Giorno: 3 aprile 2014

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

Guarda la fotogallery completa dell’articolo su Osservatorioiraq.it!


 

Marocco. L’oro rosso non fa la felicità

Nel sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita sui mercati europei, difficilmente assicura – però – una vita decorosa a chi continua a tramandare una tradizione ancestrale.

(Foto Jacopo Granci)

 


La statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell’agrobusiness, la lingua d’asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici dell’Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.

A dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti nodosi di argan e i greggi di capre ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.

L’argan in effetti è un albero “magico” nella mitologia berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere preziosa, oggi, grazie all’uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.

Dopo le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L’argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d’india, accompagna il sentiero fino all’oasi pedemontana di Taliouine.

Poi si ferma.

I resti dell’imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine, infatti, si cambia terroir. Qui inizia il regno dello zafferano.

Spezia pregiata, conosciuta fin dall’antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e in terra indo-persiana, lo zaʻfrān(termine che nella lingua locale richiama la parola “giallo”, come il colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così dovrebbe.

 

Qualcosa che stona

Il Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all’Iran, l’India, la Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la conquista dell’Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico. Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell’Alhambra sarebbero state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del sud del Marocco.

Epopee a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla performance iraniana – che da sola copre circa l’80% del mercato internazionale – ma può fare affidamento sull’ottima qualità del prodotto, certificata da istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al tanto stimato zafferano del Kashmir.

L’aumento della produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo sviluppo del settore, votato essenzialmente all’esportazione (98%). Anche l’allestimento di un Festival in loco dedicato “all’oro rosso” rientra tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.

Siamo ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l’attività e per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.

E’ anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata c’è qualcosa che stona. Dello zafferano, all’interno della fiera, quasi non c’è traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.

Perché? Dove sono? “Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille metri d’altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni”, riferisce un funzionario comunale. Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.

 

Lo zafferano non basta

I primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida, dal sapore notturno, spazza l’altopiano. Tre ragazze – dorsi chini, corpi piegati a compasso – si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di rugiada, dove spuntano i germogli color malva.

“Bisogna cogliere i boccioli all’alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole corrompano le proprietà degli stimmi” spiega Lahcen – il padre – mostrando i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura, considerando la mondatura e l’essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230 mila. La metà del suo raccolto stagionale.

Un ettaro di terreno, in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra le famiglie della comunità.

Lahcen si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte riservata ai bulbi e l’altra coltivata a cereali. “In ogni caso lo zafferano – da solo – non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti”.

Già, a quale prezzo i contadini marocchini vendono il loro “oro rosso”? “Dipende dai periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 – 1,7 euro]” risponde il fellah. Un decimo del costo nel mercato italiano.

Sono le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto attorno ad un antico marabut(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del paesaggio. Un acquarello. Sotto l’azzurro del cielo, le vette aguzze e nere dell’Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell’Anti Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa, la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l’appartenenza.

Le sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito – come da tradizione – con la spezia locale. “Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro – commenta il contadino con aria disillusa – come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in tanto ci manda dei soldi”.

 

Il governo fa promesse..

Non è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse dall’Ocp (l’Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato l’1%. Un dato che trova conferma nell’indice di povertà, bloccato al 34%, ossia il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a progetti di cooperazione.

In alcuni dei douar più remoti della zona la popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La raccolta dello zafferano non fa eccezione.

Ad Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. “Il governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi non abbiamo visto niente” assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del gruppo.

“Il piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico dell’approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il pozzo che ora si rifanno sulle utenze” rincalza Hassan, il marito di Malika. “L’acqua la paghiamo 30 dirham l’ora, perché abbiamo la terra vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno si riducono”.

Allineate una a fianco all’altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto color ruggine punteggiato di gemme violacee.

Nonostante la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell’ambiente.

“In passato il pigmento di zaʻfrānera sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano”, racconta Malika. “Ora non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria”.

Arrivate all’ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si spostano vociando verso un appezzamento poco distante. “Andiamo a dare una mano ai vicini” butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di mercato.

 

Gli intermediari

L’ascesa del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all’estero, dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello percepito dai fellah. Chi approfitta di questo rincaro?

“Gli intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari. Si tratta di un’entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni”, risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all’economia solidale. “Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile”.

E lo Stato in tutto questo? “Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a passare nelle mani dei mediatori”.

Anche le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte – stando alle testimonianze ricevute – sono comunque costretti ad affidare la gran parte del raccolto all’economia informale, che specula sul loro isolamento. “Per uscire da questo far west ci vorrebbe una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza – commenta Haj Khemiss – Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero la differenza”.

 

L’emarginazione aumenta l’impotenza

Il sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi a proteggere l’accesso all’intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo ai pastori in transumanza.

Immersi nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia – sopravvissuti al bracconaggio che ne ha falcidiato la popolazione – sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la borgata spenta che sorge ai suoi piedi.

A prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta di un ighrem, un deposito fortificato con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni – bestiame e vettovaglie – in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama Ifri, parola che in berbero significa appunto “roccia”. E la sua quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco della favola incantata.

A questa altitudine infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi, hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze domestiche.

Sono loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie: irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l’imam.

Anche qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l’acqua potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi venduti al suk settimanale di Taliouine, a 12 dh il grammo. E’ il prezzo più basso. Il riscontro, inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l’impotenza nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.

Eppure gli abitanti di Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana, sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e all’utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso dalle apprezzabili proprietà curative.

Un’anziana donna racconta che lo zaʻfrān veniva correntemente impiegato per lenire i dolori dell’influenza, del parto e dello sviluppo della dentatura. “Era anche applicato sulle cicatrici dei neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L’ospedale più vicino è a più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non abbondano certo di medicine”.

L’oscurità ha ormai avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna intenzione di scendere a Taliouine.

“Servono i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata di lavoro”, ammette sconsolato Ahmed, che precisa: “se penso poi alle migliaia di dirham spese per organizzare l’evento, che porta al massimo qualche decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse”. Non ha tutti i torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati dell’oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente eufemismo.

 

(Foto Jacopo Granci)

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Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

“Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

“Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



Marocco

La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



Algeria

Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

“Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

Tunisia e Libia

Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



La terra e le sue risorse

Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

“Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

“Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

Democrazia amazigh?

“Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

“La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

Bandiera berbera

La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

“Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

“Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



Marocco

La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



Algeria

Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

“Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

Tunisia e Libia

Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



La terra e le sue risorse

Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

“Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

“Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

Democrazia amazigh?

“Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

“La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

Bandiera berbera

La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.

“Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi” un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l’arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il “tempo dell’ignoranza”. Nessuna traccia nemmeno dell’accanita resistenza che le popolazioni berbere dell’Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all’avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell’epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.

“Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all’arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all’impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica” racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. “Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti”.

Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all’affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazightnei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. “Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità”, puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.

Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinaghdurante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per “attacco ai fondamenti dello Stato”. Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.

Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva “Mai più piangerò in silenzio” per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un’altra figura di spicco dell’intellighenzia amazigh – Sdqi Azayku – completava la sua seconda raccolta di poesie “Le cicatrici”, restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi “straniero in patria”. Lo stesso Azayku, all’inizio degli anni ’80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.

Da allora il fermento culturale – che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti – si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d’avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.

Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. “All’epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana”.



Marocco

La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent’anni, mentre prima l’esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell’area, al momento dell’indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull’uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l’eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).

Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l’élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico – a questo proposito – l’esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni ’50 affermava: “Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti”. Dall’altra parte invece, la presenza di una monarchia di “genealogia divina” (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l’arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).

Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l’esistenza dei berberi è rimasta pertanto un’evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell’appartenenza territoriale – a seguito delle migrazioni interne – la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l’attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli “anni di piombo”, riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).

Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all’avvio dell’insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che – sommato alle ridotte competenze dell’Istituto – sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.

E’ in questa fase di stallo che l’arrivo della “primavera” ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del “20 febbraio” sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell’attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l’attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



Algeria

Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale – futuro partito unico – e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all’unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell’indipendenza.

Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un’appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l’Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all’uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh – gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni – venivano perseguitati o costretti all’esilio, la “primavera berbera” del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio ’88-’89.

“Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente – afferma Salem Chaker, professore all’Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni ’90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento”. Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.

Oltre all’esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l’opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato – agli occhi delle autorità – dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

Tunisia e Libia

Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. “Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche”, racconta l’avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e “volgare tradizionalismo”. L’obiettivo è “la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell’identità nazionale”.

Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata – data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità – inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato “l’eterodossia berbera” è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell’Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell’avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all’apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. “Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari” riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.

Nonostante l’alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere – tuareg in testa – si dichiarano oggi insoddisfatte dell’operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell’educazione abbia optato per l’insegnamento obbligatorio del tamazightnelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo – a maggioranza semplice – non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora “regolarizzata”, non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.

Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. “Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo”, confida Ben Khalifa. “Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell’esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l’afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell’Azawad. L’esecutivo si sta comportando in modo miope”.



La terra e le sue risorse

Le primavere del 2011 – oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo – hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall’attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario – “dignità, libertà, giustizia” – con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.

Di questo aspetto si era già avuto sentore nell’ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazighmarocchino e della Piattaforma d’El-Kseurdurante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come “movimento cittadino”. Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un’aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche “trasversali”, quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.

“Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente”, afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. “E’ un’esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l’assenza dello Stato. Non c’è desiderio di separazione – come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci – semmai la richiesta di un’inclusione che non è mai avvenuta”.

Per l’artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. “E’ la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzene che poi ha resistito con fierezza all’occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente”. Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, “i datteri marci”. Le loro iniziative – sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione – raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l’appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l’affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.

Se l’associazionismo e l’attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding – di proprietà del sovrano – che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l’esenzione – per gli abitanti – dal pagamento delle bollette di luce e acqua.

Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l’accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati – poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora “tutelate” dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.

Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell’Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, “siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione”. La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all’intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.

“Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale”, continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. “Basta guardare in giro, non c’è nulla – conferma l’attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?”. Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l’ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

Democrazia amazigh?

“Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica – conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba – sacralità del potere la sua ragion d’essere”. La richiesta di una costituzione laica e di un’effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all’avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.

“La berberità non si limita all’aspetto linguistico, è un sistema di valori”, continua Assid, portavoce autorevole del movimento. “Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l’imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali”.

La rivisitazione delle norme consuetudinarie – che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell’Atlante, nel Rif o in Cabilia – è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. “Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L’azerfamazigh, tra l’altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen“.

Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all’affermazione della shari’aquale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, “come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso”, ribadisce Salem Chaker.

E’ proprio ad un simile “bagaglio di esperienze ancestrali” – secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all’internazionale amazigh – che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. “Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L’alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una ‘democrazia maghrebina’ fondata sul rispetto dei diritti e della diversità”.

Riuscirà quest’alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una “cultura confinata ai margini dell’illegalità” – la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri – ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.

Bandiera berbera

La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
 

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

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E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

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“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

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Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

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Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

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E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
 

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
 

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

Leggi il resto dell’articolo sul sito della rivista Galatea!
 

Tamazgha! Se la “primavera” è berbera…

Il 2011 passerà alla storia come l’anno delle “rivoluzioni arabe”. Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l’espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l’apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)

 

[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata – ma sempre più coesa e solidale – che si estende dalla costa atlantica all’oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell’interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le “primavere” sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E’ questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh – termine preferito a “berberi”, ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa – hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l’autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight – lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali – lo status di idioma ufficiale al fianco dell’arabo.

“Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria”, chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. “La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell’insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all’anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l’accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni”. Più che un traguardo – dunque – si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l’adozione della nuova carta nel luglio 2011.

 

“Mai più piangerò in silenzio”

“Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare”, cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani – per lo più studenti universitari – della tawada, la “marcia” appunto. Un’iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta…..[continua]

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Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

Algeria: Bouteflika Barakat!

Centinaia di persone si sono unite nel movimento Barakat (“basta”) per dire no al quarto mandato consecutivo del presidente in carica. Il punto con Mehdi Bsikri, giornalista a El Watan e membro del collettivo di protesta.

 

 

(traduzione dell’articolo di Louise Michel D. per JOL Press)

Cosa ha significato per la società algerina la candidatura al quarto mandato di Bouteflika?

Non ho la pretesa di essere un portavoce dell’intera società algerina, ma di certo – almeno secondo i miei viaggi di città in città e le testimonianze raccolte – la popolazione manifesta la sua esasperazione. Non ne vuole sapere di una candidatura che significa la continuità di un sistema liberticida.

La maggioranza dei cittadini vuole uscire dalla sua condizione di sudditanza, vuole prendere la parola per dire “stop” alla cattiva gestione del paese, “no” alla corruzione endemica, “basta” allo sperpero di fondi pubblici. Vuole un rafforzamento legale delle istituzioni e delle amministrazioni, per garantire la sopravvivenza dello Stato. Il regime in atto ha svuotato di senso e poteri le istituzioni per continuare a dirigere il paese indisturbato, a danno del benessere degli algerini.

 

A che punto sono le mobilitazioni contro la rielezione di Bouteflika?

Sono in aumento e assumono forme differenti. Studenti, professori, medici, disoccupati, funzionari.. ognuno si mobilita a suo modo, pur convergendo verso il rifiuto del quarto mandato.

 

Quali sono le rivendicazioni del movimento Barakat?

Il nostro movimento non ha un vero e proprio inquadramento, è un collettivo militante di cittadini costituitosi in forma spontanea, indipendente dai partiti politici (non sostengono nessun candidato alle presidenziali, ndr). Si tratta di un movimento pacifico che esprime chiaramente il rifiuto della violenza, pur rivendicando un cambiamento radicale del sistema, non limitato alla facciata. Il nostro slogan è “no al sistema, no alla polizia politica, no al quarto mandato”.

 

Cosa significa esattamente Barakat?

Il significato della parola in arabo algerino è “basta”, ma lo slogan ha un significato storico per noi. Il popolo algerino gridava già “7 anni barakat” una volta acquisita l’indipendenza, dopo i tragici fatti dell’estate 1962 quando due clan dell’esercito – quello “dell’interno” e quello che durante la guerra di liberazione stazionava alle frontiere – entrarono in conflitto.

 

Da chi è composto il movimento e quali azioni propone?

Il movimento Barakat è composto da cittadini di profilo differente e insediati in diverse regioni del paese. Ciò che li lega è l’amore per il paese e la consapevolezza dei rischi per il futuro. Ci sono avvocati, giornalisti, medici, impiegati, architetti, artisti, attori, disoccupati, donne e uomini. Per noi non ci sono distinzioni né di sesso né di professione. Siamo tutti uguali, tutti cittadini.

Barakat si batte per uno Stato repubblicano e democratico, per un’economia sottratta alla dipendenza dagli idrocarburi e destinata all’implosione. Il movimento si scaglia contro le derive del sistema, sia in campo economico che dell’apparato di sicurezza. Per noi è tempo di salvare l’Algeria; se il paese continuerà ad essere governato in questo modo saremo indirizzati inevitabilmente verso il baratro.

Quanto alle azioni proposte, per il momento Barakat ha organizzato alcuni sit-in di fronte all’universale centrale di Algeri, nel cuore della capitale. Ne stiamo preparando altri, assieme ad una sorta di manifesto esplicativo delle ragioni del movimento.

 

Non si respira una sorta di fatalismo politico nel paese?

Al contrario. Gli algerini sono molto coscienti e politicizzati. Nonostante tutto, conservano la speranza di un cambiamento in profondità, un cambiamento pacifico e sereno. Sanno bene che le parole degli esponenti del regime non sono altro che subdola propaganda.

 

Quali sono oggi le priorità per l’Algeria?

Tante, forse troppe. Sui settori da riformare d’urgenza, molti analisti concordano: la giustizia, l’amministrazione pubblica, la sanità, l’agricoltura, la politica urbanistica, la distribuzione a tutti i cittadini di gas, acqua corrente ed elettricità.. solo per fare un primo elenco. Esistono delle competenze integre all’interno del paese, è ora di offrire loro una possibilità.

 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.


Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

L’Algeria verso il quarto mandato Bouteflika

Perché tutto rimanga com’è bisogna che “niente” cambi. Non è una svista, ma la riedizione dell’adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.

 

Fine della suspense, o almeno così sembra. All’età di 77 anni, in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.

Lo ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio dell’anno successivo.

Eppure le precarie condizioni di salute – complicate dall’ischemia della primavera scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia – lasciavano presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.

Quella del 3 marzo, fra l’altro, è stata la prima apparizione in pubblico di Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la diretta video – di pochi secondi – sono sembrate a dir poco incomprensibili per i telespettatori.

Pur malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue funzioni – e l’Algeria, ricordiamolo, ha un’organizzazione di governo spiccatamente presidenziale – l’attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per la quarta volta consecutiva, come favorito all’imminente appuntamento con le urne. Come è possibile?

 

La natura del regime

“Il regime algerino può essere concepito come un cartello economico – spiega il professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne), profondo conoscitore del paese – ossia un insieme di attori che controllano un ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano materiali o simbolici”. In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98% delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono da paravento democratico.

Questi attori, continua l’accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari, tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite “clan” dalla stessa opinione pubblica algerina).

“La sola che conta, alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell’accesso ai benefici che i rispettivi ruoli comportano”.

Uno statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione – dopo la ‘deriva democratica’ che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991) e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di violenze del ‘decennio nero’ – proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte sfere attorno alla figura di Bouteflika.

La conferma della natura opaca di un regime – di cui “è difficile definire i contorni” – arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche (direttrice dell’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain – Irmc – di Tunisi).

“E’ arduo azzardarsi in un’interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 – spiega l’accademica -. L’esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell’amministrazione di governo”.

Ed è proprio all’interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs – gli influenti servizi segreti guidati dal generale “Toufik” Mediene – in cui l’entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e bilanciamento.

E’ in questa ottica che – secondo gli analisti di Algeria Watch – deve essere letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha pubblicamente dichiarato che i servizi “oltrepassano le loro prerogative” interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti generali vicino al capo dell’intelligence.

L’obiettivo primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.

Una situazione che va avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono intervenuti in prima linea per condurre la “guerra sporca contro il terrorismo”. La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas – operazione interamente gestita dalla Drs – nel gennaio 2013.

Il secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la necessità – per i diversi clan che si muovono dietro le quinte – di trovare un nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l’occasione adatta, complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il “potere reale”.

 

La “tregua”

La ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale, secondo gli osservatori, che l’accordo sul “successore” non è stato raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di un’elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la stabilità del sistema.

Il quarto mandato rappresenta dunque una “tregua” – per usare un’espressione del politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) – nel confronto tra Drs e Stato maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.

Del resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche marcata inimicizia o l’eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i ministri dell’Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di corruzione assieme all’italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come co-gestionaria del potere tanto in patria che all’estero.

Il Presidente è comunemente riconosciuto come l’uomo della pacificazione, che ha traghettato l’Algeria fuori dalla scia di sangue della “guerra civile”. Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l’interesse nel preservare un clima di stabilità all’interno del paese.

I giochi, quindi, sembrano chiusi in partenza.

La riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo, questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una controfigura rodata – e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said Bouteflika, fratello e segretario del Presidente – è più che sufficiente.

Inoltre gli altri candidati all’appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il confronto con le urne.

I vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli partiti dell’opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo di figuranti – già devotamente assunto in passato – per dare legittimità alla competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.

Tutto questo senza fare i conti con l’intrusione dei servizi nella consultazione.

Se infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che “la natura autoritaria del regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato”, Mohammed Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: “il posizionamento a favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla Drs – l’Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal 1997 nell’esecutivo) – significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il generale Toufik e Bouteflika”.

 

La contestazione

Diverso è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur consapevoli della chiusura del panorama politico – dove le opposizioni democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando non fagocitati dal sistema – gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.

Proteste spontanee, sotto lo slogan barakat(“basta”), sono andate in scena in numerose città del paese – capitale compresa – sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).

Su internet intanto si scatena la frustrazione e l’amaro sarcasmo degli utenti che si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a personalità di spicco della società civile hanno formato un “coordinamento nazionale per il boicottaggio” che annuncia nuove mobilitazioni per i giorni a venire.

Di fronte al palesarsi del dissenso c’è già chi richiama lo scenario delle storiche contestazioni del 1988, le quali – nonostante la dura repressione subita – portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento nascente come un “tentativo di destabilizzazione manipolato dall’esterno”.

Proprio la paura del caos, del ritorno all’insicurezza e il pesante trauma ereditato dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento del budget destinato agli enti locali..).

Fino a dove, in questa fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?

Difficile prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in discussione, ma l’intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.

Per la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l’abituale rivendicazione socio-economica – tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la perpetuazione delle strutture esistenti – e alzare il livello dello scontro. Con la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque costo.

La storia recente – colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli accordi di Sant’Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni ’90 e quasi 20 mila persone tuttora “scomparse” – è lì a ricordarlo.

 

(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabiporta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahraganappare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.


(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
 

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
 

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

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Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
 

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
 

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)
 

Migranti. Nuove violazioni alla frontiera tra Spagna e Marocco

Le fotografie di Mikel Oibar e un video dell’ong Prodein documentano l’intervento della polizia marocchina in territorio spagnolo, venerdì scorso a Melilla, per “recuperare” i sub-sahariani rimasti intrappolati nel doppio reticolato che segna il confine tra il continente africano e la Fortezza Europa.

(Melilla, frontiera. Foto Mikel Oibar)

 

Le immagini mostrano gli agenti penetrare armati lungo il corridoio di frontiera – 12 km di ferro, tramagli alti 6 metri e filo spinato – sotto lo sguardo impassibile della guardia civil. Costringono i migranti a scendere dalle grate e li riportano in Marocco, senza procedura di riconoscimento né gli accertamenti previsti dalla legge (ley de extranjería).

“Nessun controllo di identità né garanzie per i richiedenti asilo. Una violazione in piena regola, oltre che una preoccupante cessione di sovranità” commenta José Palazon, responsabile di Prodein e attivista per i diritti umani all’interno della piccola enclave iberica. “Non è la prima volta che si verifica una simile intrusione, ma è la prima in cui disponiamo di una documentazione ineccepibile che le autorità non possono smentire”.

Per Palazon l’episodio si aggiunge alle decine di devoluzioni irregolari attuate negli ultimi mesi dalle delegazioni di Ceuta e Melilla, giustificate tuttavia dal governo con l’accordo bilaterale di riammissione raggiunto tra Rabat e Madrid (in vigore dal 2012) che semplifica l’iter di espulsione nelle zone “calde” affidate al controllo congiunto dei due paesi.

La tensione lungo il confine rimane alta dopo la tragedia che lo scorso febbraio ha portato alla morte di 16 migranti – annegati nelle acque di fronte a Ceuta, complici i proiettili di gomma e il gas sparati nella loro direzione dalla guardia civil – nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggia.

Anche sul versante marocchino la situazione sembra essere giunta al limite della sostenibilità. Se la “nuova politica migratoria” voluta dal sovrano Mohammed VI ha di fatto interrotto le deportazioni dei sub-sahariani verso il deserto algerino, le misure di accoglienza promesse sono inesistenti mentre le regolarizzazioni dei sans papiers avviate nel 2014 sono ancora numericamente irrisorie.

Intanto continuano i maltrattamenti e i rastrellamenti nelle montagne situate nei dintorni delle enclave spagnole, dove i migranti in attesa del “salto” vivono rifugiati in accampamenti di fortuna. A Fnideq, località di frontiera a pochi kilometri da Ceuta, una caccia all’uomo ha costretto i sub-sahariani ad abbandonare la vicina foresta e riparare nei sobborghi di Tangeri, a Boukhalef, quartiere-ghetto dove la popolazione nera si scontra – oltre alle estreme condizioni di povertà – con la diffidenza e le ritorsioni degli altri abitanti del posto.

I migranti in situazione irregolare che finiscono nelle retate della polizia, invece, vengono privati dei loro beni e allontanati forzatamente dalle zone di confine, il più delle volte trasferiti a Casablanca e a Rabat.

Tanto che nella capitale del regno è in atto una vera e propria “emergenza umanitaria“, stando alle dichiarazioni rilasciate dal personale Caritas, che si è visto costretto a chiudere i temporaneamente i locali a causa dell’enorme afflusso. Secondo l’organizzazione, nell’ultimo periodo, sarebbero circa un centinaio al giorno i sub-sahariani depositati e abbandonati nella stazione della città, senza cibo, coperte né altra forma di assistenza.

(Articolo pubblicato su Osservatorioiraq Medioriente e Nordafrica)