Giorno: 28 febbraio 2014

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

Clicca qui per vedere il documentario.

 

 

 

Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

In tutto questo, chi continuerà a preoccuparsi di preparare il the?

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Marocco: “the o elettricità”? La (contro)parabola del progresso

Tre anni di riprese, un documentario (qui in versione integrale); il regista belga Jerome Le Maire racconta l’arrivo dell’energia elettrica in un villaggio sperduto dell’Atlante e i cambiamenti innescati nei suoi abitanti dal contatto con la modernità.

 

Le thé ou l’électricité (2012) è un paradigma, uno specchio su cui riflettersi e fermarsi a riflettere, spiega subito il regista Le Maire, che da alcuni anni vive in Marocco nei dintorni di Ouarzazate.

“Una sera, perso in una delle mie lunghe passeggiate, ero stato accolto in una casa di montagna, di quelle costruite in terra e legno. Scrutando i volti di quella famiglia, ipnotizzati davanti alla televisione posta al centro dell’unica stanza, ho avuto l’impressione di rivivere una scena di Hibernatus, dove Louis de Funès si risveglia sbigottito nel XX secolo.

Vi era uno sfasamento enorme tra quelle persone e l’epoca nella quale vivevano, quasi un viaggio nel tempo. Da allora un’immagine mi assilla: una parabola installata su un tetto di paglia e fango.

E’ la sovrapposizione di due simboli che fanno riferimento a due universi opposti: da una parte il passato – che è il presente di questa gente – ossia l’oscurità, il lavoro manuale, la lentezza, l’isolamento, i valori collettivi.. e dall’altra il nostro presente, la luce, la meccanizzazione, la velocità, la globalizzazione, l’individualismo, il materialismo..

Quello che ho voluto filmare, seguendo l’elettrificazione di una piccola borgata imprigionata a chilometri e decenni di distanza dalla contemporaneità, è l’incontro – o meglio la collisione? – di questi due universi”.

Le immagini del documentario si aprono sui costoni innevati; terre aspre, pendii impossibili e un piccolo villaggio berbero di pietra e malta, intagliato sul fianco ripido della montagna. Si tratta di Ifri. Trentacinque case e 300 abitanti circa, in equilibrio sui terrazzamenti e immersi in un’altra epoca, ad oltre 2 mila metri d’altitudine sulla catena dell’Alto Atlante.

Non ci sono strade né piste che conducono al paese, niente scuola, niente ospedale né acqua corrente. Qui si vive di magra autarchia (the, pane, raccolta e pastorizia). In inverno la neve ricopre ogni cosa, la gente tossisce e seppellisce i morti: “almeno 3 o 4 bambini muoiono ogni anno”, precisano davanti alla telecamera.

Per arrivare a Ifri, gli operai dell’Ufficio nazionale dell’elettricità (ONE) scoprono che devono camminare per oltre 20 km, su un sentiero sassoso invisibile all’occhio inesperto, dall’ultimo punto percorribile in 4×4. Portano con loro una buona notizia: il piano di elettrificazione rurale, lanciato dal governo negli anni ottanta, arriverà finalmente nelle loro case.

Ma gli abitanti sono scettici. Quello che chiedono da tempo è la costruzione di una strada, che faciliti i loro spostamenti e i loro scambi con la vallata. “La strada è come un’arteria che porta il sangue al cuore” spiega Ahmed, un anziano del villaggio.

A Ifri il dibattito è aperto. Alcuni inizialmente si oppongono, consapevoli di non avere le risorse per poter beneficiare della corrente. La maggioranza viene convinta dal caid (autorità locale e, guarda caso, direttore regionale dell’ONE) che l’elettricità attiverà un circolo virtuoso nella loro esistenza.

E la strada? Non ci sono i soldi per farla, ma certo faciliterebbe anche il compito degli impiegati e degli operai.

Così è sempre il caid a suggerire agli abitanti di costruirla loro, in attesa degli stanziamenti, offrendogli un trattore, un compressore e qualche carica di esplosivo.

I lavori vanno avanti per mesi, tre anni in totale, spezzati dal ritmo delle stagioni e dal ritorno brutale dell’inverno. Jerome Le Maire filma con costanza – 14 sessioni di riprese in solitaria – i contorni della tela che va tessendosi attorno al villaggio.

Gli abitanti lavorano gratuitamente, ogni giorno anche durante il ramadan, e offrono aiuto e riparo ai tecnici che si avvicinano lentamente alle case. Spuntano i piloni, vengono innalzati i tralicci e poi i cavi messi in tensione.

Intanto, ad Ifri, l’atteggiamento sta cambiando. Tra miraggi e fatalismo l’elettricità diventa un assunto insindacabile. I bambini osservano incuriositi la novità in arrivo – “la tv potrà insegnargli tante cose”, ripetono gli agenti dell’ONE – le donne sperano che la corrente, e di conseguenza qualche elettrodomestico, possa ridurre le loro fatiche quotidiane.

Risultato, ancor prima dell’allaccio alla rete gli abitanti sono già tutti indebitati: cavi, tracciati, centraline, burocrazia, abbonamenti…e ovviamente la televisione. Nessuno, a questo punto, vuole essere da meno del vicino.

La strada invece non è stata terminata. Appena si accendono le prime lampadine, il caid riprende trattore e compressore lasciando il villaggio nel suo isolamento. La sola via di fuga, la realtà virtuale del piccolo schermo tramite cui Ifri entra in contatto, passivo, con il mondo.

“La sensazione che cerco di trasmettere con le immagini è che si è trattato prima di tutto di un’operazione commerciale. L’idea era cercare nuovi abbonati, punto”, commenta il regista. “Non c’è alle spalle un movimento umano, sociale, ma solo la necessità di legare i villaggi marginalizzati alla sfera economica comune. Non c’è una reale volontà di farli uscire dall’isolamento. L’esempio della strada è emblematico: costa e non apporta niente nell’immediato. Con l’elettricità invece le autorità possono riempirsi le tasche”.

Le thé ou l’électricité – dicevamo – è anche la storia di un’implacabile modernità che avanza. Ifri cambia, i suoi abitanti sono diventati consumatori a cui vengono serviti nuovi bisogni. Compaiono i cellulari, le antenne paraboliche, mentre le viuzze del paese si svuotano, mutano le forme di socialità.

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Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
(Foto Sara Creta)

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Spagna-Marocco. I migranti nella morsa

La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.

 

(Foto Sara Creta)

 

“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.

E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.

Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.

Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.

In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.

L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.

Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.

“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia– prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?

La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?

Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.

 

Respingimenti sommari

Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.

L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.

I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.

I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.

Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).

Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.

La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.

 

Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat

A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.

Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.

In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.

Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.

I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.

Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaireso di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.

Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.

Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.

Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.

I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.

Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.

 

Sul terreno

Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.

Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.

Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.

Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.

Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.

La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.

La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.

La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.

Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?

Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.

“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

(Foto Jacopo Granci)

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia, rifugiati: dopo Choucha l’esilio?

Una settimana di protesta di fronte alla sede della delegazione UE a Tunisi, per chiedere il riconoscimento. Poi l’arresto, con la prospettiva dell’espulsione.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Il 9 febbraio scorso la polizia tunisina è intervenuta duramente contro un sit in di protesta organizzato da cittadini originari del Niger, Ciad e Sudan di fronte alla delegazione dell’Unione europea a Tunisi. Le forze dell’ordine hanno sgomberato l’accampamento che era stato allestito da una settimana, e portato via 20 persone, che ancora oggi risultano rinchiuse nel centro di detenzione di Wardia, riservato ai cittadini stranieri in situazione irregolare. Ora rischiano l’espulsione.

Si tratta dei déboutés, i “diniegati” di Choucha, migranti in maggioranza sub-sahariana che avevano fuggito la Libia durante l’insurrezione contro Gheddafi ed erano stati accolti sul suolo tunisino, nel campo frontaliero di Choucha, appunto.

In tre anni, sono centinaia le persone ad essere state trasferite in paesi terzi. Altre, stanche di aspettare, hanno preferito prendere la rotta del mare. Diversa invece è la situazione per chi è rimasto in Tunisia, vedendosi rifiutare lo status di rifugiato dagli uffici dell’UNHCR.

Circa 200 individui, intere famiglie, sopravvivono senza aiuti nelle tende di quel che resta del campo, ufficialmente chiuso dal giugno scorso.

“Le condizioni di Choucha non fanno che peggiorare”, racconta Emad, tra i dimostranti a Tunisi. “Nel deserto fa freddo e al campo non c’è né acqua, né elettricità né assistenza medica. Le persone stanno soffrendo molto. E’ un’emergenza umanitaria”.

E’ per ottenere una soluzione a questa emergenza che una rappresentanza di diniegati aveva deciso di installarsi di fronte agli uffici di Laura Baeza, capo della delegazione UE in loco. Ma la polizia ha deciso in altro modo, smantellando il sit in.

Insieme a loro, di fronte alla sede dell’UNHCR poco distante, c’erano anche altri manifestanti. Decine di sub-sahariani, a cui la commissione ONU ha riconosciuto il diritto d’asilo senza però concedere il trasferimento in paesi considerati più sicuri, come era accaduto in precedenza per altre centinaia di rifugiati transitati nel paese.

“La Tunisia vuole forse abbassarsi al rango dei paesi europei che maltrattano, arrestano e espellono i tunisini e altri migranti dal loro territorio?”, tuona in un comunicato il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES). L’avvenire si prospetta ancora più critico – fa sapere l’organizzazione – per quelle persone che, sprovviste di documenti di viaggio attestanti la nazionalità di provenienza, non possono essere espulse e potrebbero rimanere recluse a tempo indeterminato.

Nel documento reso pubblico qualche giorno fa il FTDES reclama “la liberazione immediata dei 20 rifugiati finiti in arresto e la concessione, nel più breve tempo possibile, dei permessi di soggiorno per tutti i migranti transitati da Choucha, come previsto da una disposizione governativa del luglio 2013 e come stabilisce la nuova Costituzione”.

Già, perché lo scorso 10 febbraio in Tunisia è entrata in vigore la nuova Carta e con essa l’articolo 26, che sancisce il diritto d’asilo e la protezione dei rifugiati.

Secondo rifugiati e diniegati, tuttavia, il testo di per sé non offre alcuna garanzia. “Ci vorranno tre anni prima che venga approvata una legge che metta in pratica questi principi”, commenta Emad.

 

* Ascolta la testimonianza da Tunisi raccolta dall’agenzia AMISnet

 

 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.
(Foto Art Solution)

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Tunisia. La danza è militanza

Breakdance, performance di strada. E’ la strategia scelta da alcuni giovani tunisini per lottare contro lo smarrimento e l’influenza dei gruppi religiosi più conservatori, nei contesti dove la marginalità sociale non è stata scalfita dalla rivoluzione.

 

(Foto Art Solution)

 

Organizzano corsi ed esibizioni in pubblico, affiancate da piccoli eventi artistici, in una cittadina dell’entroterra tunisino. L’obiettivo è estendere il fenomeno anche al resto del paese, dove  – per la verità – iniziative simili avevano già visto la luce nei mesi scorsi grazie al collettivo Art Solution e al progetto Je danserai malgré tout.

E’ a Sidi Ali Ben Aoun, una cinquantina di km a sud della più nota Sidi Bouzid, che è nato il gruppo di “B-boys”. I breakdancers si riuniscono ogni settimana, nei pressi del piccolo centro sportivo, per ascoltare musica e interpretarla con il linguaggio del corpo, provando così ad evadere l’impasse economica e mentale in cui si sentono relegati.

Una situazione che giova alle reti dell’estremismo religioso, radicatosi facilmente in una regione che attende ancora i frutti di una rivoluzione di cui è stata protagonista ma di cui a Tunisi sembra si sia già persa memoria.

Sidi Ali Ben Aoun è una borgata di 7 mila anime, con uno dei tassi di disoccupazione più elevati del paese, che trova nell’agricoltura la sua unica fonte di sostentamento. La città era salita agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando fu teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e alcuni esponenti salafiti.

Per arginare il dispiegamento della dottrina conservatrice e la fitta attività di reclutamento operata da questi gruppi sul territorio, Nidal Bouallagui – danzatore hip hop  di 26 anni – ha creato un’associazione culturale che cerca di motivare e coinvolgere i giovani concittadini.

In un’intervista rilasciata al New York Times, Nidal spiega che durante le rivolte di tre anni fa – oltre ai prigionieri politici – anche i criminali o i detenuti di diritto comune sono stati liberati dalle prigioni. Molti ragazzi del suo quartiere, con prospettive di facili guadagni, si sono lasciati attrarre “come calamite” dalle organizzazioni di trafficanti o dai nuovi predicatori che hanno rapidamente ripopolato le moschee.

Pur ammettendo di “non avere nulla, a priori, contro la religione e la forma in cui le persone decidono di vivere la loro fede”, Bouallagui riconosce la notevole influenza esercitata dai gruppi salafiti sui giovani in difficoltà, costretti a volte ad abbandonare la musica o le attività sportive.

Per cercare di allontanare questi ragazzi dall’estremismo, Nidal e gli altri B-boys stanno provando a fornire un’alternativa. La loro associazione non si limita a promuovere la “danza urbana”, ma anche corsi di street-art, graffiti, fotografia e teatro.

“L’importante è lavorare con la gente, stare a contatto con le persone e condividere momenti di socialità. Quello che ci interessa è agire sulla mentalità, erodere il sentimento di alienazione che da queste parti risucchia l’esistenza”.

Secondo il riscontro dell’attivista-danzatore, i giovani mossi da un interesse o da aspirazioni proprie diventano meno influenzabili e propensi a seguire l’appello dei predicatori e dei trafficanti. Ma la marginalità e il degrado vissuto a Sidi Ali Ben Aoun non si limitano certo all’attività dei nuovi gruppi salafiti, che sono piuttosto una diretta conseguenza al mancato soddisfacimento delle aspirazioni rivoluzionarie.

Ecco allora che la breakdance, il rap e le altre iniziative promosse dall’associazione di Nidal diventano sì una “forma di resistenza contro i dogmatismi sociali e religiosi”, ma soprattutto un messaggio liberato in mare. Quel mare chiamato governo che continua a promettere sviluppo e lotta al terrorismo senza riuscire ad incidere – almeno fino a questo momento – sulla difficile quotidianità dei suoi cittadini.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)