Le notizie e gli approfondimenti più importanti della settimana in 5 minuti! A cura di Giusy Regina
L’articolo La settimana di Arabpress in podcast – X puntata sembra essere il primo su Arabpress.
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Watch the video of the press conference
5 € for 10 km: support Overthefortress’ campervan
A two-month trip from Sicily to Rome inside and…
Accomunati da una sola ideologia e divisi da un gran numero di interpretazioni e di modus operandi, gli islamisti politici continuano a sfuggire a una definizione precisa
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Dal 6 al 21 dicembre 2016 all’Università degli Studi di Milano (Via Festa del Perdono, 7 — Atrio Aula Magna) è in esposizione la mostra…
Nel cupo e tetro cielo d’Europa, la Resistenza è la luce che brilla.
Le collaboratrici familiari in Libano, tra diritti negati e rivendicazioni
via Migrano http://ift.tt/2h8Cgd8
Le feste natalizie si avvicinano e vogliamo proporvi qualche idea per dare un tocco mediorientale alle vostre tavole quest’anno: da oggi fino alla fine dell’anno, vi proporremo ricette preparate in occasione dei festeggiamenti natalizi dai cristiani in Medio Oriente, specialmente in Libano. Iniziamo subito con questo “finger food” leggero, ma davvero gustoso: i fatayer con spinaci! Ingredienti: […]
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Le feste natalizie si avvicinano e vogliamo proporvi qualche idea per dare un tocco mediorientale alle vostre tavole quest’anno: da oggi fino alla fine dell’anno, vi proporremo ricette preparate in occasione dei festeggiamenti natalizi dai cristiani in Medio Oriente, specialmente in Libano. Iniziamo subito con questo “finger food” leggero, ma davvero gustoso: i fatayer con spinaci! Ingredienti: […]
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Nonostante gli obiettivi di sviluppo sostenibile, la disoccupazione, la corruzione e la povertà sono ancora una dura realtà per il Marocco
L’articolo I marocchini denunciano disoccupazione, corruzione e povertà sembra essere il primo su Arabpress.
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Lo Stato di Rakhine al confine occidentale |
Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di
violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). E’ la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
Vijay Nambiar, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. E’ solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012. E’ in questo quadro di violenze, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese che da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere. Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanamr non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza.
Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere. Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati Uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare. Solo la Malaysia ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato proprio l’altro ieri con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola “genocidio” non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Per Annan ci vuole «tempo e pazienza». E’ probabilmente al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
Lo Stato di Rakhine al confine occidentale |
Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di
violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). E’ la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
Vijay Nambiar, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. E’ solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012. E’ in questo quadro di violenze, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese che da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere. Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanamr non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza.
Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere. Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati Uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare. Solo la Malaysia ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato proprio l’altro ieri con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola “genocidio” non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Per Annan ci vuole «tempo e pazienza». E’ probabilmente al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
Lo Stato di Rakhine al confine occidentale |
Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di
violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). E’ la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
Vijay Nambiar, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. E’ solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012. E’ in questo quadro di violenze, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese che da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere. Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanamr non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza.
Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere. Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati Uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare. Solo la Malaysia ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato proprio l’altro ieri con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola “genocidio” non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Per Annan ci vuole «tempo e pazienza». E’ probabilmente al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
Lo Stato di Rakhine al confine occidentale |
Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di
violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). E’ la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
Vijay Nambiar, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. E’ solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012. E’ in questo quadro di violenze, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese che da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere. Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanamr non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza.
Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere. Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati Uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare. Solo la Malaysia ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato proprio l’altro ieri con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola “genocidio” non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Per Annan ci vuole «tempo e pazienza». E’ probabilmente al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
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Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di
violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). E’ la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
Vijay Nambiar, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. E’ solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012. E’ in questo quadro di violenze, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese che da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere. Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanamr non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza.
Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere. Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati Uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare. Solo la Malaysia ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato proprio l’altro ieri con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola “genocidio” non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Per Annan ci vuole «tempo e pazienza». E’ probabilmente al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
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