito e l’azione politica nei confronti del terrorismo locale e internazionale
Patrizia Mancini Il 14 gennaio 2017 la Tunisia ha celebrato il sesto anniversario della sua rivoluzione. Nella capitale la festa ha assunto un tono più da fiera di paese che da avvenimento politico, dove ciascun partito o associazione commemorava a suo modo la storica data. Da segnalare l’assenza di un corteo dello storico sindacato dell’UGTT, presente soltanto con qualche militante e […]
Nel 2010 esce nelle sale cinematografiche, per la prima volta nella grande distribuzione, il film di Rachid Bouchareb Hors-la-loi, una produzione di Francia, Algeria e Belgio. Il film, distribuito anche nelle sale italiane, è particolare, perché, per la prima volta, … Continua a leggere→
La Lega Araba, una delle organizzazioni internazionali più antiche, sta vivendo una crisi strutturale profonda, proprio ora che la sua guida sarebbe tanto necessaria per affrontare gli stravolgimenti che la regione sta vivendo
Il Premio internazionale per la narrativa araba (IPAF/Booker arabo) ha annunciato ieri mattina la lista dei 16 romanzi che fanno parte della longlist. Gli autori semifinalisti di quest’anno, che segna il decimo anniversario del premio, provengono da 10 paesi arabi diversi e sono stati selezionati da 189 manoscritti arrivati da 19 paesi arabi. A capo … Continua a leggere Annunciata la longlist del “Booker arabo” 2017→
Il Premio internazionale per la narrativa araba (IPAF/Booker arabo) ha annunciato ieri mattina la lista dei 16 romanzi che fanno parte della longlist. Gli autori semifinalisti di quest’anno, che segna il decimo anniversario del premio, provengono da 10 paesi arabi diversi e sono stati selezionati da 189 manoscritti arrivati da 19 paesi arabi. A capo … Continua a leggere Annunciata la longlist del “Booker arabo” 2017→
gender dictionary-qamùs al-gender, Lebanon support, Beirut 2016 Nella prefazione al volume il collettivo che ha realizzato questo dizionario afferma che gli obiettivi per una pubblicazione del genere sono molteplici: innanzitutto raccogliere la ricerca su … Continua a leggere→
Qualche giorno fa è uscito sul magazine di VICE Italia, speciale narrativa, un estratto in anteprima del romanzo I drusi di Belgrado, dello scrittore libanese Rabee Jaber. Il libro è stato tradotto dall’arabo da Elisabetta Bartuli e verrà presto pubblicato da Feltrinelli. L’estratto che trovate su VICE, dal titolo “Negoziazione al serraglio”, è l’incredibile e … Continua a leggere “I drusi di Belgrado” di Rabee Jaber: il Libano, i Balcani e l’Italia→
Qualche giorno fa è uscito sul magazine di VICE Italia, speciale narrativa, un estratto in anteprima del romanzo I drusi di Belgrado, dello scrittore libanese Rabee Jaber. Il libro è stato tradotto dall’arabo da Elisabetta Bartuli e verrà presto pubblicato da Feltrinelli. L’estratto che trovate su VICE, dal titolo “Negoziazione al serraglio”, è l’incredibile e … Continua a leggere “I drusi di Belgrado” di Rabee Jaber: il Libano, i Balcani e l’Italia→
Yanghee Lee è una docente universitaria coreana attualmente incaricata come Special Rapporteur on the situation of human rights in Myanmar, la persone che per le Nazioni Unite dovrebbe fare chiarezza su quanto avviene nello Stato di Rakhine, abitato (o dovremmo dire ormai “disabitato”) dai Rohingya (pronuncia Roinga). Ma nei dodici giorni della sua missione nel Paese, di cui solo tre nel Rakhine, a Lee è stato vietato andare dove le pareva per “motivi di sicurezza”. Ha potuto solo visitare alcuni luoghi approvati dal governo, o meglio dai militari, e parlare con testimoni anche quelli approvati dal regime.
Cosa può aver capito se non ciò che si sa da alcune riprese fatte dall’alto che testimoniano di 1500 villaggi distrutti e dalle testimonianze non approvate. Gli ultimi dati sulla fuga dei rohingya dal Myanmar danno un bilancio di 65milaprofughi, il doppio di quanti se ne contavano ufficialmente a fine dicembre. Per ora le pressioni internazionali non sembrano aver sortito grandi effetti.
“Rimani alla superficie devastata di Aleppo e capirai come si può perdere tutto in un momento.” dice il prof. Samer Frangie come monito alle future generazioni.
La scelta della capitale kazaka come cornice per le trattative sul conflitto siriano non è del tutto casuale e sembra dirci molto su quali siano i veri protagonisti dei negoziati stessi
“La guardia costiera e la polizia di frontiera egiziane hanno fermato più di 12.000 persone migranti di varie nazionalità (nel corso di un totale di 434 operazioni), che tentavano di entrare o uscire illegalmente dal paese nel 2016”, ha fatto … Continue reading →
Il piatto che vi proponiamo oggi, che arriva dall’Iraq, è anche conosciuta come “colazione babilonese”, in quanto la sua ricetta risale a un manuale di cucina della Mesopotamia del 10° secolo. Ecco come preparare la makhlama lahm, carne speziata con uova! Ingredienti: 450g di carne ovina macinata 4 uova 1 cipolla media 2 pomodori da sugo […]
Elisa Giunchi (Afghanistan e Pakistan) e Guido Corradi (Indonesia) parleranno degli elementi caratteristici del messaggio del Califfato nell’estremo Est del Sudest asiatico e nell’area della guerra permanente lungo il confine afgano pachistano. Emanuele Giordana coordinerà l’incontro e parlerà dello sviluppo dello Stato islamico in Bangladesh (dove in luglio vennero uccise 23 persone tra cui 17 stranieri di cui 9 italiani) da dove è appena tornato.
Hanan Ash-Shaykh, Innaha Lundun, ya ‘azīzī, Dàr al-adàb, Bayrùt 2001 Un aereo proveniente da Dubai sta per atterrare a Londra, tre personaggi: Lamis, Amira e Samir. Tutti e tre stanno per giungere nella … Continua a leggere→
Le donne yazide vittime della violenza dello Stato Islamico rischiano di restare senza supporto medico e psicologico. La denuncia arriva da Murad Ismael, direttore di Yazda, charity con base nella città curdo irachena di Dohuk. Il centro, che ha anche documentato gli omicidi di massa commessi dall’Isis ed è l’unica tra le strutture di assistenza nella regione […]
La scomparsa dell’ex presidente ha apparentemente unito conservatori e riformisti nel dolore, ma sotto la superficie, le vecchie divisioni si inaspriscono
Sulle orme del Grande Gioco – Passioni del 14 gennaio 2017
Il Grande Gioco, the Great Game per gli inglesi e Turniry Teney o Torneo delle ombre per i russi, fu una specie di grande guerra fredda del 19mo secolo. Una guerra mai dichiarata che opponeva Londra a San Pietroburgo, passando per Calcutta, la sede della Compagnia delle Indie – la East India Company – che doveva governare de facto l’India e tutti i possedimenti di oltremare sino al 1860 per essere infine sciolta nel 1874. Il nostro viaggio sulle tracce del Grande Gioco ci porta allora per forza a San Pietroburgo, fondata dallo zar Pietro il Grande sul delta della Neva, dove il fiume sfocia nella baia omonima nel golfo di Finlandia E’ stata a lungo la capitale dell’Impero russo e la sede della corte degli zar. Ci faremo aiutare da Lucia Sgueglia, giornalista che vive a Mosca da molti anni e che ha girato in lungo e in largo l’Asia centrale ex sovietica. Ma anche da letture di storici dell’epoca o di scrittori eccezionali come Dostoevskij che diede alle stampe il suo famoso Le notti bianche nel 1848. In pieno Grande gioco
Sulle orme del Grande Gioco – Passioni del 15 gennaio 2017
E siamo arrivati alla nostra ultima tappa nel viaggio che ci ha fatto ripercorrere le tappe del Great Game, del Grande Gioco, di quella guerra combattuta non solo con le armi ma con le spie, gli informatori, i diplomatici, gli avventurieri, i mercanti. Torniamo a Kabul, alla Kabul di allora e alla Kabul di oggi. Sentiremo, grazie agli storici dell’epoca, riesumati dai saggi di Peter Hopkirk e William Dalrymple, com’era la Kabul ottocentesca e poi ce la racconterà, com’è oggi, Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore che ha appena pubblicato per Gli Asini Arcipelago Jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda, una ricerca su due dei principali attori sulla scena di un Nuovo Grande Gioco che, dal Medio oriente, è arrivato fino all’Afghanistan.
“Europa: Un’Introduzione Illustrata all’Europa per Migranti e Rifugiati” cerca di spiegare la storia e la politica del continente vista attraverso i suoi conflitti e migrazioni.
Un web-doc che racconta le condizioni dei migranti costretti ad affrontare il viaggio verso l’Europa. Turchi, curdi, siriani e volontari internazionali hanno trovato nuove forme di aggregazione e di autorganizzazione per affrontare insieme tanto i…
No, non è una recensione. Né io amo particolarmente le recensioni. Questo libro, però, è troppo importante, e devo almeno dar conto di quanto lo sia. Uno di quei testi che occorre rileggere, a brani, per ragionarci di più. Il Bambino nella Neve non è solo un libro bellissimo (e non ho mai amato iContinua a leggere
Ero seduta a scrivere, al mio bar preferito di Gerusalemme, quando mia madre stranamente mi telefona: stai bene? Tutto ok? Sei a casa? Sei al sicuro? Un attentato, mi dice, a Gerusalemme. Ci mancava. Mia mamma anticipa addirittura la… Continue Reading →
Ero seduta a scrivere, al mio bar preferito di Gerusalemme, quando mia madre stranamente mi telefona: stai bene? Tutto ok? Sei a casa? Sei al sicuro? Un attentato, mi dice, a Gerusalemme. Ci mancava. Mia mamma anticipa addirittura la… Continue Reading →
La start-up marocchina collega le donne agli agenti di sicurezza dislocati nelle zone “calde” o a rischio, che sono in grado di intervenire grazie al semplice tocco di un pulsante. La fondatrice, Samia Haimoura, sta progettando di lanciare l’impresa anche in Egitto e in Tunisia.
Uno dei temi attualmente più trattati è quello dei minori non accompagnati. Questi, rappresentano una categoria di immigrati alquanto vulnerabile. Grazie ad un’opportunità di lavoro che mi è stata assegnata come mediatrice culturale ad un centro di accoglienza per… Continue Reading →
Uno dei temi attualmente più trattati è quello dei minori non accompagnati. Questi, rappresentano una categoria di immigrati alquanto vulnerabile. Grazie ad un’opportunità di lavoro che mi è stata assegnata come mediatrice culturale ad un centro di accoglienza per… Continue Reading →
Nonostante non ci sia ancora nessuna conferma da parte delle autorità locali, la notizia è circolata in diversi siti di informazione ed è stata ripresa da diverse agenzie internazionali e il provvedimento con cui il governo marocchino vieta la produzione e la vendita del burqa per ragioni di sicurezza sarebbe effettivo già da questa settimana. […]
Di Zouhir Louassini. Osservatore Romano – settimanale (05/01/2017). Ahmed Mahmoud Osman, l’autorità religiosa di Tahna, un piccolo paesino vicino alla città egiziana di al-Minya – sulla riva sinistra del Nilo, duecento chilometri a Sud del Cairo – è il protagonista di un video, diventato virale nel mondo arabo. Vi dice che si fida totalmente del […]
Muṣṭafà Fatḥī, Fī balad al-wilād, Dàr ash-shebàb Books, Al-Qahira 2009. Muṣṭafà Fatḥī Fī balad al-wilād (Nel mondo dei ragazzi) discute il tema dell’omosessualità in Egitto. Annunciato prima della sua comparsa in libreria ha suscitato, secondo … Continua a leggere→
Ieri alla Casa della Memoria a Milano è stata inaugurata la mostra Different Wars: la II Guerra Mondiale vista attraverso i libri di scuola di 6 differenti Paesi. Gli organizzatori – la mostra, curata dal gruppo “Historical Memory and Education” dell’EU-Russia Civil Society Forum, è organizzata dall’associazione Memorial Italia in collaborazione con la Casa della Memoria, l’Istituto Lombardo per la Storia contemporanea e il Comune di Milano – spiegano che: “Le prime impressioni del passato, quelle che si formano con l’educazione scolastica e i libri di testo, sono tra le più forti. I libri di testo contengono la conoscenza che ciascuna società vuole trasmettere alle generazioni future. Gli Stati li utilizzano come strumenti per l’educazione civica, costruendo narrazioni che favoriscono le identità, rafforzano la coesione civile o legittimano il potere dominante…. I libri di testo comunicano infatti lo spirito del loro tempo e esprimono la cultura in cui vengono scritti“.
La mostra resterà aperta fino al 26 gennaio e racconta le differenze nel modo di raccontare e nella percezione della Storia della Seconda Guerra Mondiale: libri di testo delle scuole superiori di Germania, Repubblica Ceca, Italia, Lituania, Polonia e Russia. I visitatori hanno l’occasione di “sfogliare” le pagine e conoscere i metodi di insegnamento dei manuali di storia dei Paesi presenti.
Informazioni pratiche Mostra aperta dall’11 al 26 gennaio 2017 Orario d’apertura: dal lunedì al sabato ore 9.00 – 17.00 | Ingresso libero Casa della Memoria, via Federico Confalonieri 14, Milano
I Paesi europei sono consapevoli della necessità di restaurare i controlli dei confini interni e rafforzare i confini esterni all’Unione poiché i migranti rappresentano un rischio per la sicurezza
Dopo decenni di separazione, gli artisti siriani permeano la scena artistica turca, creando istituzioni e importanti network per sé e per la comunità ospitante.
Per una intera giornata ha impazzato su Facebook una inutile, superficiale, spesso arrogante e ignorante discussione sui paralleli tra i diversi attentati terroristici di queste ultime settimane, mesi, anni. Se l’attacco a Gerusalemme contro i giovanissimi soldati presso la promenade di Armon Hanatziv si possa paragonare agli attacchi con i camion a Nizza e Berlino.Continua a leggere
Attraversando l’estuario del fiume Naf, che lungo 35 chilometri segna la frontiera tra Myanmar e Bangladesh, le barche devono scivolare silenziose e leggere. Il fiume si allarga in un braccio di mare che corre lungo i distretti di Cox Bazar in Bangladesh e dello Stato di Rakhine in Myanmar e le barche di chi scappa si confondono con quelle di chi pesca. Al di qua del confine, pochi chilometri più a Nord, ci sono i campi profughi risorti come funghi dal 9 ottobre scorso, quando è cominciata una violentissima repressione nello Stato birmano del Rakhine. Al di là, in Myanmar, c’è l’area di Maungdaw, l’estremo Nord del Rakhine. E’ da qui che si scappa al ritmo di cento, duecento, cinquecento persone al giorno. «Il picco sembra sia stato raggiunto in questi giorni – dice un funzionario addetto ai campi profughi – e adesso sembra si sia stabilizzato. Ma non sappiamo se è perché l’emergenza è finita, oppure se al di là della frontiera c’è ancora chi aspetta il momento migliore per andarsene»….
(Le 360.ma). Lunedì 9 gennaio, le autorità marocchine hanno mosso un importante passo verso il divieto del burqa in tutto il Paese: “Abbiamo adottato una misura che vieta completamente l’importazione, la fabbricazione e la vendita di questo indumento in tutte le città e le località del regno”, ha indicato un lato funzionario del ministero dell’Interno. La fonte […]
Thani Al-Suwahidi, Al-dìzel Dàr al-giadid, Bayrut 2011. Diesel, dello scrittore Thani Al-Suwahidi è considerato uno dei racconti lunghi più discussi e interessanti nel panorama della produzione degli Emirati. Pubblicato una prima volta nel 1994 a Beirut non ebbe molto riscontro di critica … Continua a leggere→
Complice le feste e una breve assenza della qui presente blogger, diverse notizie letterarie non sono apparse su queste pagine. Oggi quindi facciamo insieme un breve ricapitolo di quello che ci siamo persi e di quanto ci attende nelle prossime settimane. A dicembre, presso la American University of Cairo, si è svolta la cerimonia di … Continua a leggere Premi letterari e fiere librarie dal nord Africa→
Complice le feste e una breve assenza della qui presente blogger, diverse notizie letterarie non sono apparse su queste pagine. Oggi quindi facciamo insieme un breve ricapitolo di quello che ci siamo persi e di quanto ci attende nelle prossime settimane. A dicembre, presso la American University of Cairo, si è svolta la cerimonia di … Continua a leggere Premi letterari e fiere librarie dal nord Africa→
Il problema non è nel destino cinico e baro. In mesi cinici e bari che ci hanno tolto persone, figure importanti, affollando le bacheche virtuali dei necrologi. Il fatto è che se ne stanno andando, spesso per naturali questioni anagrafiche, i padri. I padri intellettuali di un pensiero progressista, inclusivo e complesso che ha segnatoContinua a leggere
Anatole. Non si sa bene più da che parte cominciare per controbattere con gli scarsi mezzi di cui si dispone alla grancassa guerrafondaia di religione che proprio in questi giorni, dopo l’attentato della notte di Capodanno a Istanbul, ha ricominciato a rullare poderosa, accompagnata dallo starnazzare dei soliti tromboni.…
Benché ufficialmente si tratti di una missione di una settimana con scopi addestrativi, la Nato ha deciso l’invio di 200 soldati a Farah (Afghanistan occidentale) che, in gran parte, saranno italiani di stanza nella base di Camp Arena a Herat, dove Roma ha 950 soldati. Come sottolinea Al Jazeera, anche se il numero è esiguo, l’impegno segna un nuovo coinvolgimento delle truppe straniere nella guerra afgana che segue la decisione americana per altri 300 marine destinati nell’Helmand. Dopo la diffusione di voci, alla fine dell’anno scorso, di un coinvolgimento di aerei italiani nei cieli dell’Afghanistan (voci non confermate), l’invio dei militari a Sud non è un buon segno e sembra anche poco credibile che la missione sia “non combat”. Qualcosa sta accadendo nel Paese, con una nuova fase della guerra sulla quale abbiamo poche e frammentarie notizie. Quel che appare certo è che Trump non intende lavarsene le mani come aveva detto in campagna elettorale. Seguirà le indicazioni di Obama che ha chiesto che l’impegno Usa resti tale. Sembre che anche Roma conserverà questo atteggiamento.
C‘è intanto un’emergenza profughi che non accenna a diminuire. Anzi. Secondo il governo afgano, 200mila sono a rischio per freddo e fame nel Paese e 1500 fra loro, nel 2016, han perso la vita. La situazione attuale segna un bilancio di circa un milione di sfollati interni cui si è aggiunto l’anno scorso un altro milione di afgani rientrati in Afghanistan – in molti casi perché cacciati – dal Pakistan e dall’Iran.
Ankara ha capito di vivere in un periodo travagliato, forse il più pericoloso dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, un minaccia per l’AKP, partito al potere dal 2002
Ankara ha capito di vivere in un periodo travagliato, forse il più pericoloso dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, un minaccia per l’AKP, partito al potere dal 2002
Santiago Alba Rico Bisognerà analizzare le conseguenze e mettere in guardia dai pericoli, ma nessuno può essere sorpreso da ciò che è successo. Era una questione di tempo. Sia l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara che l’attentato di Berlino si iscrivono in una logica inarrestabile, prodotto di un’accumulazione storica precedente e che ha avuto inizio cinque anni fa. Quello che la […]
Santiago Alba Rico Bisognerà analizzare le conseguenze e mettere in guardia dai pericoli, ma nessuno può essere sorpreso da ciò che è successo. Era una questione di tempo. Sia l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara che l’attentato di Berlino si iscrivono in una logica inarrestabile, prodotto di un’accumulazione storica precedente e che ha avuto inizio cinque anni fa. Quello che la […]
mcc43 Nessuna statistica di fine 2016 dai Folletti di WordPress. Chissà perché. Allora provvedo per conto mio, poiché c’è un dato che mi preme sottolineare. La statistica è presto fatta: 51 articoli pubblicati nel 2016, meno dei 58 del 2015, totale visualizzazioni 32.000, non molto dissimile dai 33.000 dell’anno precedente. Proprio il numero delle visualizzazioni dà […]
“Passioni – Sulle orme del Grande Gioco” In onda per due fine settimana il 7-8 gennaio e il 14-15 gennaio 2017 alle ore 14.30 sulle frequenze di Radio3
Ideato e condotto da Emanuele Giordana con la regia di Giulia Nucci. A cura di Cettina Flaccavento (per il podcast clicca qui)
Lungo tutto il 1800 il Regno Unito, o meglio l’Impero britannico, e la Russia, o meglio l’Impero degli Zar, combatterono una guerra molto particolare che ha preso il nome di Grande Gioco, Great Game o, alla russa, Torneo delle Ombre. Fu una guerra strana e in molti casi “fredda” e non solo perché si battagliava anche nelle steppe gelate dell’Asia centrale – come nelle torride pianure afgane – ma perché non venne mai combattuta direttamente e le battaglie furono spesso a colpi di spiate, tradimenti, complotti e non solo al suono delle trombe degli eserciti. La guerra si faceva comunque attraverso gli altri – gli afgani, gli uzbechi, i tagichi – e mai con uno scontro frontale. I due Imperi si spiavano con ogni mezzo: il Regno unito temeva un’invasione russa dell’India, la perla dell’Impero. Gli zar pensavano invece che l’Inghilterra, con la sua potente macchina economica e militare, potesse invadere, con soldati e commercianti, le terre su cui l’ombra di Pietroburgo si andava allargando a Est. In mezzo c’erano Stati come l’Afghanistan, vecchi imperi come quello persiano o – più a Nord – i canati dell’Asia centrale: Bukhara, Chiva, Samarcanda. Il viaggio sulle orme del Grande Gioco attraverserà dunque alcune delle principali città che furono il teatro di questo scontro tra titani. Cercando i segni di quella strana guerra combattuta in conto terzi e guardando anche a cosa sono diventate oggi: cosa c’è ancora di quel fascino che fece innamorare gentiluomini russi e mercanti inglesi, agenti indiani e funzionari della Compagnia delle indie, militari zaristi e fedeli ufficiali di Sua Maestà britannica? Un viaggio a Bukhara e Samarcanda, nel cuore dell’Asia Centrale; da Peshawar attraverso il passo di Khyber a Kabul, Herat, Jalalabad, città afgane oggi preda di un Nuovo Grande Gioco; e infine Pietroburgo, dove gli zar e i loro consiglieri studiavano ogni singola mossa di quel Torneo la cui ombra sembra sopravvivere al suo passato. Sulle orme del Grande Gioco – Passioni del 7 gennaio 2017
Durante tutto l’Ottocento L’Impero britannico e quello zarista si spiarono con ogni mezzo: il Regno unito temeva un’invasione russa dell’India, la perla dell’Impero. Gli zar temevano invece che l’Inghilterra, con la sua potente macchina economica e militare, potesse mangiarsi le terre su cui l’ombra di Pietroburgo si andava allargando a Oriente. In mezzo a questo Grande Gioco c’erano Stati come l’Afghanistan, vecchi imperi come quello persiano o i canati del Nord: Bukhara, Chiva, Samarcanda. Il nostro viaggio sulle orme del Grat Game comincia proprio da Samarcanda, una città su cui Marco Buttino, il più importante studioso italiano dell’Asia Centrale, ha da poco dato alle stampe un saggio per i tipi di Viella che si intitola proprio Samarcanda. Ci faremo anche aiutare con letture tratte da Il Grande Gioco di Peter Hopkirk e da Il ritorno di un re di William Dalrymple usciti in Italia per Adelphi
Sulle orme del Grande Gioco – Passioni dell’8 gennaio 2017
Ripercorrendo le tante strade del Grande Gioco, quella guerra “fredda”combattuta a migliaia di chilometri da casa da britannici e russi nell’Ottocento, l’Afghanistan è la tappa per eccellenza. Da Herat a Ovest o da Peshawar a Est – attraversando il passo di Khyber – eserciti, agenti segreti, spie camuffate da commercianti o viandanti, cercavano di guadagnare Kabul, il nodo del controllo delle grandi vie di accesso dall’Asia centrale all’India. Come sono oggi queste città? Ce lo racconta la principessa e Soraya Malek, nipote di quel re Amanullah che fu l’ultimo monarca afgano a subire la maledizione del Great Game. Ma ci faremo aiutare anche da scritti di storici dell’epoca e da due giornalisti: la fotografa e antropologa Monika Bulaj, che al Paese ha dedicato il volume Nur, la luce nascosta dell’Afghanistan, e dall’inviato de Il Messaggero Valerio Pellizzari che visse a Kabul durante l’occupazione sovietica negli anni Ottanta. E da due sacerdoti italiani, Caspani e Cagnacci, che scrissero un bellissimo saggio negli anni Cinquanta.
Fece scalpore anni fa un articolo su Aung San Suu Kyi, allora icona della resistenza ai militari, uscito sull’autorevole e paludato Journal de Geneve. Il quotidiano della città svizzera tagliava a fette la Signora in giallo, rea di esser la figlia di un’élite che, come altrove nel mondo, poteva educare i suoi pargoli nelle università britanniche per poi farli giocare alla rivoluzione. Ma Aung San, non ancora Nobel per la pace e con un futuro di perenni arresti domiciliari, era si figlia dell’élite (suo padre era stato l’eroe della resistenza antigiapponese) ma alla rivoluzione proprio non giocava. Nel 1988, i militari birmani al potere dal 1962, ancorché richiamandosi a un vago principio socialista, avevano annegato nel sangue l’ennesima rivolta e Aung San iniziava a essere molto di più che la semplice icona di una resistenza al regime. La donna aveva coraggio da vendere e una volontà di ferro mascherati da un sorriso disarmante. Nobel dal 1991, li doveva dimostrare nel 1999 quando il marito inglese giaceva moribondo in un letto europeo. I militari le diedero il permesso di espatriare per l’ultimo saluto ma lei rifiutò. Sapeva che uscire significava mai più rientrare. A trent’anni di distanza Aung San, per anni beniamina di ogni amante della libertà e dei diritti, è ancora nel mirino. Davanti al dramma di una minoranza bistrattata nel Paese di cui è alla guida (non è premier ma è come se lo fosse) è rimasta zitta. Non una parola o meglio qualche farfugliamento sbrigativo. Tutti le hanno dato addosso e, certamente, con motivo. Perché tace? Calcolo politico? Odio atavico per i musulmani? Condivisione del peggior istinto di alcuni monaci (tra cui il noto Ashin Wirathu)?
Ashin Wirathu monaco
Un funzionario della diplomazia italiana allarga le braccia: «Fa quello che può, perché dall’altra parte c’è il rischio di un colpo di Stato». Non solo dunque uno scontro con potere politico ancora fortissimo ma il rischio di un colpo di coda sempre in agguato. Un segnale, e i soldatini uscirebbero dalle caserme. Quando nel 2015 la sua lega per la democrazia vince le elezioni si apre inevitabilmente una transizione difficile, caratterizzata da una coabitazione forzata da leggi che garantiscono ai militari un quarto dei parlamentari e da un braccio di ferro che imporrà per gli uomini in mimetica Interni, Difesa e Frontiere, tre ministeri chiave per gestire un Paese ormai in mano ai civili.
Aung San ottiene il governo (anche se è ufficialmente solo “Consulente di Stato”) ma non il potere effettivo con cui deve fare i conti. Nonostante la vittoria elettorale, il suo partito ha a che fare con una legislatura che si basa su due camere – elette per la prima volta in un clima democratico – ma che prevedono una quota di parlamentari in automatico ai militari: la Camera delle Nazionalità (Amyotha Hluttaw) ha 224 seggi e la Camera dei Rappresentanti (Pyithu Hluttaw) 440. Ma nella prima 56 e nella seconda 110 sono appannaggio delle Forze armate. Certo, la Lega ha la presidenza della Repubblica e diversi ministeri, ma politica interna e di difesa restano in mano ai soldati. In questo braccio di ferro scoppia il caso rohingya, per la verità già deflagrato – in tempi recenti – più volte: nel 1978, nel 1992, nel 2012 e nell’ottobre scorso. Durante il pogrom del 2012 Aung San non prende posizione. E, durante le elezioni, non spende una parola sul fatto che i rohingya non possano correre la scommessa elettorale. Ma non è ancora al potere. Il suo silenzio è imbarazzante ma le viene perdonato.
Dire che non abbia fatto nulla sarebbe ingiusto. Ha chiamato Kofi Annan e lo ha promosso inviato speciale per la questione. Ma Annan ha finito per giustificare il suo silenzio criticando chi, come il governo malaysiano, ha trattato l’affaire rohingya come un “genocidio”. Il suo governo ha anche promosso una commissione di inchiesta i cui risultati son però molto più che discutibili. Pare abbia anche mandato ai militari una sorta di questionario per saperne di più quando, un mese fa, la vicenda aveva già raggiunto dimensioni enormi. Ma non avrebbe ricevuto risposta. Insomma un braccio di ferro sotto traccia. Che non la giustifica ma getta luce su un negoziato impossibile coi militari proprio mentre c’è in ballo l’intero processo di pace con le minoranze armate nel resto del Paese. Quel silenzio resta pesante. Una macchia difficile da cancellare sul suo vestito zafferano.
Un altro classico della cucina libanese, diffuso però anche nei Paesi limitrofi, come in Siria. Si tratta della variante del tradizionale hummus: ecco come preparare l’awarma o hummus bi lahme, hummus con carne! Ingredienti: una porzione di hummus 250g di carne magra di manzo o agnello 50g di mandorle a lamelle o di pinoli o di semi di […]
Un altro classico della cucina libanese, diffuso però anche nei Paesi limitrofi, come in Siria. Si tratta della variante del tradizionale hummus: ecco come preparare l’awarma o hummus bi lahme, hummus con carne! Ingredienti: una porzione di hummus 250g di carne magra di manzo o agnello 50g di mandorle a lamelle o di pinoli o di semi di […]
Due figure di rilievo dell’organizzazione terroristica Neo-Jmb, tra cui uno dei capi dell’organizzazione, sono stati uccisi alle tre del mattino di ieri in un quartiere di Dacca. I due erano in motorino è sono stati i protagonisti di una fitta sparatoria. Ancora non è chiaro se i due siano stati fermati a un posto di blocco e abbiano reagito o se abbiano aperto il fuoco quando hanno capito che la polizia li aveva notati. Nurul Islam alias Marjan alias Shakil, di 22 anni, e considerato uno dei più giovani comandanti dell’organizzazione, avrebbe avuto un ruolo chiave nell’assalto del 1 luglio 2016 quando cinque membri del Neo Jmb attaccarono l’Holey Artisan Bakery a Gulsham, un ristorante della zona bene di Dacca frequentato da stranieri che furono presi in ostaggio: in totale vennero uccise 23 persone tra cui 17 stranieri tra i quali 9 italiani. L’altro militante ucciso è Saddam Hossain, alias Rahul alias Sabuj alias Chanchal alias Robi – accusato di almeno dieci casi di omicidio incluso quello del cittadino giapponese Hoshi Kunio nell’ottobre del 2015. Mmarjan, che si crede fosse il coordinatore della strage di Gulsham, avrebbe ereditato il vertice dell’organizzazione dopo la morte di alcuni leader di punta: l’ex militare Murad alias Zahi, Tamim Ahmed Chowdhury, e Faridul Islam alias Akash. Un altro leader, Musa, è invece appena sfuggito alla cattura.
Sia l’attacco al ristorante sia l’uccisione di Hoshi furono rivendicati dallo Stato Islamico anche se i rapporti tra il “Califfato” e i gruppi islamisti del Bangladesh non è chiaro. Il Neo Jmb – fazione del gruppo “madre” Jammatul Mujahedin Bangladesh – ha probabilmente legami con gli emissari di Raqqa (anche se il governo ha sempre negato la presenza di Daesh in Bangladesh) che pure hanno rivendicato diverse azioni tra cui l’uccisione dell’italiano Cesare Tavella, che lavorava in una Ong e che venne freddato nel settembre del 2015 mentre faceva jogging sempre nella zona di Gulsham. Da allora funzionari e umanitari stranieri sono sotto stretta sorveglianza e limitati negli spostamenti da ferree regole di comportamento. Il ministro dell’Interno Asaduzzaman Khan Kamal, che ha reiterato il messaggio di tolleranza zero del governo, ha detto che ormai la rete si sta stringendo attorno ai 14 leader del gruppo ancora in fuga.
L’ennesima uccisione di militanti rientra in quadro di operativi delle forze di sicurezza che già in dicembre avevano compiuto parecchi arresti e smantellato diversi covi di militanti. Ma avviene anche in una cornice politica delicata, sia a livello dei partiti – già in campagna elettorale – sia a livello sociale, con scioperi nel settore tessile che hanno visto circa 3mila licenziamenti e arresti di sindacalisti. Il segretario generale della Lega Awami Obaidul Quader ha detto ieri che un gruppo starebbe tramando per rovesciare il governo e uccidere il primo ministro Sheikh Hasina. Propaganda? Alcuni giorni fa – e non è certo il primo – è stato ucciso da un commando Manzurul Islam Liton, un politico della Lega Awami.
Sembra che l’obiettivo di Russia e Iran sia quello di trascinare l’opposizione siriana armata verso un progetto di lenti negoziati, pur godendo della libertà di circolare e violare il cessate il fuoco quando lo ritengano opportuno.
Sembra che l’obiettivo di Russia e Iran sia quello di trascinare l’opposizione siriana armata verso un progetto di lenti negoziati, pur godendo della libertà di circolare e violare il cessate il fuoco quando lo ritengano opportuno.
Un video dove le forze di sicurezza birmane prendono a calci un poveraccio che si nasconde la testa tra le mani e la foto di un bimbo riverso sulla sabbia a faccia in giù e senza più vita fanno il giro del mondo e risollevano la questione di una minoranza bistrattata e selvaggiamente perseguitata. Il piccolo Mohammed e il povero contadino preso a calci, divenuti virali sui social media finora attenti alla tragedia di Aleppo, sono due rohingya. Appartengono a un popolo in fuga che, dagli inizi di ottobre, scappa dall’ennesima persecuzione ai suoi danni.
Questa volta a scatenarla è stato l’eccidio di alcuni poliziotti birmani attribuito a un gruppo islamista radicale alla frontiera. Altre volte, e a più riprese, questa comunità musulmana di un milione di persone che abitano nello Stato occidentale birmano del Rakhine, è stata oggetto di violenze che l’hanno costretta alla fuga. Si stima che la metà dei Rohingya viva ormai fuori dal Myanmar mentre un quinto di chi è rimasto vive nei campi profughi nel Rakhine. Oltre trentamila sono invece la colonna infame dell’ultima fuga che, tra ottobre e dicembre, ha raggiunto le coste del Bangladesh. Un esodo che non si è fermato.
Finora, le pressioni sul governo birmano sono state praticamente inutili. Né ha ancora sortito effetti la lettera che una dozzina di Nobel per la pace e altrettanti personaggi pubblici hanno scritto all’Onu perché si faccia qualcosa. L’unica cosa certa è che Naypyidaw manderà a Dacca un suo inviato per “discutere” della questione. Poco quando le accuse sono di stupro, esecuzioni sommarie, violenze, incendio di villaggi…
Dopo il raid della vigilia di Natale che sabato 24 ha sgomberato il covo di uno dei due gruppi più pericolosi del Paese (Jamaat ul MujahedinBangladesh – Jmb), i giornali locali hanno dato la notizia dell’arresto di una ennesima fazione del gruppo terroristico che aveva progettato, secondo quanto ammesso dagli arrestati, un attentato la notte di capodanno. Con gli arrestati sono stati sequestrati 30 chili di esplosivo. Ma il colpo vero all’organizzazione, nota anche come Neo-Jmb (fondato nel 1998 il gruppo è stato messo al bando e la sua azione più nota risale ormai al 2005 ma avrebbe originato diverse fazioni), è stata l’operazione di sabato scorso definita Ripple 24.
Gli agenti hanno circondato il covo alle prime ore del mattino e ingaggiato una lunga battaglia durata sin quasi al pomeriggio nel corso della quale una donna si è fatta esplodere con una bambina in braccio (che è ferita ma si è salvata). Nello scontro a fuoco è stato ucciso anche un ragazzo di 14 anni. Azione controversa. Non era invece li Maynul Musa, che sarebbe il capo del Neo -Jmb e tra gli ispiratori dell’attacco alla alla Holey Artisan Backery di Dacca dove vennero uccisi nel luglio scorso 17 stranieri tra cui nove italiani. Dopo l’operativo l’antiterrorismo canta vittoria sostenendo che il Bangladesh controlla ormai le reti islamiste. Non sono chiari i rapporti del Neo-Jmb con lo Stato islamico.
di Anatole Pierre Fuksas (con l’assenso motivato e partecipato di Lorenzo Declich)
Da quando eravamo molto giovani abbiamo in comune un disprezzo sostanziale per le argomentazioni ideologiche basate sull’ignoranza unito ad una clamorosa inclinazione per il cazzeggio sfrenato. Nel corso del tempo abbiamo condiviso con molte altre amiche ed amici più o meno storici queste nostre due passioni.…
In Libano c’è un discorso che si sta diffondendo sempre di più e che cerca di capire il mal funzionamento del paese. Per molti il problema centrale è una differenza di potere e forza tra lo Stato e il sistema
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ISBN 978-88-99468-24-8
General overview on the Islamic State in AfghanistanArmed opposition groups stating loyalty to the Islamic State (IS) have tried to found a base in five Afghan provinces, but only in Nangarhar have they be successful. There, IS Khorasan Province (IS-Khorasan),
Debito e interesse nell’Islam e nel Cristianesimo Uno sguardo nelle scritture e nella prassi bancaria 14 Gennaio 2017 – Ore 15:30 Via dei Sesami, 20 – Roma
Provando a fare previsioni sul nuovo anno, in un’ottica politica e strategica, si ha sempre di più un’unica certezza: che non vi sono certezze e che qualsiasi fatto o avvenimento potrà subire colpi di scena e ribaltamenti!
mcc43 di Raniero La Valle Cominciò a Costantinopoli. La guerra alla Libia, o in Libia, o per la Libia, sembra che stia nel destino dell’Italia. Forse quando nella Costituzione all’art. 11 l’Italia ripudiò la guerra, si dimenticò di ripudiare anche quella con la Libia. Fatto sta che l’Italia nel 2011 ha partecipato alla guerra messa […]
È iniziato il 2017, l’anno degli anniversari importanti. Uno riguarda questa città, Gerusalemme. 50 anni dalla guerra del 1967, dalla sua unificazione forzata, dall’apertura dell’ennesimo capitolo di un conflitto che sembra senza fine. Dal disordine di un parcheggio che, per chi lo conosce, mostra tutti i segni di una città complessa, emerge la Cupola dellaContinua a leggere
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