Giorno: 17 ottobre 2016

Tunisia. Gafsa, dove la ricchezza scompare e l’inquinamento resta

E’ nel bacino minerario di Gafsa, nel cuore del paese, che tutto è cominciato. I cittadini, stanchi di essere depredati della ricchezza dei loro fosfati, erano scesi in strada già nel 2008. E lì sono rimasti, nonostante la violenta repressione.

“La Tunisia mormorava ancora quando noi stavamo già gridando, urlando la nostra collera”. Per Alaa, giovane chimico, l’essere originario di Redeyef è una ragione di orgoglio. Per tornare a casa, nel cuore del bacino minerario di Gafsa, bisogna viaggiare per oltre 5 ore da Tunisi.

E’ qui che cinque anni fa è germogliata la rivoluzione tunisina che ha poi rovesciato Ben Alì.

“Era il mese di gennaio del 2008 – ricorda Alaa – La compagnia dei Fosfati di Gafsa (CFG), unica industria della regione e principale fonte d’impiego, rese pubblici i risultati truccati di un concorso di reclutamento. Non era la prima volta. Ma noi abbiamo deciso che sarebbe stata l’ultima!”

  

UN MOVIMENTO SOCIALE PRECURSORE

 “Dignità, lavoro, libertà”: gli slogan intonati a Gafsa diventeranno tre anni più tardi quelli della sollevazione di tutta la Tunisia. Tre anni durante i quali la repressione del regime di Ben Alì ha messo il bacino minerario sotto una cappa di piombo.

Centinaia di poliziotti e militari sono stati dispiegati sul posto, con il compito di soffocare la contestazione.

Gli abitanti, che hanno animato sit-in e manifestazioni, sono stati messi sotto assedio. Molti sono finiti in carcere e sono stati picchiati. In quattro sono morti sotto i colpi d’arma da fuoco della polizia.

Appoggiata con forza dai comitati di sostegno che stavano nascendo nel resto del paese, oltre che in Francia, la contestazione è proseguita. Giovani blogger fanno le loro prime esperienze, forzando le barriere poste dalla censura.

La rivolta si diffonde oltre le frontiere: “Le condizioni di vita sono talmente difficili che le persone non hanno esitato ad investirsi fino in fondo” analizza Zakia Dhifaoui.

Poetessa e scrittrice, Zakia è una delle 38 persone condannate alla prigione dopo un processo contrassegnato dalle irregolarità.

Ma nei suoi ricordi la rivolta è come una grande festa, “dura, ma bella”, nel corso della quale i tunisini hanno scelto di non rimanere più in silenzio: “Hanno fatto il primo passo e non si sono più fermati”.

A otto anni di distanza, cosa resta di questo movimento sociale ‘precursore’ e delle sue rivendicazioni, in una Tunisia in piena transizione?

 

UNA REGIONE RICCA MA DISASTRATA

Creata alla fine del 19° secolo, poco dopo la scoperta dei giacimenti di fosfati da parte di un geologo francese, la “Compagnia dei Fosfati di Gafsa ha conosciuto enormi trasformazioni”, racconta l’economista Abdeljelil Bedoui.

Impresa di Stato a partire dall’indipendenza, ha al tempo stesso assicurato la piena occupazione locale e procurato alla popolazione servizi e infrastrutture quali la distribuzione dell’acqua, dell’elettricità, commercio e borse di studio.

“La compagnia garantisce servizi, sicurezza d’impiego, compensando in parte la durezza e la pericolosità del lavoro”, commenta Abdeljelil Bedoui.

Nel corso degli anni Ottanta, le miniere situate più in profondità sono state chiuse, a favore di quelle a cielo aperto.

Sono arrivate la meccanizzazione e una nuova gestione del personale, sostenuta dalla Banca mondiale: i pensionamenti non sono più stati rimpiazzati e sono diminuiti i posti di lavoro.

“Si è passati dai 14000 operai degli anni Ottanta agli appena 5000 di oggi” spiega l’economista. La produttività cresce, ma il tasso di disoccupazione esplode.

Nel bacino di Gafsa, il 24% della popolazione attiva è senza lavoro (contro il 17%  del livello nazionale). Questo tasso cresce fino al 50% tra i giovani laureati. L’offerta di servizi scompare poco a poco.

“Da noi, non c’è nulla” riassume Rifqa Issaoui, presidente della nuova Associazione delle donne minatrici (AFM). “Non abbiamo né strade né servizi pubblici”. Nessun ufficio della Compagnia Nazionale delle Telecomunicazioni all’orizzonte, né un’amministrazione, né un tribunale di primo grado.

E bisogna viaggiare per 200 km prima di trovare il primo ospedale. “Noi viviamo nella miseria, nonostante la nostra regione sia una fonte di ricchezza per l’intero paese. E’ ingiusto”. I fosfati rappresentano il 13% delle esportazioni tunisine. In breve, una regione ricca di risorse, ma socialmente disastrata.

  

L’INQUINAMENTO MINERARIO IN EREDITÀ

“La sola cosa che ci resta delle miniere, sono le malattie” protesta Khadra. Madre di 3 bambini, deve sbrigarsela con 200 dinari mensili (meno di 100 euro) che guadagna suo marito, netturbino pagato a giornata.

“La regione è molto inquinata – conferma Alaa – La polvere che vola per le strade è piena delle polveri rilasciate dai fosfati, così come l’acqua. C’è una forte diffusione del cancro”.

Per depurare la materia prima dai componenti radioattivi come cadmio o uranio, il minerale viene passato all’interno di enormi centrifughe. Gli scarti che ne escono, sotto forma di fango, sono altamente inquinanti. Non c’è alcun modo di trattarli.

“Questi problemi sanitari aumentano la collera della gente di Gafsa” spiega Bedoui.

Con un guadagno entto di 500 milioni di euro nel 2010 (e 650 milioni nel 2008), la CFG rappresenta il 3% del PIL tunisino. Il 90% dei fosfati estratti dal sito (8 milioni di tonnellate annue) sono trasformate nel paese, soprattutto in concimi. Il 10% dei fosfati grezzi restanti sono esportati in Turchia e in Europa.

“Dal 2007 il prezzo dei fosfati, a livello internazionale, non ha smesso di aumentare” precisa Abdeljelil Bedoui. “Stessa cosa per quello dei concimi derivati dai fosfati. Alla CFG non mancano certo i soldi! E’ in questo contesto di provocante coesistenza tra l’opulenza degli uni e la miseria crescente degli altri che si è sviluppato il movimento di contestazione sociale del 2008”.

NUOVO REGIME, VECCHI PROBLEMI

Ma oggi, sostiene Zakia Dhifaoui come anche altri, nulla è cambiato in Tunisia sotto il punto di vista dei diritti economici e sociali.

“Ci siamo sbarazzati di Ben Ali, ma non del suo sistema”, riassume.

A Gafsa, i cittadini continuano a percorrere sentieri in terra battuta. La mancanza di trasparenza sulle assunzioni al CFG resta una costante. Di conseguenza proseguono i sit-in e le manifestazioni.

Con quali prospettive? “La CFG potrebbe cominciare ad assumere, invece che ricorrere agli straordinari”, sottolinea Abdeljelil Bedoui.

“Nel 2008 l’impresa ha speso 4 milioni di euro per remunerare orari e mansioni eccezionali. Questo corrisponde all’assunzione di 1800 salariati a 400 dinari al mese!”.

Anche la riabilitazione di una regione estremamente inquinata da un secolo di sfruttamento dei fosfati, potrebbe generare molto lavoro.

“Si potrebbe dragare il fondale delle rive, dove si sono accumulati fanghi carichi di cadmio e uranio, mettere a punto sistemi di riciclaggio delle acque usate e inquinate. La costruzione e il funzionamento di tutte le infrastrutture indispensabili, che mancano in tutta la regione, sono un altro metodo per creare impieghi”.

“LA REGIONE POTREBBE ESSERE PROSPERA”

Senza contare che numerose prospezioni hanno evidenziato la presenza di altre ricchezze minerarie come il marmo, l’argilla per la costruzione di mattoni, il gesso utile per le costruzioni o la sabbia siliciosa che serve alla produzione di parti elettroniche.

“Tutto è possibile a Gafsa. La regione potrebbe essere prospera e gli abitanti al riparo dalla miseria”, assicura Bedoui. Ma in Tunisia, non sembra essere il momento per le spese pubbliche. “La scelta liberale dell’attuale governo implica un disimpegno statale. Non esiste una vera politica industriale in Tunisia”.

Miraggio lontano, come quello di disfarsi del sistema clientelare che ha prevalso negli anni di Ben Ali.

I cittadini di Gafsa intanto – militanti, sindacalisti, giovani disoccupati e madri casalinghe – sono decisi a continuare la lotta. Finchè la loro sete di giustizia e dignità non sarà soddisfatta.

“Ci batteremo a non finire, costi quello che costi”, dicono le donne della regione.

Intervenendo in un incontro del Forum Sociale, Khadra alza la testa e lancia uno sguardo vivo e determinato, esclamando con voce forte e chiara: “Questo governo è arrivato dopo un “Degage” e se ne andrà con lo stesso slogan!”. Gafsa la ribelle non ha ancora detto la sua ultima parola.

(Articolo originale pubblicato dal sito di informazione francofono Basta!, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gafsa, dove la ricchezza scompare e l’inquinamento resta

E’ nel bacino minerario di Gafsa, nel cuore del paese, che tutto è cominciato. I cittadini, stanchi di essere depredati della ricchezza dei loro fosfati, erano scesi in strada già nel 2008. E lì sono rimasti, nonostante la violenta repressione.

“La Tunisia mormorava ancora quando noi stavamo già gridando, urlando la nostra collera”. Per Alaa, giovane chimico, l’essere originario di Redeyef è una ragione di orgoglio. Per tornare a casa, nel cuore del bacino minerario di Gafsa, bisogna viaggiare per oltre 5 ore da Tunisi.

E’ qui che cinque anni fa è germogliata la rivoluzione tunisina che ha poi rovesciato Ben Alì.

“Era il mese di gennaio del 2008 – ricorda Alaa – La compagnia dei Fosfati di Gafsa (CFG), unica industria della regione e principale fonte d’impiego, rese pubblici i risultati truccati di un concorso di reclutamento. Non era la prima volta. Ma noi abbiamo deciso che sarebbe stata l’ultima!”

  

UN MOVIMENTO SOCIALE PRECURSORE

 “Dignità, lavoro, libertà”: gli slogan intonati a Gafsa diventeranno tre anni più tardi quelli della sollevazione di tutta la Tunisia. Tre anni durante i quali la repressione del regime di Ben Alì ha messo il bacino minerario sotto una cappa di piombo.

Centinaia di poliziotti e militari sono stati dispiegati sul posto, con il compito di soffocare la contestazione.

Gli abitanti, che hanno animato sit-in e manifestazioni, sono stati messi sotto assedio. Molti sono finiti in carcere e sono stati picchiati. In quattro sono morti sotto i colpi d’arma da fuoco della polizia.

Appoggiata con forza dai comitati di sostegno che stavano nascendo nel resto del paese, oltre che in Francia, la contestazione è proseguita. Giovani blogger fanno le loro prime esperienze, forzando le barriere poste dalla censura.

La rivolta si diffonde oltre le frontiere: “Le condizioni di vita sono talmente difficili che le persone non hanno esitato ad investirsi fino in fondo” analizza Zakia Dhifaoui.

Poetessa e scrittrice, Zakia è una delle 38 persone condannate alla prigione dopo un processo contrassegnato dalle irregolarità.

Ma nei suoi ricordi la rivolta è come una grande festa, “dura, ma bella”, nel corso della quale i tunisini hanno scelto di non rimanere più in silenzio: “Hanno fatto il primo passo e non si sono più fermati”.

A otto anni di distanza, cosa resta di questo movimento sociale ‘precursore’ e delle sue rivendicazioni, in una Tunisia in piena transizione?

 

UNA REGIONE RICCA MA DISASTRATA

Creata alla fine del 19° secolo, poco dopo la scoperta dei giacimenti di fosfati da parte di un geologo francese, la “Compagnia dei Fosfati di Gafsa ha conosciuto enormi trasformazioni”, racconta l’economista Abdeljelil Bedoui.

Impresa di Stato a partire dall’indipendenza, ha al tempo stesso assicurato la piena occupazione locale e procurato alla popolazione servizi e infrastrutture quali la distribuzione dell’acqua, dell’elettricità, commercio e borse di studio.

“La compagnia garantisce servizi, sicurezza d’impiego, compensando in parte la durezza e la pericolosità del lavoro”, commenta Abdeljelil Bedoui.

Nel corso degli anni Ottanta, le miniere situate più in profondità sono state chiuse, a favore di quelle a cielo aperto.

Sono arrivate la meccanizzazione e una nuova gestione del personale, sostenuta dalla Banca mondiale: i pensionamenti non sono più stati rimpiazzati e sono diminuiti i posti di lavoro.

“Si è passati dai 14000 operai degli anni Ottanta agli appena 5000 di oggi” spiega l’economista. La produttività cresce, ma il tasso di disoccupazione esplode.

Nel bacino di Gafsa, il 24% della popolazione attiva è senza lavoro (contro il 17%  del livello nazionale). Questo tasso cresce fino al 50% tra i giovani laureati. L’offerta di servizi scompare poco a poco.

“Da noi, non c’è nulla” riassume Rifqa Issaoui, presidente della nuova Associazione delle donne minatrici (AFM). “Non abbiamo né strade né servizi pubblici”. Nessun ufficio della Compagnia Nazionale delle Telecomunicazioni all’orizzonte, né un’amministrazione, né un tribunale di primo grado.

E bisogna viaggiare per 200 km prima di trovare il primo ospedale. “Noi viviamo nella miseria, nonostante la nostra regione sia una fonte di ricchezza per l’intero paese. E’ ingiusto”. I fosfati rappresentano il 13% delle esportazioni tunisine. In breve, una regione ricca di risorse, ma socialmente disastrata.

  

L’INQUINAMENTO MINERARIO IN EREDITÀ

“La sola cosa che ci resta delle miniere, sono le malattie” protesta Khadra. Madre di 3 bambini, deve sbrigarsela con 200 dinari mensili (meno di 100 euro) che guadagna suo marito, netturbino pagato a giornata.

“La regione è molto inquinata – conferma Alaa – La polvere che vola per le strade è piena delle polveri rilasciate dai fosfati, così come l’acqua. C’è una forte diffusione del cancro”.

Per depurare la materia prima dai componenti radioattivi come cadmio o uranio, il minerale viene passato all’interno di enormi centrifughe. Gli scarti che ne escono, sotto forma di fango, sono altamente inquinanti. Non c’è alcun modo di trattarli.

“Questi problemi sanitari aumentano la collera della gente di Gafsa” spiega Bedoui.

Con un guadagno entto di 500 milioni di euro nel 2010 (e 650 milioni nel 2008), la CFG rappresenta il 3% del PIL tunisino. Il 90% dei fosfati estratti dal sito (8 milioni di tonnellate annue) sono trasformate nel paese, soprattutto in concimi. Il 10% dei fosfati grezzi restanti sono esportati in Turchia e in Europa.

“Dal 2007 il prezzo dei fosfati, a livello internazionale, non ha smesso di aumentare” precisa Abdeljelil Bedoui. “Stessa cosa per quello dei concimi derivati dai fosfati. Alla CFG non mancano certo i soldi! E’ in questo contesto di provocante coesistenza tra l’opulenza degli uni e la miseria crescente degli altri che si è sviluppato il movimento di contestazione sociale del 2008”.

NUOVO REGIME, VECCHI PROBLEMI

Ma oggi, sostiene Zakia Dhifaoui come anche altri, nulla è cambiato in Tunisia sotto il punto di vista dei diritti economici e sociali.

“Ci siamo sbarazzati di Ben Ali, ma non del suo sistema”, riassume.

A Gafsa, i cittadini continuano a percorrere sentieri in terra battuta. La mancanza di trasparenza sulle assunzioni al CFG resta una costante. Di conseguenza proseguono i sit-in e le manifestazioni.

Con quali prospettive? “La CFG potrebbe cominciare ad assumere, invece che ricorrere agli straordinari”, sottolinea Abdeljelil Bedoui.

“Nel 2008 l’impresa ha speso 4 milioni di euro per remunerare orari e mansioni eccezionali. Questo corrisponde all’assunzione di 1800 salariati a 400 dinari al mese!”.

Anche la riabilitazione di una regione estremamente inquinata da un secolo di sfruttamento dei fosfati, potrebbe generare molto lavoro.

“Si potrebbe dragare il fondale delle rive, dove si sono accumulati fanghi carichi di cadmio e uranio, mettere a punto sistemi di riciclaggio delle acque usate e inquinate. La costruzione e il funzionamento di tutte le infrastrutture indispensabili, che mancano in tutta la regione, sono un altro metodo per creare impieghi”.

“LA REGIONE POTREBBE ESSERE PROSPERA”

Senza contare che numerose prospezioni hanno evidenziato la presenza di altre ricchezze minerarie come il marmo, l’argilla per la costruzione di mattoni, il gesso utile per le costruzioni o la sabbia siliciosa che serve alla produzione di parti elettroniche.

“Tutto è possibile a Gafsa. La regione potrebbe essere prospera e gli abitanti al riparo dalla miseria”, assicura Bedoui. Ma in Tunisia, non sembra essere il momento per le spese pubbliche. “La scelta liberale dell’attuale governo implica un disimpegno statale. Non esiste una vera politica industriale in Tunisia”.

Miraggio lontano, come quello di disfarsi del sistema clientelare che ha prevalso negli anni di Ben Ali.

I cittadini di Gafsa intanto – militanti, sindacalisti, giovani disoccupati e madri casalinghe – sono decisi a continuare la lotta. Finchè la loro sete di giustizia e dignità non sarà soddisfatta.

“Ci batteremo a non finire, costi quello che costi”, dicono le donne della regione.

Intervenendo in un incontro del Forum Sociale, Khadra alza la testa e lancia uno sguardo vivo e determinato, esclamando con voce forte e chiara: “Questo governo è arrivato dopo un “Degage” e se ne andrà con lo stesso slogan!”. Gafsa la ribelle non ha ancora detto la sua ultima parola.

(Articolo originale pubblicato dal sito di informazione francofono Basta!, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gafsa, dove la ricchezza scompare e l’inquinamento resta

E’ nel bacino minerario di Gafsa, nel cuore del paese, che tutto è cominciato. I cittadini, stanchi di essere depredati della ricchezza dei loro fosfati, erano scesi in strada già nel 2008. E lì sono rimasti, nonostante la violenta repressione.

“La Tunisia mormorava ancora quando noi stavamo già gridando, urlando la nostra collera”. Per Alaa, giovane chimico, l’essere originario di Redeyef è una ragione di orgoglio. Per tornare a casa, nel cuore del bacino minerario di Gafsa, bisogna viaggiare per oltre 5 ore da Tunisi.

E’ qui che cinque anni fa è germogliata la rivoluzione tunisina che ha poi rovesciato Ben Alì.

“Era il mese di gennaio del 2008 – ricorda Alaa – La compagnia dei Fosfati di Gafsa (CFG), unica industria della regione e principale fonte d’impiego, rese pubblici i risultati truccati di un concorso di reclutamento. Non era la prima volta. Ma noi abbiamo deciso che sarebbe stata l’ultima!”

  

UN MOVIMENTO SOCIALE PRECURSORE

 “Dignità, lavoro, libertà”: gli slogan intonati a Gafsa diventeranno tre anni più tardi quelli della sollevazione di tutta la Tunisia. Tre anni durante i quali la repressione del regime di Ben Alì ha messo il bacino minerario sotto una cappa di piombo.

Centinaia di poliziotti e militari sono stati dispiegati sul posto, con il compito di soffocare la contestazione.

Gli abitanti, che hanno animato sit-in e manifestazioni, sono stati messi sotto assedio. Molti sono finiti in carcere e sono stati picchiati. In quattro sono morti sotto i colpi d’arma da fuoco della polizia.

Appoggiata con forza dai comitati di sostegno che stavano nascendo nel resto del paese, oltre che in Francia, la contestazione è proseguita. Giovani blogger fanno le loro prime esperienze, forzando le barriere poste dalla censura.

La rivolta si diffonde oltre le frontiere: “Le condizioni di vita sono talmente difficili che le persone non hanno esitato ad investirsi fino in fondo” analizza Zakia Dhifaoui.

Poetessa e scrittrice, Zakia è una delle 38 persone condannate alla prigione dopo un processo contrassegnato dalle irregolarità.

Ma nei suoi ricordi la rivolta è come una grande festa, “dura, ma bella”, nel corso della quale i tunisini hanno scelto di non rimanere più in silenzio: “Hanno fatto il primo passo e non si sono più fermati”.

A otto anni di distanza, cosa resta di questo movimento sociale ‘precursore’ e delle sue rivendicazioni, in una Tunisia in piena transizione?

 

UNA REGIONE RICCA MA DISASTRATA

Creata alla fine del 19° secolo, poco dopo la scoperta dei giacimenti di fosfati da parte di un geologo francese, la “Compagnia dei Fosfati di Gafsa ha conosciuto enormi trasformazioni”, racconta l’economista Abdeljelil Bedoui.

Impresa di Stato a partire dall’indipendenza, ha al tempo stesso assicurato la piena occupazione locale e procurato alla popolazione servizi e infrastrutture quali la distribuzione dell’acqua, dell’elettricità, commercio e borse di studio.

“La compagnia garantisce servizi, sicurezza d’impiego, compensando in parte la durezza e la pericolosità del lavoro”, commenta Abdeljelil Bedoui.

Nel corso degli anni Ottanta, le miniere situate più in profondità sono state chiuse, a favore di quelle a cielo aperto.

Sono arrivate la meccanizzazione e una nuova gestione del personale, sostenuta dalla Banca mondiale: i pensionamenti non sono più stati rimpiazzati e sono diminuiti i posti di lavoro.

“Si è passati dai 14000 operai degli anni Ottanta agli appena 5000 di oggi” spiega l’economista. La produttività cresce, ma il tasso di disoccupazione esplode.

Nel bacino di Gafsa, il 24% della popolazione attiva è senza lavoro (contro il 17%  del livello nazionale). Questo tasso cresce fino al 50% tra i giovani laureati. L’offerta di servizi scompare poco a poco.

“Da noi, non c’è nulla” riassume Rifqa Issaoui, presidente della nuova Associazione delle donne minatrici (AFM). “Non abbiamo né strade né servizi pubblici”. Nessun ufficio della Compagnia Nazionale delle Telecomunicazioni all’orizzonte, né un’amministrazione, né un tribunale di primo grado.

E bisogna viaggiare per 200 km prima di trovare il primo ospedale. “Noi viviamo nella miseria, nonostante la nostra regione sia una fonte di ricchezza per l’intero paese. E’ ingiusto”. I fosfati rappresentano il 13% delle esportazioni tunisine. In breve, una regione ricca di risorse, ma socialmente disastrata.

  

L’INQUINAMENTO MINERARIO IN EREDITÀ

“La sola cosa che ci resta delle miniere, sono le malattie” protesta Khadra. Madre di 3 bambini, deve sbrigarsela con 200 dinari mensili (meno di 100 euro) che guadagna suo marito, netturbino pagato a giornata.

“La regione è molto inquinata – conferma Alaa – La polvere che vola per le strade è piena delle polveri rilasciate dai fosfati, così come l’acqua. C’è una forte diffusione del cancro”.

Per depurare la materia prima dai componenti radioattivi come cadmio o uranio, il minerale viene passato all’interno di enormi centrifughe. Gli scarti che ne escono, sotto forma di fango, sono altamente inquinanti. Non c’è alcun modo di trattarli.

“Questi problemi sanitari aumentano la collera della gente di Gafsa” spiega Bedoui.

Con un guadagno entto di 500 milioni di euro nel 2010 (e 650 milioni nel 2008), la CFG rappresenta il 3% del PIL tunisino. Il 90% dei fosfati estratti dal sito (8 milioni di tonnellate annue) sono trasformate nel paese, soprattutto in concimi. Il 10% dei fosfati grezzi restanti sono esportati in Turchia e in Europa.

“Dal 2007 il prezzo dei fosfati, a livello internazionale, non ha smesso di aumentare” precisa Abdeljelil Bedoui. “Stessa cosa per quello dei concimi derivati dai fosfati. Alla CFG non mancano certo i soldi! E’ in questo contesto di provocante coesistenza tra l’opulenza degli uni e la miseria crescente degli altri che si è sviluppato il movimento di contestazione sociale del 2008”.

NUOVO REGIME, VECCHI PROBLEMI

Ma oggi, sostiene Zakia Dhifaoui come anche altri, nulla è cambiato in Tunisia sotto il punto di vista dei diritti economici e sociali.

“Ci siamo sbarazzati di Ben Ali, ma non del suo sistema”, riassume.

A Gafsa, i cittadini continuano a percorrere sentieri in terra battuta. La mancanza di trasparenza sulle assunzioni al CFG resta una costante. Di conseguenza proseguono i sit-in e le manifestazioni.

Con quali prospettive? “La CFG potrebbe cominciare ad assumere, invece che ricorrere agli straordinari”, sottolinea Abdeljelil Bedoui.

“Nel 2008 l’impresa ha speso 4 milioni di euro per remunerare orari e mansioni eccezionali. Questo corrisponde all’assunzione di 1800 salariati a 400 dinari al mese!”.

Anche la riabilitazione di una regione estremamente inquinata da un secolo di sfruttamento dei fosfati, potrebbe generare molto lavoro.

“Si potrebbe dragare il fondale delle rive, dove si sono accumulati fanghi carichi di cadmio e uranio, mettere a punto sistemi di riciclaggio delle acque usate e inquinate. La costruzione e il funzionamento di tutte le infrastrutture indispensabili, che mancano in tutta la regione, sono un altro metodo per creare impieghi”.

“LA REGIONE POTREBBE ESSERE PROSPERA”

Senza contare che numerose prospezioni hanno evidenziato la presenza di altre ricchezze minerarie come il marmo, l’argilla per la costruzione di mattoni, il gesso utile per le costruzioni o la sabbia siliciosa che serve alla produzione di parti elettroniche.

“Tutto è possibile a Gafsa. La regione potrebbe essere prospera e gli abitanti al riparo dalla miseria”, assicura Bedoui. Ma in Tunisia, non sembra essere il momento per le spese pubbliche. “La scelta liberale dell’attuale governo implica un disimpegno statale. Non esiste una vera politica industriale in Tunisia”.

Miraggio lontano, come quello di disfarsi del sistema clientelare che ha prevalso negli anni di Ben Ali.

I cittadini di Gafsa intanto – militanti, sindacalisti, giovani disoccupati e madri casalinghe – sono decisi a continuare la lotta. Finchè la loro sete di giustizia e dignità non sarà soddisfatta.

“Ci batteremo a non finire, costi quello che costi”, dicono le donne della regione.

Intervenendo in un incontro del Forum Sociale, Khadra alza la testa e lancia uno sguardo vivo e determinato, esclamando con voce forte e chiara: “Questo governo è arrivato dopo un “Degage” e se ne andrà con lo stesso slogan!”. Gafsa la ribelle non ha ancora detto la sua ultima parola.

(Articolo originale pubblicato dal sito di informazione francofono Basta!, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gafsa, dove la ricchezza scompare e l’inquinamento resta

E’ nel bacino minerario di Gafsa, nel cuore del paese, che tutto è cominciato. I cittadini, stanchi di essere depredati della ricchezza dei loro fosfati, erano scesi in strada già nel 2008. E lì sono rimasti, nonostante la violenta repressione.

“La Tunisia mormorava ancora quando noi stavamo già gridando, urlando la nostra collera”. Per Alaa, giovane chimico, l’essere originario di Redeyef è una ragione di orgoglio. Per tornare a casa, nel cuore del bacino minerario di Gafsa, bisogna viaggiare per oltre 5 ore da Tunisi.

E’ qui che cinque anni fa è germogliata la rivoluzione tunisina che ha poi rovesciato Ben Alì.

“Era il mese di gennaio del 2008 – ricorda Alaa – La compagnia dei Fosfati di Gafsa (CFG), unica industria della regione e principale fonte d’impiego, rese pubblici i risultati truccati di un concorso di reclutamento. Non era la prima volta. Ma noi abbiamo deciso che sarebbe stata l’ultima!”

  

UN MOVIMENTO SOCIALE PRECURSORE

 “Dignità, lavoro, libertà”: gli slogan intonati a Gafsa diventeranno tre anni più tardi quelli della sollevazione di tutta la Tunisia. Tre anni durante i quali la repressione del regime di Ben Alì ha messo il bacino minerario sotto una cappa di piombo.

Centinaia di poliziotti e militari sono stati dispiegati sul posto, con il compito di soffocare la contestazione.

Gli abitanti, che hanno animato sit-in e manifestazioni, sono stati messi sotto assedio. Molti sono finiti in carcere e sono stati picchiati. In quattro sono morti sotto i colpi d’arma da fuoco della polizia.

Appoggiata con forza dai comitati di sostegno che stavano nascendo nel resto del paese, oltre che in Francia, la contestazione è proseguita. Giovani blogger fanno le loro prime esperienze, forzando le barriere poste dalla censura.

La rivolta si diffonde oltre le frontiere: “Le condizioni di vita sono talmente difficili che le persone non hanno esitato ad investirsi fino in fondo” analizza Zakia Dhifaoui.

Poetessa e scrittrice, Zakia è una delle 38 persone condannate alla prigione dopo un processo contrassegnato dalle irregolarità.

Ma nei suoi ricordi la rivolta è come una grande festa, “dura, ma bella”, nel corso della quale i tunisini hanno scelto di non rimanere più in silenzio: “Hanno fatto il primo passo e non si sono più fermati”.

A otto anni di distanza, cosa resta di questo movimento sociale ‘precursore’ e delle sue rivendicazioni, in una Tunisia in piena transizione?

 

UNA REGIONE RICCA MA DISASTRATA

Creata alla fine del 19° secolo, poco dopo la scoperta dei giacimenti di fosfati da parte di un geologo francese, la “Compagnia dei Fosfati di Gafsa ha conosciuto enormi trasformazioni”, racconta l’economista Abdeljelil Bedoui.

Impresa di Stato a partire dall’indipendenza, ha al tempo stesso assicurato la piena occupazione locale e procurato alla popolazione servizi e infrastrutture quali la distribuzione dell’acqua, dell’elettricità, commercio e borse di studio.

“La compagnia garantisce servizi, sicurezza d’impiego, compensando in parte la durezza e la pericolosità del lavoro”, commenta Abdeljelil Bedoui.

Nel corso degli anni Ottanta, le miniere situate più in profondità sono state chiuse, a favore di quelle a cielo aperto.

Sono arrivate la meccanizzazione e una nuova gestione del personale, sostenuta dalla Banca mondiale: i pensionamenti non sono più stati rimpiazzati e sono diminuiti i posti di lavoro.

“Si è passati dai 14000 operai degli anni Ottanta agli appena 5000 di oggi” spiega l’economista. La produttività cresce, ma il tasso di disoccupazione esplode.

Nel bacino di Gafsa, il 24% della popolazione attiva è senza lavoro (contro il 17%  del livello nazionale). Questo tasso cresce fino al 50% tra i giovani laureati. L’offerta di servizi scompare poco a poco.

“Da noi, non c’è nulla” riassume Rifqa Issaoui, presidente della nuova Associazione delle donne minatrici (AFM). “Non abbiamo né strade né servizi pubblici”. Nessun ufficio della Compagnia Nazionale delle Telecomunicazioni all’orizzonte, né un’amministrazione, né un tribunale di primo grado.

E bisogna viaggiare per 200 km prima di trovare il primo ospedale. “Noi viviamo nella miseria, nonostante la nostra regione sia una fonte di ricchezza per l’intero paese. E’ ingiusto”. I fosfati rappresentano il 13% delle esportazioni tunisine. In breve, una regione ricca di risorse, ma socialmente disastrata.

  

L’INQUINAMENTO MINERARIO IN EREDITÀ

“La sola cosa che ci resta delle miniere, sono le malattie” protesta Khadra. Madre di 3 bambini, deve sbrigarsela con 200 dinari mensili (meno di 100 euro) che guadagna suo marito, netturbino pagato a giornata.

“La regione è molto inquinata – conferma Alaa – La polvere che vola per le strade è piena delle polveri rilasciate dai fosfati, così come l’acqua. C’è una forte diffusione del cancro”.

Per depurare la materia prima dai componenti radioattivi come cadmio o uranio, il minerale viene passato all’interno di enormi centrifughe. Gli scarti che ne escono, sotto forma di fango, sono altamente inquinanti. Non c’è alcun modo di trattarli.

“Questi problemi sanitari aumentano la collera della gente di Gafsa” spiega Bedoui.

Con un guadagno entto di 500 milioni di euro nel 2010 (e 650 milioni nel 2008), la CFG rappresenta il 3% del PIL tunisino. Il 90% dei fosfati estratti dal sito (8 milioni di tonnellate annue) sono trasformate nel paese, soprattutto in concimi. Il 10% dei fosfati grezzi restanti sono esportati in Turchia e in Europa.

“Dal 2007 il prezzo dei fosfati, a livello internazionale, non ha smesso di aumentare” precisa Abdeljelil Bedoui. “Stessa cosa per quello dei concimi derivati dai fosfati. Alla CFG non mancano certo i soldi! E’ in questo contesto di provocante coesistenza tra l’opulenza degli uni e la miseria crescente degli altri che si è sviluppato il movimento di contestazione sociale del 2008”.

NUOVO REGIME, VECCHI PROBLEMI

Ma oggi, sostiene Zakia Dhifaoui come anche altri, nulla è cambiato in Tunisia sotto il punto di vista dei diritti economici e sociali.

“Ci siamo sbarazzati di Ben Ali, ma non del suo sistema”, riassume.

A Gafsa, i cittadini continuano a percorrere sentieri in terra battuta. La mancanza di trasparenza sulle assunzioni al CFG resta una costante. Di conseguenza proseguono i sit-in e le manifestazioni.

Con quali prospettive? “La CFG potrebbe cominciare ad assumere, invece che ricorrere agli straordinari”, sottolinea Abdeljelil Bedoui.

“Nel 2008 l’impresa ha speso 4 milioni di euro per remunerare orari e mansioni eccezionali. Questo corrisponde all’assunzione di 1800 salariati a 400 dinari al mese!”.

Anche la riabilitazione di una regione estremamente inquinata da un secolo di sfruttamento dei fosfati, potrebbe generare molto lavoro.

“Si potrebbe dragare il fondale delle rive, dove si sono accumulati fanghi carichi di cadmio e uranio, mettere a punto sistemi di riciclaggio delle acque usate e inquinate. La costruzione e il funzionamento di tutte le infrastrutture indispensabili, che mancano in tutta la regione, sono un altro metodo per creare impieghi”.

“LA REGIONE POTREBBE ESSERE PROSPERA”

Senza contare che numerose prospezioni hanno evidenziato la presenza di altre ricchezze minerarie come il marmo, l’argilla per la costruzione di mattoni, il gesso utile per le costruzioni o la sabbia siliciosa che serve alla produzione di parti elettroniche.

“Tutto è possibile a Gafsa. La regione potrebbe essere prospera e gli abitanti al riparo dalla miseria”, assicura Bedoui. Ma in Tunisia, non sembra essere il momento per le spese pubbliche. “La scelta liberale dell’attuale governo implica un disimpegno statale. Non esiste una vera politica industriale in Tunisia”.

Miraggio lontano, come quello di disfarsi del sistema clientelare che ha prevalso negli anni di Ben Ali.

I cittadini di Gafsa intanto – militanti, sindacalisti, giovani disoccupati e madri casalinghe – sono decisi a continuare la lotta. Finchè la loro sete di giustizia e dignità non sarà soddisfatta.

“Ci batteremo a non finire, costi quello che costi”, dicono le donne della regione.

Intervenendo in un incontro del Forum Sociale, Khadra alza la testa e lancia uno sguardo vivo e determinato, esclamando con voce forte e chiara: “Questo governo è arrivato dopo un “Degage” e se ne andrà con lo stesso slogan!”. Gafsa la ribelle non ha ancora detto la sua ultima parola.

(Articolo originale pubblicato dal sito di informazione francofono Basta!, traduzione a cura di Osservatorioiraq.it)

Tunisia. Al cinema “la maledizione dei fosfati”

E’ nella Tunisia profonda che la storia comincia. Una storia fatta di lotta, di repressione e di dignità. Una storia ancora attuale. Il documentario del regista Sami Tlili ripercorre gli eventi che sconvolsero il bacino minerario di Gafsa nel 2008 e ci racconta una “rivoluzione in marcia” che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

(Credit foto: Garboussi)

Dopo l’anteprima al festival di Abu Dhabi (di cui si è laureato vincitore) e la proiezione “sofferta” alle JCC (Journées Cinématographiques de Carthage), Yaalan bou el phosphate (“Sia maledetto il fosfato”) – documentario del giovane regista tunisino Sami Tlili – è finalmente in programma nei cinema della capitale tunisina dal 12 dicembre scorso (guarda il trailer).

Il film, come annunciato dal titolo, evoca la maledizione lanciata dalla presenza della materia prima sul territorio. I fosfati, infatti, sono un vanto per la regione, uno dei maggiori introiti per l’economia nazionale ma il loro sfruttamento non riesce ad assicurare sviluppo e condizioni di vita decenti agli abitanti del posto. Nonostante la ricchezza del sottosuolo, l’indice di disoccupazione resta tra i più elevati del paese e gran parte della popolazione locale cerca di tirare avanti con piccole attività di coltivazione e allevamento, rese ancor più difficili a causa dell’aridità del terreno e l’inquinamento derivato dall’attività estrattiva.

Il contesto socio-economico descritto dal documentario sembra distante anni luce da quello delle zone settentrionali e orientali del paese, lungo il litorale mediterraneo, dove le attività portuali e l’indotto assicurato dalle transazioni commerciali (tra cui gli stessi fosfati) permettono un livello di crescita e sviluppo considerevoli, e sanciscono una sperequazione regionale che è stata tra le cause principali del collasso del “sistema-Ben Ali”.

Il regista rievoca la lunga rivolta che nel 2008 ha infiammato la regione e ne tratteggia i contorni attraverso le testimonianze dei protagonisti (disoccupati, sindacalisti, professori, ex detenuti), alternando immagini, poesia, voci di speranza e di disperazione. Tlili ripercorre gli eventi e ci racconta così di una “rivoluzione in marcia”, che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

E’ il gennaio del 2008 quando viene organizzato un primo sit-in a oltranza di fronte al comune di Redeyef (sud-ovest tunisino) da alcuni disoccupati della regione, per contestare i risultati di un concorso di assunzione indetto dalla Compagnie des phosphates de Gafsa (CPG).

A quel concorso si erano presentati oltre mille candidati per soli ottanta posti a disposizione. Ma i risultati affissi non sembrano tenere conto delle quote riservate ai figli dei vecchi minatori e, per gli esclusi che lanciano la protesta, sono il frutto della corruzione e del clientelismo con cui le autorità locali e i vertici della società gestiscono lo sfruttamento del minerale.

L’episodio segna così l’inizio di un movimento di disobbedienza civile che interesserà i villaggi di Redeyef, Metlaoui, Moularès e Mdhila e che resisterà oltre sei mesi – tra scioperi e manifestazioni – prima di cedere alla repressione violenta del regime di Ben Ali, pronto a schierare l’esercito per mettere fine alla contestazione.

Il movimento – a cui oltre i giovani disoccupati aderiscono sindacalisti, membri di associazioni locali e semplici cittadini – sceglie lo slogan “determinazione e dignità” per portare avanti rivendicazioni politiche (fine della repressione) e soprattutto sociali: l’annullamento del concorso, facilitazioni all’impiego per i diplomés-chomeursdella zona, maggiori investimenti industriali e l’accesso ai servizi di base per tutta la popolazione (acqua corrente, elettricità, strutture sanitarie..).

Quella di Redeyef è la sollevazione popolare più importante mai registrata dalle “rivolte del pane” del 1984 e dall’ascesa al potere di Zine El Abidine Ben Ali (1987) e il suo bilancio, dopo l’intervento del regime, sarà di tre morti, decine di feriti e centinaia di manifestanti finiti in arresto – torturati in carcere e, alcuni, condannati a lunghe pene. Tra le vittime della repressione figurano anche alcuni giornalistiche avevano cercato di dare risalto agli eventi.

Il documentario di Sami Tlili descrive una realtà sociale e geografica cruda, intensa e pone – più o meno velatamente – degli interrogativi allarmanti e di attualità. Ad oltre quattro anni dalla rivolta di Redeyef e a due anni ormai dall’inizio della rivoluzione, cosa è stato fatto per cambiare la situazione?

Apparentemente nulla, o comunque troppo poco. Ne sono una conferma le notizie arrivate negli ultimi tempi dalla zona del bacino minerario, dove la rabbia continua a covare sotto la cenere e dove gli scioperi e le proteste sono riprese con regolarità dal marzo 2011, quando la CPG ha deciso di organizzare un nuovo concorso di assunzione.

In quest’occasione le domande presentate dagli abitanti della zona sono state oltre 20 mila (per 3 mila posti) e le code agli uffici pubblici di Metlaoui e dei villaggi circostanti, per richiedere le dovute certificazioni, sono durate giorni interi. Alla fine i risultati sono stati contestati ancora una volta e un nuovo procedimento di selezione è in corso.

Intanto il malcontento si fa strada. La primavera scorsa gli operai della Société de l’environnement – una filiale della CPG dopo i disordini del 2008 per allentare la tensione sul comparto produttivo – sono entrati in sciopero ed hanno bloccato parte dell’approvvigionamento idrico alla miniera di Kef Eddor, paralizzando l’attività estrattiva. Le ragioni della protesta: ottenere un miglioramento delle condizioni di impiego, l’aumento della retribuzione almeno al livello del salario minimo (circa 120 euro quello attuale) e la copertura sanitaria.

Nelle ultime settimane, invece, è stata la volta dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati) di Sned (Gafsa), che hanno manifestato per reclamare l’assunzione diretta, bloccando le rotaie per il trasferimento del minerale verso i porti della costa.

Lo scorso 13 novembre (2012, ndr) infine, mentre la principale centrale sindacale del paese (UGTT) rinunciava allo sciopero generale e la CPG annunciava una drastica riduzione della produzione (80%) e degli introiti dell’azienda, i lavoratori di Sned hanno sospeso tutte le attività paralizzando l’intera cittadina.

La condanna dei fosfati, insomma, continua ad incombere sugli abitanti di Gafsa che nonostante le sollevazioni e le promesse del nuovo governo si trovano di fronte alla stessa “maledizione” di sempre…




Tunisia. Al cinema “la maledizione dei fosfati”

E’ nella Tunisia profonda che la storia comincia. Una storia fatta di lotta, di repressione e di dignità. Una storia ancora attuale. Il documentario del regista Sami Tlili ripercorre gli eventi che sconvolsero il bacino minerario di Gafsa nel 2008 e ci racconta una “rivoluzione in marcia” che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

(Credit foto: Garboussi)

Dopo l’anteprima al festival di Abu Dhabi (di cui si è laureato vincitore) e la proiezione “sofferta” alle JCC (Journées Cinématographiques de Carthage), Yaalan bou el phosphate (“Sia maledetto il fosfato”) – documentario del giovane regista tunisino Sami Tlili – è finalmente in programma nei cinema della capitale tunisina dal 12 dicembre scorso (guarda il trailer).

Il film, come annunciato dal titolo, evoca la maledizione lanciata dalla presenza della materia prima sul territorio. I fosfati, infatti, sono un vanto per la regione, uno dei maggiori introiti per l’economia nazionale ma il loro sfruttamento non riesce ad assicurare sviluppo e condizioni di vita decenti agli abitanti del posto. Nonostante la ricchezza del sottosuolo, l’indice di disoccupazione resta tra i più elevati del paese e gran parte della popolazione locale cerca di tirare avanti con piccole attività di coltivazione e allevamento, rese ancor più difficili a causa dell’aridità del terreno e l’inquinamento derivato dall’attività estrattiva.

Il contesto socio-economico descritto dal documentario sembra distante anni luce da quello delle zone settentrionali e orientali del paese, lungo il litorale mediterraneo, dove le attività portuali e l’indotto assicurato dalle transazioni commerciali (tra cui gli stessi fosfati) permettono un livello di crescita e sviluppo considerevoli, e sanciscono una sperequazione regionale che è stata tra le cause principali del collasso del “sistema-Ben Ali”.

Il regista rievoca la lunga rivolta che nel 2008 ha infiammato la regione e ne tratteggia i contorni attraverso le testimonianze dei protagonisti (disoccupati, sindacalisti, professori, ex detenuti), alternando immagini, poesia, voci di speranza e di disperazione. Tlili ripercorre gli eventi e ci racconta così di una “rivoluzione in marcia”, che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

E’ il gennaio del 2008 quando viene organizzato un primo sit-in a oltranza di fronte al comune di Redeyef (sud-ovest tunisino) da alcuni disoccupati della regione, per contestare i risultati di un concorso di assunzione indetto dalla Compagnie des phosphates de Gafsa (CPG).

A quel concorso si erano presentati oltre mille candidati per soli ottanta posti a disposizione. Ma i risultati affissi non sembrano tenere conto delle quote riservate ai figli dei vecchi minatori e, per gli esclusi che lanciano la protesta, sono il frutto della corruzione e del clientelismo con cui le autorità locali e i vertici della società gestiscono lo sfruttamento del minerale.

L’episodio segna così l’inizio di un movimento di disobbedienza civile che interesserà i villaggi di Redeyef, Metlaoui, Moularès e Mdhila e che resisterà oltre sei mesi – tra scioperi e manifestazioni – prima di cedere alla repressione violenta del regime di Ben Ali, pronto a schierare l’esercito per mettere fine alla contestazione.

Il movimento – a cui oltre i giovani disoccupati aderiscono sindacalisti, membri di associazioni locali e semplici cittadini – sceglie lo slogan “determinazione e dignità” per portare avanti rivendicazioni politiche (fine della repressione) e soprattutto sociali: l’annullamento del concorso, facilitazioni all’impiego per i diplomés-chomeursdella zona, maggiori investimenti industriali e l’accesso ai servizi di base per tutta la popolazione (acqua corrente, elettricità, strutture sanitarie..).

Quella di Redeyef è la sollevazione popolare più importante mai registrata dalle “rivolte del pane” del 1984 e dall’ascesa al potere di Zine El Abidine Ben Ali (1987) e il suo bilancio, dopo l’intervento del regime, sarà di tre morti, decine di feriti e centinaia di manifestanti finiti in arresto – torturati in carcere e, alcuni, condannati a lunghe pene. Tra le vittime della repressione figurano anche alcuni giornalistiche avevano cercato di dare risalto agli eventi.

Il documentario di Sami Tlili descrive una realtà sociale e geografica cruda, intensa e pone – più o meno velatamente – degli interrogativi allarmanti e di attualità. Ad oltre quattro anni dalla rivolta di Redeyef e a due anni ormai dall’inizio della rivoluzione, cosa è stato fatto per cambiare la situazione?

Apparentemente nulla, o comunque troppo poco. Ne sono una conferma le notizie arrivate negli ultimi tempi dalla zona del bacino minerario, dove la rabbia continua a covare sotto la cenere e dove gli scioperi e le proteste sono riprese con regolarità dal marzo 2011, quando la CPG ha deciso di organizzare un nuovo concorso di assunzione.

In quest’occasione le domande presentate dagli abitanti della zona sono state oltre 20 mila (per 3 mila posti) e le code agli uffici pubblici di Metlaoui e dei villaggi circostanti, per richiedere le dovute certificazioni, sono durate giorni interi. Alla fine i risultati sono stati contestati ancora una volta e un nuovo procedimento di selezione è in corso.

Intanto il malcontento si fa strada. La primavera scorsa gli operai della Société de l’environnement – una filiale della CPG dopo i disordini del 2008 per allentare la tensione sul comparto produttivo – sono entrati in sciopero ed hanno bloccato parte dell’approvvigionamento idrico alla miniera di Kef Eddor, paralizzando l’attività estrattiva. Le ragioni della protesta: ottenere un miglioramento delle condizioni di impiego, l’aumento della retribuzione almeno al livello del salario minimo (circa 120 euro quello attuale) e la copertura sanitaria.

Nelle ultime settimane, invece, è stata la volta dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati) di Sned (Gafsa), che hanno manifestato per reclamare l’assunzione diretta, bloccando le rotaie per il trasferimento del minerale verso i porti della costa.

Lo scorso 13 novembre (2012, ndr) infine, mentre la principale centrale sindacale del paese (UGTT) rinunciava allo sciopero generale e la CPG annunciava una drastica riduzione della produzione (80%) e degli introiti dell’azienda, i lavoratori di Sned hanno sospeso tutte le attività paralizzando l’intera cittadina.

La condanna dei fosfati, insomma, continua ad incombere sugli abitanti di Gafsa che nonostante le sollevazioni e le promesse del nuovo governo si trovano di fronte alla stessa “maledizione” di sempre…




Tunisia. Al cinema “la maledizione dei fosfati”

E’ nella Tunisia profonda che la storia comincia. Una storia fatta di lotta, di repressione e di dignità. Una storia ancora attuale. Il documentario del regista Sami Tlili ripercorre gli eventi che sconvolsero il bacino minerario di Gafsa nel 2008 e ci racconta una “rivoluzione in marcia” che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

(Credit foto: Garboussi)

Dopo l’anteprima al festival di Abu Dhabi (di cui si è laureato vincitore) e la proiezione “sofferta” alle JCC (Journées Cinématographiques de Carthage), Yaalan bou el phosphate (“Sia maledetto il fosfato”) – documentario del giovane regista tunisino Sami Tlili – è finalmente in programma nei cinema della capitale tunisina dal 12 dicembre scorso (guarda il trailer).

Il film, come annunciato dal titolo, evoca la maledizione lanciata dalla presenza della materia prima sul territorio. I fosfati, infatti, sono un vanto per la regione, uno dei maggiori introiti per l’economia nazionale ma il loro sfruttamento non riesce ad assicurare sviluppo e condizioni di vita decenti agli abitanti del posto. Nonostante la ricchezza del sottosuolo, l’indice di disoccupazione resta tra i più elevati del paese e gran parte della popolazione locale cerca di tirare avanti con piccole attività di coltivazione e allevamento, rese ancor più difficili a causa dell’aridità del terreno e l’inquinamento derivato dall’attività estrattiva.

Il contesto socio-economico descritto dal documentario sembra distante anni luce da quello delle zone settentrionali e orientali del paese, lungo il litorale mediterraneo, dove le attività portuali e l’indotto assicurato dalle transazioni commerciali (tra cui gli stessi fosfati) permettono un livello di crescita e sviluppo considerevoli, e sanciscono una sperequazione regionale che è stata tra le cause principali del collasso del “sistema-Ben Ali”.

Il regista rievoca la lunga rivolta che nel 2008 ha infiammato la regione e ne tratteggia i contorni attraverso le testimonianze dei protagonisti (disoccupati, sindacalisti, professori, ex detenuti), alternando immagini, poesia, voci di speranza e di disperazione. Tlili ripercorre gli eventi e ci racconta così di una “rivoluzione in marcia”, che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

E’ il gennaio del 2008 quando viene organizzato un primo sit-in a oltranza di fronte al comune di Redeyef (sud-ovest tunisino) da alcuni disoccupati della regione, per contestare i risultati di un concorso di assunzione indetto dalla Compagnie des phosphates de Gafsa (CPG).

A quel concorso si erano presentati oltre mille candidati per soli ottanta posti a disposizione. Ma i risultati affissi non sembrano tenere conto delle quote riservate ai figli dei vecchi minatori e, per gli esclusi che lanciano la protesta, sono il frutto della corruzione e del clientelismo con cui le autorità locali e i vertici della società gestiscono lo sfruttamento del minerale.

L’episodio segna così l’inizio di un movimento di disobbedienza civile che interesserà i villaggi di Redeyef, Metlaoui, Moularès e Mdhila e che resisterà oltre sei mesi – tra scioperi e manifestazioni – prima di cedere alla repressione violenta del regime di Ben Ali, pronto a schierare l’esercito per mettere fine alla contestazione.

Il movimento – a cui oltre i giovani disoccupati aderiscono sindacalisti, membri di associazioni locali e semplici cittadini – sceglie lo slogan “determinazione e dignità” per portare avanti rivendicazioni politiche (fine della repressione) e soprattutto sociali: l’annullamento del concorso, facilitazioni all’impiego per i diplomés-chomeursdella zona, maggiori investimenti industriali e l’accesso ai servizi di base per tutta la popolazione (acqua corrente, elettricità, strutture sanitarie..).

Quella di Redeyef è la sollevazione popolare più importante mai registrata dalle “rivolte del pane” del 1984 e dall’ascesa al potere di Zine El Abidine Ben Ali (1987) e il suo bilancio, dopo l’intervento del regime, sarà di tre morti, decine di feriti e centinaia di manifestanti finiti in arresto – torturati in carcere e, alcuni, condannati a lunghe pene. Tra le vittime della repressione figurano anche alcuni giornalistiche avevano cercato di dare risalto agli eventi.

Il documentario di Sami Tlili descrive una realtà sociale e geografica cruda, intensa e pone – più o meno velatamente – degli interrogativi allarmanti e di attualità. Ad oltre quattro anni dalla rivolta di Redeyef e a due anni ormai dall’inizio della rivoluzione, cosa è stato fatto per cambiare la situazione?

Apparentemente nulla, o comunque troppo poco. Ne sono una conferma le notizie arrivate negli ultimi tempi dalla zona del bacino minerario, dove la rabbia continua a covare sotto la cenere e dove gli scioperi e le proteste sono riprese con regolarità dal marzo 2011, quando la CPG ha deciso di organizzare un nuovo concorso di assunzione.

In quest’occasione le domande presentate dagli abitanti della zona sono state oltre 20 mila (per 3 mila posti) e le code agli uffici pubblici di Metlaoui e dei villaggi circostanti, per richiedere le dovute certificazioni, sono durate giorni interi. Alla fine i risultati sono stati contestati ancora una volta e un nuovo procedimento di selezione è in corso.

Intanto il malcontento si fa strada. La primavera scorsa gli operai della Société de l’environnement – una filiale della CPG dopo i disordini del 2008 per allentare la tensione sul comparto produttivo – sono entrati in sciopero ed hanno bloccato parte dell’approvvigionamento idrico alla miniera di Kef Eddor, paralizzando l’attività estrattiva. Le ragioni della protesta: ottenere un miglioramento delle condizioni di impiego, l’aumento della retribuzione almeno al livello del salario minimo (circa 120 euro quello attuale) e la copertura sanitaria.

Nelle ultime settimane, invece, è stata la volta dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati) di Sned (Gafsa), che hanno manifestato per reclamare l’assunzione diretta, bloccando le rotaie per il trasferimento del minerale verso i porti della costa.

Lo scorso 13 novembre (2012, ndr) infine, mentre la principale centrale sindacale del paese (UGTT) rinunciava allo sciopero generale e la CPG annunciava una drastica riduzione della produzione (80%) e degli introiti dell’azienda, i lavoratori di Sned hanno sospeso tutte le attività paralizzando l’intera cittadina.

La condanna dei fosfati, insomma, continua ad incombere sugli abitanti di Gafsa che nonostante le sollevazioni e le promesse del nuovo governo si trovano di fronte alla stessa “maledizione” di sempre…




Tunisia. Al cinema “la maledizione dei fosfati”

E’ nella Tunisia profonda che la storia comincia. Una storia fatta di lotta, di repressione e di dignità. Una storia ancora attuale. Il documentario del regista Sami Tlili ripercorre gli eventi che sconvolsero il bacino minerario di Gafsa nel 2008 e ci racconta una “rivoluzione in marcia” che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

(Credit foto: Garboussi)

Dopo l’anteprima al festival di Abu Dhabi (di cui si è laureato vincitore) e la proiezione “sofferta” alle JCC (Journées Cinématographiques de Carthage), Yaalan bou el phosphate (“Sia maledetto il fosfato”) – documentario del giovane regista tunisino Sami Tlili – è finalmente in programma nei cinema della capitale tunisina dal 12 dicembre scorso (guarda il trailer).

Il film, come annunciato dal titolo, evoca la maledizione lanciata dalla presenza della materia prima sul territorio. I fosfati, infatti, sono un vanto per la regione, uno dei maggiori introiti per l’economia nazionale ma il loro sfruttamento non riesce ad assicurare sviluppo e condizioni di vita decenti agli abitanti del posto. Nonostante la ricchezza del sottosuolo, l’indice di disoccupazione resta tra i più elevati del paese e gran parte della popolazione locale cerca di tirare avanti con piccole attività di coltivazione e allevamento, rese ancor più difficili a causa dell’aridità del terreno e l’inquinamento derivato dall’attività estrattiva.

Il contesto socio-economico descritto dal documentario sembra distante anni luce da quello delle zone settentrionali e orientali del paese, lungo il litorale mediterraneo, dove le attività portuali e l’indotto assicurato dalle transazioni commerciali (tra cui gli stessi fosfati) permettono un livello di crescita e sviluppo considerevoli, e sanciscono una sperequazione regionale che è stata tra le cause principali del collasso del “sistema-Ben Ali”.

Il regista rievoca la lunga rivolta che nel 2008 ha infiammato la regione e ne tratteggia i contorni attraverso le testimonianze dei protagonisti (disoccupati, sindacalisti, professori, ex detenuti), alternando immagini, poesia, voci di speranza e di disperazione. Tlili ripercorre gli eventi e ci racconta così di una “rivoluzione in marcia”, che in pochi al tempo vollero o seppero vedere.

E’ il gennaio del 2008 quando viene organizzato un primo sit-in a oltranza di fronte al comune di Redeyef (sud-ovest tunisino) da alcuni disoccupati della regione, per contestare i risultati di un concorso di assunzione indetto dalla Compagnie des phosphates de Gafsa (CPG).

A quel concorso si erano presentati oltre mille candidati per soli ottanta posti a disposizione. Ma i risultati affissi non sembrano tenere conto delle quote riservate ai figli dei vecchi minatori e, per gli esclusi che lanciano la protesta, sono il frutto della corruzione e del clientelismo con cui le autorità locali e i vertici della società gestiscono lo sfruttamento del minerale.

L’episodio segna così l’inizio di un movimento di disobbedienza civile che interesserà i villaggi di Redeyef, Metlaoui, Moularès e Mdhila e che resisterà oltre sei mesi – tra scioperi e manifestazioni – prima di cedere alla repressione violenta del regime di Ben Ali, pronto a schierare l’esercito per mettere fine alla contestazione.

Il movimento – a cui oltre i giovani disoccupati aderiscono sindacalisti, membri di associazioni locali e semplici cittadini – sceglie lo slogan “determinazione e dignità” per portare avanti rivendicazioni politiche (fine della repressione) e soprattutto sociali: l’annullamento del concorso, facilitazioni all’impiego per i diplomés-chomeursdella zona, maggiori investimenti industriali e l’accesso ai servizi di base per tutta la popolazione (acqua corrente, elettricità, strutture sanitarie..).

Quella di Redeyef è la sollevazione popolare più importante mai registrata dalle “rivolte del pane” del 1984 e dall’ascesa al potere di Zine El Abidine Ben Ali (1987) e il suo bilancio, dopo l’intervento del regime, sarà di tre morti, decine di feriti e centinaia di manifestanti finiti in arresto – torturati in carcere e, alcuni, condannati a lunghe pene. Tra le vittime della repressione figurano anche alcuni giornalistiche avevano cercato di dare risalto agli eventi.

Il documentario di Sami Tlili descrive una realtà sociale e geografica cruda, intensa e pone – più o meno velatamente – degli interrogativi allarmanti e di attualità. Ad oltre quattro anni dalla rivolta di Redeyef e a due anni ormai dall’inizio della rivoluzione, cosa è stato fatto per cambiare la situazione?

Apparentemente nulla, o comunque troppo poco. Ne sono una conferma le notizie arrivate negli ultimi tempi dalla zona del bacino minerario, dove la rabbia continua a covare sotto la cenere e dove gli scioperi e le proteste sono riprese con regolarità dal marzo 2011, quando la CPG ha deciso di organizzare un nuovo concorso di assunzione.

In quest’occasione le domande presentate dagli abitanti della zona sono state oltre 20 mila (per 3 mila posti) e le code agli uffici pubblici di Metlaoui e dei villaggi circostanti, per richiedere le dovute certificazioni, sono durate giorni interi. Alla fine i risultati sono stati contestati ancora una volta e un nuovo procedimento di selezione è in corso.

Intanto il malcontento si fa strada. La primavera scorsa gli operai della Société de l’environnement – una filiale della CPG dopo i disordini del 2008 per allentare la tensione sul comparto produttivo – sono entrati in sciopero ed hanno bloccato parte dell’approvvigionamento idrico alla miniera di Kef Eddor, paralizzando l’attività estrattiva. Le ragioni della protesta: ottenere un miglioramento delle condizioni di impiego, l’aumento della retribuzione almeno al livello del salario minimo (circa 120 euro quello attuale) e la copertura sanitaria.

Nelle ultime settimane, invece, è stata la volta dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati) di Sned (Gafsa), che hanno manifestato per reclamare l’assunzione diretta, bloccando le rotaie per il trasferimento del minerale verso i porti della costa.

Lo scorso 13 novembre (2012, ndr) infine, mentre la principale centrale sindacale del paese (UGTT) rinunciava allo sciopero generale e la CPG annunciava una drastica riduzione della produzione (80%) e degli introiti dell’azienda, i lavoratori di Sned hanno sospeso tutte le attività paralizzando l’intera cittadina.

La condanna dei fosfati, insomma, continua ad incombere sugli abitanti di Gafsa che nonostante le sollevazioni e le promesse del nuovo governo si trovano di fronte alla stessa “maledizione” di sempre…




Tunisia. Gabès, l’antica Takapes: una città maledetta?

Gabès, “la capitale del mare” è un’antica città fondata dai berberi ancor prima dell’arrivo dei fenici. Per patrimonio architettonico e monumenti, è seconda solo a Qairouan. Ma la gloria del passato scompare di fronte ad un presente fatto di industrie chimiche, inquinamento e diritti negati.

(Credit foto: Laura Benetton)

Gabès si trova nel sud-est del paese, a 406 km dalla capitale, in fondo al lungo golfo omonimo in cui la costa tunisina si protende verso il territorio libico. Passata sotto il controllo dei tedeschi durante la seconda Guerra mondiale, che ne fecero un presidio militare, è stata abbondantemente danneggiata dai bombardamenti alleati. Negli anni Sessanta, poi, le piene hanno finito per radere al suolo la maggior parte della cittadella, delle borgate circostanti e delle moschee.

Completamente distrutta, la città si è accanita contro la sua popolazione.

Così negli anni Settanta, con l’arrivo del gruppo chimico tunisino il cui insediamento era stato sollecitato dagli stessi cittadini, Gabès mette lentamente in atto la propria vendetta. La produzione fa registrare cifre importanti: otto milioni di tonnellate di polvere di fosfato escono annualmente dagli stabilimenti. Allo stesso tempo, però, circa 300 mila persone vengono colpite da cancro, asma e osteoporosi. 

Alcuni ricercatori dell’Istituto nazionale scientifico e tecnico di oceanografia e pesca (Instop) parlano, non a torto, di “genocidio urbano”. Si tratta della maledizione dell’industrializzazione o è colpa dei cosiddetti progetti di sviluppo sostenibile promossi da Ben Alì?

Takapes, la bella cartaginese in lutto, oggi sprofonda sotto i colpi della disoccupazione e delle vittime delle malattie “chimiche”: nell’ultimo mese sono morti due bambini che abitavano vicino agli stabilimenti industriali. Uno dei due soffriva di epatite. Lo stesso giorno sono scoppiate le proteste contro gli effetti devastanti degli impianti sulla salute della popolazione.

Che si arrivi da nord o da sud, l’approccio allo skyline di Gabès è identico. Una volta superata Qairouan, provenendo da Tunisi, non è difficile rendersi conto dell’inquinamento atmosferico che imprigiona l’abitato. E’ questa la causa principale delle malattie cardiache e respiratorie e dei tumori dovuti all’inalazione di gas e polveri pesanti, contenenti additivi chimici e metalli (zinco, cromo, rame).

Man mano che ci si avvicina ai “campi di concentramento” dell’unità di produzione industriale, una coperta di nebbia e fumo tinge di marrone il cielo.

A Gabès è sempre autunno. Le palme agonizzanti sono l’unica testimonianza dell’antica oasi di pace, che col tempo si è trasformata in un luogo di morte. Nonostante siano macchiate di nero, queste palme non smettono di ricordare agli abitanti del villaggio i bei tempi andati. Tuttavia, abbandonate a loro stesse, oggi non possiedono neanche l’ombra del vigore di trent’anni fa. Con il passare degli anni molte si sono piegate, come fa un uomo alla fine dei suoi giorni.

Il terreno, inquinato dai raggi gamma, dal mercurio e dal selenio, è il primo motivo della diminuzione della biodiversità del golfo di Gabès.

Così, i tronchi rattrappiti danno l’impressione di chinare la testa davanti agli effetti del veleno assorbito. Vestigia di un passato remoto, la vegetazione soccombe alle scelte arbitrarie dell’uomo. Secondo l’Associazione per la salvaguardia dell’oasi della spiaggia di Essalam, “durante gli ultimi 40 anni, i due terzi delle palme sono sparite”. Alcuni specialisti confermano la scomparsa progressiva della biodiversità della regione. L’industria sta avendo la meglio sull’agricoltura e sulla fauna del posto. “Nel 1956 si contavano più di 150 specie zoologiche. Trentacinque anni dopo se ne contano appena cinquanta”.

La produzione del gruppo chimico sfrutta il 75% delle risorse idriche; questo ha chiaramente devastato la ricchezza vegetale e costretto gli agricoltori a disfarsi dei loro terreni, trasformati spesso in zone edificabili.

Durante la notte in particolare, gli impianti emanano un fetore inconfondibile che provoca crisi asmatiche agli abitanti. Test medici riportano che il 60% di coloro che si sono sottoposti alle analisi hanno un’alta concentrazione di fluoro nel sangue. Un bilancio pesante che conferma l’ampia diffusione di alcune malattie croniche.

Secondo il medico M. Bechir, membro della Commissione regionale per la salute e la sicurezza professionale, “le autorità evitano di studiare seriamente il fenomeno perché temono le reazioni dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale”.

Nel frattempo la città sembra presa in ostaggio tra la necessità di creare nuovi posti di lavoro e il rischio di mettere a repentaglio la salute delle generazioni future. Durante la rivoluzione, i giovani hanno bloccato in diverse occasioni la produzione nelle fabbriche, per reclamare il diritto all’impiego.

Questi ragazzi, del resto, hanno davvero la possibilità di scegliere? E con essa l’opportunità di tutelare la loro salute e quella dei loro discendenti? È una comunità che corre, suo malgrado, verso la propria fine. Una tragedia in cui la popolazione locale si trova a rivestire il duplice ruolo di vittima e carnefice di se stessa. Intrappolata in una sorta di dannazione.

M. Hedi per esempio, ex-lavoratore del gruppo chimico, si sta dando da fare per trovare un impiego al figlio maggiore, candidato a prendere il suo posto negli impianti. “Sono consapevole che correrà dei rischi, tuttavia ha ormai trent’anni e l’obbligo di provvedere a se stesso. Qui nel sud, miei cari, non abbiamo molta scelta. Le persone preferiscono morire intossicate piuttosto che farsi sopraffare dalla povertà. Può sembrare strano ad alcuni, ma è la regola da queste parti”.

L’Unione regionale del lavoro (sezione locale del sindacato nazionale UGTT, ndt) ha avanzato diverse richieste all’amministrazione dello stabilimento: “assicurare l’assistenza medica gratuita a tutti i lavoratori e creare una clinica specializzata”.

Il padre dei due ragazzi deceduti ha il morale a terra e, come normale in questi casi, fatica a parlare: “Non riesco ancora realizzare ciò che mi è successo, ho perso i miei bambini..e perché? In nome di che cosa? Le autorità non si sentono minimamente toccate da questa tragedia. A chi dobbiamo rivolgerci quindi? Nessuno vuole ascoltare. Ma io continuerò la battaglia finché sarò in vita. Nessuno è al sicuro da questa peste maledetta. Quando si avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione? Oggi sono i miei a morire, ma domani tutti i bambini della regione potrebbero trovarsi di fronte allo stesso problema”.

Intanto la NPK, un altro gruppo chimico di Sfax, è stato chiuso e sottoposto ad un’azione di risanamento (progetto Taparura) lanciata nel 2006.

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la Convenzione di Londra (1973) e quella di Barcellona (1976) per la lotta contro l’inquinamento, la situazione di Gabès resta però senza soluzioni.

Il suo golfo, decretato “zona speciale” dal programma delle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’ambiente, meriterebbe un’attenzione particolare, specie in tema di risanamento e conservazione. Gabès continua così a sognare un futuro all’insegna del rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani, che permetterebbe ai giovani di avere un lavoro degno senza per questo dover rischiare la vita.

(Articolo originale pubblicato da Nawaat, traduzione a cura di http://osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gabès, l’antica Takapes: una città maledetta?

Gabès, “la capitale del mare” è un’antica città fondata dai berberi ancor prima dell’arrivo dei fenici. Per patrimonio architettonico e monumenti, è seconda solo a Qairouan. Ma la gloria del passato scompare di fronte ad un presente fatto di industrie chimiche, inquinamento e diritti negati.

(Credit foto: Laura Benetton)

Gabès si trova nel sud-est del paese, a 406 km dalla capitale, in fondo al lungo golfo omonimo in cui la costa tunisina si protende verso il territorio libico. Passata sotto il controllo dei tedeschi durante la seconda Guerra mondiale, che ne fecero un presidio militare, è stata abbondantemente danneggiata dai bombardamenti alleati. Negli anni Sessanta, poi, le piene hanno finito per radere al suolo la maggior parte della cittadella, delle borgate circostanti e delle moschee.

Completamente distrutta, la città si è accanita contro la sua popolazione.

Così negli anni Settanta, con l’arrivo del gruppo chimico tunisino il cui insediamento era stato sollecitato dagli stessi cittadini, Gabès mette lentamente in atto la propria vendetta. La produzione fa registrare cifre importanti: otto milioni di tonnellate di polvere di fosfato escono annualmente dagli stabilimenti. Allo stesso tempo, però, circa 300 mila persone vengono colpite da cancro, asma e osteoporosi. 

Alcuni ricercatori dell’Istituto nazionale scientifico e tecnico di oceanografia e pesca (Instop) parlano, non a torto, di “genocidio urbano”. Si tratta della maledizione dell’industrializzazione o è colpa dei cosiddetti progetti di sviluppo sostenibile promossi da Ben Alì?

Takapes, la bella cartaginese in lutto, oggi sprofonda sotto i colpi della disoccupazione e delle vittime delle malattie “chimiche”: nell’ultimo mese sono morti due bambini che abitavano vicino agli stabilimenti industriali. Uno dei due soffriva di epatite. Lo stesso giorno sono scoppiate le proteste contro gli effetti devastanti degli impianti sulla salute della popolazione.

Che si arrivi da nord o da sud, l’approccio allo skyline di Gabès è identico. Una volta superata Qairouan, provenendo da Tunisi, non è difficile rendersi conto dell’inquinamento atmosferico che imprigiona l’abitato. E’ questa la causa principale delle malattie cardiache e respiratorie e dei tumori dovuti all’inalazione di gas e polveri pesanti, contenenti additivi chimici e metalli (zinco, cromo, rame).

Man mano che ci si avvicina ai “campi di concentramento” dell’unità di produzione industriale, una coperta di nebbia e fumo tinge di marrone il cielo.

A Gabès è sempre autunno. Le palme agonizzanti sono l’unica testimonianza dell’antica oasi di pace, che col tempo si è trasformata in un luogo di morte. Nonostante siano macchiate di nero, queste palme non smettono di ricordare agli abitanti del villaggio i bei tempi andati. Tuttavia, abbandonate a loro stesse, oggi non possiedono neanche l’ombra del vigore di trent’anni fa. Con il passare degli anni molte si sono piegate, come fa un uomo alla fine dei suoi giorni.

Il terreno, inquinato dai raggi gamma, dal mercurio e dal selenio, è il primo motivo della diminuzione della biodiversità del golfo di Gabès.

Così, i tronchi rattrappiti danno l’impressione di chinare la testa davanti agli effetti del veleno assorbito. Vestigia di un passato remoto, la vegetazione soccombe alle scelte arbitrarie dell’uomo. Secondo l’Associazione per la salvaguardia dell’oasi della spiaggia di Essalam, “durante gli ultimi 40 anni, i due terzi delle palme sono sparite”. Alcuni specialisti confermano la scomparsa progressiva della biodiversità della regione. L’industria sta avendo la meglio sull’agricoltura e sulla fauna del posto. “Nel 1956 si contavano più di 150 specie zoologiche. Trentacinque anni dopo se ne contano appena cinquanta”.

La produzione del gruppo chimico sfrutta il 75% delle risorse idriche; questo ha chiaramente devastato la ricchezza vegetale e costretto gli agricoltori a disfarsi dei loro terreni, trasformati spesso in zone edificabili.

Durante la notte in particolare, gli impianti emanano un fetore inconfondibile che provoca crisi asmatiche agli abitanti. Test medici riportano che il 60% di coloro che si sono sottoposti alle analisi hanno un’alta concentrazione di fluoro nel sangue. Un bilancio pesante che conferma l’ampia diffusione di alcune malattie croniche.

Secondo il medico M. Bechir, membro della Commissione regionale per la salute e la sicurezza professionale, “le autorità evitano di studiare seriamente il fenomeno perché temono le reazioni dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale”.

Nel frattempo la città sembra presa in ostaggio tra la necessità di creare nuovi posti di lavoro e il rischio di mettere a repentaglio la salute delle generazioni future. Durante la rivoluzione, i giovani hanno bloccato in diverse occasioni la produzione nelle fabbriche, per reclamare il diritto all’impiego.

Questi ragazzi, del resto, hanno davvero la possibilità di scegliere? E con essa l’opportunità di tutelare la loro salute e quella dei loro discendenti? È una comunità che corre, suo malgrado, verso la propria fine. Una tragedia in cui la popolazione locale si trova a rivestire il duplice ruolo di vittima e carnefice di se stessa. Intrappolata in una sorta di dannazione.

M. Hedi per esempio, ex-lavoratore del gruppo chimico, si sta dando da fare per trovare un impiego al figlio maggiore, candidato a prendere il suo posto negli impianti. “Sono consapevole che correrà dei rischi, tuttavia ha ormai trent’anni e l’obbligo di provvedere a se stesso. Qui nel sud, miei cari, non abbiamo molta scelta. Le persone preferiscono morire intossicate piuttosto che farsi sopraffare dalla povertà. Può sembrare strano ad alcuni, ma è la regola da queste parti”.

L’Unione regionale del lavoro (sezione locale del sindacato nazionale UGTT, ndt) ha avanzato diverse richieste all’amministrazione dello stabilimento: “assicurare l’assistenza medica gratuita a tutti i lavoratori e creare una clinica specializzata”.

Il padre dei due ragazzi deceduti ha il morale a terra e, come normale in questi casi, fatica a parlare: “Non riesco ancora realizzare ciò che mi è successo, ho perso i miei bambini..e perché? In nome di che cosa? Le autorità non si sentono minimamente toccate da questa tragedia. A chi dobbiamo rivolgerci quindi? Nessuno vuole ascoltare. Ma io continuerò la battaglia finché sarò in vita. Nessuno è al sicuro da questa peste maledetta. Quando si avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione? Oggi sono i miei a morire, ma domani tutti i bambini della regione potrebbero trovarsi di fronte allo stesso problema”.

Intanto la NPK, un altro gruppo chimico di Sfax, è stato chiuso e sottoposto ad un’azione di risanamento (progetto Taparura) lanciata nel 2006.

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la Convenzione di Londra (1973) e quella di Barcellona (1976) per la lotta contro l’inquinamento, la situazione di Gabès resta però senza soluzioni.

Il suo golfo, decretato “zona speciale” dal programma delle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’ambiente, meriterebbe un’attenzione particolare, specie in tema di risanamento e conservazione. Gabès continua così a sognare un futuro all’insegna del rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani, che permetterebbe ai giovani di avere un lavoro degno senza per questo dover rischiare la vita.

(Articolo originale pubblicato da Nawaat, traduzione a cura di http://osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gabès, l’antica Takapes: una città maledetta?

Gabès, “la capitale del mare” è un’antica città fondata dai berberi ancor prima dell’arrivo dei fenici. Per patrimonio architettonico e monumenti, è seconda solo a Qairouan. Ma la gloria del passato scompare di fronte ad un presente fatto di industrie chimiche, inquinamento e diritti negati.

(Credit foto: Laura Benetton)

Gabès si trova nel sud-est del paese, a 406 km dalla capitale, in fondo al lungo golfo omonimo in cui la costa tunisina si protende verso il territorio libico. Passata sotto il controllo dei tedeschi durante la seconda Guerra mondiale, che ne fecero un presidio militare, è stata abbondantemente danneggiata dai bombardamenti alleati. Negli anni Sessanta, poi, le piene hanno finito per radere al suolo la maggior parte della cittadella, delle borgate circostanti e delle moschee.

Completamente distrutta, la città si è accanita contro la sua popolazione.

Così negli anni Settanta, con l’arrivo del gruppo chimico tunisino il cui insediamento era stato sollecitato dagli stessi cittadini, Gabès mette lentamente in atto la propria vendetta. La produzione fa registrare cifre importanti: otto milioni di tonnellate di polvere di fosfato escono annualmente dagli stabilimenti. Allo stesso tempo, però, circa 300 mila persone vengono colpite da cancro, asma e osteoporosi. 

Alcuni ricercatori dell’Istituto nazionale scientifico e tecnico di oceanografia e pesca (Instop) parlano, non a torto, di “genocidio urbano”. Si tratta della maledizione dell’industrializzazione o è colpa dei cosiddetti progetti di sviluppo sostenibile promossi da Ben Alì?

Takapes, la bella cartaginese in lutto, oggi sprofonda sotto i colpi della disoccupazione e delle vittime delle malattie “chimiche”: nell’ultimo mese sono morti due bambini che abitavano vicino agli stabilimenti industriali. Uno dei due soffriva di epatite. Lo stesso giorno sono scoppiate le proteste contro gli effetti devastanti degli impianti sulla salute della popolazione.

Che si arrivi da nord o da sud, l’approccio allo skyline di Gabès è identico. Una volta superata Qairouan, provenendo da Tunisi, non è difficile rendersi conto dell’inquinamento atmosferico che imprigiona l’abitato. E’ questa la causa principale delle malattie cardiache e respiratorie e dei tumori dovuti all’inalazione di gas e polveri pesanti, contenenti additivi chimici e metalli (zinco, cromo, rame).

Man mano che ci si avvicina ai “campi di concentramento” dell’unità di produzione industriale, una coperta di nebbia e fumo tinge di marrone il cielo.

A Gabès è sempre autunno. Le palme agonizzanti sono l’unica testimonianza dell’antica oasi di pace, che col tempo si è trasformata in un luogo di morte. Nonostante siano macchiate di nero, queste palme non smettono di ricordare agli abitanti del villaggio i bei tempi andati. Tuttavia, abbandonate a loro stesse, oggi non possiedono neanche l’ombra del vigore di trent’anni fa. Con il passare degli anni molte si sono piegate, come fa un uomo alla fine dei suoi giorni.

Il terreno, inquinato dai raggi gamma, dal mercurio e dal selenio, è il primo motivo della diminuzione della biodiversità del golfo di Gabès.

Così, i tronchi rattrappiti danno l’impressione di chinare la testa davanti agli effetti del veleno assorbito. Vestigia di un passato remoto, la vegetazione soccombe alle scelte arbitrarie dell’uomo. Secondo l’Associazione per la salvaguardia dell’oasi della spiaggia di Essalam, “durante gli ultimi 40 anni, i due terzi delle palme sono sparite”. Alcuni specialisti confermano la scomparsa progressiva della biodiversità della regione. L’industria sta avendo la meglio sull’agricoltura e sulla fauna del posto. “Nel 1956 si contavano più di 150 specie zoologiche. Trentacinque anni dopo se ne contano appena cinquanta”.

La produzione del gruppo chimico sfrutta il 75% delle risorse idriche; questo ha chiaramente devastato la ricchezza vegetale e costretto gli agricoltori a disfarsi dei loro terreni, trasformati spesso in zone edificabili.

Durante la notte in particolare, gli impianti emanano un fetore inconfondibile che provoca crisi asmatiche agli abitanti. Test medici riportano che il 60% di coloro che si sono sottoposti alle analisi hanno un’alta concentrazione di fluoro nel sangue. Un bilancio pesante che conferma l’ampia diffusione di alcune malattie croniche.

Secondo il medico M. Bechir, membro della Commissione regionale per la salute e la sicurezza professionale, “le autorità evitano di studiare seriamente il fenomeno perché temono le reazioni dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale”.

Nel frattempo la città sembra presa in ostaggio tra la necessità di creare nuovi posti di lavoro e il rischio di mettere a repentaglio la salute delle generazioni future. Durante la rivoluzione, i giovani hanno bloccato in diverse occasioni la produzione nelle fabbriche, per reclamare il diritto all’impiego.

Questi ragazzi, del resto, hanno davvero la possibilità di scegliere? E con essa l’opportunità di tutelare la loro salute e quella dei loro discendenti? È una comunità che corre, suo malgrado, verso la propria fine. Una tragedia in cui la popolazione locale si trova a rivestire il duplice ruolo di vittima e carnefice di se stessa. Intrappolata in una sorta di dannazione.

M. Hedi per esempio, ex-lavoratore del gruppo chimico, si sta dando da fare per trovare un impiego al figlio maggiore, candidato a prendere il suo posto negli impianti. “Sono consapevole che correrà dei rischi, tuttavia ha ormai trent’anni e l’obbligo di provvedere a se stesso. Qui nel sud, miei cari, non abbiamo molta scelta. Le persone preferiscono morire intossicate piuttosto che farsi sopraffare dalla povertà. Può sembrare strano ad alcuni, ma è la regola da queste parti”.

L’Unione regionale del lavoro (sezione locale del sindacato nazionale UGTT, ndt) ha avanzato diverse richieste all’amministrazione dello stabilimento: “assicurare l’assistenza medica gratuita a tutti i lavoratori e creare una clinica specializzata”.

Il padre dei due ragazzi deceduti ha il morale a terra e, come normale in questi casi, fatica a parlare: “Non riesco ancora realizzare ciò che mi è successo, ho perso i miei bambini..e perché? In nome di che cosa? Le autorità non si sentono minimamente toccate da questa tragedia. A chi dobbiamo rivolgerci quindi? Nessuno vuole ascoltare. Ma io continuerò la battaglia finché sarò in vita. Nessuno è al sicuro da questa peste maledetta. Quando si avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione? Oggi sono i miei a morire, ma domani tutti i bambini della regione potrebbero trovarsi di fronte allo stesso problema”.

Intanto la NPK, un altro gruppo chimico di Sfax, è stato chiuso e sottoposto ad un’azione di risanamento (progetto Taparura) lanciata nel 2006.

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la Convenzione di Londra (1973) e quella di Barcellona (1976) per la lotta contro l’inquinamento, la situazione di Gabès resta però senza soluzioni.

Il suo golfo, decretato “zona speciale” dal programma delle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’ambiente, meriterebbe un’attenzione particolare, specie in tema di risanamento e conservazione. Gabès continua così a sognare un futuro all’insegna del rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani, che permetterebbe ai giovani di avere un lavoro degno senza per questo dover rischiare la vita.

(Articolo originale pubblicato da Nawaat, traduzione a cura di http://osservatorioiraq.it)

Tunisia. Gabès, l’antica Takapes: una città maledetta?

Gabès, “la capitale del mare” è un’antica città fondata dai berberi ancor prima dell’arrivo dei fenici. Per patrimonio architettonico e monumenti, è seconda solo a Qairouan. Ma la gloria del passato scompare di fronte ad un presente fatto di industrie chimiche, inquinamento e diritti negati.

(Credit foto: Laura Benetton)

Gabès si trova nel sud-est del paese, a 406 km dalla capitale, in fondo al lungo golfo omonimo in cui la costa tunisina si protende verso il territorio libico. Passata sotto il controllo dei tedeschi durante la seconda Guerra mondiale, che ne fecero un presidio militare, è stata abbondantemente danneggiata dai bombardamenti alleati. Negli anni Sessanta, poi, le piene hanno finito per radere al suolo la maggior parte della cittadella, delle borgate circostanti e delle moschee.

Completamente distrutta, la città si è accanita contro la sua popolazione.

Così negli anni Settanta, con l’arrivo del gruppo chimico tunisino il cui insediamento era stato sollecitato dagli stessi cittadini, Gabès mette lentamente in atto la propria vendetta. La produzione fa registrare cifre importanti: otto milioni di tonnellate di polvere di fosfato escono annualmente dagli stabilimenti. Allo stesso tempo, però, circa 300 mila persone vengono colpite da cancro, asma e osteoporosi. 

Alcuni ricercatori dell’Istituto nazionale scientifico e tecnico di oceanografia e pesca (Instop) parlano, non a torto, di “genocidio urbano”. Si tratta della maledizione dell’industrializzazione o è colpa dei cosiddetti progetti di sviluppo sostenibile promossi da Ben Alì?

Takapes, la bella cartaginese in lutto, oggi sprofonda sotto i colpi della disoccupazione e delle vittime delle malattie “chimiche”: nell’ultimo mese sono morti due bambini che abitavano vicino agli stabilimenti industriali. Uno dei due soffriva di epatite. Lo stesso giorno sono scoppiate le proteste contro gli effetti devastanti degli impianti sulla salute della popolazione.

Che si arrivi da nord o da sud, l’approccio allo skyline di Gabès è identico. Una volta superata Qairouan, provenendo da Tunisi, non è difficile rendersi conto dell’inquinamento atmosferico che imprigiona l’abitato. E’ questa la causa principale delle malattie cardiache e respiratorie e dei tumori dovuti all’inalazione di gas e polveri pesanti, contenenti additivi chimici e metalli (zinco, cromo, rame).

Man mano che ci si avvicina ai “campi di concentramento” dell’unità di produzione industriale, una coperta di nebbia e fumo tinge di marrone il cielo.

A Gabès è sempre autunno. Le palme agonizzanti sono l’unica testimonianza dell’antica oasi di pace, che col tempo si è trasformata in un luogo di morte. Nonostante siano macchiate di nero, queste palme non smettono di ricordare agli abitanti del villaggio i bei tempi andati. Tuttavia, abbandonate a loro stesse, oggi non possiedono neanche l’ombra del vigore di trent’anni fa. Con il passare degli anni molte si sono piegate, come fa un uomo alla fine dei suoi giorni.

Il terreno, inquinato dai raggi gamma, dal mercurio e dal selenio, è il primo motivo della diminuzione della biodiversità del golfo di Gabès.

Così, i tronchi rattrappiti danno l’impressione di chinare la testa davanti agli effetti del veleno assorbito. Vestigia di un passato remoto, la vegetazione soccombe alle scelte arbitrarie dell’uomo. Secondo l’Associazione per la salvaguardia dell’oasi della spiaggia di Essalam, “durante gli ultimi 40 anni, i due terzi delle palme sono sparite”. Alcuni specialisti confermano la scomparsa progressiva della biodiversità della regione. L’industria sta avendo la meglio sull’agricoltura e sulla fauna del posto. “Nel 1956 si contavano più di 150 specie zoologiche. Trentacinque anni dopo se ne contano appena cinquanta”.

La produzione del gruppo chimico sfrutta il 75% delle risorse idriche; questo ha chiaramente devastato la ricchezza vegetale e costretto gli agricoltori a disfarsi dei loro terreni, trasformati spesso in zone edificabili.

Durante la notte in particolare, gli impianti emanano un fetore inconfondibile che provoca crisi asmatiche agli abitanti. Test medici riportano che il 60% di coloro che si sono sottoposti alle analisi hanno un’alta concentrazione di fluoro nel sangue. Un bilancio pesante che conferma l’ampia diffusione di alcune malattie croniche.

Secondo il medico M. Bechir, membro della Commissione regionale per la salute e la sicurezza professionale, “le autorità evitano di studiare seriamente il fenomeno perché temono le reazioni dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale”.

Nel frattempo la città sembra presa in ostaggio tra la necessità di creare nuovi posti di lavoro e il rischio di mettere a repentaglio la salute delle generazioni future. Durante la rivoluzione, i giovani hanno bloccato in diverse occasioni la produzione nelle fabbriche, per reclamare il diritto all’impiego.

Questi ragazzi, del resto, hanno davvero la possibilità di scegliere? E con essa l’opportunità di tutelare la loro salute e quella dei loro discendenti? È una comunità che corre, suo malgrado, verso la propria fine. Una tragedia in cui la popolazione locale si trova a rivestire il duplice ruolo di vittima e carnefice di se stessa. Intrappolata in una sorta di dannazione.

M. Hedi per esempio, ex-lavoratore del gruppo chimico, si sta dando da fare per trovare un impiego al figlio maggiore, candidato a prendere il suo posto negli impianti. “Sono consapevole che correrà dei rischi, tuttavia ha ormai trent’anni e l’obbligo di provvedere a se stesso. Qui nel sud, miei cari, non abbiamo molta scelta. Le persone preferiscono morire intossicate piuttosto che farsi sopraffare dalla povertà. Può sembrare strano ad alcuni, ma è la regola da queste parti”.

L’Unione regionale del lavoro (sezione locale del sindacato nazionale UGTT, ndt) ha avanzato diverse richieste all’amministrazione dello stabilimento: “assicurare l’assistenza medica gratuita a tutti i lavoratori e creare una clinica specializzata”.

Il padre dei due ragazzi deceduti ha il morale a terra e, come normale in questi casi, fatica a parlare: “Non riesco ancora realizzare ciò che mi è successo, ho perso i miei bambini..e perché? In nome di che cosa? Le autorità non si sentono minimamente toccate da questa tragedia. A chi dobbiamo rivolgerci quindi? Nessuno vuole ascoltare. Ma io continuerò la battaglia finché sarò in vita. Nessuno è al sicuro da questa peste maledetta. Quando si avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione? Oggi sono i miei a morire, ma domani tutti i bambini della regione potrebbero trovarsi di fronte allo stesso problema”.

Intanto la NPK, un altro gruppo chimico di Sfax, è stato chiuso e sottoposto ad un’azione di risanamento (progetto Taparura) lanciata nel 2006.

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la Convenzione di Londra (1973) e quella di Barcellona (1976) per la lotta contro l’inquinamento, la situazione di Gabès resta però senza soluzioni.

Il suo golfo, decretato “zona speciale” dal programma delle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’ambiente, meriterebbe un’attenzione particolare, specie in tema di risanamento e conservazione. Gabès continua così a sognare un futuro all’insegna del rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani, che permetterebbe ai giovani di avere un lavoro degno senza per questo dover rischiare la vita.

(Articolo originale pubblicato da Nawaat, traduzione a cura di http://osservatorioiraq.it)

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;
l’Afghanistan è classificato come quartultimo nel Global Peace Index 2016: in condizioni peggiori a livello mondiale ci sono solo Siria, Sud Sudan e Iraq. L’Institute for Economics and Peace rileva, inoltre, che sia secondo solo all’Iraq, sempre su scala globale, per attività terroristiche all’interno del Paese (Global Terrorism Index 2016). In Afghanistan, come documenta un recente rapporto dell’Easo, dopo più di un decennio di guerra, ci sono stati nel 2015 11 mila civili vittime di violenza. Prevedere in un Paese come questo un rimpatrio forzato è un pericolosissimo precedente e rischia di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé drammatica;
sebbene entrambe le parti neghino che vi sia un nesso diretto tra la firma dell’accordo e la concessione degli aiuti, osservatori e fonti giornalistiche rivelano che un collegamento in effetti vi sarebbe, e che sarebbe stata la Germania a imporre come condizione per l’elargizione di aiuti la firma dell’accordo. In due diversi sessioni parlamentari, il 29 settembre e il 2 ottobre 2016, autorevoli esponenti del Governo afghano come il Ministro degli affari esteri, Salahuddin Rabbani, e quello delle finanze, Eklil Hakimi, hanno fatto esplicito riferimento al legame tra la concessione degli aiuti e l’accordo sui rimpatri. Una condizionalità che di certo era nell’aria da tempo e che appare in linea con la tendenza europea dell’ultimo periodo ad esternalizzare la gestione di una crisi migratoria apparentemente senza soluzione, fornendo in cambio aiuti economici (si vedano il caso del recente accordo con la Turchia, nonché i processi di Rabat e Khartoum) –:
quale sia la posizione del Governo in merito a quanto esposto in premessa;
se il Governo intenda firmare un accordo bilaterale e se questo prevedrà anche il rimpatrio forzato;
se non ritenga una contraddizione quanto previsto nell’accordo in merito ai rimpatri, alla luce delle condizioni di sicurezza dell’Afghanistan e della circostanza che la cooperazione italiana non ha recentemente ammesso, sulla base di un giudizio dell’ambasciata, confermato anche dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale), due progetti sull’Afghanistan proprio a causa delle condizioni di sicurezza e delle norme internazionali che dispongono che si possono fare rimpatri solo se il Paese di rimpatrio è sicuro. (4-14498)

Si legga sul tema anche Giuliano  Battiston sul suo blog Talibanistan

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;
l’Afghanistan è classificato come quartultimo nel Global Peace Index 2016: in condizioni peggiori a livello mondiale ci sono solo Siria, Sud Sudan e Iraq. L’Institute for Economics and Peace rileva, inoltre, che sia secondo solo all’Iraq, sempre su scala globale, per attività terroristiche all’interno del Paese (Global Terrorism Index 2016). In Afghanistan, come documenta un recente rapporto dell’Easo, dopo più di un decennio di guerra, ci sono stati nel 2015 11 mila civili vittime di violenza. Prevedere in un Paese come questo un rimpatrio forzato è un pericolosissimo precedente e rischia di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé drammatica;
sebbene entrambe le parti neghino che vi sia un nesso diretto tra la firma dell’accordo e la concessione degli aiuti, osservatori e fonti giornalistiche rivelano che un collegamento in effetti vi sarebbe, e che sarebbe stata la Germania a imporre come condizione per l’elargizione di aiuti la firma dell’accordo. In due diversi sessioni parlamentari, il 29 settembre e il 2 ottobre 2016, autorevoli esponenti del Governo afghano come il Ministro degli affari esteri, Salahuddin Rabbani, e quello delle finanze, Eklil Hakimi, hanno fatto esplicito riferimento al legame tra la concessione degli aiuti e l’accordo sui rimpatri. Una condizionalità che di certo era nell’aria da tempo e che appare in linea con la tendenza europea dell’ultimo periodo ad esternalizzare la gestione di una crisi migratoria apparentemente senza soluzione, fornendo in cambio aiuti economici (si vedano il caso del recente accordo con la Turchia, nonché i processi di Rabat e Khartoum) –:
quale sia la posizione del Governo in merito a quanto esposto in premessa;
se il Governo intenda firmare un accordo bilaterale e se questo prevedrà anche il rimpatrio forzato;
se non ritenga una contraddizione quanto previsto nell’accordo in merito ai rimpatri, alla luce delle condizioni di sicurezza dell’Afghanistan e della circostanza che la cooperazione italiana non ha recentemente ammesso, sulla base di un giudizio dell’ambasciata, confermato anche dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale), due progetti sull’Afghanistan proprio a causa delle condizioni di sicurezza e delle norme internazionali che dispongono che si possono fare rimpatri solo se il Paese di rimpatrio è sicuro. (4-14498)

Si legga sul tema anche Giuliano  Battiston sul suo blog Talibanistan

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;
l’Afghanistan è classificato come quartultimo nel Global Peace Index 2016: in condizioni peggiori a livello mondiale ci sono solo Siria, Sud Sudan e Iraq. L’Institute for Economics and Peace rileva, inoltre, che sia secondo solo all’Iraq, sempre su scala globale, per attività terroristiche all’interno del Paese (Global Terrorism Index 2016). In Afghanistan, come documenta un recente rapporto dell’Easo, dopo più di un decennio di guerra, ci sono stati nel 2015 11 mila civili vittime di violenza. Prevedere in un Paese come questo un rimpatrio forzato è un pericolosissimo precedente e rischia di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé drammatica;
sebbene entrambe le parti neghino che vi sia un nesso diretto tra la firma dell’accordo e la concessione degli aiuti, osservatori e fonti giornalistiche rivelano che un collegamento in effetti vi sarebbe, e che sarebbe stata la Germania a imporre come condizione per l’elargizione di aiuti la firma dell’accordo. In due diversi sessioni parlamentari, il 29 settembre e il 2 ottobre 2016, autorevoli esponenti del Governo afghano come il Ministro degli affari esteri, Salahuddin Rabbani, e quello delle finanze, Eklil Hakimi, hanno fatto esplicito riferimento al legame tra la concessione degli aiuti e l’accordo sui rimpatri. Una condizionalità che di certo era nell’aria da tempo e che appare in linea con la tendenza europea dell’ultimo periodo ad esternalizzare la gestione di una crisi migratoria apparentemente senza soluzione, fornendo in cambio aiuti economici (si vedano il caso del recente accordo con la Turchia, nonché i processi di Rabat e Khartoum) –:
quale sia la posizione del Governo in merito a quanto esposto in premessa;
se il Governo intenda firmare un accordo bilaterale e se questo prevedrà anche il rimpatrio forzato;
se non ritenga una contraddizione quanto previsto nell’accordo in merito ai rimpatri, alla luce delle condizioni di sicurezza dell’Afghanistan e della circostanza che la cooperazione italiana non ha recentemente ammesso, sulla base di un giudizio dell’ambasciata, confermato anche dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale), due progetti sull’Afghanistan proprio a causa delle condizioni di sicurezza e delle norme internazionali che dispongono che si possono fare rimpatri solo se il Paese di rimpatrio è sicuro. (4-14498)

Si legga sul tema anche Giuliano  Battiston sul suo blog Talibanistan

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;
l’Afghanistan è classificato come quartultimo nel Global Peace Index 2016: in condizioni peggiori a livello mondiale ci sono solo Siria, Sud Sudan e Iraq. L’Institute for Economics and Peace rileva, inoltre, che sia secondo solo all’Iraq, sempre su scala globale, per attività terroristiche all’interno del Paese (Global Terrorism Index 2016). In Afghanistan, come documenta un recente rapporto dell’Easo, dopo più di un decennio di guerra, ci sono stati nel 2015 11 mila civili vittime di violenza. Prevedere in un Paese come questo un rimpatrio forzato è un pericolosissimo precedente e rischia di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé drammatica;
sebbene entrambe le parti neghino che vi sia un nesso diretto tra la firma dell’accordo e la concessione degli aiuti, osservatori e fonti giornalistiche rivelano che un collegamento in effetti vi sarebbe, e che sarebbe stata la Germania a imporre come condizione per l’elargizione di aiuti la firma dell’accordo. In due diversi sessioni parlamentari, il 29 settembre e il 2 ottobre 2016, autorevoli esponenti del Governo afghano come il Ministro degli affari esteri, Salahuddin Rabbani, e quello delle finanze, Eklil Hakimi, hanno fatto esplicito riferimento al legame tra la concessione degli aiuti e l’accordo sui rimpatri. Una condizionalità che di certo era nell’aria da tempo e che appare in linea con la tendenza europea dell’ultimo periodo ad esternalizzare la gestione di una crisi migratoria apparentemente senza soluzione, fornendo in cambio aiuti economici (si vedano il caso del recente accordo con la Turchia, nonché i processi di Rabat e Khartoum) –:
quale sia la posizione del Governo in merito a quanto esposto in premessa;
se il Governo intenda firmare un accordo bilaterale e se questo prevedrà anche il rimpatrio forzato;
se non ritenga una contraddizione quanto previsto nell’accordo in merito ai rimpatri, alla luce delle condizioni di sicurezza dell’Afghanistan e della circostanza che la cooperazione italiana non ha recentemente ammesso, sulla base di un giudizio dell’ambasciata, confermato anche dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale), due progetti sull’Afghanistan proprio a causa delle condizioni di sicurezza e delle norme internazionali che dispongono che si possono fare rimpatri solo se il Paese di rimpatrio è sicuro. (4-14498)

Si legga sul tema anche Giuliano  Battiston sul suo blog Talibanistan

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;
l’Afghanistan è classificato come quartultimo nel Global Peace Index 2016: in condizioni peggiori a livello mondiale ci sono solo Siria, Sud Sudan e Iraq. L’Institute for Economics and Peace rileva, inoltre, che sia secondo solo all’Iraq, sempre su scala globale, per attività terroristiche all’interno del Paese (Global Terrorism Index 2016). In Afghanistan, come documenta un recente rapporto dell’Easo, dopo più di un decennio di guerra, ci sono stati nel 2015 11 mila civili vittime di violenza. Prevedere in un Paese come questo un rimpatrio forzato è un pericolosissimo precedente e rischia di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé drammatica;
sebbene entrambe le parti neghino che vi sia un nesso diretto tra la firma dell’accordo e la concessione degli aiuti, osservatori e fonti giornalistiche rivelano che un collegamento in effetti vi sarebbe, e che sarebbe stata la Germania a imporre come condizione per l’elargizione di aiuti la firma dell’accordo. In due diversi sessioni parlamentari, il 29 settembre e il 2 ottobre 2016, autorevoli esponenti del Governo afghano come il Ministro degli affari esteri, Salahuddin Rabbani, e quello delle finanze, Eklil Hakimi, hanno fatto esplicito riferimento al legame tra la concessione degli aiuti e l’accordo sui rimpatri. Una condizionalità che di certo era nell’aria da tempo e che appare in linea con la tendenza europea dell’ultimo periodo ad esternalizzare la gestione di una crisi migratoria apparentemente senza soluzione, fornendo in cambio aiuti economici (si vedano il caso del recente accordo con la Turchia, nonché i processi di Rabat e Khartoum) –:
quale sia la posizione del Governo in merito a quanto esposto in premessa;
se il Governo intenda firmare un accordo bilaterale e se questo prevedrà anche il rimpatrio forzato;
se non ritenga una contraddizione quanto previsto nell’accordo in merito ai rimpatri, alla luce delle condizioni di sicurezza dell’Afghanistan e della circostanza che la cooperazione italiana non ha recentemente ammesso, sulla base di un giudizio dell’ambasciata, confermato anche dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale), due progetti sull’Afghanistan proprio a causa delle condizioni di sicurezza e delle norme internazionali che dispongono che si possono fare rimpatri solo se il Paese di rimpatrio è sicuro. (4-14498)

Si legga sul tema anche Giuliano  Battiston sul suo blog Talibanistan