Giorno: 20 aprile 2016

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Almeno sulle competenze di Lorenzo Trombetta siamo d’accordo, per tutto il resto vanno benissimo le differenze di opinione e i confronti. Mi permetta tuttavia di fare una considerazione, se lei pensa che io sia una mosca bianca all’interno di SiriaLibano, o ha letto poco sul sito oppure ha frainteso il mio pensiero. La mia posizione non è manichea come lei vuole fare sembrare, anzi tutt’altro, in un confronto a voce si stupirebbe di scoprire come io sia molto critico verso la galassia ribelle e come dopo 5 anni di conflitto la mia soluzione per la Siria non sia proporre il collasso del sistema statale siriano. Ma ogni articolo ha vita a sè, non si possono sempre ribadire concetti e a volte si va in controtendenza là dove il filone principale dell’informazione si appiattisce su verità parziali o false narrative. Mettere in luce contraddizioni, o evidenziare alcune dinamiche daì più non considerate non equivale a parteggiare per la parte opposta. Tuttavia se ha il piacere di leggere Trombetta e con me è così polemico, tralasciando le specifiche competenze (quelle di Lorenzo sono certo superiori alle mie) qualche cosa non torna … conosco molto bene Lorenzo Trombetta e su una cosa posso mettere la mano sul fuoco, la pensiamo alla stessa maniera sui crimini di Asad e sulle violazioni dei diritti umani del regime siriano. Le dirò di più, la sorprenderebbe scoprire che forse io sono meno radicale verso il regime siriano di quanto lo sia Lorenzo. La ringrazio comunque del confronto. A.Savioli

Come si salva il mondo islamico?

Di Ufuk Ulutaş. Akşam (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Marta Calcaterra. L’islam è una delle religioni che annovera più fedeli al mondo. La civiltà islamica non permette di condurre analisi geopolitiche senza tenerla in considerazione, avendo fondato stati nelle aree più critiche del mondo per moltissimi anni. Nonostante ciò, da molto tempo si ha la necessità di […]

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Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di Davide

Grazie per la (le) risposte e per la pazienza che ha dimostrato in questo botta e risposta. Di certo non abbiamo le stesse idee su determinate cose, ma in fondo questo spazio serve proprio a questo. Le ho scritto che si sbagliava perché volevo farle capire che non necessariamente chi la commenta e la pensa in maniera diversa “ha poca dimestichezza con la materia o non ha visto quella realtà da vicino”, come ha detto lei. Seguo questo sito essenzialmente per gli articoli di Lorenzo Trombetta, che ho avuto il piacere di leggere (con qualche riserva) e al quale riconosco di essere uno dei pochi a produrre letteratura sulla questione siriana. Mi sono poi fatto incuriosire dal titolo del suo articolo e dopo averlo letto non ho potuto fare a meno di commentare, da appassionato della materia (come altri avevano già fatto qui ed in altri articoli scritti da lei, ottenendo più o meno le stesse risposte che ha dato a me).

Per fortuna ha puntualizzato (ma me ne ero accorto leggendo alcuni altri articoli di diversi autori) che la sua posizione non è necessariamente quella di SiriaLibano, altrimenti mi sarei visto costretto a scartare un altro sito di informazione parziale.

Arrivederci e grazie comunque per il confronto

Commenti su Allearsi con Putin nella lotta allo Stato islamico? di redazione

Gent.Le Davide, dal momento che continuo a sbagliarmi, che chiudo il commento “facendo ridere” e che evidentemente capisco poco di Siria smetta di leggermi, risparmierà il suo tempo e farà risparmiare tempo anche a me che le rispondo. La sua domanda, se io abbia messo piede in Siria dall’inizio del conflitto non ha senso e dovrebbe porla anche a chi entra in Siria embedded e scrive realtà parziali o distorte, inoltre mi consenta di dirle che mettere i piedi in un paese non equivale sempre a capire e comprendere le dinamiche di quel paese.
Visto che è interessato al mio curriculum le posso dire che in Siria ho trascorso 14 anni e che da 5 frequento con assiduità l’Iraq. Pur non avendo messo piede in Siria dall’inizio del conflitto,sono in contatto con persone che entrano in Siria regolarmente, amici e non, e non tutti hanno simpatizzato per la rivoluzione del 2011, alcuni di loro sono alawiti e cristiani. Ho una rete di conoscenze e contatti nel paese che sento con regolarità, alcuni nei territori dello Stato islamico. Il riferimento ai sunniti, all’est del paese, alle tribù, e all’Anbar iracheno non è casuale, poichè in quelle zone ho lavorato 10 anni a stretto contatto con le tribù locali le cui dinamiche sono sconosciute alla maggioranza dei commentatori.
Onestamente non so se sia capitato su SiriaLibano (SL) casualmente o se abbia avuto modo di leggere altre cose, tuttavia se si volesse prendere la briga di visitare il sito con rif. ai pezzi del 2011 e 2012 vedrà che l’interesse principale è stato quello di dare spazio alla società civile siriana e denunciare le violazioni. Per questo motivo non mi devo smarcare da gruppi armati o da movimenti salafiti per i quali non parteggio (e nemmeno da paesi a cui non va la mia simpatia), non ho brindato alla caduta di Idlib per mano della Nusra e Ahrar ash-Sham, e non la considero una liberazione.
Le violazioni dei diritti umani per me non hanno colore, pertanto il link che lei mette non capisco cosa dovrebbe dirmi, SL è stato forse il primo sito italiano a denunciare le violazioni di brigate ribelli ad Aleppo e Raqqa, e non ha risparmiato nemmeno critiche al Jesh al-Islam, ne abbiamo parlato relativamente al sequestro di Razan Zeituneh. Dal momento che lei considera HRW una fonte di riferimento e la definisce neutrale (e mi compiaccio di questo), ne faccia uso anche quando la stessa organizzazione denuncia Asad per l’uso ripetuto di cloro, ordigni non convenzionali (cluster e barrel bombs), torture, detenzioni e violenze sulle donne, e per alcuni dei maggiori massacri avvenuti in Siria. Sono io a sorridere quando mi cita HRW per denunciare i ribelli siriani, ma ignora la stessa fonte quando denuncia ripetutamente il presidente siriano che lei considera “legittimo”.
Riguardo a tutto ciò che penso, è scritto nero su bianco nei miei pezzi, non c’è bisogno che puntualizzi ulteriormente il mio pensiero. Ad ognuno spetta poi la comprensione o l’interpretazione, anche se a volte sbagliata, ma non posso perdere i pomeriggi a mettere i puntini sulle “i”.
Cordialmente,
Savioli

Sergei Lavrov presenta la nuova Costituzione siriana

Di Rajeh Khoury. Al-Arab (18/04/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. Secondo un rapporto diplomatico, il segretario di Stato americano, John Kerry, in occasione della sua ultima visita a Mosca è stato sorpreso dalla presentazione da parte del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, della bozza della nuova Costituzione siriana. Il ministro Lavrov sembra averlo […]

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Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

* Ascolta la puntata su Wikiradio

Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

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Quel giorno d’aprile a Giava quando nacque il Terzo Polo

Bandung è una città indonesiana di Giava famosa per i suoi giardini. I notabili ci andavano e ci
vanno in vacanza perché le verdi colline di quel paesaggio riposano la vista e in qualche modo rinfrescano l’aria. A un certo punto della Storia, quella con la S maiuscola, diventò una capitale. La capitale di un movimento. Il movimento dei non allineati. Era il 18 aprile del 1955, la seconda guerra mondiale era finita da dieci anni e il nuovo assetto uscito da Yalta aveva diviso il pianeta in due grandi sfere di influenza e dato le racchette per giocare a palla col mondo a due soli tennisti: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Si prospettava un pianeta pacificato e retto su un equilibrio geostrategico, garantito dalla guardia dei due grandi blocchi: il ”mondo libero”, come si chiamava allora, e il “mondo comunista”. Ognuno poteva dipingere il suo nemico come preferiva.
E si perché, nonostante tutto il mondo pacificato restava un mondo in guerra e l’equilibrio era un equilibrio del terrore dopo che le bombe a Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che l’uomo può uccidere milioni di persone e contaminare il territorio dove vivono per secoli premendo un bottone.

Nehru

La Guerra Fredda, combattuta soprattutto con la deterrenza del terrore fornita dal possesso dell’atomica, non fu un tempo senza guerra. Si combatteva lontano – come in Vietnam o nell’Africa della decolonizzazione – oppure con armi apparentemente meno letali: la propaganda, gli 007, lo strangolamento commerciale, la fornitura di armi a piccoli gruppi insurrezionalisti o a eserciti che agivano anche in conto terzi. Era un mondo strano quello della Guerra Fredda. Per noi era un tempo congelato. Per altri un periodo bollente e colorato di sangue. Urss e Usa, gli acronimi sulla bocca di tutti, comandavano. Gli altri eseguivano, con agende nazionali che potevano funzionare solo se in linea con gli interessi delle due grandi potenze. Ma qualcosa stava per cambiare. Qualcuno voleva minare le regole del gioco o, se volete, prendervi parte. Qualcuno voleva smettere di essere solo un comprimario, smettere di lavorare come fa un mezzadro col suo padrone. L’appuntamento venne deciso a Bandung.

Krishna Menon

L’infanzia del movimento dei paesi non allineati si fa risalire alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 Stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a sostegno della pace e del disarmo internazionale, per il superamento del colonialismo e il rispetto dei principi di autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza fra gli Stati e di non ingerenza nei reciproci affari interni. Alla conferenza di Belgrado del 1961, in cui il movimento si costituì ufficialmente, si respingeva la logica dei due blocchi contrapposti, si proponeva di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo. Gli Stati aderenti si proponevano una politica di ‘neutralismo attivo’ che rivendicava un «nuovo ordine economico internazionale».

Bandung doveva essere in realtà solo il luogo preparatorio di quella che che poi doveva diventare, a Belgrado appunto nel 1961, la nascita ufficiale del Movimento dei non allineati, di questo terzo incomodo che vedeva un pericolo nel bipolarismo Usa Urss e che, a un’opposizione Est – Ovest preferiva una dottrina che divideva in mondo in Nord e Sud: poveri contro ricchi in due parole. Ma Bandung fu qualcosa di più di una semplice Conferenza afroasiatica cui parteciparono gli asiatici. Venne coniato il termine “spirito di Bandung” ed è a Bandung che fu coniata la locuzione Terzo mondo, dove quel terzo indicava bene cosa i non allineati avevano in mente. Un documento in dieci punti concluse la Conferenza che segnò anche il primo incontro tra strategie diverse che cercavano un punto comune: dal pacifismo dell’indiano Nehru, al neutralismo del cinese Zhou Enlai. Il messaggio di apertura fu affidato all’indonesiano Sukarno, l’anfitrione dell’incontro

Sukarno era uno dei grandi artefici della nascita del Movimento e con lui il primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru. Ma c’era anche il secondo presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, il presidente iugoslavo Tito e il primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, nomi noti per quella che è stata chiamata: The Initiative of Five, l’iniziativa dei cinque. Ma non ci sono solo loro: c’è anche il grande artefice della politica estera cinese, Zhou Enlai. C’era il Pakistan, l’India, l’Iran, il Vietnam – del Sud ovviamente – e persino l’Afghanistan. C’è il regno cambogiano di Norodom Sihanuk. L’Africa è invece largamente sottorappresentata anche se ci sono figure di spicco come Nkrumah e ovviamente l’Egitto di Nasser. Chi erano questi protagonisti? Chi erano i cinque o più di quell’iniziativa? Lo vedremo e vedremo anche chi, dietro le quinte, aveva lavorato a costruire la dottrina e chi, ancora dietro le quinte, aveva organizzato l’evento. Due persone in particolare: l’indiano Krishna Menon – il vero architetto teorico del non allineamento – e l’indonesiano Ali Sastroamidjojo, il primo ministro che presiederà i lavori che si concluderanno il 24 aprile.

Gli anni Cinquanta sono gli anni della decolonizzazione e dell’imperialismo. La prima non è ancora

Il movimento esiste ancora ma non è
più la stessa cosa

finita se è vero che dovremo aspettare sino al 1994 per vedere in Sudafrica la fine dell’apartheid, l’aspetto più odioso della tradizione coloniale. L’imperialismo invece è il modo – negli occhi dei non allineati – con cui il bipolarismo ricatta il resto del mondo. Molti di questi Paesi hanno in realtà rapporti sia col mondo americano, sia – soprattutto – con quello sovietico, ma il nuovo equilibrio che propongono ha un suo senso. Talmente reale che la caduta del muro e la fine dei blocchi renderanno quasi vuoto il significato di un movimento che esiste ancora oggi e di cui è segretario generale il presidente iraniano Rohani. L’architettura del non allineamento nasce da più menti e in più nazioni ma la Storia riconosce a Krishna Menon il merito principale: il merito di averla compiutamente già elaborata a partire dai prima anni Cinquanta, facendone un pilastro della politica estera indiana e citando il termine in un discorso alle Nazioni unite. Menon è un nazionalista, amico di Nehru, l’uomo che, con Gandhi e il Partito del Congresso, è adesso a capo di un India indipendente dal 1947. Di Nehru si sa tutto e così della sua dinastia, continuata con la figlia Indira, lei pure presente alla Conferenza di Bandung. Di Krishna Menon si sa poco. Ma alcune sue frasi piccanti sono rimaste nella storia come quella riguardo alla sincerità degli Stati Uniti equiparabile – dice Menon – alla possibilità di “incontrare una tigre vegetariana”

A Bandung gli onori di casa li fa Kusno Sosrodihardjo Sukarno, Bung Karno, il compagno Sukarno. A Bandung, dove la via centrale della cittadina si chiama Jalan Asia Afrika, Sukarno è all’apice della sua carriera politica e del consenso. Anche se ci sono voluti quattro anni per strappare definitivamente il potere agli olandesi nel 1949, Bung karno ha proclamato l’indipendenza dell’Indonesia già nel 1945. Governa da dieci anni: è un eroe nazionale che ha saputo corteggiare più di un amicizia e tenere in piedi un equilibrio precario tra il Partito comunista, uno dei più forti dell’Asia, un mondo rurale arretrato e spesso conservatore e un movimento islamico che non sempre gli è amico. Bandung è il suo trionfo in politica estera. Dieci anni dopo, il 1965 segnerà la sua fine e la fine dell’esperimento di “democrazia guidata” che, per i generali golpisti indonesiani, era il segno di una debolezza filocomunista. Quanto ad Ali Sastroamidjojo, il suo primo ministro, è uomo che conosce la politica estera quanto quella interna. E’ stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Canada, in Messico ed è capo del Partito nazionalista di Sukarno. Dal 1957 al ’60 è il Rappresentante dell’Indonesia all’Onu. Il colpo di stato del 1965 gli risparmierà la vita ma chiuderà, come per Sukarno, la sua carriera politica. Era stato lui a comperare negli Stati Uniti l’attuale residenza diplomatica indonesiana. Costava circa 300mila dollari. Altri tempi.

Zhou Enlai

Un uomo per tutte le stagioni è invece il primo ministro e ministro degli esteri cinese Zhou Enlai. Per lui, l’uomo che aveva partecipato alla conferenza di Ginevra del ’54 sulla questione indocinese e corena, che aveva negoziato coi nazionalisti di Chang Kai Shek e che negli anni Settanta negozierà l’ingresso della Cina all’Onu e darà luce verde al processo che porterà Washington e Pechino a parlarsi, Bandung è l’occasione per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale. Per dare statura alla rivoluzione di Mao che Zhou ha contribuito a creare. La sua carta è la parola “neutralità”, una formula che ha poi marcato per sempre la politica estera dell’Impero di mezzo. L’11 aprile del 1955 Zhou Enlai ha una carta d’imbarco per la Kashmir Princess, un aereo affitato dall’Air India alla Cina per la Conferenza di Bandung. Sull’aereo, dove ci sono funzionari e giornalisti, viene piazzata una bomba che esplode mentre l’apparecchio è in volo. Si salvano in tre. Ma Zhou Enlai, la probabile vittima sacrificale di un probabile team di attentatori nazionalisti, non è su quella lista. Ma non è nemmeno tra i morti. Ha cambiato programma all’ultimo minuto e sulla Princess non è mai salito

A Bandung l’Occidente non c’è. Con qualche eccezione. C’è infatti la Iugoslavia di Josip Broz Tito: l’uomo che sarà il primo segretario generale del Movimento eletto a Belgrado nel 1961 al primo vertice che segue di qualche anno Bandung. Il comandante partigiano è a capo della Federazione iugoslava dal 1945 e qualche anno dopo ha rotto con Stalin e l’Unione sovietica pur essendo tra i fondatori del Cominform, il primo forum internazionale comunista nato nel ’47. Proprio il Cominform, su pressione di Mosca, espellerà la Iugoslavia di Tito mettendolo in difficoltà ma non per questo distogliendolo dal suo progetto di una via nazionale al socialismo. Per Tito dunque, la carta di Bandung ha un peso importante. L’uomo che ha tenuto assieme serbi e croati riesce a creare l’ambito di alleanze dove potersi muovere e fare affari senza essere obbligato a sottostare ai diktat di Mosca. Tito morirà in una clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno e dieci anni prima che il suo Paese sprofondi nel caos e torni alle antiche divisioni. In base al numero di politici e delegazioni di Stato presenti alle sue esequie, il suo sembra sia stato il maggiore funerale di Stato della Storia dopo quello di Papa Woytila. C’erano quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, rappresentanti di 128 Paesi. Ma i suoi vecchi amici di Bandung non ci sono già più. Il grande vecchio li ha seppelliti quasi tutti.

Nasser e, sopra, Tito
Sotto: Nkrumah

C’era Fidel Castro ai funerali di Tito ma non c’era Sukarno, né Nehru, e nemmeno Gamal Abdel Nasser, il secondo segretario generale del Movimento dal 1964 al 1970. Nasser diventa presidente dell’Egitto in realtà nel 1956 ma nel 1955 a Bandung viene accolto assai più che come un capo di Stato. E’ l’uomo leader del mondo arabo, un fervente anticolonialista, un uomo che ha una visione panaraba e coraggio. L’uomo che avrà il coraggio di proclamare la nazionalizzazione del Canale di Suez, il simbolo allora della servitù nei confronti degli ex padroni coloniali. Paradossalmente, a risolvere la crisi di Suez nel ’56, dopo il bombardamento del Cairo e l’occupazione di Port Said da parte degli anglo-francesi, saranno proprio Usa e Urss. La crisi segna una battuta d’arresto ma a Bandung è stato un trionfo: prima di arrivare in Indonesia, Nasser viaggia in Afghanistan, Pakistan, India e Birmania. A Bandung media tra filo occidentali, prosovietici e neutralisti e fa passare risoluzioni che appoggiano la lotta anti francese in Tunisia, Marocco e Algeria e il diritto al ritorno dei palestinesi. C’è una foto a Bandung che lo ritrae coi notabili yemeniti, sauditi e palestinesi. Gamal è l’unico a non portare il capo coperto

L’ultimo giro di giostra è per Kwame Nkrumah, al secolo Francis Nwia-Kofi Ngonloma. E’ noto anche con l’appellativo di Osagyefo, il redentore. E’ un rivoluzionario del Ghana di cui diventa presidente ed è famoso per essere stato il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. E’ un panafricano convinto. La sua idea era che i Paesi africani dovessero federarsi e, solo in questo modo, sfuggire alle logiche che avevano fatto del continente africano la più grande colonia del pianeta. Bandung era per Nkrumah l’esportazione ideale della sua idea di indipendenza. E’ morto lontano dal suo Paese, rovesciato da un colpo di Stato a cui aveva fornito consenso la sua gestione autoritaria del Paese. Ma la sua presenza a Bandung fu determinante per dare a quell’incontro anche la patente di africano. Il suo sogno è adesso nelle mani di sua figlia Samia, a capo del ricostruito Partito della Convenzione del popolo.

E’ l’ora di tirare le somme. Quali? Il Movimento esiste ancora ma non esiste più, forse, lo spirito di Bandung. E in un mondo ormai non più bipolare e che oscilla tra l’unipolarismo e il grande caos, forse ha ancora senso quella battuta di Krishna Menon: abbiamo ancora da incontrare una tigre vegetariana!

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