Giorno: 6 aprile 2017

Radicalizzazione e movimenti sociali: stesso contesto, battaglie diverse

. Henda Chennaoui Nonostante la repressione, i movimenti sociali sono in continuo aumento in tutte le regioni della Tunisia. Mentre i sit-in degli operai della fabbrica di cavi al Kef proseguono da una decina di giorni, gli abitanti di Tataouine sono al loro tredicesimo giorno di contestazione e non sembrano pronti a rinunciare al diritto allo sviluppo regionale, al lavoro […]

Space of Refuge Symposium Report

Originally posted on Refugee Hosts :
On Wednesday 15 March 2017, Samar Maqusi, Prof. Murray Fraser (both of UCL-Bartlett School of Architecture) and Dr Elena Fiddian-Qasmiyeh (UCL-Geography and Refugee Hosts PI) convened a symposium on Space of Refuge. The symposium drew heavily on Maqusi’s PhD research in Jordan and Lebanon, enabling a conversation around the roles that space and scale play…

The True Cost

Sabato 8 aprile 2017

Terra Equa Bologna (vedi il programma intero)

Terra Equa quest’anno ha dedicato il suo Festival del Commercio Equo e dell’Economia Solidale al tema della moda, del tessile, dell’abbigliamento, degli accessori.
Per toccare con mano che cosa significa Made in Dignity, Fashion Revolution, Slow Fashion, Abiti Puliti.

Ecco la composizione tipica del prezzo di una maglietta prodotta in Asia e venduta nell’Unione Europea, come riportata dal quaderno di Equo Garantito Tessile, il filo rosso. L’industria della moda tra diritti e business: 
3% costo della manodopera
5% dazi e trasporti
6% costi generali di produzione
11% materiali
15% costi e profitti del marchio
60% tasse, costi e profitti del distributore.

Ore 18 Sala cinema e parole
The True Cost

“Uno dei più bei film che ho avuto occasione di guardare al Festival di Cannes 2015” – Huffington Post / “Questo film sconvolgerà tutto il mondo della moda” – The Guardian

Proiezione del documentario The True Cost (versione originale, sottotitoli in italiano), presentato al Festival di Cannes nel 2015, che racconta le storie delle persone che producono i nostri vestiti, l’impatto dell’industria della moda sul nostro mondo e qual è il vero costo della maglietta da 10 € che indosso.

Intervengono:
Linda Triggiani (C’è un mondo – Terra Equa)
David Cambioli (altraQualità)
Deborah Lucchetti (Fair Coop. Soc. – Campagna Abiti Puliti)
Emanuele Giordana (giornalista, saggista e direttore di Lettera22)

In collaborazione con “Tutti nello stesso piatto”, Festival Internazionale di cinema e videodiversità
Per l’occasione saranno presentate le campagne internazionali in corso per la difesa dei diritti dei lavoratori del settore.

Le mire di Mosca e l’islam radicale in Asia Centrale

Samarcanda, piazza Registan.
Sotto una mappa dell’Uzbekistan

L’ondata di arresti seguita ai fatti di San Pietroburgo porta dritta a una pista che dalla tradizionale rotta ceceno-daghestana arriva in Asia Centrale, la nuova frontiera da cui Mosca teme adesso un’ondata di violenze dirette o meno che siano dal Califfato di Raqqa. Un progetto che peraltro non ha fatto molta strada nell’Azerbaijan o nelle cinque repubbliche dell’ex Urss ai confini orientali di quel che fu l’Impero zarista e poi l’Unione sovietica. Eppure, se un timore islamista esiste, sono proprio le turbolente aree caucasiche ancora sotto diretto dominio russo a impaurire gli Stati orientali che temono un contagio dal Daghestan o dalla Cecenia anche se pubblicamente non lo ammettono. La bestia nera delle cinque repubbliche dell’Asia centrale è invece, pubblicamente, l’Afghanistan, la terra dei talebani, agitata come uno spauracchio per reprimere il dissenso islamista e non. Per Mosca l’Asia centrale resta comunque una preoccupazione perché il controllo di quelle terre gli è ormai in gran parte sfuggito di mano anche se gli accordi con la Russia prevedono la difesa militare dei confini in caso di conflitto. Lo si è visto con la presa di Kunduz in Afghanistan per alcuni giorni nel 2015. Sui confini è scattata l’allerta e una massiccia presenza di militari russi.


I Paesi dell’Asia centrale hanno un’antica tradizione islamica ma è solo l’Uzbekistan il Paese che potrebbe temere, a ragione, la pressione dei gruppi radicali armati. Naturalmente, come altrove, i conflitti in Afghanistan/Pakistan e nel vicino Caucaso settentrionale – e così la più recente guerra siriana e, a suo tempo, la guerra in Iraq – sono stati il motore di un revivalismo radicale che sembra aver assecondato la diffusione di movimenti salafiti e wahabiti e infine la partenza di foreign fighter verso l’estero per aderire alle brigate islamiche internazionali in vari Paesi. A volte i numeri hanno una certa rilevanza ma il fenomeno sembra abbastanza ridotto. L’Uzbekistan è un caso a parte: l’obiettivo del governo è sempre stato quello di far terra bruciata attorno al Movimento islamico dell’Uzbekistan (Mui), al punto che si era arrivati a proporre ai talebani, agli inizi del 2001, persino un riconoscimento dell’Emirato in cambio dell’espulsione dei militanti Mui dall’Afghanistan. Creato nel 1998 con l’obiettivo di rovesciare il regime e instaurare una forma di governo conforme alle leggi islamiche, il Mui si è alleato con i Talebani e Al Qaeda. Nel 2015 ha espresso fedeltà al Califfato di Al-Bagdadi creando una spaccatura tra i suoi membri, molti dei quali non hanno aderito alla svolta. I suoi combattenti sono attivi soprattutto in Pakistan. Oltre 1500 uzbechi militerebbero all’estero in gruppi come il Mui o la Jamaat Imam Bukhari. Lontano però dai confini russi.

Se all’epoca sovietica il controllo su moschee e madrase era ferreo, le cose cambiano con la “liberazione” dal tallone di Mosca ma l’enfasi sul nazionalismo e un ambiguo atteggiamento verso la religione intesa soprattutto come stampella del potere, hanno finito per rivitalizzare l’islam centroasiatico favorendo la nascita di sezioni locali anche di movimenti transnazionali islamici. La risposta dei governi è stata soprattutto repressiva e con la tendenza a fare di ogni erba un fascio senza grandi distinzioni. Secondo diversi analisti le preoccupazioni che riguardano la sicurezza sono in realtà da leggersi, in molti casi, in chiave interna: preoccupazioni insomma che derivano più da un timore per la stabilità dei governi – in una situazione di povertà crescente per la crisi del greggio e del rublo e per l’incertezza nella successione interna delle leve di potere – che non per la paura reale di un contagio o di un’espansione dell’islamismo esogeno armato. In sostanza i Paesi centroasiatici avrebbero cioè utilizzato e utilizzerebbero il “pericolo jihadista” anche per contenere le spinte dal basso che possano mettere in difficoltà (come già avvenuto in passato) il sistema di potere locale. Lo stesso per il narcotraffico, attività economica sotto traccia che consente il transito di oppio e oppiacei prodotti in Afghanistan anche se, scrivono i due ricercatori C. Bleuer e S. Kazemi, «Il rischio in termini di sicurezza che lega l’Afghanistan alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale viene di frequente altamente esagerato e così il presunto collegamento tra narcotraffico e gruppi radicali islamisti. In realtà in tutta l’Asia Centrale i principali attori del narcotraffico sono impiegati governativi, agenti della sicurezza e personaggi legati alla mafia…». Anche qui c’è ovviamente uno zampino dei russi, destinatari dell’eroina afgana. Naturalmente un rischio islamista, benché sovrastimato, esiste ma, avvertono gli studiosi, in quest’area si fa più affidamento alla repressione che al dialogo. Un metodo che in Asia Centrale hanno imparato da Mosca.