Giorno: 31 dicembre 2016

Buon anno a Dacca

Ora la città sembra addormentarsi e, mancano dieci minuti a mezzanotte del 31, le strade diventano silenti. E’ solo che stasera la gente è tutta in casa a festeggiare. Le élite negli hotel a cinque stelle, mi dicono, gli altri nelle abitazioni, siano slum o alloggi popolari. E così il traffico-ossessione-di-questa-città riposa anche lui e con lui  le vostre orecchie. Ma ormai mi sono riappacificato con questa città che di primo acchito ti spaventa: sembra non avere identità ed essere solo un’accozzaglia di macchine e rikshaw (ce ne sono 150mila), di clacson e umanità, sporcizia e un mare di rifiuti. Mi sono riappacificato perché, come sempre, bisogna andare oltre. E, soprattutto in Asia, avere pazienza. Lo sapevo, lo so ma ogni volta ci casco.

Ti assale – in questi luoghi tentacolari – un panico sconfortante a metà tra l’idea che non si riuscirà a combinare nulla e l’idea che le ore passeranno inesorabili nello sconforto di una città senza volto. Ma quel volto c’è. C’è un’identità e persino un carisma.C’è un fascino. Perdersi è l’unica strada. Mi metto in tasca la Lonely Planet (davvero ben fatta per quel che ho visto e scritta da un viaggiatore attento e profondo) e mi aiuto con le mappe, percorsi consigliati, qualche buona dritta. Poi mi lascio trascinare. Prendo la barca sul fiume che attraversa Old Dhaka e poi, dopo un tè, la riprendo all’indietro. Dietro la puzza c’è un profumo. Dietro un’umanità che appare disperata c’è un sorriso e una curiosità che si riflette in gentilezza. Una gentilezza delicata e mai invasiva. Un modo di fare che a tutta prima sembra chiuso e scortese e invece è rispetto per gli estranei. Immaginavo una città violenta e oscura. E’ solare e gentile. Inquinata, certo, e sporca e con una densità tale che si ha sempre l’impressione di essere sul filobus che va in stazione nelle ore di punta. Eppure nessuno si tocca. Tutti e tutto ti sfiorano.

In città ci sono pochissimi semafori e,  soprattutto,
sono spenti. Come facciano a guidare senza
scontrarsi di continuo resta un mistero glorioso

Questo fascino nascosto della città forse più caotica al mondo non si può spiegare. Né si può spiegare perché io preferisca il caos del centro città ai quartieri di Banani o Gulsham dove una piccola Londra, passando per l’India, è sbarcata anche qui: viali ordinati, alberi e negozi come li vedi ovunque. Capisco chi ci vive perché lavora qui, ma per un viaggiatore sono non luoghi senza senso. Ma che senso abbia il resto, il quartiere di Shantinagar dove sto io, non saprei dire. Non c’è un palazzo antico, un parco pubblico, un ristorante degno di questo nome. Eppure passano queste seducenti ragazze con la carnagione scura e gli occhi a mandorla nei loro abiti eleganti e piccole taverne di strada offrono succulenti banchetti. Mi spiace solo non poter bere quell’intruglio di una specie di scorzonera mescolata con foglie di agave che deve fare benissimo ma è condita con acqua di dubbia provenienza. Guardo il maestro di tanta pozione prepararla con cura accovacciato all’incrocio dove sfrecciano autobus sfregiati e tutt’intorno sfrigolano fritture di pasta e patate. Più in là, venditori di ogni bendiddio in una città che è un bazar perenne di oggetti e rumori. Baccano che diventa colonna sonora di sottofondo. Diamine, ecco perché sono venuto. Ecco la sorpresa. Anche se non posso bere la tua acqua magica, maestro, potrò ben raccontare di averla vista preparare.

Tornando a casa

…nell’esilio perenne di cui parla con saggezza Zygmunt Bauman… Tornare a casa alle quattro della mattina in Sicilia, per un ritardo estenuante della Ryanair, riporta alla memoria consuetudini che hanno segnato la vita per anni e anni. L’arrivo dall’Italia col volo notturno a Tel Aviv. Atterraggio alle 2, lungo controllo passaporti, uscita alle 3 dall’aeroporto.Continua a leggere

Tornando a casa

…nell’esilio perenne di cui parla con saggezza Zygmunt Bauman… Tornare a casa alle quattro della mattina in Sicilia, per un ritardo estenuante della Ryanair, riporta alla memoria consuetudini che hanno segnato la vita per anni e anni. L’arrivo dall’Italia col volo notturno a Tel Aviv. Atterraggio alle 2, lungo controllo passaporti, uscita alle 3 dall’aeroporto.Continua a leggere

Tornando a casa

…nell’esilio perenne di cui parla con saggezza Zygmunt Bauman… Tornare a casa alle quattro della mattina in Sicilia, per un ritardo estenuante della Ryanair, riporta alla memoria consuetudini che hanno segnato la vita per anni e anni. L’arrivo dall’Italia col volo notturno a Tel Aviv. Atterraggio alle 2, lungo controllo passaporti, uscita alle 3 dall’aeroporto.Continua a leggere

Pugno di ferro a Dacca. C’è una lacrima sulla tua maglietta


Quando gli operai delle fabbriche tessili di Ashulia sono tornati al lavoro dopo la fine, lunedi scorso, della serrata, molti di loro hanno trovato ad aspettarli la lettera di licenziamento. O, come si dice qua, di “temporanea sospensione”, una formula legale che preannuncia l’espulsione dalla fabbrica. Ma non era una lettera normale. Era la fotografia del loro viso accompagnata dal foglio di via. Appesa al muro. Una lista di proscrizione, antica come le più oscure forme di ricatto, sposata, come vuole la modernità, con la nuova comunicazione tecnologica, così che tutti possano vedere la tua immagine sbattuta in pasto a chi farà bene a non seguire il tuo esempio. Succede a Dacca, capitale del Bangladesh, sede di importanti distretti industriali di quella che è la gallina dalle uova d’oro di un’economia che cresce al 7%: il tessile. Vestiti, magliette, jeans con marchi di fabbrica americani, inglesi, italiani…Made in Bangladesh.

Sarebbero circa tremila gli operai e le operaie (l’80% della forza lavoro del settore) a spasso ormai da giorni. L’evoluzione della protesta è stata rapida e del tutto autonoma. Autonoma e rapida è stata la risposta – con la serrata – di padroni e forze di polizia, che qui hanno una struttura dedicata – la industrial police – famosa per intimidazioni, minacce e, se serve, una bella battuta.

500 Tk:Il costo di un pranzo in un ristorante
 di lusso. Ma con dieci volte questa cifra
una famiglia operaia deve vivere un mese
 

Comincia tutto il 12 dicembre ad Ashulia, una zona suburbana di Dacca a una ventina di chilometri a Nord dal centro città. Tra gli operai delle fabbriche girano volantini che rivendicano un nuovo minimo sindacale. L’ultimo, è stato fissato tre anni fa e ammonta a 5300 Taka ossia circa 65 euro al mese. Visto che un terzo del salario se ne va in affitto, un chilo di riso costa 50 tk e il trasporto pubblico è quasi inesistente, la rivendicazione – un aggiustamento al triplo – sembra una richiesta più che legittima. Alla Windy cominciano le prime agitazioni spontanee che in pochi giorni si estendono a macchia d’olio: o ci date l’aumento o incrociamo le braccia. Il 14 la patata e già bollente e la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea), l’associazione di settore degli imprenditori, va in fibrillazione. Ci sono i primi incontri con le associazioni dei lavoratori ma la linea rossa, ribadita nei giorni a seguire, è che il salario minimo non è in discussione. La Bgmea, il cui obiettivo è arrivare a fatturare – dagli attuali 30 – 50 miliardi di dollari l’anno con l’export del tessile, non ne vuole sapere. Col passare dei giorni la tensione aumenta: il 21 dicembre l’agitazione coinvolge 59 fabbriche e centinaia di lavoratori. E mentre viene decisa la serrata (terminata il 26 su richiesta della premier Sheikh Hasina) si accende la macchina della repressione. Uno per tutti, il caso di Ibrahim, della Bangladesh Garments and Industrial Workesr Fderation. Il sindacalista viene arrestato con tre altri leader sindacali e per tre giorni sparisce. Quando finalmente colleghi e famiglia sanno qualcosa di lui, il caso è passato alla magistratura con cinque capi di imputazione e per adesso nessuna cauzione possibile per farlo uscire. Non lo hanno picchiato – spiega un suo collega – ma «è stato sottoposto a minacce e avvertimenti», pressioni psicologiche esercitate, come le foto del loro licenziamento, anche verso gli operai. Se i leader sindacali sono in manette almeno altre duecento denunce pendono sul capo di altrettanti lavoratori. La legge usata per arrestarli o accusarli è un vecchio residuo legislativo del 1974, la Special Law, varata  (dopo l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan (1971)  e mai emendata o abolita.

Una pubblicità di Benetton. Fu coinvolta
nella vicenda del Rana Plaza e fece una pessima
figura. Ora che farà?

Parliamo con uno dei leader sindacali di cui è meglio, in queste ore, non fare il nome. Spiega che i sindacati stanno offrendo a governo e padroni un ramoscello d’olivo. «Ma – dice – devono accettare di sedersi al tavolo e negoziare e non vogliono farlo». Il problema, aggiunge un altro sindacalista, è che «il governo non è un mediatore terzo. In parlamento non ci sono lavoratori e così alla fine l’esecutivo fa quel che dicono i padroni». Questi ultimi hanno lamentato perdite in questi giorni di agitazione per oltre un miliardo di euro e non ne vogliono sapere di discutere del minimo anche se deve essere rinegoziato, per legge, ogni cinque anni. I diversi sindacati di categoria invece, hanno eletto un Comitato proprio per definire correttamente il valore del salario garantito: un paniere che contenga calorie, bisogni sanitari, costo degli alimenti. «Una cifra dignitosa – dice una collega – dovrebbe essere almeno 200 dollari al mese». Ma da questo orecchio nessuno ci sente.

Un Paese ignorato dai media
e anche dall’Accademia, salvo
 rare eccezioni. Eppure vestiamo
tutti…. Made in Bangladesh

I lavoratori però ci sentono eccome anche se la loro provenienza è extra urbana, mancano di istruzione e hanno il terrore di perdere il posto di lavoro. Un esercito solitamente di fantasmi silenziosi il cui unico vantaggio rispetto al lavoro informale, è che in fabbrica si lavora otto ore, anche se ti vengono scalati i minuti per andare in bagno. Chi è questo lavoratore del tessile lo spiega David Lewis, docente della London School che al Bangladesh ha dedicato nel 2011 uno dei rari libri* su questo Paese: “E’ una giovane donna appena arrivata da un villaggio, che vive in affitto negli slum vicino a una fabbrica o un’area speciale (Export Processing Zone) dove lavora a macchina per circa un dollaro e mezzo al giorno…la fabbrica la mette faccia a faccia con le contraddizioni e la complessità di un’economia globalizzata: può esser di proprietà coreana, con tessuto di Taiwan, filo indiano e imballaggi cinesi. Ma ma i capi prodotti portano tutti l’etichetta Made in Bangladesh».

Il prodotto finito arriva a Seul o a Taipei ma anche a Londra, Parigi, Milano. E’ il motivo per cui è nata la Campagna Clean Clothes (Abiti Puliti in Italia) che dopo il Rana Plaza – quando il mondo ha cominciato ad accorgersi del Bangladesh – è riuscita a far fare qualche passo avanti sul piano della sicurezza. Ora denuncia gli arresti e le intimidazioni. Deborah Lucchetti di Abiti Puliti si unisce al coro: «Chiediamo alle imprese italiane che operano nel Paese di chiedere immediatamente al governo del Bangladesh il rilascio dei sindacalisti arrestati, di comunicare dove sono detenuti, di ritirare le accuse infondate nei loro confronti e di cessare ogni ulteriore forma di repressione nei confronti di chi legittimamente esercita il diritto fondamentale di espressione e organizzazione».

Dieci Taka: nemmeno 15 centesimi di euro
Ci si beve un tè con una pastella fritta
ripiena di patate. C’è chi sopravvive così

Il clima a Dacca è di paura. I sindacalisti con cui parliamo sono stati intimiditi, minacciati, avvertiti che non devono organizzare riunioni né muoversi dai loro uffici. Ma, chiediamo, è una questione di prezzi troppo bassi sul mercato internazionale? «No – sorride il sindacalista – se il prezzo delle merci fosse più alto il guadagno non verrebbe redistribuito. Ci sarebbe solo più profitto per i proprietari».

Nel piccolo ristorante su una strada iperaffollata, alcuni minorenni servono ai tavoli. Guadagnano 230 tk al giorno che, al mese, fa circa 6mila tk, più del salario di un tessile. Ma, anziché andare a scuola, lavorano 16 ore al giorno e per sette giorni su sette. Lavoro informale e senza le garanzie di una fabbrica. Garanzie? La “sospensione temporanea” è solo un modo per dire che d’ora in poi la fabbrica non ha più bisogno di te.

Lewis D., Bangladesh Politics, Economy and Civil Society, Cambridge University Press, 2011

Questo reportage è uscito  oggi su il manifesto