Giorno: 30 aprile 2014

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.


Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

La Tunisia “tra sale e sabbia”

Lontano dalla retorica e dalle dissertazioni teoriche “Siège entre sel et sable” dà la parola alle comunità locali colpite nel loro quotidiano dagli effetti del cambiamento climatico. Attualmente in fase di montaggio, il film rischia però di non vedere la luce per la mancanza di finanziamenti.

Una nouvelle vague cinematografica sta conquistando il paese. Grazie alla ritrovata libertà di parola e ad una maggior facilità di accesso alla tecnologia, sono sempre di più i giovani ad aver scelto la 7° arte come mezzo di espressione durante gli ultimi tre anni.

Sebbene il tema generale resti legato all’esperienza rivoluzionaria, alcuni esempi si distinguono per l’originalità nella selezione degli argomenti e la tenacia nel far fronte alla doppia sfida dell’autofinanziamento e dell’indipendenza del prodotto.

E’ questo il caso di Siège entre sel et sable, primo documentario a carattere scientifico in fase di realizzazione in Tunisia. Con pochi mezzi e tanta volontà, il giovane giornalista Radhouane Addala e il compagno d’avventura Sam McNeil sono riusciti a girare un film incentrato sugli effetti del cambiamento climatico nel paese.

Se infatti gli specialisti e i politici hanno spesso evocato l’importanza della “Strategia nazionale sul cambiamento climatico”, elaborata nel 2012, un vero dibattito in materia – sui rischi e sui provvedimenti possibili – non è mai stato aperto. Una delle ragioni che hanno spinto Radhouane a dedicarsi al tema:

“il nostro film serve prima di tutto a lanciare un capannello d’allarme sulle conseguenze e sui pericoli connessi al fenomeno. Gli aspetti su cui ci siamo focalizzati sono tre: la desertificazione al sud, l’innalzamento del livello del mare e le malattie legate al mutamento climatico”, afferma il giovane regista.

Il documentario non affronta il tema in maniera teorica o astratta, come è il caso della maggior parte dei film a carattere scientifico.

“A parte i militanti ambientalisti, gli accademici e i responsabili di governo, il film dà la parola alle comunità tunisine colpite nel loro quotidiano dal surriscaldamento. Nel sud, per esempio, è l’intero modello sociale ad essere a rischio a causa della desertificazione e dell’avanzata delle sabbie. Ogni anno gli abitanti perdono ettari di terreno coltivabile.

Migliaia di persone soffrono poi per la comparsa di nuove malattie. A Sidi Bouzid interi villaggi sono affetti da una particolare forma di Leishmaniosi cutanea che provoca cicatrici profonde e durature. I primi casi si sono registrati a metà anni ottanta ed oggi sono più di 60 mila le persone interessate da questa malattia riconducibile al fenomeno del cambiamento climatico”, spiega Radhouane.

Vedere e conoscere le vite in pericolo o i corpi sofferenti è senz’altro più efficace dei discorsi e delle dimostrazioni teoriche degli specialisti, per capire il fenomeno. Tuttavia, nemmeno le cifre – allarmanti – in circolazione devono lasciare indifferenti.

Alcuni esempi. La Tunisia tra qualche anno perderà 500 km di spiagge (attualmente ne conta 1300). Il cambiamento del clima provocherà un aumento notevole delle precipitazioni – 2% entro il 2030 – e l’innalzamento del livello del mare, facilitando l’erosione della costa che a sua volta farà indietreggiare le spiagge di circa 15 m. Tale erosione non sarà dovuta esclusivamente al mutamento climatico ma anche all’eccessivo sfruttamento delle risorse marine e allo sviluppo selvaggio delle strutture turistiche.

“Siège entre sel et sable cerca anche di analizzare le difficoltà a cui devono far fronte le isole Djerba e Kerkennah. La telecamera stringe il campo sulla triste e anarchica situazione che ha trasformato le due isole in un quasi deserto. La pesca industriale intensiva, che approfitta delle falle nella regolamentazione ambientale, ha provocato disastri nell’ecosistema insulare. Il saccheggio del mare e l’inquinamento hanno trasformato questi luoghi in una grande discarica”, aggiunge Radhouane Addala.

Il regista insiste sull’aspetto – fondamentale – dell’inquinamento e dell’assenza di una strategia di protezione ambientale applicata dallo Stato.

“Il degrado dell’ambiente è dovuto all’inquinamento ma anche alle modalità di sfruttamento delle risorse naturali – spiega -. Sono in molti ad approfittare della debolezza delle autorità. Nel sud alla frontiera con la Libia, per esempio, bracconieri libici e sauditi cacciano specie rare e migratrici. Di fatto vi sono delle zone di non-diritto che le autorità non hanno i mezzi né il coraggio di controllare”. 

Anche a Gabès i cittadini manifestano regolarmente contro l’inquinamento. Più di 1300 tonnellate annue di scarichi industriali vengono dispersi senza trattamento nel golfo omonimo. Qualche mese fa due fratelli sono morti in seguito ad un disfunzionamento fulminante del fegato.

“Occhi giallo-rossastri, urina di colore scuro…non si tratta di epatite A ma di un’altra malattia dovuta alla contaminazione dei rifiuti chimici. Per questo i medici preferiscono tenere la bocca chiusa”, confida Radhouane che ha documentato il dramma nel suo film.

Attualmente in fase di montaggio, Siège entre sel et sable rischia tuttavia di non vedere la luce a causa della ristrettezza dei finanziamenti a disposizione dei due autori. “Abbiamo lanciato un appello di sostegno attraverso una piattaforma di crowdfunding. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo (10 mila dollari) perché il soggetto non sembra interessare molto il pubblico. Ma non ci diamo ancora per vinti”.

 

(Traduzione dell’articolo di Henda Chennaoui per Nawaat)
 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.


In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

Il sistema mediatico algerino malato di propaganda e populismo

Ad una settimana dallo scrutinio presidenziale la campagna elettorale tocca il suo apice e tutti i mezzi sembrano buoni per raccogliere voti. Come il video musicale pro-Bouteflika che ha suscitato reazioni indignate nel paese.

In un’Algeria che ha conosciuto negli ultimi tempi un’estensione folgorante della sua capacità di connessione internet, quale peso hanno queste forme di propaganda in atto, non solo nei media tradizionali, ma anche sui social network? Ne parliamo con Belkacem Mostefaoui, sociologo della comunicazione e specialista del panorama mediatico algerino.

(Traduzione dell’articolo di Anaïs Lefébure per JOL Press)

 

Il videoclip pro-Bouteflika continua a suscitare polemiche. Due conduttori della trasmissione “Système DZ”, che hanno preso parte al video, hanno confessato di essere stati pagati. Da allora, la trasmissione è stata sospesa e il Presidente è accusato di censura. Quale riflessione è possibile fare, partendo da questo spunto, sullo stato della libertà di espressione in Algeria?

La società algerina è ormai abituata a tutto in materia di audiovisivo, dal divertimento estemporaneo alla propaganda più becera.. La polemica sul video pro-Bouteflika è un fenomeno che mostra come la regolamentazione del settore audiovisivo – e per esteso dei media che si appoggiano ad internet – è ancora estremamente difficile. Mostra anche le derive possibili dovute a questa mancanza di regolamentazione, accentuate dal fatto che ci troviamo in periodo di campagna elettorale. Siamo di fronte ad un tentativo di gonfiare il sistema di propaganda a favore di un preciso candidato, l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika.

In più, sembra che per confezionare il videoclip sia stato utilizzato denaro pubblico, altro indicatore delle derive populiste in atto. Alcuni artisti, come il comico Smaïn, si sono resi conto che erano stati utilizzati ed hanno reagito proclamando la loro buona fede.

Da un lato la popolazione algerina si sta aprendo a capacità di sviluppo impensabili quanto a comunicazione sociale e politica, dall’altro si trova di fronte a continue resistenze che le impediscono di consolidare questi spazi pubblici, dove si possono esprimere opinioni diverse favorendo l’edificazione di uno Stato di diritto oggi moribondo.

 

Ad inizio gennaio è stato adottato dal Parlamento il disegno di legge che apre il settore audiovisivo ai privati. E’ un buon segnale per il pluralismo mediatico?

Un testo di legge in sé non risolve i problemi del settore audiovisivo algerino, dove la diffusione dei canali satellitari ha lasciato un’impronta indelebile [a testimonianza del panorama asfittico presente in materia, della scarsa credibilità delle reti di Stato e del bisogno di informazione altra da quella preconfezionata dal governo, ndr]. Questa legge arriva in grande ritardo e le sue aperture – limitate – erano già previste nel testo sulla libertà di informazione approvato nel lontano 1990. Ripeto, non credo che avrà una grande incidenza e che porterà chissà quali cambiamenti.

 

Ci sono ancora temi tabù in Algeria?

Nel grande magma di opinioni e anonimato di cui si compone la società civile e mediatica algerina si dicono un sacco di cose.. Si può prendere in giro tutto, deridere la quasi totalità della scena politica nazionale, qualunque sia il grado gerarchico, civile o militare. Si può prendere in giro il Primo ministro, che si è messo in ferie per ricoprire il ruolo di responsabile della campagna elettorale di Bouteflika..

Però, a forza di poter dire tutto, è come se non venisse detto niente. Niente è in grado di suscitare vero scandalo o indignazione. Non vi è alla base un vero confronto in grado di edificare lo spazio pubblico, assolutamente deficitario in Algeria.

 

Quale posto occupano i nuovi canali di espressione e le reti sociali nel paesaggio mediatico nazionale?

Negli ultimi anni la capacità di connessione internet è aumentata notevolmente. La risposta è stata molto forte soprattutto dai giovani, che hanno subito cercato di sfruttare le nuove possibilità di comunicazione offerte.

Allo stesso tempo, essendo questa tecnologia arrivata in ritardo rispetto ad altri contesti, è stata recepita in maniera virale. La speranza era che i nuovi mezzi potessero da soli risolvere i problemi e le mancanze di un settore altamente sorvegliato, dopo 50 anni di controllo e monopolio statale. E si torna alla smania, al problema, di poter dire tutto e niente allo stesso tempo..

 

Che cosa pensa delle campagne di comunicazione dei candidati alle presidenziali algerine?

La nazione algerina, la società, sono cambiate. Ci si aspettava quindi un cambiamento – nel rispetto di principi etici e dell’approccio all’uditorio – anche dalla parte dei pretendenti alla magistratura suprema del paese. Invece assistiamo ad una propaganda anacronistica e straripante, come se i candidati avessero di fronte una massa indifferenziata di algerini pronti a credere a tutto quello che gli viene detto.

C’è un divario immenso e una rottura tra i discorsi ripetuti in questa campagna e le attese reali della popolazione, in particolare riguardo all’etica dei dirigenti politici, al sistema di corruzione che ha minato la vita pubblica del paese negli ultimi quindici anni. Nessuno ha veramente pagato per gli scandali emersi, innumerevoli restano quelli non emersi pubblicamente. Ma tutto procede come se niente fosse, senza alcun rispetto per la morale né particolari attenzioni alle strategie di comunicazione.

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

L’Algeria al voto tra proteste, scetticismo e violazioni

Oggi (17 aprile, ndr) gli algerini sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Il risultato appare scontato, con Abdelaziz Bouteflika che succederà a se stesso. Intanto si è chiusa una campagna sterile, segnata dallo strapotere dello staff presidenziale, dalla retorica populista dei candidati e dall’indifferenza di un elettorato che ha espresso ripetutamente il suo dissenso nei confronti di quello che considera ‘un gioco delle parti’. Sul paese restano le ombre pesanti di un sistema politico chiuso e di un futuro economico ancora interamente legato alla rendita petrolifera, destinata ad estinguersi.

 

E’ evidente, gli algerini non credono che lo scrutinio di oggi potrà cambiare gran ché nella gestione del potere politico – opaco, sfuggente – né in quella dei lauti introiti petroliferi che alimentano il gioco della rappresentanza e servono ad acquistare la pace sociale nei momenti in cui la rabbia e la hogra prendono il sopravvento (come nei primi mesi, caldi, del 2011 con lo sbocciare delle “primavere”).

Infatti, quella chiusa domenica scorsa, è stata una campagna incolore, monotona e poco partecipata, come ormai succede ad ogni votazione da oltre un decennio a questa parte.

Del resto, l’idea di un cambiamento possibile per vie elettorali era tramontata già negli anni novanta, con il colpo di Stato militare anti-Fis, le violenze/regolamenti di conti che ne sono conseguiti (oltre 200 mila morti) e la salda tenuta delle alte sfere dell’esercito dietro alla ripresa del paravento democratico.

 

La “campagna dello struzzo”

Nessuno stupore, dunque, di fronte al generale disinteresse mostrato dalla popolazione in queste settimane di comizi, meeting e conferenze. A parte le manifestazioni di protesta contro il quarto mandato Bouteflika e gli inviti al boicottaggio della consultazione ad opera di gruppi dissidenti, tra cui il sempre più attivo movimento Barakat (“Basta!”).

La campagna elettorale è semmai servita a ribadire il sentimento di impotenza dei cittadini e la percezione che i giochi siano chiusi in partenza.

Nessuno tra gli sfidanti del Presidente in carica ha osato evocare problematiche scomode, sebbene di primaria importanza per il paese, come la corruzione – che ha segnato i quindici anni di “regno Bouteflika” con picchi considerevoli durante l’ultimo mandato – il ruolo dell’esercito, con i suoi condizionamenti e le sue interferenze nella vita politica e istituzionale, e la necessità di una riconversione economica che faccia uscire le casse dello Stato dalla (quasi) totale dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi.

Una “campagna dello struzzo”, insomma, durante la quale “l’Algeria sembra essere tutt’altro paese rispetto alla realtà”, afferma il giornalista Amel Berkam. Realtà che vede la disoccupazione giovanile stabilmente sopra al 30%, larghe frange della popolazione toccate dall’emergenza casa e dalla mancanza di infrastrutture primarie.

Per sopperire allo scarso entusiasmo suscitato dai dibattiti pre-elettorali, negli ultimi giorni i candidati hanno alzato i toni del confronto lanciandosi in reciproche accuse e invettive.

Qualche esempio. Ali Benfils, un prodotto dello stesso apparato (Fln, ex partito unico e prima forza in Parlamento) che oggi sostiene incondizionatamente Bouteflika, e suo principale concorrente, ha messo in guardia da possibili irregolarità durante lo scrutinio, minacciando di scendere in strada se i risultati verranno ritoccati. Il presidente – che ha disertato la campagna a causa della malattia, limitandosi a fugaci apparizioni in tv – gli ha risposto senza mezzi termini accusandolo di “terrorismo”.

Uno scambio di “cortesie” creato ad arte per dare una parvenza di credibilità alla consultazione. E’ questa l’opinione più diffusa tra i cittadini, riporta Le Quotidien d’Oran, che invece sottolineano l’effettiva convergenza tra i vari attori in scena, tutti debitori – a vario titolo (ex premier, capi di partito) – di un sistema sull’orlo dell’implosione.

“Tra i candidati c’è chi ammette che il 17 aprile vi saranno frodi – definite candidamente ‘sport nazionale’ – e ciò nonostante invita gli elettori a non disertare le urne […]. Si tratta di un messaggio contraddittorio, che rafforza il pensiero in voga secondo cui queste persone avrebbero accettato di presentarsi ad un’elezione pur sapendo che il risultato è già confezionato, poiché deciso dal sistema di cui fanno parte”.

Il risultato in questione, ovviamente, è la riconduzione alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika – malgrado l’età e le pessime condizioni di salute – come male minore per gestire i conflitti di potere dietro le quinte e per dare un segnale di continuità, elevata a sinonimo di stabilità.

 

Censura e chkara

A prescindere da quello che potrà accadere nella giornata di oggi, quanto a ritocchi e irregolarità, già il periodo della campagna è stato caratterizzato da abusi e violazioni, segnalate – tra gli altri – da un duro comunicato dell’ong Amnesty International.

“La repressione condotta in questa fase preelettorale rivela le ‘enormi lacune’ che gravano sul bilancio del rispetto dei diritti umani in Algeria – si legge nel testo -. La libertà di espressione, di associazione e di riunione è costantemente minacciata, il diritto a manifestare è limitato e le ong restano immerse in un limbo giuridico. Inoltre, i gruppi di difesa dei diritti umani e gli inviati delle Nazioni Unite non sono i benvenuti, mentre gli attivisti e i sindacalisti indipendenti subiscono attacchi continui, per stemperare tensioni e malcontento di piazza”.

Nelle ultime settimane la televisione privata Al Atlas TV, colpevole di aver criticato le autorità, è stata costretta alla chiusura. Djazair TV ha subito, per lo stesso motivo, una limitazione delle frequenze, mentre i giornali Algérie News e Djazair News, per aver ospitato la conferenza stampa del movimento Barakat, si sono visti privare degli introiti pubblicitari gestiti dall’agenzia statale di settore.

Stando alla legislazione in vigore infatti, solo i media pubblici – schierati apertamente a favore della rielezione di Bouteflika – possiedono una licenza di diffusione senza restrizioni, mentre ai canali privati vengono concesse licenze temporanee che possono essere revocate in ogni momento e la stampa indipendente sopravvive a stento con lo spettro del boicottaggio pubblicitario.

“Le autorità si sono adoperate per controllare la narrazione della campagna elettorale, facendo valere il loro monopolio sui canali di espressione e limitando fortemente la libertà in questo campo. L’assenza di un vero dibattito pubblico e le restrizioni al diritto di critica e di protesta per esprimere rivendicazioni sociali o esigenze politiche adombrano più di un sospetto sulla regolarità di questa elezione”, afferma Nicola Duckworth, responsabile Amnesty per il paese.

Come se non bastasse, diversi giornalisti e attivisti internazionali per i diritti umani non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso per coprire la chiusura della campagna e lo svolgimento delle operazioni di voto, mentre più di una voce si è levata a denunciare la prassi della chkara, i fondi neri versati da lobby e uomini d’affari che avrebbero finanziato – con circa un milione di euro – la marcia di reinsediamento alla Mouradia di Bouteflika.

 

Dissenso, cittadinanza e futuro

Nonostante le minacce, la stretta sorveglianza e gli arresti preventivi che avevano colpito le frange dissidenti nei giorni scorsi, gli oppositori al quarto mandato del Presidente – e, più in generale, all’intero sistema di potere – non hanno rinunciato ad esibire il loro disappunto nei confronti dell’imminente “mascherata elettorale”.

Ieri pomeriggio gli attivisti del movimento Barakat hanno indetto un sit-in di fronte alla sede dell’università, nel cuore della capitale. La protesta è stata smorzata sul nascere – come sempre succede ad Algeri, dove persiste da oltre vent’anni il divieto di manifestare – dall’intervento violento degli agenti, che ha coinvolto anche alcuni giornalisti (algerini e stranieri) accorsi in loco per documentare l’evento.

Il giorno prima, le principali città della Cabilia – regione berberofona tradizionalmente ostile al governo – avevano ospitato migliaia di dimostranti scesi in strada per commemorare l’anniversario della “primavera berbera” (1980) e per incitare al boicottaggio della consultazione.

Il tasso di affluenza alle urne, in effetti, potrebbe rappresentare l’unica vera sfida di questa tornata elettorale. Una bassa partecipazione al voto sancirebbe in modo definitivo il distacco tra le elite (militari e politiche) al comando e la popolazione, ma anche in questo senso gli oppositori temono un attento maquillage da parte degli influenti servizi di sicurezza (Drs).

“Non recarsi ai seggi significa tradire la memoria dei martiri della liberazione” è la retorica sciorinata a tamburo battente, non a caso, da tutti i candidati. “Voi l’avete già tradita da tempo!”, ribattono a colpi di comunicati i militanti di Barakat. “Votare significa esercitare a pieno il proprio diritto di cittadinanza”, insistono Bouteflika e compagni. “Per loro siamo sudditi, si ricordano di governare dei cittadini solo in queste squallide occasioni”, contrattaccano i dissidenti, che hanno annunciato l’interruzione delle mobilitazioni per questo 17 aprile, giornata di “lutto nazionale”.

Cosa succederà, invece, a partire da domani?

In attesa dei primi risultati, sono in molti a chiederselo. Barakat sembra avere le idee chiare in proposito: “le dimostrazioni pacifiche continueranno, la tornata elettorale è servita ad unire le forze del cambiamento e a condensare malessere e frustrazioni che non spariranno di certo con la chiusura dei seggi”, dichiara a Osservatorioiraq.it Amira Bouraoui, portavoce del movimento.

La prospettiva di un rafforzamento della contestazione, piuttosto che di un suo lento estinguersi a scrutinio avvenuto, si sta ritagliando sempre più spazio tra i pensieri e le inquietudini delle autorità – che già promettono ritorsioni contro i “sabotatori” – e di una parte della popolazione.

“La rivolta è presente negli animi e a tutte le latitudini – ricorda il giornalista Fella Bouredji nell’articolo Cinq façons d’étouffer la révolte algérienne – anche se chi la manifesta in strada lo fa in modo sparso e non coordinato, dando l’impressione di un disordine minoritario”.

Il potenziale esplosivo è enorme, come si era già percepito durante la sollevazione “dell’olio e dello zucchero” nel gennaio 2011, a seguito di un aumento del prezzo delle merci. Così, se al dissenso politico si sommano le migliaia di proteste sociali, di scioperi registrati nel corso degli ultimi anni, l’ipotesi di una nuova “primavera” in versione locale non è da scartare del tutto, nonostante le ferite ancora aperte lasciate da un passato di violenze troppo recente.

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.
(Foto Jacopo Granci)

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

 

 

Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

(Foto Jacopo Granci)

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare.[…]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cementoè proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.